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Riaccompagnammo Mark al sito e lo lasciammo a rimuginare foscamente sui sedili posteriori dell'auto mentre io parlavo con Mel nella baracca dei reperti (dovemmo buttare fuori un tipo dall'aria sbigottita chiamato Ronan, che stava disegnando dei frammenti di vasellame e che chiaramente concluse che Mark e Mel stavano per essere arrestati per omicidio) e Cassie scambiava quattro chiacchiere con i loro coinquilini.

Mel, quando le chiesi come aveva trascorso la serata di martedì, diventò rossa come un peperone e non riuscì a sostenere il mio sguardo, ma disse che lei e Mark avevano parlato in giardino fino a tardi, che alla fine si erano baciati e che avevano passato il resto della notte nella stanza di lui. Mark se n'era andato solo una volta, per una visitina al bagno, e non si era assentato per più di due minuti. «Ci siamo trovati bene insieme fin dall'inizio e gli altri ci hanno sempre presi in giro per questo. Ma immagino che fosse scritto nelle carte.» Anche lei confermò che Mark di tanto in tanto passava la notte fuori casa e che le aveva detto di aver dormito nel bosco di Knocknaree. «Non so però se gli altri ne sono al corrente. È riservato su questa cosa.»

«Non la trovi un po' strana?»

Si strinse nelle spalle e si massaggiò la nuca. «È un tipo intenso. È una delle cose che mi piacciono di lui.» Cielo, era così giovane. Frenai l'impulso improvviso di darle un colpetto affettuoso su una spalla e di ricordarle di usare protezioni.

Gli altri coinquilini raccontarono a Cassie che Mark e Mel si erano fermati da soli, in giardino, martedì sera, che erano usciti dalla stanza di lui insieme la mattina dopo e che tutti avevano passato le prime ore della giornata, cioè fino a quando non era stato scoperto il corpo di Katy, a prenderli pesantemente in giro per la faccenda. Confermarono anche loro che ogni tanto Mark restava fuori, ma non sapevano dove andava. La loro versione di "tipo intenso" variava da "un po' strano" a "vero schiavista".

Trovammo qualcosa da mettere sotto i denti per Cassie (altri sandwich plasticosi presi dal negozio di Lowry) e pranzammo seduti sul muro della zona residenziale. Mark stava organizzando gli archeologi per qualche altra attività, facendo ampi gesti e scatti combattivi come un vigile urbano intento a dirigere il traffico. Sentivo Sean che si lamentava a voce alta di qualcosa e tutti gli altri che gli gridavano di chiudere la bocca, di piantarla di fare il lavativo e di mettersi sotto.

«Lo giuro su Dio, Macker, se la trovo tra la tua roba te la infilo su per il culo così a fondo che…»

«Ooh, Sean ha la sindrome premestruale…»

«Hai controllato su per il tuo, di culo?»

«Magari i poliziotti l'hanno portata via, Sean, stai tranquillo, su.»

«Vai a lavorare, Sean» gridò Mark.

«Non lavoro senza la mia cazzo di cazzuola!»

«Fattene prestare una.»

«Qui ne cresce una» strillò qualcuno. Una cazzuola passò velocemente di mano in mano, la lama che mandava riflessi. Sean la prese e si mise al lavoro, ma continuò a brontolare.

«Se avessi dodici anni» mi chiese Cassie, «cosa ti spingerebbe a venire qui fuori nel bel mezzo della notte?»

Ripensai al debole cerchio di luce che palpitava come un fuoco fatuo tra radici di alberi tagliati e resti di antichi muri; l'osservatore silenzioso nel bosco. «L'abbiamo fatto un paio di volte» dissi. «Di trascorrere la notte nella nostra casetta sull'albero. Il bosco era molto più esteso allora, fin su verso la strada.» Sacchi a pelo su assi di legno ruvido, torce accese tenute vicino alle pagine dei fumetti, sobbalzi a ogni fruscio, occhi dorati e selvaggi a pochi alberi di distanza, noi tutti a urlare, Jamie che lanciava un mandarino, la cosa che balzava via con uno schianto di foglie…

Cassie mi lanciò un'occhiata da sopra la confezione di succo di frutta. «Sì, ma eri con i tuoi amici. Cosa ti farebbe uscire da solo?»

«Incontrare qualcuno… una sfida… magari per recuperare qualcosa di importante che ho dimenticato qui. Parliamo con le sue amiche, vediamo se aveva detto loro qualcosa.»

«Non è stata un'occasione casuale» disse Cassie. Gli archeologi avevano rimesso gli Scissor Sisters e lei dondolava un piede, senza accorgersene, a ritmo. «Anche se non si tratta dei genitori. Il nostro non è uscito per prendersi la prima bambina indifesa che ha trovato. Era tutto molto ben pianificato. Non era solo alla ricerca di un bambino da ammazzare; stava cercando proprio Katy.»

«E conosceva il posto piuttosto bene» aggiunsi, «se è riuscito a trovare la pietra sacrificale al buio, trasportando anche un corpo. Sembra sempre più uno di qui.» Sotto il sole, il bosco era gaio e scintillante, con il canto degli uccelli, le foglie smosse dalla brezza, Robin Hood e i suoi allegri compari. E dietro di me, avvertibile, la presenza innocua di file e file di abitazioni identiche. "Posto maledetto" fui lì lì per dire, ma mi trattenni.


Finiti i sandwich, andammo a trovare la zia Vera e le cugine. Faceva caldo, era ancora pomeriggio, ma il quartiere aveva un che di vuoto, strano e misterioso, da nave fantasma. Le finestre erano chiuse, sigillate, e non c'era un solo bambino fuori a giocare. Erano tutti in casa, confusi e irrequieti, ma al sicuro sotto gli occhi dei loro genitori, e cercavano di origliare i bisbigli degli adulti, di scoprire cosa stesse succedendo.

I Foley erano una banda poco simpatica. La quindicenne si sistemò su una poltrona, a braccia incrociate e busto eretto come una mammina, e ci rivolse uno sguardo scialbo, annoiato e arrogante; la ragazzina di dieci anni sembrava il maialino di un cartone animato e masticava gomma con la bocca aperta, dimenando il sedere sul divano e di tanto in tanto mostrando la gomma sulla lingua per poi risucchiarla in bocca. Quanto al minore, era uno di quei bambini piccoli che ti sconcertano perché sembrano adulti bonsai. Aveva una faccia compassata e tozza con il naso a becco e mi fissava dal grembo di Vera, arricciando le labbra e ritraendo il mento con disapprovazione nelle pieghe del collo. Ero orribilmente certo che se avesse detto qualcosa lo avrebbe fatto con la voce profonda e rauca di uno che fuma quaranta sigarette al giorno. La casa puzzava di cavolo, forse quello rimasto dal pranzo. Non riuscivo a capire come Rosalind e Jessica potessero decidere di passarci del tempo, e il fatto che in effetti lo facessero era una cosa che mi preoccupava.

Con l'eccezione del bambino piccolo, tutti raccontarono la stessa storia. Rosalind e Jessica, e a volte Katy, passavano la notte lì di tanto in tanto. «Mi piacerebbe averle più spesso, naturalmente» disse Vera, tormentando ansiosamente l'angolo di una copertina del divano, «ma proprio non posso, non con i miei nervi, capite.» Meno spesso, Valerie e Sharon restavano dai Devlin. Nessuno sapeva esattamente di chi fosse stata l'idea di dormire da uno o dall'altro, anche se Vera pensava vagamente che poteva essere stata un'idea di Margaret. Il lunedì sera Rosalind e Jessica erano arrivate intorno alle otto e mezzo, avevano guardato la televisione e avevano giocato con il piccolo, anche se non riuscivo proprio a immaginare come; si era mosso a malapena per tutto il tempo che eravamo rimasti lì. Doveva essere stato come giocare con una grossa patata. Poi erano andate a dormire, intorno alle undici, dividendosi un letto da campeggio nella stanza di Valerie e di Sharon.

Ed era da qui che forse era partito il problema: le ragazze, non poteva essere altrimenti, erano rimaste sveglie a chiacchierare e a sghignazzare per quasi tutta la notte. «Sono delle ragazze meravigliose, signori agenti, non dico il contrario, ma alle volte i giovani non capiscono quanto possono essere pesanti per noi grandi, non è vero?» Vera ridacchiò con un po' d'affanno e diede di gomito alla figlia mediana che si spostò un po' più in là sul divano. «Sono dovuta andare a dire loro non so quante volte di stare buone… non sopporto il rumore, capite. Dovevano essere le due e mezzo del mattino quando alla fine si sono decise ad andare a dormire, immaginate voi. E a quel punto i miei nervi erano in un tale stato che non sono più riuscita a riposare. Mi sono dovuta alzare a prepararmi una tazza di tè. Non ho dormito neanche un po'. La mattina dopo ero distrutta. E quando Margaret ha chiamato, siamo tutte impazzite, non è vero, ragazze? Ma non avrei mai immaginato… senza alcun dubbio, pensavo fosse solo…» Si premette una piccola mano tremante sulla bocca.

«Torniamo alla sera prima» disse Cassie rivolta alla maggiore. «Di cosa avete parlato tu e le tue cugine?»

La ragazzina, credo Valerie, roteò gli occhi e sporse il labbro per mostrare quanto fosse stupida la domanda. «Cose.»

«Avete parlato di Katy, per caso?»

«Non lo so. S…s…sì, forse sì. Rosalind diceva che era una gran cosa che andasse alla scuola di balletto. Non vedo cosa ci sia di così fantastico.»

«E i vostri zii? Avete parlato anche di loro?»

«Sì. Rosalind diceva quanto sono stronzi con lei. Non la lasciano mai fare nulla.»

Vera emise un urletto sfiatato. «Ma dai, Valerie, non dire così! Guardate, signori agenti, Margaret e Jonathan farebbero qualsiasi cosa per quelle ragazze, anche loro sono esausti…»

«Oh, sì, come no? Immagino che sia per questo che Rosalind è scappata, perché erano troppo carini con lei.»

Cassie e io fummo sul punto di balzare sulla cosa, ma Vera ci precedette. «Valerie! Cosa ti ho detto? Di queste cose non si parla. È tutto un malinteso, Rosalind è stata una sfrontata a far spaventare i suoi poveri genitori in quel modo, ma è tutto perdonato e dimenticato…»

Aspettammo che avesse finito, poi: «Perché Rosalind è scappata?» chiesi a Valerie.

Valerie fece spallucce. «Non ce la faceva più con suo padre che la comandava a bacchetta. Credo che l'abbia picchiata o qualcosa del genere.»

«Valerie! Sentite, signori agenti, non so proprio da dove le sia venuta in mente. Jonathan non alzerebbe mai un dito sulle sue figlie, assolutamente no. Rosalind è una ragazza sensibile, ha discusso con suo padre e lui non si è reso conto di quanto fosse sconvolta…»

Valerie si appoggiò allo schienale e mi fissò, un sorrisetto furbo che modificava leggermente i suoi lineamenti atteggiati a un'espressione annoiata ormai incancellabile. La figlia mediana si pulì il naso con la manica ed esaminò con interesse il risultato.

«Quando è stato?» chiese Cassie.

«Oh… non ricordo bene. Tempo fa, l'anno scorso, credo…»

«Maggio» intervenne Valerie. «Questo maggio.»

«Per quanto tempo è stata via?»

«Tre giorni. È venuta la polizia e tutto il resto.»

«E dove è stata, lo sapete?»

«È andata da qualche parte con un tipo» rispose Valerie, con un sorriso compiaciuto.

