Quel martedì, come prima cosa, salii finalmente sull'autobus per Knocknaree per andare a prendere la mia auto. Non è che ne avessi particolarmente voglia. Potendo scegliere, avrei preferito non dover pensare mai più a quel posto, ma ero stanco di andare e tornare dal lavoro in treni pieni come uova e puzzolenti di sudore. Per di più, urgeva una spesa come si deve, prima che la testa di Heather implodesse.
Era ancora lì dove l'avevo lasciata, più o meno nelle stesse condizioni, anche se la pioggia l'aveva coperta di uno strato di sporcizia su cui qualcuno aveva scritto DISPONIBILE ANCHE IN BIANCO con un dito, dalla parte del passeggero. Mi incamminai tra le baracche di lamiera. Parevano deserte, a parte l'ufficio di Hunt, dove c'era lui che si soffiava rumorosamente il naso. Mi inoltrai nel sito archeologico per recuperare anche il sacco a pelo e il thermos.
L'atmosfera era cambiata: questa volta non c'erano guerre con l'acqua e grida allegre. La squadra era al lavoro in un silenzio cupo. Sembravano tanti forzati alla catena che lavorassero a un ritmo sostenuto e punitivo. Cercai di fare mentalmente un po' di calcoli: quella era la loro ultima settimana perché, se l'ingiunzione fosse stata respinta, il lunedì seguente sarebbero venuti quelli dell'autostrada e avrebbero iniziato i lavori. Vidi Mel che smetteva di zappettare e si raddrizzava con una mano sulla schiena e una smorfia. Ansimava, e la testa le ricadde all'indietro come se non avesse la forza di tenerla dritta. Dopo qualche secondo di stretching, fece un respiro profondo e si rimise al lavoro. Il cielo era grigio e pesante, sgradevolmente vicino. Da qualche parte nella zona residenziale, distante e ignorato, provenne l'urlo isterico dell'allarme di un'auto.
Il bosco era scuro e tetro, impenetrabile. Lo guardai e pensai che l'ultima cosa al mondo che desideravo era entrarci di nuovo. Il mio sacco a pelo sarebbe stato ormai fradicio, colonizzato da muffa, formiche e altre simili amenità; non l'avrei comunque usato mai più. E di sicuro non valeva quello che mi sarebbe costato addentrarmi in quel profondo silenzio. Magari l'avrebbe ritrovato uno degli archeologi, o uno dei ragazzi del posto, e se lo sarebbe preso prima che marcisse.
Ero già in ritardo sull'orario di lavoro. Il tragitto in autobus, che si snodava lungo un'infinità di stradine secondarie a carreggiata unica, era stato più lungo del previsto. Il pensiero di andare in centrale mi pesava, e qualche minuto in più, a quel punto, non avrebbe fatto alcuna differenza. Mi sistemai su un muretto diroccato, tirai su una gamba per tenermici in equilibrio e mi accesi una sigaretta. Un tizio ben piantato con i capelli scuri e stopposi, un certo George MacQualcosa che io ricordavo dai giorni dell'interrogatorio di quelli che lavoravano al sito, sollevò la testa e mi vide. Forse ispirato da me, infisse la cazzuola nel terreno, si accovacciò e tirò fuori dai jeans un pacchetto di sigarette schiacciato.
Mark era inginocchiato in cima a un terrapieno e grattava il terreno con energia. Il MacQualcosa non aveva ancora tirato fuori la sigaretta che lui l'aveva già adocchiato e si stava scapicollando giù per il pendio, con i capelli al vento. «Ehi, Macker! Che cazzo credi di fare?»
Macker fece un salto, con aria colpevole. «Cristo!» Si chinò a raccogliere il pacchetto delle sigarette che gli era caduto in mezzo al fango. «Mi fumo una sigaretta. Perché, scusa, hai qualche problema?»
«Te la fumi nella pausa caffè, come ti ho già detto.»
«Ma che sarà mai! Posso fumare e scavare nello stesso tempo. Ci vogliono cinque secondi per accendere una paglia.»
Mark perse la pazienza. «Non possiamo sprecare nemmeno cinque secondi. Non ne abbiamo nemmeno uno, se è per questo. Credi di essere ancora a scuola, idiota del cazzo? Credi che siamo qui tanto per divertirci?»
Aveva i pugni serrati e la posizione di attacco del lottatore da strada. Gli altri archeologi avevano smesso di lavorare ed erano rimasti a guardare, con la bocca aperta, esitanti, con gli attrezzi a mezz'aria. Mi chiesi se la faccenda non stesse per degenerare in rissa, ma poi Macker rise forzatamente e fece un passo indietro, sollevando le mani. «Rilassati, amico» disse. Prese la sigaretta tra pollice e indice e, con un gesto plateale, la rimise nel pacchetto.
