7

La domenica di quel weekend pranzai con i miei. Ci vado, di tanto in tanto, anche se non so bene perché. Non siamo molto uniti, il meglio che riusciamo a fare è mantenere uno stato di reciproca e amichevole cortesia, come persone che si incontrano durante una vacanza e non sanno come concludere la conoscenza. A volte porto Cassie con me. I miei genitori la adorano. Lei scherza con mio padre sul giardinaggio e, spesso, quando aiuta mia madre in cucina, la sento ridere, felice come una bambina. I miei genitori fanno continue allusioni speranzose su quanto ci vedono uniti, ma noi le ignoriamo allegramente.

«Dov'è, oggi, Cassie?» mi chiese mia madre, dopo pranzo. Aveva cucinato la pasta con il formaggio. Pensa sempre che sia la mia pietanza preferita, e magari lo è pure stata in un certo momento della mia vita. La prepara come timida espressione di solidarietà, quando qualcosa sui giornali le fa capire che un mio caso non sta andando bene. Persino l'odore di quel piatto mi rende claustrofobico e mi fa venire l'orticaria. Eravamo in cucina, io stavo lavando i piatti e lei li asciugava. Mio padre era in salotto, stava guardando un film di Colombo alla TV. Avevamo acceso la luce anche se era solo metà pomeriggio.

«Penso che sia andata dai suoi zii» risposi. In realtà, forse in quel momento Cassie era sdraiata sul divano a leggere e mangiare gelato dalla vaschetta. Non avevamo avuto molto tempo per noi nelle ultime due settimane, e lei a volte sente il bisogno di una certa dose di solitudine, proprio come me. Ma se le avessi detto che Cassie stava trascorrendo la domenica da sola mia madre ne sarebbe rimasta turbata.

«Le attenzioni degli zii le faranno sicuramente bene. Dovete essere a pezzi, voi due.»

«Sì, siamo abbastanza stanchi» concordai.

«Tutto quel viavai da Knocknaree.»

I miei genitori e io non parliamo mai del mio lavoro, tranne che in termini molto generici, e non nominiamo mai Knocknaree. Sollevai di scatto la testa, ma mia madre stava osservando un piatto in controluce alla ricerca di aloni di bagnato.

«È un viaggio lungo, è vero» commentai.

«Ho letto sul giornale» continuò mia madre, «che la polizia ha parlato di nuovo con le famiglie di Peter e Jamie. Ci siete andati tu e Cassie?»

«Non dai Savage. Però ho parlato con la signora Rowan, sì. Questo ti sembra pulito?»

«Va benissimo.» Mi prese il piatto da forno dalle mani. «Come sta Alicia?»

Qualcosa nella sua voce mi fece sollevare di nuovo lo sguardo, sorpreso. Vide che la stavo osservando e, scostandosi i capelli dalla guancia con il dorso del polso, arrossì. «Ah, eravamo buone amiche. Alicia era… be', possiamo dire che era come una piccola sorella per me. Poi ci siamo perse di vista. Mi stavo solo chiedendo se sta bene, tutto qui.»

Fui assalito da un'improvvisa ondata di panico: se avessi saputo che Alicia Rowan e mia madre erano buone amiche, non mi sarei mai avvicinato a quella casa. «Penso che stia bene» risposi. «Date le circostanze, voglio dire. Tiene ancora la camera di Jamie come lei l'ha lasciata.»

Mia madre fece schioccare la lingua con tristezza. Lavammo e asciugammo piatti per un po', in silenzio. Si udivano soltanto il rumore delle posate e la voce di Peter Falk che interrogava qualcuno, nella stanza accanto. Fuori dalla finestra, un paio di gazze atterrarono sull'erba e cominciarono a battibeccare fra di loro con suoni rauchi.

«Quando sono due portano gioia» osservò mia madre, riferendosi alla famosa filastrocca secondo la quale una gazza porta sfortuna e due sono di buon auspicio. Sospirò. «Non me lo sono mai perdonato… di aver perso i contatti con Alicia. Lei non aveva nessun altro. Era una ragazza così dolce e innocente. Sperava ancora che il padre di Jamie avrebbe lasciato la moglie, dopo tutto quel tempo, e che sarebbero stati una famiglia… Si è mai sposata?»

«No, ma non mi è sembrata infelice. Davvero. Insegna yoga.» L'acqua nel lavello era diventata tiepida e unticcia. Presi il bollitore e aggiunsi altra acqua calda.

«È uno dei motivi per cui ci siamo trasferiti, sai?» disse mia madre. Mi voltava le spalle e stava dividendo le posate nel cassetto. «Non riuscivo a guardarli in faccia, Alicia, Angela e Joseph. Io avevo riavuto mio figlio sano e salvo e loro stavano attraversando l'inferno… Non volevo neppure uscire di casa per non rischiare di incontrarli. Ti sembrerà sciocco, ma mi sentivo colpevole. Pensavo che mi odiassero per averti riavuto tutto intero. Non so come potessero evitarlo.»