«Non è vero» scattò Vera, stridula. «Lo disse solo per spezzare il cuore a quella poveretta di sua madre, che Dio la perdoni. Stava da quella sua amica di scuola… come si chiama… Karen. Tornò dopo il fine settimana e non accadde nulla.»

«Di' quello che vuoi!» commentò Valerie, facendo di nuovo spallucce.

«Il mio tè» comandò il piccolo. Avevo ragione: aveva la voce di un fagotto.


Questo, con ogni probabilità, spiegava una cosa che avevo pensato di controllare: perché alla sezione Persone scomparse avessero fatto così in fretta a dare per scontato che Katy fosse solo fuggita di casa. Dodici anni sono un'età limite e di norma, prima di aspettare le ventiquattr'ore, le avrebbero concesso il beneficio del dubbio, avrebbero avviato le ricerche e immediatamente ci sarebbe stato anche il battage dei mezzi di comunicazione; ma la tendenza a fuggire serpeggia all'interno delle famiglie, i figli più piccoli prendono ispirazione dai più grandi. Quando la polizia aveva inserito i dati dei Devlin al computer, era emersa la storia della fuga di Rosalind, e probabilmente avevano ipotizzato che Katy avesse fatto la stessa cosa. Un piccolo screzio con i genitori, ed era scappata da un'amica. Anche lei, come Rosalind, sarebbe tornata non appena si fosse calmata, e non sarebbe successo altro.

Ero malignamente compiaciuto che Vera fosse rimasta sveglia tutta la notte del lunedì. Anche se era orribile da ammettere, avevo avuto dei momenti di preoccupazione sia per Jessica sia per Rosalind. Jessica non sembrava forte di suo, mentre invece appariva decisamente poco equilibrata, e il luogo comune secondo il quale la pazzia rende forti ha un fondamento di verità. Era assai improbabile che non fosse stata gelosa di tutta l'adulazione che Katy riceveva. Rosalind era ipersensibile e protettiva fino all'eccesso nei confronti di Jessica, e se il successo di Katy aveva spinto la gemella sempre più nel suo ottundimento… Anche Cassie doveva averlo pensato, ma non mi aveva detto niente e per qualche motivo la cosa mi dava sui nervi.

«Voglio sapere perché Rosalind è scappata di casa» dissi, mentre percorrevamo il vialetto dei Foley. La figlia di mezzo aveva il naso schiacciato contro la finestra del salotto e ci stava facendo delle boccacce.

«E dove è andata» aggiunse Cassie. «Le parli tu? Credo che otterresti più di me.»

«A dire il vero» ammisi con fare goffo, «era lei al telefono prima. Viene domani pomeriggio. Dice di avere una cosa di cui parlare.»

Cassie, che stava infilando il blocco nella borsa, si girò per lanciarmi una lunga occhiata che non riuscii a interpretare. Per un momento mi chiesi se non si fosse offesa perché Rosalind aveva telefonato a me e non a lei. Eravamo abituati al fatto che lei fosse la preferita delle famiglie e provai una puerile e vergognosa scintilla di trionfo: c'era qualcuno che preferiva me e basta. Il mio rapporto con Cassie ha una sfumatura da fratello e sorella che funziona bene, ma ogni tanto porta anche alla classica rivalità che c'è tra fratelli. Poi lei disse: «Perfetto, così potrai tirare fuori la faccenda della fuga come se niente fosse».

Si buttò la sacca sulle spalle e proseguimmo. Scrutava l'orizzonte – oltre i campi verdi e assolati, con il belare delle pecore che ci veniva portato debolmente dal vento – e teneva le mani in tasca. Non riuscivo a capire se era arrabbiata con me per non averla informata della telefonata di Rosalind Devlin, cosa che, a essere onesti, avrei dovuto fare. Le diedi una piccola gomitata, per vedere come buttava. Pochi passi dopo, allungò la gamba e mi assestò una pedata nel culo.


Trascorremmo il resto del pomeriggio nel porta-a-porta. È un'attività noiosa e ingrata. Gli agenti di supporto l'avevano già fatto, ma volevamo avere un'idea di cosa pensassero dei Devlin i loro vicini. L'opinione generale era che si trattava di una famiglia rispettabile ma che stava molto sulle sue, il che non veniva particolarmente apprezzato: in un luogo delle dimensioni e con la classe sociale di Knocknaree, qualsiasi tipo di riservatezza viene considerata una specie di insulto, a un niente dall'imperdonabile peccato di snobismo. Per Katy, invece, era diverso: il posto alla Royal Ballet School l'aveva resa l'orgoglio di Knocknaree, la causa personale da portare avanti. Anche i nuclei familiari più indigenti avevano dato qualcosa alla raccolta fondi, tutti volevano descriverci come ballava, alcune persone piansero. Molti di quelli che avevano aderito alla campagna di Jonathan Devlin contro l'autostrada ci guardarono male quando chiedemmo di lui. Alcuni si dilungarono in discorsi infiammati su come stesse cercando di arrestare il progresso e indebolire l'economia. Questi si meritarono delle stelline speciali sul mio blocco degli appunti. Quasi tutti erano dell'opinione che Jessica non fosse una cima.

Quando chiedemmo se avevano visto qualcosa di sospetto, ci parlarono dei soliti tipi strambi locali – un vecchio che urlava ai bidoni, due quattordicenni con la fama di annegare gatti nel fiume – e di irrilevanti faide ancora in corso, oltre che di cose minori che producevano rumori misteriosi la notte. Un certo numero di persone, nessuno però con informazioni utili, menzionò il vecchio caso: finché non erano saltati fuori gli scavi archeologici, l'autostrada e Katy, era stato l'unico fatto che aveva dato notorietà a Knocknaree. Mi parve di riconoscere alcuni nomi, un paio di facce. A costoro riservai il mio miglior comportamento professionale e neutro.

Dopo circa un'ora di questo pellegrinaggio, arrivammo al 27 di Knocknaree Drive e trovammo la signora Pamela Fitzgerald, ancora incredibilmente viva e vegeta. A 88 anni, magrissima e quasi piegata in due, era un vero fenomeno. Ci offrì del tè, ignorò il nostro rifiuto e ci parlò gridando dalla cucina mentre preparava un vassoio stracolmo di cose. Poi ci chiese se avevamo notizie della borsa che un giovinastro le aveva scippato in città, tre mesi prima, e quando confessammo che non l'avevamo ritrovata ce ne chiese il perché. Era strano, dopo aver letto la sua sbiadita calligrafia nel vecchio fascicolo, sentirla lamentarsi delle caviglie gonfie («Mi fanno letteralmente impazzire, ecco cosa») e rifiutarsi strenuamente di lasciarmi portare il vassoio. Era come se Tutankhamon fosse capitato al pub, una sera, e avesse cominciato a parlar male della schiuma della birra.

Era di Dublino, ci raccontò. «Ci sono nata, vissuta e pasciuta, proprio così.» Si era però trasferita lì ventisette anni prima, quando suo marito, «che riposi in pace», era andato in pensione e aveva smesso di fare il ferroviere. Da allora, Knocknaree era stato il suo microcosmo ed ero più che certo che potesse fare l'elenco di tutti quelli che erano andati e venuti e di tutti gli scandali che si erano succeduti, con l'energico, benevolo coinvolgimento di un giocatore di Sim City.

Naturalmente conosceva i Devlin e le piacevano. «Ah, sono proprio una bella famigliola. Lei è sempre stata una così brava ragazza, Margaret Kelly, mai dato da pensare a sua madre, tranne quando» e si piegò da una parte verso Cassie, abbassando la voce con fare cospiratore, «tranne quando rimase incinta. E comunque, cara, il governo e la Chiesa blaterano sempre su quanto sia scioccante la gravidanza in una ragazza molto giovane, ma per me non è sempre così male. Quel Devlin era un po' una canaglia, proprio così, ma non appena la piccolina nacque, lui cambiò da così a così. Si trovò un lavoro, una casa e organizzarono un gran bel matrimonio. Cambiò completamente. È terribile quello che invece è successo a quella povera bambina, che possa riposare in pace.»

Si fece il segno della croce e mi diede un buffetto su un braccio. «E lei arriva fin qui dall'Inghilterra per scoprire chi è stato? Non è meraviglioso? Che Dio la benedica, ragazzo mio.»

«Che vecchietta incredibile» commentai, una volta usciti. La signora Fitzgerald mi aveva tirato su il morale immensamente. «Spero di avere la stessa energia quando avrò la sua età.»


Staccammo poco prima delle sei e ci recammo al pub locale, Mooney's, di fianco al negozio, per guardare il telegiornale. Avevamo coperto solo un parte dell'abitato ma ci eravamo fatti un'idea dell'atmosfera generale. È poi era stata una giornata lunga; l'incontro con Cooper sembrava aver avuto luogo almeno quarantotto ore prima. Avevo l'impulso orribile, come quello che a volte si sente di mettersi a premere allarmi o di saltare da un edificio altissimo, di continuare finché non avessimo raggiunto la mia vecchia strada, di vedere se la madre di Jamie sarebbe venuta ad aprire, di scoprire com'erano ora i fratelli e le sorelle di Peter, chi viveva nella mia vecchia stanza, anche se sapevo che non sarebbe stata una buona idea.

Mooney's era il tipico pub di provincia: sedili in finta pelle che si strappava lungo le cuciture, un paio di poster pubblicitari della Guinness incorniciati e un altro che diceva "Dieci ragioni per cui una birra è meglio di una donna", tre vecchi che probabilmente erano già lì quando erano state montate le spine per distillare la birra. Avevamo scelto l'orario perfetto: mentre stavo portando il caffè al nostro tavolo, il barista alzò il volume della TV e il telegiornale ebbe inizio, introdotto da un brano di musica sintetica.

Katy era in apertura; i presentatori in studio avevano l'aria adeguatamente contrita, con le voci che vibravano accorate alla fine di ogni frase per sottolineare la tragedia. La foto dell'"Irish Times" comparve in un angolo dello schermo. «La ragazza trovata morta ieri nel controverso sito archeologico di Knocknaree è stata identificata per Katharine Devlin, di dodici anni» attaccò lo speaker. Il colore del televisore era stato selezionato male, o lui si era truccato troppo, perché aveva la faccia arancione e il bianco degli occhi era di un bagliore spaventoso. I vecchietti si svegliarono e spostarono lentamente la testa verso lo schermo, mentre si udiva il tintinnio dei bicchieri che venivano appoggiati sul bancone. «Katharine era scomparsa da casa martedì mattina presto. I gardaí hanno confermato che la morte è sospetta e hanno fatto appello a chiunque abbia qualche informazione di farsi avanti.» Alla base dello schermo apparve il numero della linea telefonica per chi voleva fornire informazioni, lettere bianche in sovrimpressione. «Orla Manahan in diretta dal luogo della tragedia.»

L'immagine passò a una bionda con i capelli congelati dalla piega e il naso prominente che, in piedi davanti alla pietra sacrificale, non sembrava fare nulla che richiedesse la presenza di qualcuno per un servizio in diretta. La gente aveva già cominciato a lasciarvi tributi: fiori avvolti nel cellophane colorato, un orsacchiotto rosa. Sullo sfondo, un pezzo del nastro per delimitare la scena del crimine lasciato lì dal team di Sophie sventolava desolato da un albero.