Mark continuò a guardarlo fino a quando Macker, prendendosela comoda, non si fu nuovamente inginocchiato, non ebbe ripreso la sua cazzuola e non si fu rimesso a lavorare. Poi girò sui tacchi e tornò verso il terrapieno, le spalle curve e rigide. Macker si rialzò e di nascosto imitò la camminata elastica di Mark, trasformandola in quella di uno scimpanzé. Ottenne un paio di risate (Mark non si girò a guardare, né lo fece Mel che, però, vibrò con violenza un colpo di piccozza nel terreno) e, compiaciuto, rincarò la dose mettendosi la cazzuola davanti all'inguine e mimando una spinta pelvica in direzione della schiena di Mark. Il suo profilo contro il cielo basso era distorto, grottesco, quello di una creatura di un qualche osceno fregio greco dal contenuto misterioso e simbolico. L'aria vibrava di elettricità come in prossimità di un pilone dell'alta tensione e le buffonate di quel ragazzo mi facevano venire la pelle d'oca. Mi resi conto che stavo affondando le unghie nel muretto. Gli avrei messo le manette o gli avrei dato uno pugno pur di farlo smettere.
Gli altri archeologi si stancarono e non gli diedero più corda, così Macker, dopo aver alzato il dito medio all'indirizzo di Mark, sempre voltato di spalle, se ne tornò al suo pezzo di terra come se tutti gli occhi fossero ancora puntati su di lui. Di una cosa almeno potevo essere contento: non mi sarebbe più toccato di essere nuovamente un adolescente. Spensi la sigaretta su una pietra, e mi stavo abbottonando il cappotto per avviarmi verso la macchina quando, come un pugno allo stomaco, violento, goccia di veleno attraverso ghiaccio nero, fui colpito da un particolare: la cazzuola.
Rimasi lì, immobile, per un tempo indefinito. Sentivo il cuore battere, rapido, alla base della gola. Infine, mi abbottonai il cappotto, identificai Sean tra un gruppo di giacconi militari e mi diressi verso di lui attraverso lo scavo. Mi sentivo la testa curiosamente leggera, come se stessi camminando senza sforzo a cinquanta centimetri da terra. Gli archeologi mi lanciavano occhiate veloci mentre passavo: non ostili, ma deliberatamente neutrali.
Sean stava scavando via del terreno da un gruppo di pietre. Indossava delle cuffie sul berretto nero di lana e muoveva leggermente la testa al bam bam bam dell'heavy metal. «Sean» chiamai e mi parve che la mia stessa voce provenisse da un punto dietro le mie orecchie.
Non mi sentì, ma facendo un passo in avanti la mia ombra cadde su di lui, leggera nella luce grigia. Sollevò lo sguardo e, dopo aver armeggiato nella tasca per spegnere il walkman, si tolse le cuffie.
«Sean» gli dissi, «ti devo parlare.» Mark si girò di scatto verso di noi, scosse furiosamente la testa e si rimise al lavoro, sul terrapieno.
Condussi Sean verso il parcheggio. Si sedette sul cofano della Land Rover. Uno stormo di corvi si levò sopra gli alberi e volteggiò sulle nostre teste. I rami dai quali avevano spiccato il volo dondolarono per un po' come ubriachi. Sean tirò fuori dalla giacca una ciambella avvolta nella pellicola di plastica. «Allora, che c'è?» chiese, affabile.
«Ti ricordi che il giorno in cui fu trovato il corpo di Katharine Devlin io e la mia collega chiamammo Mark per interrogarlo?» chiesi. Mi impressionò come il tono della mia voce fosse calmo, normale e casuale, come se si trattasse tutto sommato di una cosa da niente. Interrogare le persone diventa una seconda natura. Ti entra nelle vene e, per quanto tu possa essere obnubilato, stanchissimo o sovreccitato, non cambia nulla: tono professionale e ritmo fermo, incalzante, via via che ogni risposta genera altre domande. «Poco dopo che lo avevamo riaccompagnato qui al sito, ti stavi lamentando perché non trovavi più la tua cazzuola.»
«Già» disse lui, con la bocca piena. «Ehi, non è un problema se mangio mentre parliamo, vero? Ho una fame bestiale e Hitler si fa venire un coccolone se mangio mentre lavoro.»
«No, non fa niente» dissi. «L'hai poi trovata, la tua cazzuola?»
Scosse la testa. «Ne ho dovuta comprare una nuova, bastardi.»
«Va bene, adesso pensaci bene» proseguii, «quando l'hai vista per l'ultima volta?»