Quella rivelazione mi colse di sorpresa. Tutti i bambini sono egocentrici, e io non avevo mai pensato che ci fossimo trasferiti a beneficio di qualcun altro e non esclusivamente mio. «Non l'avevo mai considerata da questo punto di vista» ammisi. «Bel moccioso egoista.»

«Tu eri un piccolo tesoro» mi disse mia madre, inaspettatamente. «Il bambino più affettuoso del mondo. Quando tornavi a casa da scuola o dai giochi, mi davi sempre un abbraccio grande grande e un bacio. Lo facevi anche da più grandicello e mi chiedevi: "Ti sono mancato, mamma?". E mi portavi sempre qualcosa: un sassolino dalla forma strana, un fiore… Li conservo ancora quasi tutti.»

«Io?» Ora ero felice di non aver portato Cassie. Immaginavo la luce maliziosa che si sarebbe accesa nei suoi occhi se fosse stata lì a sentire.

«Sì, tu. Per questo ero così preoccupata quando non riuscivamo a trovarti, quel giorno.» All'improvviso, mi strinse un braccio, quasi con violenza. Anche dopo tutti quegli anni, sentivo la tensione nella sua voce. «Ero in preda al panico. Tutti dicevano: "Saranno sicuramente solo scappati di casa, i bambini lo fanno, li troveremo subito", ma io rispondevo: "No. Non Adam". Eri un bambino dolce, buono. Sapevo che non ci avresti mai fatto una cosa del genere.»

Nel sentire pronunciare quel nome dalla sua voce ebbi un brivido, fulmineo, primordiale. «Penso che tu stia esagerando» obiettai. «Non ricordo di essere stato un bambino particolarmente angelico.»

Mia madre sorrise e guardò fuori dalla finestra della cucina. Quello sguardo perduto sul suo volto e il fatto che ricordasse cose che io non riuscivo a ricordare mi innervosirono. «Ah, non angelico. Premuroso. Stavi crescendo in fretta quell'anno. Avevi fatto in modo che Peter e Jamie la smettessero di tormentare quel povero bambino… come si chiamava? Quello con gli occhiali e con quella madre terribile che metteva a posto i fiori in chiesa…»

«Willy Little? Non fui io, fu Peter. Io sarei stato felice di tormentarlo fino alla fine dei tempi.»

«No, fosti tu» mi contraddisse con sicurezza mia madre. «Voi tre avevate fatto qualcosa che lo aveva fatto piangere e la cosa ti aveva scosso così tanto che decidesti che dovevate lasciarlo stare, quel povero bambino. Eri preoccupato che Peter e Jamie non avrebbero capito. Non te lo ricordi?»

«No» risposi, ed era proprio questo che mi dava più fastidio di tutta quella disagevole conversazione. Avrei dovuto preferire la sua versione della vicenda visto che, dopotutto, mi dipingeva in una luce migliore, ma non era così. Era ovviamente possibile che fosse stata lei, nel suo subconscio, a farmi diventare un eroe, o che vi avessi contribuito mentendole all'epoca. Nelle ultime settimane però ero arrivato a considerare i miei ricordi come piccoli tesori da scoprire e da tener cari, e mi sconvolgeva profondamente pensare che potessero brillare come oro falso, che fossero ingannevoli e molto lontani da ciò che sembravano. «Se non ci sono altri piatti da lavare, forse dovrei andare a parlare un po' con papà.»

«Gli farà piacere. Vai pure, posso finire io qui. Portati un paio di Guinness. Sono nel frigo.»

«Grazie per il pranzo» le dissi. «È stato squisito.»

«Adam» cominciò all'improvviso mia madre, quando feci per uscire dalla cucina, e un'altra pugnalata, rapida e insidiosa, mi colpì al costato e… Oh, Dio, come avrei voluto essere quel bambino dolce per un altro momento, come avrei voluto girarmi e affondare il viso nel suo caldo petto, e raccontarle fra i singhiozzi cosa avevano significato per me quelle ultime settimane. Pensai alla faccia che avrebbe fatto e mi morsi un labbro per trattenere un'insana risata.

«Volevo solo dirti» riprese timidamente, strizzando lo strofinaccio che aveva in mano, «che abbiamo fatto del nostro meglio per te, dopo. A volte mi assale il timore che abbiamo sbagliato tutto… ma avevamo paura che chiunque… sai… chiunque fosse tornato indietro e… stavamo solo cercando di fare del nostro meglio per te.»

«Lo so mamma» la rassicurai, «va tutto bene.» E con la sensazione di averla scampata per un pelo, mi rifugiai in salotto a guardare Colombo con mio padre.


«Come va il lavoro?» mi chiese, durante una pausa pubblicitaria. Frugò di fianco al cuscino per trovare il telecomando e abbassò il volume.

«Bene» gli risposi. Sullo schermo, un bambino sul water conversava animatamente con un cartone animato verde e con le zanne, immerso in una scia di miasmi.