«Questo è il luogo dove, appena ieri mattina, il corpo della piccola Katy Devlin è stato trovato.» Era abbastanza stupefacente ma la bionda aveva la "s" blesa. «Nonostante la giovane età, Katy era ben nota nella piccola ma unita comunità di Knocknaree; si era appena aggiudicata un posto alla prestigiosa Royal Ballet School, dove avrebbe dovuto cominciare a studiare tra poche settimane. Oggi, gli abitanti della zona sono affranti per la tragica morte della bambina, che era tutto il loro orgoglio e la loro gioia.»

Una telecamera a mano inquadrò un'anziana signora con un fazzoletto fiorato sulla testa, fuori dal negozio di Lowry. «È una cosa orrenda.» Lunga pausa mentre guardava in basso e scuoteva la testa, con la bocca che bisbigliava qualcosa. Un tipo in bicicletta passò dietro di lei e guardò la telecamera con aria da allocco. «È terribile. Stiamo dicendo tutti delle preghiere per la famiglia. Chi avrebbe mai potuto voler fare del male a quella meravigliosa bambina?» Dagli anziani al bancone si levò un mormorio arrabbiato.

Di nuovo la bionda. «Questa però porrebbe non essere la prima morte violenta che ha visto Knocknaree. Migliaia di anni fa, questa pietra» la indicò con il braccio come avrebbe fatto un agente immobiliare con una cucina appena finita di montare «era un altare cerimoniale dove gli archeologi dicono che i Druidi potrebbero avere praticato sacrifici umani. Questo pomeriggio però i gardaí hanno detto che non ci sono prove che la morte di Katy sia opera di una setta religiosa.»

Stacco su O'Kelly, davanti a un imponente cartone con impresso il simbolo della Garda. Indossava una disgustosa giacca a scacchi che, alla TV, sembrava incresparsi in piccole onde. Si schiarì la voce e presentò i punti del nostro elenco; Cassie protese una mano, senza distogliere gli occhi dallo schermo, e fu così che guadagnai un biglietto da cinque.

Di nuovo il presentatore arancione. «E Knocknaree nasconde un altro mistero. Nel 1984, due bambini del luogo…» Lo schermo si riempì di quelle vecchie foto scolastiche: Peter con un largo sorriso sotto la frangetta, Jamie, che odiava farsi fotografare ma era riuscita a tirare fuori un mezzo sorriso, di quelli fatti per accontentare gli adulti.

«Ci siamo» commentai, cercando di apparire disinvolto e ironico.

Cassie sorseggiò il caffè. «Lo dirai a O'Kelly?» mi chiese.

Mi aspettavo che me lo chiedesse e conoscevo bene i motivi per cui me lo chiedeva, ma ugualmente la cosa mi sferzò. Lanciai un'occhiata ai tipi al bar, intenti a guardare lo schermo. «No» risposi. «Sarei allontanato dal caso e io invece voglio lavorarci, Cass.»

Annuì lentamente. «Lo so. Se lo scopre, però…»

Se l'avesse scoperto, con molte probabilità saremmo stati rispediti entrambi al servizio in divisa, o quantomeno saremmo stati espulsi dalla squadra. Avevo cercato di non pensarci. «Non lo scoprirà» la rassicurai. «Come potrebbe? E se dovesse succedere, diremo che tu non avevi idea.»

«Non ci crederebbe nemmeno per un secondo. E poi, comunque, non è questo il punto.»

Vecchie riprese sfuocate di un poliziotto con un pastore tedesco iperattivo che si infilavano nel bosco. Un sommozzatore che usciva dal fiume e scuoteva la testa. «Cassie» dissi, «so quello che ti sto chiedendo, ma devo farlo. Non farò scoppiare un casino.»

Vidi che sbatteva rapidamente le ciglia e mi resi conto che dovevo aver avuto un tono più disperato di quanto non avessi voluto. «Non sappiamo nemmeno se c'è un legame» aggiunsi, più pacato. «E se c'è, potrei finire per ricordare qualcosa che potrebbe essere utile alle indagini. Per favore, Cass. Stai dalla mia parte.»

Rimase in silenzio per un momento, a bere il caffè e a fissare pensierosa la TV. «C'è qualche possibilità che un giornalista particolarmente determinato possa…?»

«No» risposi subito. Come potete immaginare, ci avevo riflettuto molto. Neanche nel dossier si parlava del mio nuovo nome o della nuova scuola e quando ci eravamo trasferiti mio padre aveva dato alla polizia l'indirizzo di mia nonna. Lei è morta quando avevo circa vent'anni e la famiglia ha venduto la sua casa. «I miei genitori non sono sull'elenco e il mio numero è sotto il nome di Heather Quinn…»

«… e ora il tuo nome è Rob. Dovremmo essere a posto.»

Il "noi" e il tono pratico e tuttavia ponderato – come fosse riferito a una delle tante complicazioni che possono nascere in un'operazione di routine, dello stesso genere di un testimone riluttante o di un sospettato che si dava alla macchia – mi rianimarono. «Se dovesse andare tutto mostruosamente storto, ti assumerò per tenere a bada i paparazzi» scherzai.

«Grande! Imparerò il karate.»

Sullo schermo, le immagini di repertorio erano finite e la bionda si stava avviando al finale col botto. «… Ma per ora tutto ciò che la gente di Knocknaree può fare è attendere… e sperare.» Seguì una lunga e toccante panoramica sulla pietra sacrificale, per poi staccare sullo studio, dove il giornalista arancione passò alle ultime riguardanti un'infinita e deprimente causa legale.


Lasciammo la nostra roba da Cassie e andammo a fare una passeggiata sulla spiaggia. Adoro Sandymount. È già abbastanza bella nei rari pomeriggi veramente estivi, con un cielo blu da dépliant e le ragazze in prendisole con le spalle arrossate, ma per qualche motivo la preferisco nelle tipiche giornate irlandesi, quando il vento ti sbatte in faccia gli schizzi di pioggia e tutto scolora verso mezzi toni elusivi e puritani: nuvole grigio-bianche, mare grigio-verde fino alla linea d'orizzonte, il fluire della sabbia, di un fulvo chiaro sbiadito, cosparsa di conchiglie rotte e di curve ampie e astratte di un grigio spento dove la marea arriva in maniera irregolare. Cassie indossava pantaloni di velluto verde salvia e il suo grande montgomery color ruggine. Il vento le arrossava il naso. Si percepivano il sale, le alghe, la pioggia dolce e un che di casalingo: qualcuno che cucinava salsicce nelle grandi case georgiane che si affacciavano sulla spiaggia. Una bella ragazzona in calzoncini e cappellino da baseball, forse una studentessa americana, stava facendo jogging sulla riva, davanti a noi; lungo la passeggiata, una giovanissima mamma in tuta spingeva un passeggino doppio.

«A cosa stai pensando?» domandai.

Mi riferivo al caso, ovviamente, ma Cassie era di un umore pazzerello; lei sprigiona più energia della maggior parte delle persone che conosco, ed era rimasta seduta al chiuso quasi tutto il giorno. «Ma sentitelo! Già una donna che chiede a un uomo cosa sta pensando è un crimine assoluto… lei è troppo dipendente e bisognosa e lui se la dà a gambe… ma quando è l'inverso…»

«Comportati bene» le dissi, abbassandole il cappuccio sulla faccia.

«Aiuto! Mi stanno molestando!» gridò. «Chiamate la Commissione Pari Opportunità.» La mamma col passeggino ci rivolse uno sguardo acido.

«Sei troppo agitata. Calmati o ti riporto a casa senza gelato.»

Si buttò indietro il cappuccio e si mise a correre sulla spiaggia facendo ruote e capriole, con il montgomery che le si rivoltava sulle spalle. La mia prima impressione su Cassie era azzeccata: aveva fatto ginnastica per otto anni da bambina, e a quanto pareva era anche piuttosto brava. Aveva lasciato perdere perché le gare e la ripetitività la annoiavano; quello che amava erano le movenze, la loro geometria tesa, molleggiata, rischiosa. E anche dopo quindici anni, il suo corpo le ricordava ancora tutte. Quando la ripresi era senza fiato e si stava pulendo le mani dalla sabbia.

«Meglio?» chiesi.

«Molto. Dicevi?»

«Il caso. Lavoro. Persona morta.»

«Ah, quello…» Si fece subito seria. Si sistemò il cappotto e ci rimettemmo a camminare lungo la riva, strisciando i piedi su conchiglie semisepolte. Una fila di impronte di zampe zigzagava lungo il nostro percorso: quelle di un cane grosso, allegro e giocherellone, forse un retriever.

«Mi stavo chiedendo» disse Cassie, «com'erano Peter Savage e Jamie Rowan.»

Stava guardando un traghetto, piccolo e ben definito come un giocattolo, che si muoveva lento ma determinato lungo la linea dell'orizzonte; il suo volto, offerto alla pioggerellina, era imperscrutabile. «Perché?» chiesi.

«Non lo so, così.»

Ripensai a lungo alla domanda. I miei ricordi di loro si erano assottigliati per l'usura, fino a diventare dei lucidi trasparenti e colorati che svolazzavano sulle pareti della mia mente: Jamie che si arrampicava decisa e con piede sicuro su un ramo alto, la risata di Peter che si diffondeva nel bagliore trompe-l'œil del verde davanti a noi. Con un lento cambiamento di rotta erano diventati bambini di un inquietante libro di favole, miti luminosi risalenti a una civiltà perduta; era difficile credere che una volta erano stati reali e amici miei.

«In che senso?» chiesi alla fine, inutilmente. «Personalità, aspetto o cosa?»

Cassie fece spallucce. «Non so. Decidi tu.»

«Erano grandi più o meno come me» dissi. «Altezza media, immagino si possa dire. Entrambi di corporatura snella. Jamie aveva i capelli biondo platino, tagliati a caschetto, il naso schiacciato e all'insù. Peter aveva i capelli castano chiaro, con quel taglio moscio che hanno i bambini quando sono le madri a occuparsi dell'acconciatura, e gli occhi verdi. Credo che probabilmente sarebbe diventato molto bello.»

«E le loro personalità?» Cassie mi lanciò uno sguardo; il vento le appiattiva i capelli sulla testa e li rendeva lustri come la pelliccia di una foca. Ogni tanto, quando andavamo a fare delle passeggiate, mi prendeva sottobraccio, ma sapevo che questa volta non l'avrebbe fatto.

Durante il primo anno di collegio pensavo a loro costantemente. Avevo una nostalgia di casa devastante; lo so che capita a tutti i bambini, in quella situazione, ma credo che il mio strazio andasse ben oltre la norma. Era un'agonia costante e impietosa, che consumava come un mal di denti. All'inizio di ogni trimestre dovevano tirarmi fuori a forza, urlante, dall'auto e trascinarmi dentro mentre i miei genitori ripartivano. Sicuramente starete pensando che questo tipo di atteggiamento mi avesse reso un obiettivo perfetto per i bulli; be', in realtà mi lasciavano assolutamente in pace, rendendosi conto, immagino, che nulla di ciò che avrebbero potuto infliggermi mi avrebbe fatto sentire peggio. Non che la scuola fosse un inferno o roba del genere, anzi, credo che per essere un collegio non fosse neanche malaccio: una scuola non troppo grande, in campagna, con un sistema complicato di attività che i più piccoli svolgevano per gli studenti più "anziani" e una specie di ossessione per squadre e punteggi e vari altri cliché. Semplicemente, tutto ciò che volevo, più di quanto non avessi voluto qualsiasi altra cosa nella mia vita, era tornare a casa.