«Nella baracca dei reperti» rispose immediatamente. «Quando trovai la moneta. Ma perché, volete arrestare quello che l'ha rubata?»
«Non proprio. Di che moneta parli?»
«Ho trovato una moneta» mi spiegò, disponibile. «Erano tutti eccitati perché sembrava antica e perché ne abbiamo trovate solo dieci in tutto lo scavo. La portai nella baracca dei reperti per farla vedere al dottor Hunt. La tenevo sulla cazzuola perché, se le tocchi, le monete antiche, le puoi rovinare con il grasso della pelle delle mani. Il dottore era tutto contento e cominciò a tirare fuori un sacco di libri per identificarla, poi si fecero le cinque e mezzo e ce ne andammo tutti a casa. Io dimenticai la cazzuola sul tavolo della baracca. Ci tornai la mattina dopo ma non c'era più.»
«Ed era giovedì» dissi, con la delusione nel cuore. «Il giorno in cui venimmo a parlare con Mark.» Ci avevo provato e non era andata. Non era un colpo facile e mi sorprese che ci stessi rimanendo male. Mi sentii un idiota e molto, molto stanco. Volevo solo andare a casa e dormire.
Sean scosse la testa e si leccò lo zucchero della ciambella dalle dita sporche. «No, no, prima» disse, e sentii il battito cardiaco che riprendeva vigore. «Non ci avevo più pensato perché non mi serviva, stavamo ripulendo quel maledetto canale di scolo. Credevo che me l'avesse presa qualcuno che poi si era dimenticato di restituirmela. Il giorno in cui veniste a prendere Mark fu quello in cui ne ebbi bisogno. Ma tutti a dire: "No, non l'ho vista", "No, no non l'ho mica presa io".»
«Quindi era facile da identificare. Chiunque l'avesse vista avrebbe saputo che era la tua?»
«Sì, sul manico ci sono le mie iniziali.» Sean dette un altro morso alla ciambella. «Le incisi a fuoco molto tempo fa, una volta che pioveva che Dio la mandava e dovemmo stare dentro per ore. Ho un coltellino svizzero e avevo riscaldato un tappo di sughero con l'accendino».
«Accusasti Macker di averla presa. Perché?»
Si strinse nelle spalle. «Non lo so, perché è uno che fa cazzate di quel genere. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di rubarla davvero, con sopra le mie iniziali poi, quindi pensai che l'avesse semplicemente presa qualcuno per rompermi le palle.»
«E credi ancora che sia stato lui?»
«Mah, no. Poi ci ho pensato. Il dottor Hunt chiuse la baracca dei reperti quando uscimmo, e Macker non ha la chiave.» Improvvisamente lo sguardo gli si illuminò. «Ehi, ma è stata l'arma del delitto? Oh, merda!»
«No» dissi. «In quale giorno trovasti la moneta, te lo ricordi?»
Sguardo fisso nel vuoto, gambe ciondoloni, Sean sembrava deluso, ma ci pensò ugualmente. «Il cadavere fu trovato di mercoledì, no?» Aveva finito la ciambella. Appallottolò la pellicola, la lanciò in aria e la colpì con una specie di schiacciata, mandandola nel sottobosco. «Okay, quindi non fu il giorno prima perché facemmo quel cazzo di canale di scolo. Il giorno prima ancora.»
Mi capita di pensare ancora a quella conversazione con Sean. C'è qualche cosa di stranamente confortante nella memoria, anche se porta con sé la sua dose inesorabile di dolore. Credo che quel giorno, anche se mi è ancora difficile riconoscerlo, la mia carriera raggiunse l'apice. Non vado fiero di molte delle cose che ho fatto nel corso dell'Operazione Vestale, ma quella mattina almeno, nonostante tutto quello che era successo prima e nonostante tutto ciò che sarebbe accaduto dopo, quella mattina, dicevo, feci tutto alla perfezione, con la sicurezza e la facilità di uno che non aveva mai messo un piede in fallo in vita sua.
«Ne sei sicuro?» chiesi.
«Be', sì, direi di sì. Chieda al dottor Hunt. La catalogò nel registro dei reperti. Ma io sono un testimone? Dovrò testimoniare in tribunale?»
«Molto probabilmente sì» dissi. L'adrenalina aveva fatto passare in secondo piano la stanchezza e il cervello andava a tutta velocità, esaminando architetture e possibilità come in un caleidoscopio. Clic, clic, clic. «Ti farò sapere.»
«Bene!» disse allegramente Sean, forse risarcito della delusione per la faccenda dell'arma del delitto. «Entrerò in un programma di protezione dei testimoni?»