«Sei un bravo ragazzo» disse mio padre, fissando la TV come se ne fosse incantato. Bevve un sorso dalla sua lattina di Guinness. «Sei sempre stato un bravo ragazzo.»

«Grazie.» Evidentemente, i miei se le erano dette prima quelle cose, in preparazione di quel pomeriggio, ma non riuscivo a capire cosa potessero implicare.

«E il lavoro ti va bene.»

«Sì, bene.»

«Ottimo, allora» concluse mio padre, e alzò di nuovo il volume.


Tornai al mio appartamento verso le otto. Andai in cucina e mi preparai un panino con il prosciutto, aggiungendovi un po' del formaggio a basso contenuto di grassi di Heather: avevo dimenticato di fare la spesa. La Guinness mi aveva lasciato gonfio e a disagio. Non sono un bevitore di birra, ma mio padre si preoccupa se bevo altro: per lui i superalcolici sono segno di alcolismo, o di incipiente omosessualità. Avevo la strana idea che mangiare qualcosa avrebbe assorbito la birra e mi avrebbe fatto stare meglio. Heather era in salotto. I suoi pomeriggi di domenica erano dedicati a una cosa che lei chiamava "Tempo per Me" e che comprendeva la visione di DVD di Sex and the City, un'ampia gamma di attrezzi misteriosi e un gran trambusto fra il bagno e il salotto con una luce di risoluta determinazione negli occhi.

Mi arrivò un SMS di Cassie: "Mi dai un passaggio in tribunale domani? Vestito buono + Golf Cart + tempo schifoso = look orrendo".

«Oh, merda» imprecai a voce alta. Il caso Kavanagh, un'anziana donna massacrata a Limerick durante una rapina, un anno prima. Cassie e io dovevamo testimoniare al mattino presto il giorno dopo. L'avvocato era venuto ad avvisarci, ce lo eravamo ricordati a vicenda venerdì eppure ero riuscito a dimenticarmene lo stesso.

«Cosa c'è?» trillò Heather, entusiasta, accorrendo dal salotto alla prospettiva di una conversazione. Misi via il suo formaggio e richiusi il frigo, pur sapendo che non sarebbe servito a molto: Heather sa al millesimo quanto le avanza di qualunque cosa. Una volta mi aveva tenuto il broncio fino a quando non le avevo comprato un nuovo panetto di costoso sapone organico perché ero rientrato ubriaco e mi ero lavato le mani con il suo. «Stai bene?» Era in vestaglia, con quella che sembrava una pellicola per alimenti intorno alla testa e un misto di profumi chimico-floreali addosso che faceva venire il mal di testa.

«Sì, bene» le dissi. Premetti RISPONDI e iniziai a scrivere a Cassie: "Perché, di solito, invece? Ci vediamo verso le 8.30". «Avevo solo dimenticato che domani devo andare in tribunale.»

«Aaahh» fece Heather, sbarrando gli occhi. Si era dipinte le unghie color rosa pallido e le sventolava per asciugarle. «Potrei aiutarti a prepararti. Chessò, rivedere gli appunti con te, o roba del genere.»

«No, grazie.» In realtà non li avevo neanche, gli appunti, erano da qualche parte in ufficio. Mi chiesi se dovessi andare a prenderli, poi mi dissi che probabilmente avevo ancora troppo alcol in circolo.

«Oh… Okay, va bene.» Heather si soffiò sulle unghie e guardò il mio sandwich. «Oh, sei andato a fare la spesa? Tocca a te andare a comprare la candeggina per il bagno, sai?»

«Ci vado domani» le assicurai prendendo telefono e sandwich e dirigendomi in camera mia.

«Oh, be', immagino che possa aspettare fino a domani. Quello è il mio formaggio?»


Riuscii a liberarmi di Heather, anche se con difficoltà, e a mangiarmi il sandwich, che, ovviamente, non eliminò gli effetti della Guinness. Poi, seguendo la stessa logica, mi versai una vodka e tonic e mi sdraiai sul letto per ripassare mentalmente il caso Kavanagh.

Non riuscivo a concentrarmi. Particolari secondari mi rimbalzavano nella testa, vividi e inutili: la luce rossa tremolante della statua del Sacro Cuore nel salotto buio dell'aggredita, le frangette lunghe e rade dei due giovanissimi assassini, il terribile foro con il sangue rappreso nella testa della vittima, la carta da parati a fiori macchiata di umidità del B &B dove io e Cassie ci eravamo fermati. Ma nessun fatto importante: come avevamo rintracciato i colpevoli o se avessero confessato, o cosa avessero rubato, o perfino i loro nomi ("Shane Waters" mi rimbalzò in testa e io mi ci aggrappai con una fuggevole sensazione di trionfo, fino a quando non capii di cosa si trattava). Mi alzai e camminai per la stanza, misi la faccia fuori dalla finestra per respirare un po' di aria pulita, ma più cercavo di concentrarmi, meno riuscivo a ricordare. Dopo un po' non fui nemmeno più sicuro se il nome della vittima fosse Philomena o Fionnuala, quando appena un paio d'ore prima non avrei avuto bisogno nemmeno di pensarci (Philomena Mary Bridget).