Ce la feci, come nella più scontata delle tradizioni dei bambini, rifugiandomi nell'immaginazione. Sedevo su sedie traballanti durante assemblee soporifere e mi immaginavo Jamie che si agitava di fianco a me, ricostruivo ogni suo più piccolo dettaglio, la forma delle rotule, il modo che aveva di inclinare la testa. La notte stavo sveglio per ore, con gli altri ragazzi che russavano o bisbigliavano intorno a me, e mi concentravo con ogni cellula del corpo fino a sapere, oltre ogni ragionevole dubbio, che una volta aperti gli occhi Peter sarebbe stato nel letto accanto al mio. Mandavo messaggi in bottiglia lungo il ruscello che attraversava i terreni della scuola: "Per Peter e Jamie. Per favore tornate, vi prego. Adam". Capite, sapevo di essere stato mandato via perché erano scomparsi e sapevo che se fossero riapparsi venendo fuori dal bosco di corsa, una sera, sporchi e pizzicati dalle ortiche, esigendo la cena, mi avrebbero dato il permesso di tornare a casa.

«Jamie era un maschiaccio» dissi. «Era molto timida con gli estranei, soprattutto gli adulti, ma dal punto di vista fisico era senza paura. Vi sareste piaciute, voi due.»

Cassie mi lanciò un mezzo sorriso, di sghembo. «Nel 1984 avevo solo dieci anni, te lo ricordi? Non mi avreste nemmeno rivolto la parola.»

Ero arrivato a pensare al 1984 come a un mondo privato, a parte; fu una specie di shock rendermi conto che anche Cassie c'era stata, e a pochi chilometri di distanza soltanto. Nel momento in cui Peter e Jamie svanivano nel nulla lei stava facendo qualcosa, magari giocava con delle amiche o andava in bici o cenava, ignara di ciò che stava accadendo e dei lunghi e complicati percorsi che l'avrebbero condotta a me e a Knocknaree. «Infatti, non l'avremmo mai fatto» dissi. «Ti avremmo detto: "Dacci i soldi del tuo pranzo, piccola citrulla".»

«Lo fai anche oggi. Va' avanti.»

«Sua madre era una specie di hippie, tutta ampie gonne struscianti e capelli lunghi. E per la merenda a scuola dava sempre a Jamie yogurt con germe di grano.»

«Ah, però!» fu il commento di Cassie. «Non immaginavo neanche che si trovasse il germe di grano negli anni Ottanta. Sempre che lo si volesse mangiare.»

«Credo fosse figlia illegittima, Jamie intendo, non sua madre. Suo padre non c'era. Alcuni bambini la prendevano in giro per questo, finché non ne picchiò uno. Dopo quella volta, chiesi a mia madre dov'era il papà di Jamie, e lei mi rispose di farmi i fatti miei.» Lo avevo chiesto anche a Jamie e lei aveva fatto spallucce e aveva risposto: «E chi se ne frega?».

«E Peter?»

«Peter era il capo» dissi. «Da sempre, anche quando eravamo piccolissimi. Riusciva a parlare con chiunque e parlando ci toglieva sempre da qualsiasi impiccio. Non che fosse un saputello, non lo era per niente, ma era sicuro di sé e gli piaceva la gente. E poi era gentile.»

C'era un bambino nella nostra strada, Willy Little. Il nome stesso, più o meno l'equivalente di Pisellino, sarebbe bastato a causargli guai a sufficienza… mi chiedo a cosa diavolo stessero pensando i suoi genitori quando gli avevano dato quel nome. A parte questo, aveva le lenti degli occhiali spesse come fondi di bottiglia, e per problemi respiratori indossava tutto l'anno grossi maglioni fatti a mano con coniglietti sul davanti, oltre a cominciare tutte le sue frasi con: «La mia mamma dice che…». L'avevamo torturato allegramente tutta la vita, facendogli dei disegnini sui quaderni, sputandogli in testa dalla cima degli alberi, tenendo da parte le cacche del coniglio di Peter e dicendogli che erano uvette ricoperte di cioccolato, quel genere di cose… Ma l'estate dei nostri dodici anni Peter ci fece smettere. «Non è giusto» disse. «Non è colpa sua.»

Jamie e io non eravamo completamente d'accordo. Willy poteva benissimo farsi chiamare Bill e smettere di dire alla gente cosa ne pensava sua madre delle cose, sostenevamo, ma la smettemmo di tormentarlo. Mi sentivo in colpa per cui la volta dopo che lo vidi gli offrii una mezza barretta di Mars, ma lui, comprensibilmente, mi guardò con fare sospettoso e se la filò. Mi chiesi distrattamente cosa ne fosse stato di Willy. In un film sarebbe diventato un genio, vincitore del premio Nobel, con una moglie top model; ma visto che la vita reale era un'altra, probabilmente si stava guadagnando da vivere come cavia per la ricerca medica e continuava a portare maglioni con i coniglietti.

«È una cosa rara» disse Cassie. «La maggior parte dei bambini a quell'età è pestifera. Io di certo lo ero.»

«Credo che Peter fosse un bambino speciale» commentai.

Si fermò a raccogliere una conchiglia di un brillante colore arancione e la esaminò attentamente. «C'è ancora la possibilità che siano vivi, vero?» Ripulì la conchiglia dalla sabbia contro la manica e ci soffiò sopra. «Da qualche parte.»

«Immagino di sì» concessi. Peter e Jamie, là fuori da qualche parte, puntini di volti che si fondevano in una folla dal movimento rapido. Quando avevo dodici anni, in qualche modo, quella era per me l'ipotesi peggiore: che quel giorno avessero semplicemente continuato a correre, che mi avessero lasciato indietro e che non si fossero mai voltati. Ancora oggi mi è rimasta l'abitudine di osservare con attenzione tutte le facce che incontro, e di cercarli in mezzo alla ressa, negli aeroporti, ai concerti, nelle stazioni ferroviarie; adesso meno, ma quando ero più giovane mi prendeva una sorta di panico che mi costringeva a voltare la testa a destra e a sinistra come il personaggio di un cartone animato, terrorizzato all'idea che proprio il viso che stavo perdendo potesse essere di uno di loro. «Però ne dubito, c'era un sacco di sangue.»

Cassie, che si stava mettendo la conchiglia in tasca, mi fissò per un istante. «I dettagli non li conosco.»

«Ti lascio il fascicolo» le risposi. Mi seccò che mi fosse costato un certo sforzo per dirglielo, come se le stessi consegnando il mio diario o qualcosa del genere. «Vediamo cosa ne tiri fuori tu.»

La marea cominciava a salire. La spiaggia di Sandymount discende così dolcemente che con la bassa marea il mare è quasi invisibile, un minuscolo bordo grigio all'orizzonte. Ma poi ripiomba con una velocità da capogiro da ogni direzione, contemporaneamente, e a volte la gente rimane bloccata. Ancora pochi minuti e sarebbe arrivata ai nostri piedi. «Sarà meglio rientrare» disse Cassie. «Viene Sam a cena, ricordi?»

«Ah, giusto» risposi, senza tanto entusiasmo. Sam mi piace, Sam piace a tutti, tranne che a Cooper, ma non ero certo di essere dell'umore per vedere altre persone. «Perché l'hai invitato?»

«Il caso?» fece lei, in tono soave. «Lavoro? Persona morta?» Le rivolsi una smorfia e lei mi ricambiò con un gran sorriso.

I due bambini nel passeggino si stavano picchiando con giocattoli dai colori brillanti. «Britney! Justin!» urlò la loro madre. «Piantatela o v'ammazzo tutti e due, cazzo!» Misi un braccio intorno al collo di Cassie e riuscii a spingerla a distanza di sicurezza prima di scoppiare a ridere.


Comunque, alla fine mi adattai alla vita di collegio. Quando i miei genitori mi accompagnarono all'inizio del secondo anno (con me che piangevo, imploravo, mi attaccavo alla maniglia della portiera dell'auto e il direttore che, schifato, mi agguantava alla vita e, a una a una, mi staccava le dita dal mio disperato appiglio) capii che, a prescindere da quello che avessi fatto o da quanto avessi pregato, non mi avrebbero lasciato tornare a casa. Smisi così di provare nostalgia di casa.

In realtà, credo di non avere avuto scelta. L'incessante infelicità del primo anno mi aveva consumato quasi al punto di rottura (mi ero abituato ai momenti di capogiro quando mi alzavo in piedi, momenti in cui non ricordavo il nome di un compagno o come si arrivava alla sala mensa) e anche la resistenza di un tredicenne ha i suoi limiti; ancora qualche mese così e probabilmente mi sarei ritrovato in preda a un imbarazzante crollo nervoso. Non ci arrivai perché nei momenti critici, come dicevo, emerge il mio istinto di sopravvivenza. Dopo quella prima notte del secondo anno, in cui piansi fino a sfinirmi, mi svegliai la mattina successiva e decisi, alla Rossella O'Hara, che non avrei più sentito nostalgia di casa.

Dopodiché scoprii, con un po' di sorpresa, che era relativamente facile abituarsi. Senza volerlo, avevo appreso lo strano slang della scuola, e nel giro di una settimana il mio accento passò dall'intonazione di Dublino a quella della zona intorno a Londra. Divenni amico di Charlie, che era seduto vicino a me durante le lezioni di geografia. Aveva una faccia tonda e solenne e una divertentissima e irresistibile risata chioccia. Quando fummo grandi abbastanza, condividemmo uno studio e delle canne sperimentali che ci aveva dato suo fratello, che stava a Cambridge. Facevamo anche lunghe, confuse e struggenti conversazioni sulle ragazze. I miei risultati accademici erano mediocri, per usare un eufemismo; mi ero così assuefatto all'idea della scuola come di un destino al quale non si poteva sfuggire che avevo difficoltà a immaginare che ci potesse essere qualcosa a quel microcosmo, e quindi mi era quasi impossibile ricordare perché in teoria stessi studiando. Mi rivelai però un bravo nuotatore, tanto da permettermi di entrare nella squadra della scuola, il che mi fece guadagnare molto più rispetto, sia dagli insegnanti sia dagli studenti, di quello che avrei ottenuto con buoni risultati agli esami. Al quinto anno, e non ho mai capito bene perché, divenni perfino prefect. Tendo ad attribuire la cosa, come anche la nomina alla Omicidi, al fatto che ho la faccia perfetta per quella parte.

Trascorsi molte delle vacanze a casa di Charlie, nello Herefordshire, mi innamorai delle sue sorelle e imparai a guidare con la vecchia Mercedes di suo padre: strade di campagna dissestate, finestrini abbassati e Bon Jovi a volume indecente dallo stereo, con noi che cantavamo con tutto il fiato che avevamo in corpo. Scoprii che non avevo più una gran voglia di tornare in Irlanda. La casa di Leixlip non mi diceva nulla, era scura e puzzava di umido. Inoltre mia madre aveva sistemato le mie cose nel modo sbagliato nella nuova stanza; l'impressione che ne ricavavo era come di estraneità, di qualcosa di temporaneo, quasi un rifugio messo assieme in fretta e furia, certamente non quella di trovarmi a casa. Tutti gli altri bambini della strada avevano tagli di capelli da far paura e, cosa per me incomprensibile, mi prendevano in giro per il mio accento.