«No, però ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Voglio che tu torni a lavorare e che dica agli altri che abbiamo parlato di un tizio che hai visto gironzolare qua intorno qualche giorno prima dell'omicidio. Ti ho chiesto di descrivermelo meglio. Ce la fai a sostenere questa versione?» Niente prove e niente rischio di inquinarle, non volevo ancora spaventare nessuno.
«Ovvio!» mi assicurò Sean, offeso. «Un lavoro sotto copertura. Grande.»
«Grazie» dissi. «Ti raggiungerò più tardi.» Scivolò giù dal cofano e se ne andò saltellando verso gli altri, strofinandosi la nuca attraverso il berretto di lana. Aveva ancora dello zucchero agli angoli della bocca.
Chiesi a Hunt, il quale controllò sul registro e confermò quanto aveva detto Sean: aveva trovato la moneta il lunedì, qualche ora prima che Katy morisse. «Un reperto bellissimo» mi disse. «Bellissimo. C'è voluto un bel po' di tempo per… be', per identificarlo. Non disponiamo di esperti di numismatica qui e io sono un medievalista.»
«Chi ha le chiavi della baracca dei reperti?» chiesi.
«Un penny del periodo di Edoardo VI, inizio anni Cinquanta del XVI secolo» disse. «Oh, della baracca dei reperti? Perché?»
«Sì, della baracca dei reperti. Mi hanno detto che di notte è chiusa. È così?»
«Sì, sì, la chiudiamo tutte le sere. C'è quasi solo ceramica, ma non si sa mai.»
«E le chiavi chi le ha?»
«Be', ovviamente io» disse, togliendosi gli occhiali e strizzando gli occhi per mettermi a fuoco, mentre li puliva con il maglione. «E poi Mark e Damien. Per le visite. Alla gente piace vedere i reperti, no?»
«Sì» confermai, «credo proprio di sì».
Tornai al parcheggio e chiamai Sam. Da uno degli alberi, un castagno, erano caduti dei ricci intorno alla mia macchina. Ne aprii uno e lanciai la castagna per aria, mentre aspettavo che Sam rispondesse. Se qualcuno mi avesse guardato, magari preoccupato, avrei avuto l'aria di uno che faceva una telefonata senza importanza, per prendere accordi con una ragazza per la sera.
«O'Neill» disse Sam.
«Sam, sono Rob.» Acchiappai al volo la castagna. «Sono a Knocknaree, allo scavo. Ho bisogno di te, Maddox e un po' di agenti di supporto qui, il più presto possibile, con una squadra della Scientifica. Chiama Sophie Miller, se puoi. Dille che porti un metal detector e qualcuno che lo sappia usare. Ci vediamo all'ingresso della zona residenziale.»
«Ricevuto» rispose Sam e chiuse.
Ci avrebbe messo almeno un'ora per organizzare il tutto e arrivare a Knocknaree. Spostai la mia auto più in alto sulla collina, fuori dalla visuale degli archeologi, e mi misi ad aspettare seduto sul cofano. L'aria odorava di erba morta e di tuoni. Knocknaree si era come richiusa su se stessa, le colline erano invisibili sotto le nuvole, il bosco un'ingannevole macchia scura lungo le pendici. Era passato un po' di tempo e ai bambini era stato dato di nuovo il permesso di giocare fuori, sentivo gridolini che venivano dall'interno della proprietà. Si sentiva ancora l'antifurto dell'automobile di prima e da qualche parte un cane continuava ad abbaiare furioso, ininterrottamente.
Ogni rumore sembrava avvolgermi con una nuova spira. Sentivo il sangue pulsarmi in ogni angolo del corpo. Il cervello andava ancora a pieno ritmo, ronzava e macinava collegamenti e brandelli di prove, cercando di mettere insieme quello che avrei detto agli altri quando fossero arrivati. E da qualche parte, sotto l'adrenalina, si faceva strada la presa di coscienza graduale e inesorabile che, se avevo ragione, la morte di Katy Devlin non aveva quasi sicuramente nulla a che vedere con quello che era accaduto a Peter e Jamie. Almeno nel senso che non c'erano prove per collegare i due eventi.
Ero così assorto che quasi mi dimenticai chi stavo aspettando. Quando iniziarono ad arrivare, li vidi con lo sguardo alterato e turbato di un estraneo: auto scure e discrete e furgoni bianchi che sopraggiungevano come in un'invasione, porte scorrevoli che si aprivano senza rumore, uomini in divisa nera e tecnici senza volto con il loro scintillante arsenale di strumenti. Freddi e pronti come chirurghi, si preparavano a sollevare palmo a palmo la pelle di quel posto per mettere alla luce i brulicanti e scuri strati che nascondeva. Le portiere delle auto sbattevano con un rumore soffocato e preciso, attutito dall'aria pesante.