Ero frastornato. Non mi era mai successo niente del genere. Penso di poter dire, senza vantarmi e per ironia della sorte, che ho sempre avuto una memoria molto buona, quel tipo di memoria a pappagallo che può assorbire e rigurgitare grandi quantità di informazioni senza molto sforzo e senza il bisogno di comprenderle. Era così che avevo superato gli esami di maturità ed era anche quello il motivo per cui non mi ero preoccupato più di tanto quando mi ero accorto di non avere con me gli appunti: mi era già successo in passato, una volta o due, di essermi dimenticato di rivederli, e non se ne era mai accorto nessuno.

E non si trattava nemmeno di fare qualcosa fuori dell'ordinario, dopotutto. Alla Omicidi ci si abitua a districarsi fra tre o quattro indagini alla volta. Se ti viene assegnato il caso di un bambino assassinato, o di un poliziotto, o qualcosa di priorità equivalente, puoi passare a un collega gli altri casi aperti, come avevamo fatto con quello del posteggio dei taxi, rifilato a Quigley e McCann, ma ti rimangono le incombenze dei casi chiusi: il lavoro d'ufficio, gli incontri con gli avvocati, i tribunali. Piano piano sviluppi la capacità di archiviare in una zona della tua memoria tutti i particolari principali e di tirarli fuori in qualunque momento, in caso di bisogno. Anche il caso Kavanagh avrebbe dovuto essere lì, ma non c'era, e questo mi mandava nel panico, un panico silenzioso e ferino.

Verso le due del mattino mi convinsi che se fossi riuscito a farmi una bella dormita avrei trovato tutto in ordine il mattino dopo. Mi feci un altro bicchierino di vodka e spensi la luce, ma ogni volta che chiudevo gli occhi le immagini mi sfrecciavano nella mente in una frenetica e inarrestabile processione: il Sacro Cuore, i due criminali sudici, la ferita alla testa, l'orrendo B &B… Verso le quattro, mi arresi all'evidenza: ero stato un cretino a non andare a prendere gli appunti. Accesi la luce e cercai i vestiti, ma mentre mi allacciavo le scarpe mi accorsi che mi tremavano le mani, mi ricordai della vodka (nella condizione in cui mi trovavo, non avrei superato il test del palloncino) e capii che ero troppo intontito dall'alcol perché, anche se li avessi avuti, gli appunti potessero offrire un aiuto.

Tornai a letto e rimasi a guardare per un altro po' il soffitto. Heather e il tipo nell'appartamento a fianco russavano all'unisono. Di tanto in tanto una macchina passava in strada inondando di luce gialla le pareti della stanza. Dopo un po' mi ricordai delle pastiglie per il mal di testa e, basandomi sul fatto che mi mettevano sempre fuori combattimento e senza considerare che forse era lo stesso mal di testa a farmi quell'effetto, ne presi un paio. Alla fine, erano quasi le sette, mi addormentai. Qualche istante prima che squillasse la sveglia.

Quando suonai il clacson davanti a casa di Cassie, lei uscì nella sua unica tenuta elegante: un completo Chanel giacca e pantaloni, molto chic, nero foderato di rosa, e gli orecchini di perle di sua nonna. Saltò in auto con quello che considerai un inutile spreco di energia, anche se probabilmente aveva solo cercato di prendersi la minore quantità possibile di pioggia. «Ciao» mi salutò. Era truccata e questo la faceva sembrare più vecchia e sofisticata, distante. «Non hai dormito?»

«Non molto. Hai gli appunti?»

«Sì. Gli darai un'occhiata mentre… un momento, ma chi entra per primo, io o tu?»

«Non me lo ricordo. Puoi guidare tu? Devo rivedere alcune cose.»

«Non sono assicurata per questo aggeggio» rispose, guardando la Land Rover con sdegno.

«Allora cerca di non investire nessuno.» Con movimenti scoordinati, scesi dalla macchina e le girai intorno per risalire dall'altra parte, con la pioggia che schizzava sulla mia testa, mentre Cassie, con un'alzata di spalle, si spostava al posto di guida. Ha una bella calligrafia, dall'aria un po' straniera, in un certo senso, ma sicura e chiara, e ci sono abituato, ma ero così stanco e con i postumi della sbornia ancora lì che riuscivo a vedere solo degli scarabocchi indecifrabili che si muovevano in continuazione sulla pagina come un bizzarro test di Rorschach. Pochi minuti dopo mi addormentai, con la testa che sussultava contro il finestrino.