I miei genitori avevano notato il cambiamento e, invece di essere contenti che mi fossi inserito a scuola, come sarebbe stato normale, sembravano presi alla sprovvista; erano nervosi in presenza di questa persona a cui non erano più abituati e che stava diventando padrona di sé. Mia madre andava in giro per casa in punta di piedi e mi chiedeva timidamente cosa volevo per cena; con colpetti di tosse e fruscii di giornale, mio padre cercava sempre di avviare conversazioni da uomo a uomo che invariabilmente si incagliavano contro il mio silenzio passivo e distratto. Razionalmente, avevo capito che mi avevano mandato in collegio per proteggermi dalle ondate di giornalisti, dai futili interrogatori della polizia e da compagni di classe curiosi. Ero anche consapevole che probabilmente era stata un'ottima decisione; ma nel profondo, una parte irragionevole di me credeva in maniera inoppugnabile e inesprimibile, e forse anche con un minimo di giustificazione, che il vero motivo per cui mi avevano mandato via era che avevano paura di me. Come un bambino deforme che non avrebbe mai dovuto superare i primi momenti di vita o un gemello siamese scampato alla separazione dall'altro, morto sotto i ferri, ero diventato – per il semplice fatto di essere sopravvissuto – uno scherzo della natura.


Sam arrivò puntuale, con l'aria del ragazzino al primo appuntamento – aveva anche cercato, invano, di sistemarsi i ciuffi ribelli -, portando con sé una bottiglia di vino. «Ecco, tieni» disse, porgendola a Cassie. «Non sapevo cosa avresti cucinato, ma il tipo del negozio ha detto che questa va bene praticamente con tutto.»

«È perfetta» gli disse Cassie, abbassando la musica (Ricky Martin in spagnolo; ha questa compilation che mette a tutto volume quando cucina o quando fa i lavori di casa), e andò a cercare in un armadio i bicchieri adatti. «Sto solo preparando della pasta. Il cavatappi è in quel cassetto. Rob, tesoro, devi anche girarlo, il sugo, non basta tenere il cucchiaio nella pentola.»

«Senti, Martha Stewart, lo faccio io o lo fai tu, questo sugo?»

«Nessuno dei due, a quanto pare. Sam, tu bevi vino o devi guidare al ritorno?»

«Maddox, stiamo parlando di pomodoro in scatola e basilico, non è esattamente haute cuisine…»

«Ti hanno rimosso il palato chirurgicamente alla nascita, o te la sei coltivata con cura quella totale mancanza di raffinatezza? Sam, vino?»

Sam sembrava un po' sconcertato. A volte, Cassie e io ci dimentichiamo che facciamo quest'effetto sulla gente, soprattutto quando siamo fuori servizio e di buonumore, come quella sera. So che suona strano, considerando quello che avevamo fatto durante il giorno, ma dove l'orrore è di casa come alla Omicidi, ai dipartimenti Crimini sessuali e Violenza domestica, o si impara a staccare o ci si fa trasferire alla Protezione del patrimonio artistico e dell'antiquariato. Se pensi troppo alle vittime, a cosa hanno sentito negli ultimi secondi di vita, a ciò che non faranno mai più, alle loro famiglie distrutte, ti ritrovi con un caso irrisolto e l'esaurimento nervoso. Ovviamente, avevo più difficoltà del solito a staccare; ma mi facevano bene la consolatoria routine della preparazione della cena e la possibilità di infastidire Cassie.

«Ehm… sì… grazie» ripose Sam. Si diede un'occhiata in giro un po' a disagio per capire dove appoggiare la giacca; Cassie gliela prese dalle mani e la gettò sul futon. «Mio zio ha una casa a Ballsbridge… sì, sì, lo so» disse, mentre facevamo quelli che rimanevano colpiti da quell'informazione, «e ho ancora la chiave. Qualche volta, quando mi faccio qualche pinta, rimango lì a dormire.» Spostò lo sguardo su noi due, in attesa di un commento.

«Bene» disse Cassie, infilandosi di nuovo nell'armadio e venendone fuori con un bicchiere da bibita con la scritta NUTELLA su un lato. «Non sopporto quando qualcuno beve e qualcuno no; la conversazione è tutta sconclusionata, dopo. A proposito, che gli hai fatto, a Cooper, si può sapere?»

Sam rise, si rilassò e trafficò alla ricerca del cavatappi. «Giuro che non è stata colpa mia. I miei primi tre casi sono arrivati tutti alle cinque del pomeriggio; l'ho chiamato che stava andando a casa.»

«Oh-oh» fece Cassie. «Cattivello Sam.»

«Sei fortunato che ti rivolga ancora la parola» rincarai.

«A stento» ammise Sam. «Continua ancora a far finta di non ricordarsi il mio nome. Mi chiama detective Neary o detective O'Nolan, anche in tribunale. Una volta mi ha chiamato con un nome diverso tutte le volte che mi ha citato e il giudice si è confuso a tal punto che quasi ha annullato il processo per vizio di forma. Grazie a Dio, voi due gli piacete, invece.»

«È tutto merito della scollatura di Ryan» disse Cassie, spostandomi con un colpo d'anca e buttando una manciata di sale nella pentola dell'acqua.

«Allora mi compro un Wonderbra» disse Sam. Stappò la bottiglia, versò il vino e ci mise i bicchieri nelle mani libere. «Salute, ragazzi. Grazie per avermi invitato. A che si risolva in fretta e non ci siano brutte sorprese.»


Dopo cena ci mettemmo al lavoro. Io preparai il caffè, Sam insistette per lavare i piatti. Cassie aveva gli appunti dell'autopsia e sparse le foto sul "tavolino", una vecchia cassapanca di legno lucidata con cera d'api fino a farla brillare. Lei si sedette sul pavimento e si mise a sfogliare i fogli avanti e indietro, mentre con l'altra mano mangiava ciliegie da una ciotola. Adoro osservare Cassie mentre è concentrata. Quando è totalmente presa, è del tutto assente, assorta come un bambino: si arrotola un ricciolo di capelli con un dito, piega le gambe ad angoli assurdi e apparentemente senza sforzo, cincischia con una penna in bocca e improvvisamente la estrae mormorando qualcosa tra sé e sé.

«Mentre aspettiamo la signorina "Vedo prevedo stravedo"» dissi a Sam, e Cassie mi mostrò il dito medio senza nemmeno sollevare lo sguardo, «come è andata la tua giornata?»

Sam stava sciacquando i piatti con la misurata efficienza dello scapolo. «Lunga. Musichette d'attesa e dipendenti statali che mi dicono di parlare con qualcun altro e poi mi passano una casella vocale. Non sarà facile come sembrava scoprire di chi è il terreno. Ho parlato con mio zio, gli ho chiesto se "Spostiamo l'autostrada" sta ottenendo qualche risultato.»

«E?» lo incalzai, cercando di non apparire cinico. Non avevo nulla in particolare contro Redmond O'Neill, solo la vaga immagine di un omone rubicondo con una selva di capelli argentei, niente di più. Però soffro di una forma di diffidenza generalizzata verso i politici.

«Ha detto di no. Sostanzialmente, dice lui, sono solo una rottura di…» Cassie sollevò lo sguardo e un sopracciglio. «Parole testuali. Sono anche arrivati in tribunale nel tentativo di fermare l'autostrada. Devo ancora controllare le date esatte, ma Red dice che le udienze sono avvenute alla fine di aprile, all'inizio di giugno e a metà luglio. Corrispondono ai periodi in cui Jonathan Devlin ha ricevuto le telefonate.»

«Evidentemente, qualcuno ha pensato che fossero più che una rottura» dissi.

«L'ultima volta, alcune settimane fa, quelli di "Spostiamo l'autostrada" hanno ottenuto un'ingiunzione, ma Red dice che verrà respinta in appello. Non è preoccupato.»

«Be', bene a sapersi» osservò Cassie.

«Quell'autostrada farà un sacco di bene, Cassie» aggiunse Sam con cautela. «Ci saranno case nuove, altri posti di lavoro…»

«Ne sono certa. Solo non capisco perché non potrebbe fare tutto quel bene a qualche centinaio di metri di distanza.»

Sam scosse la testa. «Questo non lo so. Non le capisco queste cose. Ma Red sì, e dice che è assolutamente necessario che passi in quel punto.»

Cassie stava per aprir bocca e aggiungere qualcosa, ma io colsi il luccichio nei suoi occhi e la fermai: «Smettila di rompere e tira fuori un profilo».

«Okay» cedette, mentre passavamo al caffè. «La cosa più interessante è che secondo me questo tipo non ci ha messo impegno.»

«Cosa?» esclamai. «Maddox, le ha dato due botte sulla testa e poi l'ha soffocata. Era molto, molto morta. Se non avesse voluto fare sul serio…»

«No, aspetta» intervenne Sam. «Voglio sentire.» Il mio lavoro nelle nostre sedute amatoriali di definizione dei profili è di fare l'avvocato del diavolo e Cassie è più che in grado di zittirmi se ci prendo troppo gusto, ma Sam ha una forma di cavalleria radicata e all'antica che trovo ammirevole, anche se un po' seccante. Risultato: Cassie a me lanciò una trionfante occhiata di traverso e a lui sorrise.

«Grazie, Sam. Come vi stavo dicendo, guardate: il primo colpo è stata solo una botta, neanche sufficiente per buttarla giù, figuriamoci per stenderla. Katy gli dava la schiena ed era ferma, cosicché lui avrebbe potuto fracassarle la testa, ma non l'ha fatto.»

«Non sapeva quanta forza fosse necessaria» disse Sam. «Non l'aveva mai fatto prima.» Sembrava infelice. Non per mancanza di sensibilità, ma spesso preferiamo che gli indizi portino verso un serial killer per avere un numero maggiore di prove da confrontare, più controlli incrociati da fare in caso di delitti successivi. Se il nostro uomo fosse stato alla sua prima volta non avremmo avuto altro se non ciò di cui disponevamo già.

«Cass?» chiesi. «Pensi che sia stata la sua prima volta?» Ma già mentre lo chiedevo, mi resi conto di non sapere quale risposta desiderare.

Allungò una mano verso le ciliegie, distrattamente, con gli occhi sempre sugli appunti, ma vidi che sbatteva le ciglia: sapeva cosa le stavo domandando. «Non ne sono certa. Non l'ha fatto spesso, o di recente, sennò non sarebbe stato così titubante; magari può averlo già fatto una o due volte, un po' di tempo fa. Non possiamo eliminare con certezza il legame con il vecchio caso.»

«È inusuale che un serial killer stia fermo vent'anni» dissi.

«Be'» proseguì Cassie, «di sicuro non sembrava averne troppa voglia questa volta. Lei lotta, lui le mette una mano sulla bocca, la colpisce di nuovo… magari mentre tenta di strisciare via, o qualcosa del genere, e quel colpo la stordisce. Invece di continuare a colpirla, anche se hanno lottato e lui a quel punto deve avere un tasso di adrenalina che gli arriva agli occhi, getta via il sasso e la soffoca. Non la strangola neppure, cosa che sarebbe stata molto più semplice: usa un sacchetto di plastica, e da dietro, così da non doverla guardare in faccia. Sta cercando di prendere le distanze dal crimine, di farlo sembrare meno violento. Più gentile.» Sam fece una smorfia.

«Oppure non vuole fare troppo casino» proposi.

«Okay, ma allora perché colpirla? Perché non saltarle addosso e metterle il sacchetto sulla testa? Credo che volesse che perdesse i sensi per non vederla soffrire.»

«Magari riteneva di non avere la forza sufficiente per sopraffarla se non fosse svenuta» suggerii. «Magari non è uno molto forte o, chissà, come ha detto Sam, era alla sua prima volta e non sapeva quanta forza ci volesse.»