«Allora, cos'è successo?» chiese Sam. Aveva portato con sé Sweeney, O'Gorman e un tizio dai capelli rossi che riconobbi vagamente per averlo visto sfrecciare in un momento di congestione della sala operativa, qualche settimana prima. Scivolai giù dal cofano della Land Rover e mi ritrovai circondato. Sophie e i ragazzi della sua squadra si infilarono i guanti, vidi il viso immobile e affilato di Cassie dietro la spalla di Sam.
«La notte della morte di Katy Devlin» cominciai, «dalla baracca dei reperti, sempre chiusa a chiave, è sparita una cazzuola. Le cazzuole che usano qui sono fatte con una lama di metallo a forma lanceolata fissata a un manico di legno dall'estremità arrotondata, lungo circa quindici centimetri, che si assottiglia verso la lama. Questa cazzuola in particolare, che ancora non è stata ritrovata, ha le iniziali "SC" incise a fuoco sul manico. Sono le iniziali del suo proprietario, Sean Callaghan, che dice di averla dimenticata nella baracca dei reperti verso le 17.30 di lunedì. Corrisponde alla descrizione di Cooper dell'oggetto usato per stuprare Katy Devlin. Nessuno sapeva che l'oggetto fosse nella baracca, quindi dev'essere stata un'arma afferrata d'impulso, e potrebbe essere proprio la baracca la scena primaria del crimine. Sophie, puoi iniziare da lì?»
«Kit del luminol» disse Sophie a uno dei suoi assistenti, che si staccò dal gruppo e andò ad aprire la portiera del furgone.
«Tre persone avevano le chiavi della baracca dei reperti» continuai. «Ian Hunt, Mark Hardy e Damien Donnelly. Non possiamo escludere neppure Sean Callaghan: potrebbe anche essersi inventato di aver dimenticato la cazzuola lì dentro. Hunt e Hardy hanno l'auto, il che significa che, se è stato uno dei due, possono aver nascosto o trasportato il corpo nel portabagagli. Callaghan e Donnelly non ce l'hanno, per quello che ne so, quindi se è stato uno di loro avrà nascosto il cadavere molto vicino, magari nel sito stesso. Dovremo passarlo al setaccio e sperare che siano rimaste delle prove. Cerchiamo la cazzuola, un sacchetto di plastica sporco di sangue e la scena del crimine, primaria e secondaria.»
«Hanno anche le chiavi delle altre baracche?» chiese Cassie.
«Scopritelo» risposi.
Il tecnico della scientifica era tornato con il kit del luminol in una mano e un rotolo di carta marrone nell'altra. Ci scambiammo uno sguardo e annuimmo, poi ci mettemmo in marcia. Un plotone ben istruito che scendeva giù per la collina, verso il campo degli scavi.
Un caso che si avvia alla soluzione è come una diga che frana. Gli elementi intorno a te si raccolgono e precipitano spontaneamente, inarrestabili, a tutta velocità. Ogni stilla d'energia profusa nelle indagini ritorna, incontrollata, e guadagna slancio di secondo in secondo, travolgendoti nel fragore. Mi dimenticai che non potevo soffrire O'Gorman, che Knocknaree mi faceva venire il mal di testa e che avevo mandato a puttane quel caso almeno una decina di volte; quasi mi dimenticai anche di quello che era successo tra me e Cassie. Credo sia una delle cose che amo di questo lavoro: il modo in cui, in certi momenti, puoi arrenderti completamente, abbandonare tutto e lasciarti andare al suo ritmo pulsante e meccanico, diventare null'altro che l'ingranaggio di un meccanismo perfettamente equilibrato ed essenziale.
Ci sparpagliammo, per precauzione, nell'avvicinarci all'area dove si trovavano gli archeologi. Ci lanciarono occhiate apprensive ma nessuno fuggì, nessuno smise neppure di lavorare.
«Mark» dissi. Era ancora inginocchiato in cima al suo terrapieno. Saltò su con un unico movimento rapido e pericoloso e mi fissò. «Devo chiederti di portare tutta la squadra nella baracca della mensa.»
Mark esplose. «Cazzo! Ma non ne avete avuto abbastanza? Di che cosa avete paura? Anche se oggi troviamo il Santo Graal, lunedì mattina la vostra gente raderà tutto al suolo comunque. Non ci potreste lasciare in pace almeno questi ultimi giorni?»
Per un attimo temetti quasi che mi si avventasse contro. Sentii Sam e O'Gorman che prendevano posizione alle mie spalle. «Calmati, ragazzo» disse O'Gorman, minaccioso.