Ovviamente, toccò a me entrare per primo. Non ho il coraggio di descrivere i mille modi in cui mi resi ridicolo: balbettai, confusi i nomi, sbagliai l'ordine temporale degli eventi e dovetti tornare indietro e correggermi diligentemente fin dall'inizio. L'avvocato dell'accusa, MacSharry, parve dapprima stupito (ci conoscevamo, e di solito vado bene alla sbarra), poi si allarmò e infine, pur mantenendo un'apparenza di cortesia, s'infuriò. Aveva l'ingrandimento di una foto del corpo di Philomena Kavanagh – è un trucchetto che serve a far inorridire la giuria e a farle sentire il bisogno di punire qualcuno; ero un po' sorpreso che il giudice gli avesse permesso di portarla – e in teoria avrei dovuto indicare ogni ferita e metterla in relazione con quanto i presunti assassini avevano ammesso nelle loro confessioni (sembrava che avessero effettivamente confessato), ma per qualche motivo fu la goccia che fece traboccare il vaso e svanire quel minimo di compostezza che mi era rimasto: ogni volta che sollevavo lo sguardo la vedevo, pesante e malmenata, con la gonna sollevata intorno alla vita e la bocca aperta in un impotente grido di rimprovero rivolto a me per averla delusa.

L'aula del tribunale era diventata una sauna, con i vapori dei cappotti umidi che andavano ad annebbiare le finestre. La testa mi prudeva per il caldo e sentivo gocce di sudore che mi scendevano lungo le costole. Quando l'avvocato della difesa ebbe finito il controinterrogatorio, aveva una gioia incredula, quasi indecente, negli occhi; sembrava un ragazzo che fosse riuscito a infilarsi nelle mutandine di una ragazza mentre aveva sperato al massimo di ricevere solo un bacio. Perfino i membri della giuria, che si agitavano e si lanciavano occhiate di nascosto, parvero imbarazzati per me.

Scesi dal banco che tremavo tutto, con le gambe che sembravano di gelatina. Pensai per un secondo di dovermi aggrappare a una balaustra per restare in piedi. Si può rimanere a guardare il processo dopo aver concluso la propria testimonianza, e Cassie si sarebbe sorpresa di non vedermi, ma proprio non ce la facevo. Non aveva bisogno di supporto morale, lei: se la sarebbe cavata benissimo e, potrà sembrare infantile, la cosa mi faceva sentire anche peggio. Sapevo che il caso Devlin la preoccupava e preoccupava anche Sam, ma sembrava che entrambi riuscissero a mantenere il controllo senza neanche troppa fatica. Io ero l'unico che sussultava, farfugliava, si spaventava delle ombre come un personaggio di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Non pensavo di poter sopportare di sedere in tribunale a guardare Cassie che, ignara di quanto era successo, risistemava con estrema praticità lo sfacelo in cui avevo trasformato un lavoro di diversi mesi.

Stava ancora piovendo. Trovai un piccolo pub senza molte pretese in una via laterale: c'erano tre tizi a un tavolo d'angolo. Al primo sguardo, mi individuarono come poliziotto e cambiarono immediatamente discorso. Ordinai un whisky caldo e mi sedetti. Il barista mi sbatté il bicchiere davanti e tornò alle pagine dei cavalli senza neanche chiedermi se volevo il resto. Ne bevvi un lungo sorso e, con la bocca che mi bruciava, rovesciai la testa all'indietro e chiusi gli occhi.

I tre individui all'angolo ora stavano parlando della ex ragazza di qualcuno. «Allora le faccio: "Non c'è nel decreto del mantenimento che devi vestirlo come quel cazzo di Diddy. Se vuoi che si metta le Nike, te le compri da sola, stronza".»

«Hai ragione, cazzo» ribadì uno degli altri.

«Ma poi che razza di nome è Diddy… tetta… per un adulto?» chiese il terzo con aria disgustata. «Qualcuno dovrebbe dirglielo.»

«Laggiù non ha lo stesso significato, idiota.» Stavano mangiando sandwich e quell'odore salato, chimico, mi fece venire il voltastomaco. Fuori pioveva a catinelle, e l'acqua sgorgava a fiumi da una grondaia.

Per quanto strano possa apparire, sul banco dei testimoni, sotto lo sguardo atterrito di MacSharry, avevo capito che stavo crollando. Mi ero già accorto che dormivo meno del solito e che bevevo troppo, che ero nervoso e distratto e che forse avevo delle visioni, ma non c'era ancora stato niente che mi fosse sembrato particolarmente inquietante o allarmante di per sé. Ora la cosa era evidente e mi spaventava a morte.

Tutto il mio essere gridava di andarmene il più lontano possibile da quel maledetto caso. Avevo ancora molti giorni di ferie arretrate, perciò chi avrebbe potuto impedirmi di usare un po' dei miei risparmi per prendermi un appartamentino in affitto a Parigi o a Firenze, per qualche settimana, e passeggiare e trascorrere tutto il giorno ad ascoltare tranquillamente una lingua che non capivo e non tornare fino a quando tutta quella storia non fosse finita? Ma sapevo che la cosa era tristemente impossibile. Era troppo tardi per uscire dall'indagine. Come avrei fatto a dire a O'Kelly che, dopo settimane che mi occupavo del caso, avevo capito all'improvviso che in realtà Adam Ryan ero io? Un'altra scusa avrebbe significato che avevo ormai perso l'autocontrollo, e questo avrebbe posto fine alla mia carriera. Sapevo che dovevo assolutamente scuotermi prima che gli altri cominciassero ad accorgersi che stavo crollando e prima che degli omini col camice bianco venissero a portarmi via, ma non riuscivo a pensare a una sola cosa che potesse farmi stare anche solo un po' meglio.