«Va bene, forse un po' di tutt'e tre le cose. Sono d'accordo che siamo alla ricerca di una persona che non ha una lunga storia di violenze alle spalle, qualcuno che non ha nemmeno mai litigato con i compagni di ricreazione, che non verrebbe mai considerato aggressivo e che forse non ha neanche precedenti per violenza sessuale. Non credo che lo stupro sia stato realmente un reato sessuale.»

«Come? Solo perché ha usato un oggetto?» chiesi. «Lo sai che ci sono quelli che non riescono a farselo venire dritto.» Sam sbatté le palpebre e bevve un sorso di caffè per nascondere l'imbarazzo.

«Certo, ma allora sarebbe andato più… a fondo.» Tutti facemmo una smorfia. «Da quello che dice Cooper, è stato un gesto simbolico, un inserimento, niente sadismo, niente parossismo, solo qualche centimetro di abrasione, solo per rompere l'imene, ed è stato post mortem.»

«Potrebbe essere stato per scelta. Necrofilia.»

«Cristo» esplose Sam, mettendo giù la tazza del caffè.

Cassie cercò le sue sigarette, cambiò idea e ne prese una delle mie, più forti. Il suo volto, mentre reclinava la testa per accendere la sigaretta, apparve stanco e spento; mi chiesi se quella notte avrebbe sognato Katy Devlin, bianca, con le unghie che si spezzavano, bloccata a terra e nell'atto di gridare. «L'avrebbe tenuta più a lungo e, ripeto, ci sarebbero segni di violenza sessuale più chiari. No, non voleva farlo. L'ha fatto perché doveva.»

«Ha messo in scena uno stupro per metterci su una falsa pista?»

Cassie fece segno di no. «Non so… se avesse voluto depistarci, l'avrebbe svestita, le avrebbe divaricato le gambe. Invece, le tira su i pantaloni, glieli allaccia di nuovo… No, stavo pensando a qualcosa più sul genere della schizofrenia. Non sono quasi mai violenti, ma se per caso te ne becchi uno che ha smesso di prendere i farmaci e si trova nel bel mezzo di una fase paranoica, non si può mai dire. Magari ha creduto, per qualche motivo imponderabile, che Katy doveva essere uccisa e stuprata, anche se lui non riusciva a farlo. Questo spiegherebbe perché ha cercato di non farle del male, perché ha usato un oggetto, perché non sembra una violenza sessuale fino in fondo… non voleva che fosse… esposta e non voleva che nessuno pensasse a lui come a uno stupratore… Spiega perfino perché l'ha lasciata sull'altare…»

«E cioè?» Mi ripresi il pacchetto delle sigarette e lo lanciai a Sam, che sembrava proprio averne bisogno. Ma lui scosse la testa.

«Voglio dire, avrebbe potuto portarla nel bosco o chissà dove, e non l'avremmo trovata per secoli, o più semplicemente lasciarla lì, a terra. L'altare sembra una cosa studiata per metterla in mostra, ma non credo: non l'ha messa in posa, a parte appoggiarla sul lato sinistro, così da nascondere la ferita alla testa e, ancora una volta, nel tentativo di minimizzare il crimine. Credo che abbia voluto trattarla con cura, con rispetto… tenerla lontana dagli animali, accertarsi che fosse trovata in fretta.» Cassie si allungò verso il posacenere. «La cosa positiva è che se si tratta di uno schizofrenico che sta crollando, dovremmo poterlo individuare con facilità.»

«E se fosse un killer prezzolato?» chiesi. «Anche questa ipotesi spiegherebbe la riluttanza. Qualcuno, magari il telefonista misterioso, lo ha assoldato e lui si è trovato a fare un lavoro che non necessariamente doveva piacergli.»

«In effetti, un killer prezzolato – non un professionista ma un dilettante che aveva disperatamente bisogno di soldi – ci starebbe meglio» ammise Cassie. «Katy Devlin sembrava una ragazzina quadrata, non diresti, Rob?»

«La persona più a posto in quella famiglia.»

«Già, pare anche a me. Sveglia, decisa, con forza di volontà…»

«Non il tipo da uscire di notte con un estraneo.»

«Esatto. Specialmente con uno che non sembra avere tutte le rotelle funzionanti. E uno schizofrenico che sta andando in pezzi forse non sarebbe in grado di comportarsi in maniera sufficientemente normale da convincere un bambino sensato a seguirlo. È più probabile che questa persona sia presentabile, piacevole, buona con i bambini… magari qualcuno che conosceva da tempo. Qualcuno con cui si sentiva a suo agio. Uno che non sembrava rappresentare una minaccia.»

«O una lei» dissi io. «Quanto pesava Katy?»

Cassie scartabellò. «Quaranta chili. In base al luogo fin dove è stata trasportata… sì, una donna avrebbe potuto farcela, ma doveva essere una donna abbastanza forte. Sophie non ha trovato segni di trascinamento, quindi, statisticamente parlando, scommetterei su un uomo.»

«Stiamo eliminando i genitori?» chiese Sam, speranzoso.

Cassie fece una smorfia. «No. Diciamo che uno di loro abusava di lei e lei minacciava di rivelarlo: il genitore abusante, o magari l'altro, ha pensato che dovesse morire, per proteggere il resto della famiglia… magari ha cercato di inscenare un reato a sfondo sessuale ma poi non ha avuto cuore di andare fino in fondo. In sostanza, l'unica cosa di cui sono più o meno sicura è che non stiamo cercando uno psicopatico o un sadico. Il nostro tipo non è riuscito a disumanizzarla e non le piaceva vederla soffrire. Stiamo cercando qualcuno che non voleva farlo; qualcuno che l'ha fatto per necessità. Non credo che si infilerà nell'indagine, non per attirare l'attenzione o cose del genere, e non credo che lo rifarà molto presto, a meno che non si senta in qualche modo minacciato. E poi, quasi sicuramente, è uno della zona. Un vero profiler potrebbe essere molto più specifico ma…»

«Ti sei laureata al Trinity, vero?» chiese Sam.

Cassie fece segno di no con la testa e prese altre ciliegie. «Ho mollato al quarto anno.»

«E perché mai?»

Cassie sputò un nocciolino nel palmo della mano e rivolse a Sam un sorriso che conoscevo, un sorriso talmente dolce che le schiacciava la faccia al punto che non le si vedevano più gli occhi. «Perché altrimenti voi come avreste fatto senza di me?»

Avrei potuto dirglielo io, a Sam, che Cassie non avrebbe risposto. Le avevo fatto la stessa domanda un sacco di volte, nel corso degli anni, e avevo ricevuto risposte che andavano da "Non c'era nessuno del tuo calibro da scocciare" a "Il rancio della mensa faceva schifo". C'è sempre stato qualcosa di enigmatico in Cassie; questa è una delle cose che mi piacciono di lei e mi piace soprattutto, paradossalmente, perché si tratta di una qualità che non è subito evidente: evasività elevata a livello di invisibilità. Ti dà l'impressione di essere aperta come un bambino, ed è vero, perché quello che vedi è effettivamente quello che ti becchi. Ma quello che non ti becchi è quello che vedi e non vedi, ed è il lato di Cassie che mi ha sempre intrigato. Anche dopo tutto quel tempo, sapevo che c'erano delle stanze dentro di lei di cui non avrei mai supposto l'esistenza e in cui, meno che mai, sarei potuto entrare. C'erano domande alle quali non rispondeva, argomenti che discuteva solo in astratto; se cercavo di incastrarla lei sgusciava via ridendo, con lo sguardo ironico, agile come una pattinatrice.

«Sei brava» concluse Sam. «Laurea o non laurea.»

Cassie sollevò un sopracciglio. «Aspetta di vedere se ho ragione prima di dirlo.»

«Perché l'ha tenuta un giorno intero?» chiesi. Questo aspetto continuava ad assillarmi a causa delle ovvie e orribili possibilità e per il fastidioso sospetto che, se per un qualche motivo non avesse dovuto disfarsene, avrebbe potuto tenersela più a lungo, forse per sempre; Katy sarebbe svanita nello stesso modo definitivo e silenzioso di Peter e Jamie.

«Se ho ragione sul resto, cioè sul fatto che si tenga a una certa distanza dal crimine, allora non è accaduto perché l'ha voluto lui. Se ne sarebbe sbarazzato anche prima, se l'è tenuta solo perché non aveva altra scelta.»

«Magari vive con altra gente e ha dovuto attendere che si togliessero dai piedi?»

«Sì… potrebbe essere. Ma, chissà, forse lo scavo non è stato una scelta casuale; magari doveva lasciarla lì, o forse era parte del grandioso piano che sta seguendo, oppure non dispone di un'auto e lo scavo era l'unico posto comodo. Questo collimerebbe con quanto ha dichiarato Mark, cioè che non ha visto passare un'auto, e significherebbe anche che il luogo dell'uccisione è nelle vicinanze, probabilmente in una delle case in fondo all'abitato. Magari ha cercato di abbandonare il cadavere il lunedì notte, ma c'era Mark nel bosco, col suo falò. L'assassino potrebbe averlo visto ed essersi spaventato. Ha dovuto nascondere Katy di nuovo e riprovarci la sera seguente.»

«Oppure il killer potrebbe essere proprio lui» dissi.

«Alibi per martedì sera.»

«Fornito da una ragazza che stravede per lui.»

«Mel non è la tipica scemetta che farebbe di tutto per il suo uomo. Ha una testa che funziona ed è abbastanza sveglia per rendersi conto che si tratta di una faccenda seria. Se Mark fosse saltato fuori dal letto nel bel mezzo dell'azione per farsi una lunga passeggiata, ce l'avrebbe detto.»

«Potrebbe avere un complice. Mel o qualcun altro.»

«E poi cosa? Hanno nascosto il corpo sulla collinetta erbosa?»

«Quale movente avrebbe avuto?» chiese Sam. Era rimasto a mangiare ciliegie e a guardarci con interesse.

«Che è matto come un cavallo» risposi. «Tu non l'hai sentito. È normalissimo per la maggior parte delle cose, abbastanza normale da rassicurare un bambino, Cass, ma fallo parlare del sito e comincia a blaterare di sacrilegio e adorazione… Il sito è minacciato dall'autostrada. Magari ha pensato che un bel sacrificio umano agli dei, proprio come ai bei tempi andati, li avrebbe fatti intervenire per salvarlo. Quando si tratta del sito, va fuori di testa.»

«Se saltasse fuori che è un sacrificio pagano» disse Sam, «non vorrei proprio essere io a dirlo a O'Kelly.»

«Io voto perché sia lui stesso a dirglielo: noi ci occuperemo di vendere i biglietti dello spettacolo.»

«Mark non è fuori di testa» sostenne Cassie con fermezza.

«Sì, invece.»

«No, non è matto. Il suo lavoro è il centro attorno al quale ruota tutta la sua vita. Questo non vuol dire essere matti.»

«Avresti dovuto vederli» continuai, rivolto a Sam. «Sembrava più un appuntamento che un interrogatorio. Maddox che annuiva, sbatteva gli occhioni, gli diceva che capiva esattamente quello che provava…»

«Ed è vero» mi interruppe Cassie. Lasciò gli appunti di Cooper, si tirò su e si mise sul futon. «E non sbattevo gli occhioni. Quando lo farò, te ne accorgerai, eccome se te ne accorgerai.»

«Quindi, preghi anche tu il Dio del Patrimonio storico?»

«No, scemo che non sei altro. Zitto e ascolta. Ho una teoria su Mark.» Cassie si tolse le scarpe, le scalciò via e ripiegò i piedi sotto il sedere.

«Oh, Dio» esclamai. «Sam, spero che tu non abbia fretta.»