«Non darmi del ragazzo. Ci rimane solo fino a venerdì alle cinque e mezzo, e qualsiasi cosa vogliate da noi dovrà aspettare fino ad allora perché non ce ne andiamo da nessuna parte.»
«Mark» s'intromise Cassie, dura, accanto a me. «Questa cosa non ha niente a che vedere con l'autostrada. E adesso ti dico quello che faremo: tu, Damien Donnelly e Sean Callaghan verrete con noi, adesso. Senza discutere. Se ci seguirete senza fare storie, il resto di voi potrà continuare a lavorare sotto la supervisione del detective Johnston. Intesi?»
Mark le lanciò uno sguardo di fuoco, poi sputò nella polvere e fece un cenno con il mento a Mel, che si stava già avvicinando. Gli altri archeologi rimasero a guardare, sudati e con gli occhi spalancati. Mark le dette istruzioni con tono aspro, indicando con il dito varie zone dello scavo. Poi, inaspettatamente, le mise una mano sulla spalla, gliela strinse e si avviò verso le baracche di lamiera, con i pugni affondati nelle tasche della giacca. O'Gorman lo seguì.
«Sean» chiamai. «Damien.» Sean fece un salto in avanti, impaziente di collaborare. Sollevò la mano aperta per darmi un cinque e, quando lo ignorai, mi rivolse uno sguardo complice. Damien si avvicinò più lentamente, tirandosi su i pantaloni multitasche. Sembrava stupito, al limite dello stordimento, ma trattandosi di lui la cosa non mi fece scattare nessun allarme.
«Abbiamo bisogno di parlare con voi» dissi. «Aspetterete nella mensa fino a quando non saremo pronti a portarvi in centrale.»
Aprirono tutti la bocca nello stesso momento, ma io mi girai e mi allontanai prima che potessero chiedere qualcosa.
Li radunammo nella baracca adibita a mensa, insieme a un agitatissimo dottor Hunt, con le mani ancora piene di documenti, e lasciammo O'Gorman a tenerli d'occhio. Hunt ci dette il permesso di perquisire il sito, con una spontaneità che lo fece scivolare ancora più in basso nell'elenco dei sospetti (chiese di vedere il mandato, ma si rimangiò subito tutto quando gli risposi che glielo avrei fornito se avesse avuto la pazienza di aspettare qualche ora). Sophie e la sua squadra si diressero verso la baracca dei reperti e iniziarono ad applicare la carta marrone alle finestre. Johnston, al sito, prese ad aggirarsi tra gli archeologi con un taccuino in mano, controllando le cazzuole e facendo brevi interrogatori individuali.
«La stessa chiave apre tutte le baracche» disse Cassie, uscendo dalla mensa. «Hunt, Mark e Damien ne hanno una a testa, Sean no. Non ce ne sono altre. E tutti dicono di non aver mai perso, prestato o smarrito la loro.»
«Allora cominciamo con le baracche» decisi, «poi passeremo all'esterno, se ce ne sarà bisogno. Sam, tu e Cassie volete occuparvi di quella degli attrezzi? Io e Sweeney ci faremo l'ufficio.»
L'ufficio era piccolo e ingombro di roba: mensole cariche di libri, scrivania stracolma di carte, tazze e pezzi di ceramica, oltre a un obsoleto computer. Sweeney e io lavoravamo rapidi e metodici aprendo cassetti, tirando fuori libri e controllando dietro prima di rimetterli a posto, spesso alla rinfusa. Non mi aspettavo di trovare alcunché. Lì non c'era posto per occultare un cadavere, ed ero abbastanza sicuro che la cazzuola e il sacchetto di plastica fossero stati gettati nel fiume o sepolti da qualche parte nello scavo. Ci sarebbe voluto un metal detector e un sacco di tempo e fortuna per trovarli. Riponevo tutte le mie speranze in Sophie, nella sua squadra e nei riti misteriosi che stavano compiendo nella baracca dei reperti. Passavo le mani lungo le mensole con gesti automatici. Avevo le orecchie tese con una concentrazione che quasi mi paralizzava: speravo di sentire un rumore da fuori, dei passi e la voce di Sophie che mi chiamava. Quando Sweeney fece cadere un cassetto e si lasciò sfuggire un'imprecazione a bassa voce quasi gli urlai di stare zitto.
Gradatamente, mi resi conto di quanto avessi puntato su quella cosa. Avrei potuto semplicemente chiamare Sophie e dirle di venire a controllare la baracca dei reperti, senza bisogno di dirlo a nessun altro se non fosse saltato fuori niente. Invece avevo messo sotto sequestro l'intero sito e chiamato praticamente tutti quelli che avevano a che fare con l'indagine. Se tutta la faccenda si fosse rivelata un fiasco non volevo nemmeno pensare a quel che avrebbe detto O'Kelly.