Finii il whisky e ne ordinai un altro. Il barista selezionò un canale TV che stava mandando in onda una partita di biliardo. Il mormorio discreto del commentatore si fondeva in modo confortevole con il rumore della pioggia. I tre tizi se ne andarono sbattendo la porta; continuai a sentire le loro risate anche dalla strada. All'improvviso il barista mi portò via il bicchiere in modo piuttosto sgarbato: evidentemente voleva che me ne andassi.

Raggiunsi il bagno e mi lavai il viso con acqua fredda. Guardai la mia immagine nello specchio verdastro e sporco: sembravo uscito da un film di zombie, con la bocca aperta, grosse borse scure sotto gli occhi, i capelli che mi stavano dritti in ciuffi scomposti. "Tutto questo è ridicolo" pensai, in preda a un vertiginoso e distaccato stupore. "Come è potuto succedere? Come cazzo ci sono finito in una situazione così?"


Tornai al parcheggio e mi sedetti in macchina a succhiare caramelle alla menta e a guardare le persone che si affrettavano in strada a testa bassa, stringendosi nei cappotti. Passò una donna con un sacchetto di plastica del supermercato sulla testa. Era buio come se fosse sera: le mezze luci delle auto illuminavano la pioggia che scendeva di traverso, i lampioni in strada erano già accesi. Un SMS di Cassie: "Che è successo? Dove sei?". Le risposi: "In auto" e mi allungai per lampeggiare con i fari e farmi individuare. Quando mi vide seduto al posto del passeggero, tornò indietro e corse dall'altra parte.

«Accidenti» esclamò, infilandosi dietro il volante e scuotendosi la pioggia dai capelli. Una goccia sulle ciglia le aveva sciolto il mascara e una lacrima nera le stava scendendo lungo la guancia, facendola assomigliare a un piccolo Pierrot. «Avevo dimenticato che teste di cazzo erano quei due piccoli delinquenti. Quando ho raccontato che avevano pisciato sul letto della donna, hanno cominciato a ridacchiare. Il loro avvocato gli ha dovuto dare un calcio negli stinchi, sotto il tavolo, per farli smettere. Cosa ti è successo? Perché devo guidare io?»

«Ho mal di testa» le risposi. Non mi capita molto spesso, e prendendo una pastiglia di solito in un paio d'ore mi passa, ma di tanto in tanto me ne viene uno che mi fa stare a letto per due o tre giorni. Non riesco a muovermi e il mondo si riduce a una capsula di lampi di luce, nausea e dolore pulsante. Cassie stava armeggiando con lo specchietto del frangisole per controllarsi il trucco e i suoi occhi preoccupati incontrarono i miei. La sua mano restò ferma a mezz'aria. «Mi sa che ho fatto un casino, Cass.»

Lo avrebbe scoperto comunque. MacSharry si sarebbe affrettato a chiamare O'Kelly ed entro la fine della giornata tutta la squadra lo avrebbe saputo. Ero così stanco. Per un momento, mi lasciai andare alla speranza che quello fosse soltanto un incubo indotto dalla vodka e che presto mi sarei svegliato per recarmi in tribunale.

«Molto male?» mi chiese.

«Mi sa che ho proprio mandato tutto a puttane. Non riuscivo neanche a vedere bene, figurati se riuscivo a pensare chiaramente.» Dopotutto, stavo dicendo la verità.

Lentamente, orientò lo specchietto, si inumidì un dito e si pulì la scia nera. «Intendevo il mal di testa. Vuoi andare a casa?»

Pensai con bramosia al mio letto, a ore di sonno indisturbato prima che Heather tornasse a casa e volesse sapere della sua candeggina, ma l'attrattiva scemò presto: sarei rimasto a giacere rigido, con le mani strette alle lenzuola, a ripercorrere all'infinito quanto era successo. «No. Ho preso una pastiglia quando sono uscito dal tribunale. Ne ho passate di peggio.»

«Devo cercare una farmacia o ne hai altre, nel caso?»

«Ne ho molte altre, comunque sto già meglio. Andiamo.» Fui tentato di fornirle ulteriori dettagli sul mio mal di testa immaginario, ma l'arte stessa del mentire sta nel sapere quando fermarsi, e io sono sempre stato piuttosto bravo in questo. Non so neppure adesso se Cassie mi credette. Uscì dal parcheggio con una sterzata veloce e improvvisa, con la pioggia che scivolava via dai tergicristalli, e si immise nel traffico.

«Tu come sei andata?» le chiesi a un tratto, mentre avanzavamo a passo di lumaca lungo le banchine.

«Okay. Credo che il loro avvocato stia cercando di provare che sono stati obbligati a confessare, ma la giuria non ci cascherà.»

«Bene» fu il mio laconico commento.