«Ho sempre tempo per una teoria che funziona» rispose Sam. «Posso avere da bere, tanto per accompagnare la cosa, se abbiamo finito di lavorare?»

«Ottima mossa» gli dissi.

Cassie mi diede una spinta col piede. «Trova del whisky o quello che ti pare.» Le ributtai indietro il piede e mi alzai. «Okay» cominciò, «dobbiamo tutti credere in qualcosa, no?»

«Perché?» chiesi, in tono polemico. Trovavo la situazione al tempo stesso stimolante e un po' sconcertante. Io non sono religioso, e neppure Cassie, per quel che ne sapevo.

«Perché sì. È sempre stato così, in tutte le società del mondo non è mai mancata una qualche forma di credenza. Ma ora… quanta gente conosci che è cristiana, e non dico perché va in chiesa, intendo veramente cristiana, che cerca di fare le cose così come le avrebbe fatte Gesù Cristo? E non è che la gente possa aver fede nelle ideologie politiche. Il nostro governo non ce l'ha neanche, un'ideologia, per quel che vedo io…»

«Le bustarelle» dissi, da sopra la spalla. «Ecco un'ideologia.»

«Ehi» protestò Sam in tono mite.

«Scusa» dissi. «Non intendevo nessuno in particolare.» Annuì.

«Neanch'io, Sam» disse Cassie. «Volevo solo dire che non c'è una filosofia generale. Così la gente deve farsela, la propria fede.»

Trovai whisky, Coca, ghiaccio e tre bicchieri e portai il tutto in un solo viaggio sul tavolino da caffè. «Che intendi? Le nuove chiese? Tutti quegli yuppy new age che fanno sesso tantrico e applicano il feng shui ai loro SUV?»

«Anche loro, sì, ma pensavo soprattutto alla gente che tira fuori una religione da qualcosa di completamente diverso. Come il denaro. È la cosa più vicina all'ideologia che ha il governo, e non sto parlando di bustarelle, Sam. Oggi non è solo una sfortuna avere un lavoro pagato poco, l'hai notato? È una cosa da irresponsabili: non sei un buon membro della società, sei un essere davvero spregevole se non hai una casa grande e il macchinone.»

«Ma se chiedi l'aumento» mi intromisi, dando una gran botta allo stampo dei cubetti di ghiaccio, «sei il birbante che minaccia i margini di profitto del tuo datore di lavoro, dopo tutto quello che lui ha fatto per l'economia.»

«Esattamente. Se non sei ricco, sei un essere inferiore che non dovrebbe avere la pretesa di aspettarsi uno stipendio decente da noi, gente per bene.»

«Avanti, su» disse Sam. «Non credo che vada così male.»

Seguì un breve, educato silenzio durante il quale raccolsi i cubetti di ghiaccio che si erano sparpagliati sul tavolino. Sam è per natura un inguaribile ottimista, ma proviene anche dal tipo di famiglia che possiede case a Ballsbridge; le sue opinioni sulle questioni socio-economiche, per quanto rispettabili, non potevano essere considerate propriamente oggettive.

«L'altra grande religione di questi tempi» continuò Cassie, «è il corpo. Tutti quegli spot pubblicitari tanto paternalistici e gli editoriali sul bere, sul fumo, sulla forma fisica…»

Stavo versando e intanto guardavo Sam perché mi indicasse quando fermarmi. Sollevò una mano e mi sorrise quando gli passai il bicchiere. «Mi fanno sempre venire voglia di vedere quante sigarette riesco a infilarmi in bocca, tutte in una volta» dissi. Cassie aveva allungato le gambe sul futon; io gliele spostai per potermi sedere, me le rimisi in grembo e cominciai a farla bere, tanto ghiaccio e tanta Coca.

«Anche a me. Ma quei servizi non si limitano a dire che certe cose fanno male alla salute, dicono anche che sono moralmente sbagliate. Dicono, sostanzialmente, che saresti una persona migliore se avessi la corretta percentuale di grasso corporeo e se facessi ginnastica un'ora al giorno, per non parlare di quella mostruosa serie di spot pieni di sussiego in cui si dice che non solo fumare è una cosa stupida da fare ma è anche, letteralmente, maligna. La gente ha bisogno di un codice morale che l'aiuti a prendere le decisioni; tutta questa virtù da yogurt biologico e questo moralismo finanziario servono solo a colmare un vuoto nel mercato. Ma il problema è che è tutto alla rovescia. Non è che fai la cosa giusta perché speri che ti ripaghi; la cosa moralmente giusta è per definizione quella che ti ripaga maggiormente.»

«Bevi, dai» le ordinai. Era tutta eccitata e gesticolava, si sporgeva in avanti, non pensava neanche più al bicchiere che aveva in mano. «Ma questo cos'ha a che vedere con quel matto di Mark?»

«Non è matto, zitto tu.» Cassie mi fece una boccaccia e prese un sorso dal bicchiere. «Sentite, Mark crede nell'archeologia, nel suo patrimonio storico. Quella è la sua fede. Non è una qualche astratta serie di principi e non riguarda il suo corpo o il suo conto in banca; è una parte concreta della sua vita, ogni giorno, che lo ripaghi oppure no. Lui ci vive dentro. Non è una follia, è sanità, e c'è qualcosa di sbagliato in una società dove le persone pensano che sia una cosa strana.»

«Quel tipo ha versato una cazzo di libagione a un dio dell'Età del Bronzo» precisai. «Non credo che ci sia qualcosa di particolarmente sbagliato in me se considero la cosa un po' strana. Dai, Sam, sostienimi.»

«Io?» Sam si era accomodato sul divano, ascoltava la conversazione e intanto, con la mano allungata, giochicchiava col mucchietto di sassi e conchiglie che stavano sul davanzale della finestra. «Io direi solo che è giovane. Con una moglie e qualche bambino si tranquillizzerà.»

Cassie e io ci guardammo e cominciammo a ridere. «Cosa?» fece lui.

«Niente» dissi. «Davvero!»

«Mi piacerebbe farti incontrare Mark e farvi bere un paio di pinte assieme» aggiunse Cassie.

«Lo rimetterei in riga in fretta» dichiarò Sam con pacatezza, il che ci fece ricominciare a ridere. Mi appoggiai con la schiena al futon e bevvi un sorso. Mi stavo proprio godendo quella conversazione. Era una bella serata, una serata allegra; una leggera pioggia batteva contro i vetri, Billie Holiday cantava in sottofondo ed ero contento, dopo tutto, che Cassie avesse invitato Sam. Stavo cominciando ad apprezzarlo di più. Tutti, decisi, dovrebbero avere un Sam intorno.

«Credi seriamente che dovremmo escludere Mark?» chiesi a Cassie. «Davvero?»

Bevve un sorso dal suo drink e si mise il bicchiere in equilibrio sullo stomaco. «Francamente, sì» rispose. «Indipendentemente dalla faccenda della follia. Come dicevo, ho la netta sensazione che chiunque sia stato, non fosse troppo convinto. Non riesco a immaginare Mark poco convinto su nulla, almeno nulla che lui ritenga importante.»

«Fortunato, questo Mark» commentò Sam, sorridendole dall'altro lato del tavolino.


«Allora» chiese Sam, più tardi, «come vi siete conosciuti, tu e Cassie?» Si sistemò meglio sul divano e allungò una mano verso il suo bicchiere.

«Come?» dissi. Era una domanda bizzarra, così dal nulla, e a essere onesti mi ero quasi dimenticato che Sam fosse lì. Cassie ha sempre in casa della roba buona da bere, del setoso whisky del Connemara che sa di fumo di torba, ed eravamo tutti un po' alticci; la conversazione stava cominciando languidamente a scemare. Sam si era disteso per leggere i titoli dei malandati tascabili nella libreria; io me ne stavo sdraiato sul futon, a pensare a niente di più arduo della musica. Cassie era in bagno. «Oh… quando è entrata nella squadra. Il suo motorino una sera non partiva e le ho dato un passaggio.»

«Ah, bene.» Sam sembrava un po' turbato, il che non era da lui. «All'inizio pensavo infatti che fosse così, che non vi conosceste da prima. Invece sembra che vi conosciate da secoli, così mi chiedevo se foste vecchi amici o… sì, insomma, hai capito.»

«Ci capita spesso» dissi. Era vero, la gente tendeva a dare per scontato che fossimo cugini o che fossimo cresciuti insieme o qualcosa del genere, e la cosa mi ha sempre riempito di una gioia privata e irragionevole. «Be'… ci siamo trovati molto bene, tutto qua.»

Sam annuì. «Tu e Cassie…» cominciò e si schiarì la gola.

«Cosa avrei fatto, io?» chiese sospettosa Cassie, allontanando i miei piedi per rimettersi sedere.

«Lo sa il cielo» risposi.

«Stavo solo chiedendo a Rob se vi conoscevate già prima di entrare alla Omicidi» spiegò Sam. «Dall'università o roba del genere.»

«Non sono andato all'università» precisai. Avevo l'impressione di sapere cosa era stato sul punto di chiedermi, ma anch'io gli avrei chiesto qualcosa, se solo Cassie non fosse tornata proprio in quel momento e se fossi stato in grado di trovare le parole giuste.

«Davvero?» si stupì Sam, ma cercò di non darlo a vedere. Questo è quello che volevo dire sulla faccenda dell'accento. «Pensavo al Trinity, che ne so, magari eravate andati a lezione insieme, o…»

«Mica eravamo gli unici due sulla faccia della terra, tipo Adamo ed Eva» disse Cassie con tono piatto, il che, dopo un raggelato istante, ci scatenò una ridarella impossibile da frenare, con gli sbuffi dal naso come capita ai bambini. Sam scosse la testa e sorrise.

«Uno più matto dell'altra» commentò, alzandosi per andare a svuotare il posacenere.


Era vero quello che avevo detto a Sam: non c'ero andato all'università. Presi la maturità per miracolo e con il voto ottenuto forse mi avrebbero accettato in una facoltà, da qualche parte, ma in realtà non feci domanda. Dissi a tutti che mi prendevo un anno sabbatico e i miei genitori, grati, colsero al volo l'espressione e la usarono come motivazione ufficiale, ripetendola a tutti i loro amici. La verità era che non volevo fare nulla, assolutamente nulla, il più a lungo possibile, magari per il resto della vita.

Charlie andò a studiare economia a Londra, così lo seguii: non c'erano altri luoghi dove dovessi o volessi stare. Suo padre gli pagava l'affitto di un lussuoso appartamento con i pavimenti di legno duro e il portiere che io in nessun modo mi sarei potuto permettere. Così mi cercai uno squallido monolocale in una zona di media pericolosità e Charlie si trovò un compagno d'appartamento, uno studente olandese in Erasmus che sarebbe tornato a casa a Natale. Il piano era che a quel punto mi sarei messo a lavorare per poter andare a vivere da lui, ma molto prima che arrivasse Natale fu chiaro che non mi sarei trasferito da nessuna parte, non solo per i soldi, ma perché, inaspettatamente, mi ero innamorato del mio loculo e della mia vita irregolare e alla deriva.

Dopo il collegio, la solitudine si rivelò inebriante. La prima notte che passai là, restai per ore steso sulla moquette appiccicosa, nella pozza arancione torbido del bagliore della città che entrava dalla finestra, a sentire gli esaltanti odori di spezie che si incuneavano nel corridoio, a individuare immagini misteriose nelle crepe del soffitto, ad ascoltare due tipi che, fuori, urlavano in russo e qualcuno che si esercitava a suonare il violino, e lentamente mi resi conto che non c'era una sola persona al mondo che potesse vedermi o chiedermi cosa stessi facendo o dirmi di fare altro. Mi sentivo come se il mio monolocale da un momento all'altro si potesse staccare dal palazzo dentro una bolla di sapone luminosa per allontanarsi nella notte, rimbalzando mollemente sui tetti, sul fiume e sulle stelle.