Dopo un tempo che mi parve lunghissimo sentii da fuori: «Rob!» e scattai in piedi, facendo cadere carte ovunque. Ma era la voce di Cassie: chiara, infantile, sovreccitata. «Rob, l'abbiamo trovata. La cazzuola. Nella baracca degli attrezzi, sotto un mucchio di incerate.» Era rossa in viso e senza fiato. Si era ovviamente dimenticata che da un pezzo in pratica non ci rivolgevamo più la parola. Me ne dimenticai anch'io, per un attimo, e la sua voce fu ancora la freccia luminosa e calda che raggiungeva il mio cuore.
«Resta qui» dissi a Sweeney, «continua a cercare.» Seguii Cassie che stava già correndo di nuovo verso la baracca degli attrezzi. Vedevo i suoi piedi muoversi rapidi, saltando solchi e pozzanghere.
La baracca era una baraonda di carriole buttate ovunque, picconi, pale e piccozze appoggiati al muro, pile traballanti di secchi di metallo, materassini in gommapiuma per lavorare in ginocchio e casacche fosforescenti (qualcuno aveva scritto "inserire un piede qui" e tracciato una freccia che puntava verso il basso, sulla schiena di quella che stava in cima al mucchio), il tutto incrostato di fango secco. Alcuni tenevano lì anche le biciclette. Cassie e Sam avevano lavorato spostandosi da sinistra a destra, e la parte a sinistra, con la tipica aria del posto che aveva subito una perquisizione, appariva moderatamente riordinata.
Sam era inginocchiato in fondo alla baracca, tra una carriola rotta e un cumulo di incerate verdi, e ne teneva sollevato un lembo con una mano guantata. Ci facemmo strada tra gli attrezzi e ci stringemmo attorno a lui.
La cazzuola era stata infilata tra il mucchio delle incerate e la parete. Vi era stata spinta con tanta forza che la punta, a metà strada, era riuscita a strappare il materiale delle incerate, molto resistente. Non c'era luce elettrica e, anche con le grandi porte aperte, la baracca era in penombra. Sam puntò la torcia sul manico: c'erano le lettere SC, grandi, irregolari, con grazie gotiche, incise in profondità nel legno verniciato.
Ci fu un lungo silenzio. Si sentivano solo il cane e l'antifurto che andavano avanti, in lontananza, con la stessa identica determinazione.
«Direi che le incerate non vengono usate molto spesso» osservò Sam a bassa voce. «Erano dietro a tutto, sotto gli attrezzi rotti. E Cooper non ha detto che il cadavere doveva essere stato avvolto in qualcosa, il giorno prima che venisse ritrovato?»
Mi rialzai e mi spazzolai via lo sporco dalle ginocchia. «Era qui» dissi. «I suoi sono impazziti a cercarla ovunque e lei è sempre stata qui.» Mi ero alzato troppo in fretta e per un attimo mi sembrò che la baracca mi girasse intorno e rimpicciolisse. Sentivo un ronzio bianco e acuto nelle orecchie.
«Chi ha la macchina fotografica?» chiese Cassie. «Dobbiamo fotografare tutto prima di impacchettare.»
«Deve farlo Sophie» dissi. «Dobbiamo chiedere alla squadra di venire anche qui.»
«Guarda.» Sam puntò la torcia verso la parte destra della baracca, su di un sacchetto di plastica pieno di guanti, guanti verdi di gomma da giardino con il dorso di tessuto. «Se avessi avuto bisogno di guanti ne avrei preso un paio da qui e dopo lo avrei rimesso al suo posto.»
«Detective!» urlò Sophie, da fuori. La voce aveva un suono metallico, compresso dal cielo spesso e pesante. Ebbi un sussulto.
Cassie si alzò di scatto, poi gettò uno sguardo verso la cazzuola. «Qualcuno forse dovrebbe…»
«Rimango qui io» disse Sam. «Andate voi due.»
Sulla soglia della baracca dei reperti, Sophie aveva in mano una lampada a ultravioletti. «Già» disse, «è sicuramente la vostra scena del crimine. Ha tentato di pulire ma… venite a vedere.»