Il telefono cominciò a suonare, isterico, quasi nello stesso momento in cui mettemmo piede nella sala operativa. MacSharry non aveva di certo perso tempo, perché era O'Kelly che mi diceva di andare nel suo ufficio. Gli raccontai la storia dell'emicrania. L'unica cosa positiva del mal di testa è che, come scusa, è fantastica: il mal di testa è invalidante, non ti viene per colpa tua, può durare tutto il tempo che vuoi e nessuno può dimostrare che non ce l'hai. E, inoltre, avevo davvero l'aspetto di uno che non stava bene. O'Kelly fece alcuni commenti derisori sulla patologia, sostenendo che erano "stronzate da femminucce", ma recuperai parte del suo rispetto insistendo col voler restare al lavoro.

Tornai in sala operativa. Sam stava rientrando da uno dei suoi giri, fradicio di pioggia, e il suo cappotto di tweed puzzava leggermente di pelo di cane bagnato. «Com'è andata?» chiese. Il tono era casuale, ma mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla di Cassie e poi rapidamente distolse lo sguardo: il tamtam si era già fatto sentire.

«Bene. Emicrania» rispose Cassie, indicandomi con un cenno della testa. A quel punto, potere della suggestione, mi parve davvero di avere l'emicrania. Sbattei le palpebre, cercando di mettere a fuoco.

«Il mal di testa è una brutta bestia» commentò Sam. «Mia madre ne soffre, a volte deve stare sdraiata in una stanza buia per giorni, con il ghiaccio sulla fronte. Ce la fai a lavorare?»

«Sto bene» ripetei. «E tu cosa hai fatto?»

Sam guardò verso Cassie. «Sta bene» lo rassicurò lei. «Quel processo farebbe venire il mal di testa a chiunque. Dove sei stato?»

Sam si tolse il cappotto bagnato, lo guardò con aria dubbiosa e lo abbandonò su una sedia. «Sono andato a fare due chiacchiere con i Quattro Grandi.»

«O'Kelly farà i salti di gioia.» Mi sedetti e mi massaggiai le tempie con pollice e indice «Devo avvisarti che già non è di buon umore.»

«No, è tutto a posto. Ai Quattro Grandi ho detto che siccome i dimostranti stavano causando qualche problema a quelli dell'autostrada – non sono entrato nello specifico, ma sono sicuro che hanno pensato a qualche atto di vandalismo – stavo solo controllando che fosse tutto okay.» Sam sorrise e io capii che stava scoppiando per l'eccitazione della sua giornata e che si conteneva solo perché sapeva come era andata la mia. «Si sono innervositi perché si chiedevano come facessi a sapere che erano coinvolti con Knocknaree, ma mi sono comportato come se niente fosse: abbiamo chiacchierato un po', mi sono assicurato che nessuno di loro fosse stato obiettivo dei dimostranti, gli ho detto di stare attenti e me ne sono andato. Nessuno di loro mi ha ringraziato, ci credete? Proprio delle belle personcine, garantito.»

«Quindi?» domandai. «Che ti aspettavi?» Non volevo sembrare petulante, ma se chiudevo gli occhi vedevo il corpo di Philomena Kavanagh e quando li riaprivo vedevo le foto della scena del crimine di Katy su tutta la lavagna dietro la testa di Sam. Non ero dell'umore giusto per lui, i suoi risultati e il suo tatto.

«Quindi» rispose Sam senza scomporsi, «Ken McClintock, quello della Dynamo, era a Singapore in aprile. Ove non lo sapeste, è lì che tutti gli operatori immobiliari più attivi si stanno dando da fare quest'anno. Perciò non era lui a fare le telefonate anonime dalle cabine di Dublino. E rammentate cosa ha detto Devlin della voce di quell'uomo?»

«Niente di particolarmente importante, per quello che ricordo» risposi.

«Non molto profonda» intervenne Cassie, «accento di provincia ma niente di caratteristico. Probabilmente di mezza età.» Era appoggiata allo schienale della sedia, con le gambe accavallate e le braccia mollemente incrociate dietro di sé. Con quel vestito elegante che si era messa per il tribunale appariva fuori posto nella sala operativa, come uscita da una foto scattata a una sfilata d'alta moda.

«Esatto. Quanto a Conor Roche, della Global, lui è di Cork, ha un accento incredibile e Devlin lo avrebbe riconosciuto immediatamente. E il suo socio, Jeff Barnes, è inglese, e fra l'altro ha la voce di un orso. Così rimane solo» Sam cerchiò il nome sulla lavagna con un abile svolazzo «Terence Andrews della Futura, cinquantatré anni, di Westmeath, vocina stridula da tenore. E indovinate dove abita?»

«In città» rispose Cassie, cominciando a sorridere.

«Attico sulle banchine. Beve al Gresham. Gli ho detto di stare attento quando torna a casa, non si sa mai con quei tipi di sinistra… Tutti e tre i telefoni pubblici sono proprio sul suo percorso. Ho trovato il mio uomo, ragazzi.»