Rimasi lì per quasi due anni. Per la maggior parte del tempo vivevo col sussidio di disoccupazione; di tanto in tanto, quando cominciavano a rompermi le scatole, o se volevo dei soldi per far colpo su una ragazza, lavoravo qualche settimana come traslocatore o come manovale. Non avevo bisogno di granché; i pochi abiti che avevo provenivano essenzialmente da negozi di vendite di beneficenza, potevo vivere perfettamente felice nutrendomi di spaghetti in scatola con sugo di carne e un po' di alcol ogni tanto e non è che frequentassi pub, discoteche o locali del genere. Inevitabilmente, Charlie e io ci allontanammo, e credo che la cosa cominciò la prima volta che, sconvolto, vide il monolocale in cui vivevo. Ci incontravamo per una pinta ogni dieci, quindici giorni e di tanto in tanto andavo a delle feste con lui e i suoi nuovi amici. Era in quelle occasioni che conoscevo gran parte delle ragazze e fu in una di quelle occasioni che conobbi anche l'angosciata Gemma col suo problema d'alcolismo. A quelle feste sarei forse potuto andarci più spesso, ma non ne avevo voglia. Erano gente simpatica, i suoi amici dell'università, ma parlavano un linguaggio che non capivo né ambivo di capire, pieno di battute chiare solo alla loro ristretta cerchia, abbreviazioni e pacche sulle spalle. Mi riusciva difficile dedicare loro la mia attenzione.

Non sono certo di ciò che feci in quei due anni. Per un bel po' di tempo, credo, nulla. So che questo è impensabile nella nostra società: avrei dovuto fare qualcosa e contribuire all'economia, qualsiasi cosa, o almeno migliorare la mia salute cardiovascolare, ma avevo scoperto in me un talento per una meravigliosa e impenitente pigrizia, del tipo che la maggior parte della gente non conosce più dopo l'infanzia. Avevo un prisma appeso alla finestra (l'avevo trovato in un negozietto che vendeva un po' di tutto a Camden; credo che in origine facesse parte di un candelabro) e passavo pomeriggi interi disteso sul letto a osservare le piccole scaglie di arcobaleno che lanciava per la stanza.

Lessi moltissimo. Ho sempre letto molto, il voto più alto della maturità era quello in letteratura inglese, ma in quei due anni mi abbuffai di libri con un'ingordigia voluttuosa, quasi erotica. Andavo alla biblioteca di quartiere e prendevo quanti più libri potevo. C'era una bibliotecaria con un forte istinto materno, alla quale dispiaceva vedere i buchi nei miei jeans, che me ne lasciava prendere più del lecito, di nascosto. Poi mi chiudevo nel mio monolocale e non facevo che leggere per una settimana. Preferivo i libri vecchi, più lo erano meglio era: Tolstoj, Poe, le tragedie del periodo di Giacomo I, una polverosa traduzione di Laclos. Quando alla fine riemergevo, annebbiato e confuso, mi ci volevano giorni per smettere di pensare con i loro ritmi algidi, rifiniti e cristallini.

Guardai anche tantissima TV. Non so perché, ma nell'affitto era inclusa la TV via cavo e nel corso del secondo anno mi appassionai ai documentari sui crimini veri che mandavano in onda la sera tardi, soprattutto su Discovery Channel: non per i crimini in se stessi, che avevo sempre trovato incredibilmente squallidi e primitivi, ma per le intricate strutture delle soluzioni. Amavo il coinvolgimento stabile e intenso con il quale quegli uomini – abili bostoniani dell'FBI, panciuti sceriffi texani – districavano con cura i fili e univano i pezzi del puzzle, fino a quando tutto andava al proprio posto e la risposta saltava fuori ai loro ordini e galleggiava nell'aria davanti a loro, brillante e inoppugnabile. Erano come dei maghi che gettavano una manciata di straccetti in un cilindro, lo percuotevano con la loro bacchetta e, tra squilli di trombe, sfilavano poi una striscia di seta perfetta; solo che qui era mille volte meglio perché le risposte erano vere, vitali e non c'erano trucchi, o perlomeno così pensavo io.

Sapevo che nella vita vera non funzionava così, non tutte le volte, almeno, ma mi colpì come una cosa sbalorditiva il fatto che potesse esserci un lavoro in cui esistesse persino una possibilità del genere. Quando, tutto nello stesso mese, Charlie si fidanzò, la padrona di casa mi comunicò che vendeva lo stabile e l'ufficio che emetteva gli assegni di disoccupazione mi informò che con gente come me non avrebbero più avuto nulla a che fare, mi parve ovvio reagire tornando in Irlanda, fare domanda alla scuola di polizia di Templemore e mettermi in fila per diventare detective. Non mi mancava il mio monolocale – al pianterreno si era trasferito un tipo che adorava dell'orribile musica rap, e comunque avevo cominciato ad annoiarmi -, ricordo però ancora quei due anni meravigliosi, irresponsabili, autoindulgenti, come uno dei periodi più felici della mia vita.


Sam se ne andò intorno alle 23.30; Ballsbridge è a pochi minuti a piedi da Sandymount. Mi lanciò una breve occhiata interrogativa, mentre si metteva la giacca. «Tu da che parti vai?»

«Mi sa che hai perso l'ultimo treno» mi disse tranquillamente Cassie. «Puoi sistemarti sul divano, se vuoi.»

Avrei potuto dirle che me ne sarei tornato a casa in taxi, ma decisi che forse aveva ragione lei: Sam non era Quigley, non saremmo arrivati in ufficio la mattina dopo accolti da sorrisetti e doppi sensi, mica poi tanto doppi. «Credo anch'io» concordai dando un'occhiata all'orologio. «Ti dispiace?»

Se Sam rimase stupito, lo nascose bene. «Ci vediamo domattina, allora» salutò allegramente. «Dormite bene.»

«Gli piaci» dissi a Cassie, quando se ne fu andato.

«Dio santo, quanto sei prevedibile» rispose, frugando nell'armadio in cerca di un piumino in più e della maglietta che lascio sempre lì.

«"Oh, fammi sentire cos'ha da dire Cassie… Oh, Cassie, sei così brava…"»

«Ryan, se Dio mi avesse voluta con un orribile fratello adolescente, me ne avrebbe rifilato uno. E poi il tuo accento di Galway fa schifo.»

«Anche a te lui piace?»

«Se così fosse, mi sarei esibita nel mio famosissimo giochetto del picciolo di ciliegia al quale faccio il nodo con la lingua.»

«Non ci credo. Fammelo vedere.»

«Stavo scherzando. Vai a dormire.»

Tirammo fuori il futon; Cassie accese l'abat-jour e io spensi la luce, così che il suo monolocale rimase in penombra, accogliente e caldo. Pescò la maglietta lunga fino alle ginocchia che usa per dormire e se la portò in bagno per cambiarsi. Infilai i calzini nelle scarpe e le spinsi sotto il divano, Cassie è sempre la prima ad alzarsi e non volevo che vi inciampasse. Mi svestii, rimasi in boxer, mi misi la maglietta e mi infilai sotto il piumino. Avevamo ormai una routine ben oliata. La sentivo che si lavava la faccia e cantava una canzoncina folk che non conoscevo, in una chiave minore. «Alla Regina di Cuori va l'Asso di Dolori; oggi lui c'è, domani non c'è più…» Era partita con un'intonazione troppo bassa e la nota finale sparì in un borbottio.

«Ti senti veramente così rispetto al nostro lavoro?» le chiesi, quando uscì dal bagno. Era a piedi nudi e i suoi polpacci erano lisci e muscolosi come quelli di un ragazzo. «Quello che prova Mark per l'archeologia?»

Mi ero tenuto la domanda in serbo per quando Sam se ne fosse andato. Cassie mi lanciò un sorrisetto di traverso. «Non ho mai versato roba da bere sulla moquette della sala operativa. Lo giuro.»

Attesi. Lei si infilò a letto, si sollevò su un gomito e appoggiò la guancia sulla mano chiusa. La luce dell'abat-jour le delineava i contorni, sembrava semitrasparente, una ragazza dietro una finestra con i vetri istoriati. Non ero certo che avrebbe risposto, anche senza la presenza di Sam, ma dopo un momento disse: «Abbiamo a che fare con la verità, con lo scoprire la verità. È una cosa seria».

Ci pensai. «È per questo che non ti piace mentire?» Questa è una delle piccole manie di Cassie, particolarmente strana in un detective: omette cose, elude furbescamente le domande o lo fa in modo così sottile che neppure te ne accorgi, tira fuori frasi fuorvianti con la competenza di un illusionista, ma, che io sappia, non ha mai mentito apertamente, nemmeno a un sospetto.

Si strinse nelle spalle, in una, a dire il vero. «Non sono molto brava con i paradossi.»

«Io invece penso di esserlo» obiettai, pensieroso.

Cassie rotolò sulla schiena e rise. «Dovresti mettere un annuncio personale. Maschio, un metro e ottantacinque, bravo con i paradossi…»

«… stallone incredibile…»

«… cerca la sua Britney…»

«Bleah!»

Ammiccò con innocenza. «No?»

«Dai, un po' di fiducia in me. Britney è solo per gusti dozzinali. Dovrebbe essere almeno Scarlett Johansson.»

Ridemmo, soddisfatti. Sospirai e mi sistemai adattandomi alle ormai note caratteristiche del divano; Cassie allungò un braccio per spegnere la luce. «'Notte. Dormi bene.»

«Sogni d'oro.»

Cassie dorme con la leggerezza e la facilità di un gattino; dopo pochi secondi sentii che il suo respiro rallentava e si faceva più profondo. Il minuscolo arresto al culmine di ogni respiro mi comunicò poi che era partita. Io sono il contrario: una volta addormentato ci vuole un calcio negli stinchi, ed è quello il metodo di Cassie, o una sveglia dal suono portentoso per tirarmi giù dal letto, ma possono volerci ore prima che mi addormenti, con continui rivoltamenti nel letto, e agitazione. Non sapevo bene perché, ma avevo scoperto che era più facile addormentarmi da Cassie, nonostante il divano troppo corto, pieno di bozzi, e i cigolii e i borbottii che, in una vecchia casa come quella, di notte aumentavano a dismisura. Anche ora, quando ho difficoltà a addormentarmi, cerco di immaginarmi di nuovo su quel divano: la fodera del piumino, di flanella morbida e consunta, contro la guancia, l'odore forte e piccante del whisky caldo ancora nell'aria, i minuscoli fruscii di Cassie che sogna dall'altra parte della stanza.

Un paio di persone entrarono vociando nel palazzo, li sentii zittirsi l'uno con l'altra, ridacchiando. Si fermarono all'appartamento di sotto. Filtrarono, attraverso il pavimento, sprazzi di conversazione e risate, deboli e smorzati. Adattai il ritmo del mio respiro a quello di Cassie e sentii che la mia mente scivolava in tangenti oniriche, prive di senso: Sam che spiegava come costruire una barca e Cassie seduta sul davanzale di una finestra tra due doccioni di pietra, che rideva. Il mare era a una certa distanza e non sarebbe stato possibile che lo sentissi, ma immaginai di sentirlo comunque.

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