I due giovani tecnici erano rincantucciati in un angolo, lui con due grosse bombolette spray, Helen con una videocamera e gli occhi spalancati e stravolti sopra la mascherina. La baracca era troppo piccola per cinque e il tocco clinico e incongruo che avevano portato i tecnici della Scientifica le dava l'aria di una improvvisata camera delle torture da guerriglia: fogli di carta alle finestre, una lampadina nuda al soffitto, varie figure mascherate e guantate che se ne stavano in disparte, in attesa di farsi avanti. «Rimanete vicino alla scrivania» disse Sophie, «lontano dalle mensole.» Chiuse la porta sbattendola e tutti sobbalzarono. Riapplicò il nastro adesivo per chiudere ogni fessura.
Il luminol reagisce anche alla minima traccia di sangue, e gli ultravioletti la fanno emergere. Puoi ridipingere una parete o sfregare un tappeto fino a farlo sembrare nuovo e tenerti fuori dai piedi per anni o decenni, il luminol farà resuscitare il crimine nei suoi più piccoli e spietati dettagli. Se solo Kiernan e McCabe l'avessero avuto, pensai, lottando contro il desiderio isterico di scoppiare a ridere, avrebbero spruzzato tutto il bosco con un aereo da piantagione. Cassie e io ci addossammo alla scrivania, vicinissimi. Sophie fece un cenno al tecnico giovane perché cominciasse con lo spray, accese la lampada che aveva in mano e spense la lampadina appesa al soffitto. In quell'oscurità intima e improvvisa sentii tutti noi respirare, cinque paia di polmoni che si contendevano l'aria polverosa.
Sibilo della bomboletta spray, l'occhio minuscolo della telecamera che si accendeva. Sophie si accovacciò e tenne la luce nera rasente il pavimento, vicino alle mensole. «Ecco» disse.
Udii Cassie che respirava. Il pavimento divenne di un bianco bluastro con tracce frenetiche, come di un grottesco quadro astratto, di archi frastagliati là dove il sangue era schizzato, di macchie circolari là dove erano cadute gocce che poi si erano asciugate, di segni di strofinamento là dove qualcuno, ansimante e disperato, aveva tentato di pulire. Il tutto brillava come materia radioattiva uscita dalle fessure delle assi del pavimento. Sophie sollevò la lampada e fece spruzzare di nuovo: c'erano goccioline su tutte le mensole di metallo e una sbavatura che assomigliava all'impronta di una mano che avesse cercato di aggrapparsi disperatamente a qualcosa. L'oscurità cancellava la baracca dei reperti, le carte in disordine e le casse delle ceramiche e ci lasciava sospesi in uno spazio in bianco e nero, insieme all'omicidio che, fluorescente, ululante, si replicava all'infinito sotto i nostri occhi.
«Cristo santo» dissi. Katy Devlin era morta su quel pavimento. E noi ci eravamo seduti proprio lì, in quella baracca, la scena del crimine, a interrogare il suo assassino.
«Non può essere candeggina o roba del genere?» chiese Cassie.
Il luminol dà spesso falsi positivi con sostanze che vanno dalla candeggina al rame, ma sapevamo entrambi che Sophie non ci avrebbe chiamati se non fosse stata più che sicura.
«Abbiamo già fatto il tampone» tagliò corto Sophie. Sentivo il suo sguardo torvo nel tono aspro delle parole. «È sangue.»
Credo di aver smesso di credere proprio in quel momento. Avevo pensato molto a Kiernan, nelle ultime settimane. A Kiernan, al suo confortevole rifugio vicino al mare, ai suoi sogni agitati. Solo i detective più fortunati ce la fanno a percorrere tutta una carriera senza imbattersi in uno di quei casi, e una parte di me sapeva fin dall'inizio che l'Operazione Vestale, l'ultimo caso al mondo che avrei scelto di seguire, sarebbe stato il mio. Mi ci volle uno strano, quasi doloroso, cambio di prospettiva per rendermi conto che il nostro uomo non era più un archetipo senza volto, il risultato di un incubo collettivo emerso per compiere un unico gesto e poi dissolversi nell'oscurità. Se ne stava invece seduto in mensa, a pochi metri da noi, con scarponi infangati ai piedi, intento a bere tè sotto lo sguardo bovino di O'Gorman.
«Ecco» disse Sophie. Si rialzò e accese la lampadina centrale. Guardai stupito il pavimento, pulito e innocente.
«Guarda.» Cassie mi fece segno. Su una delle mensole più in basso c'era un sacchetto di plastica pieno di altri sacchetti. Erano del tipo usato dagli archeologi per metterci dentro i reperti: grandi, robusti, trasparenti. «Se la cazzuola è stata un'arma occasionale…»
«Oh, cazzo» disse Sophie. «Quindi dovremo fare il test su tutti i sacchetti di questo posto di merda.»
Un ticchettio sordo e improvviso esplose sui vetri e sul tetto della baracca: si era messo a piovere.