Non ricordo cosa feci per il resto della giornata, forse rimasi alla scrivania a giocherellare con i fogli. Sam uscì per un altro dei suoi giri misteriosi e Cassie per seguire una pista poco promettente, portando O'Gorman con sé e lasciando il silenzioso Sweeney a occuparsi del telefono dei cittadini, cosa per cui le fui eternamente grato. Dopo il disastro delle ultime settimane, la sala operativa quasi deserta aveva un che di sinistro, come di abbandonato, con le scrivanie degli agenti di supporto che se ne erano andati ancora coperte di documenti e di tazze che avevano dimenticato di riportare alla mensa.

Mandai un SMS a Cassie dicendole che non mi sentivo bene e che quindi non sarei andato a cena da lei. Non sopportavo il pensiero della sollecitudine e del tatto che mi avrebbero riservato. Uscii dal lavoro per arrivare a casa prima di Heather – lei "fa Pilates" il lunedì sera -, le scrissi un biglietto dicendole che avevo il mal di testa e mi chiusi in camera. Heather si occupa della sua salute con una cura e un'attenzione minuziose, proprio come fanno alcune donne con le aiuole dei fiori o con le collezioni di porcellana, ma il lato positivo è che ha per i problemi fisici degli altri lo stesso rispetto sacrale che ha per i suoi: per quella sera mi avrebbe lasciato in pace e avrebbe tenuto basso il volume della televisione.

Oltre a tutto il resto, non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di aver bruciato la mia ultima occasione in tribunale: avevo sempre più l'impressione che la foto di Philomena Kavanagh presentata da MacSharry mi ricordasse qualcosa, ma non sapevo cosa. Sembrerà un problema minore, specie dopo una giornata come quella che avevo avuto, e sicuramente per qualcun altro sarebbe stato così. La maggior parte della gente non ha motivo di pensare che la memoria possa fare brutti scherzi, acquisire una forza propria con la quale bisogna fare i conti.

Perdere una fetta dei propri ricordi è una cosa insidiosa, è come un maremoto che provoca sconvolgimenti troppo distanti dall'epicentro per essere prevedibili. Dal quel giorno, ogni minima cosa che la memoria farà riaffiorare brillerà di un'aura ipnotica e terrificante: che si tratti di una sciocchezza, o del Big One che ti scuote la vita e ti apre la mente. Nel corso degli anni ero arrivato a fidarmi dell'equilibrio di quello status quo, proprio come le persone che vivono sulla linea di faglia, e a credere che, se non era ancora accaduto, il Big One non sarebbe mai arrivato. Ma da quando era sorto il caso Katy Devlin, piccoli rombi e tremori avevano cominciato a crescere, minacciosi, e io non potevo più fare affidamento sulle mie certezze. Forse la foto di Philomena Kavanagh mi ricordava la scena di un programma televisivo, oppure qualcosa di così terribile da spazzarmi la mente e lasciarmela vuota per vent'anni. Non avevo modo di saperlo.

Scoprii presto che non si trattava di nessuna delle due cose, e lo scoprii nel bel mezzo della notte, mentre mi dibattevo in un irrequieto dormiveglia. Mi colpì in modo così profondo che mi svegliai all'improvviso, con il cuore impazzito. Cercai l'interruttore dell'abat-jour e guardai il muro mentre piccoli ghirigori trasparenti mi passavano davanti agli occhi.

Anche prima di arrivare in prossimità della radura avevamo capito che c'era qualcosa di diverso, qualcosa che non andava. I rumori erano confusi e frastagliati, ce n'erano troppi e stratificati: borbottii, rantoli e strilli soffocati che diventavano piccoli scoppi selvatici, più minacciosi di un ruggito. «State giù» sibilò Peter e ci schiacciammo ancora di più contro il terreno. Radici e ramoscelli caduti dagli alberi ci graffiavano i vestiti e i piedi bollivano nelle scarpe da ginnastica. Una giornata calda, calda e immobile, il cielo che splendeva blu fra i rami. Strisciammo lentamente nel sottobosco: polvere in bocca, squarci di sole, il fastidioso e persistente balletto di una mosca che nell'orecchio produceva lo stesso rumore di una motosega. C'erano api da qualche parte, sulle more selvatiche poco distanti, un rivolo di sudore mi colava lungo la schiena. Peter avanzava con la cautela di un gatto, ne vedevo il gomito con la coda dell'occhio. Jamie, vicino a me, sbatteva le palpebre per gli steli d'erba in fiorescenza che le solleticavano la faccia.

C'era troppa gente nella radura. Megadeth teneva le braccia di Sandra contro il terreno, Occhiali da Sole le fermava le gambe e Anthrax era sopra di lei. La gonna le era salita attorno alla vita e aveva tutte le calze strappate. Oltre la spalla di Anthrax, vedevo che muoveva la bocca, spalancata e nera, parzialmente coperta dai capelli rosso-oro. Emetteva suoni strani, era come se tentasse di urlare e invece stava soffocando. Megadeth la colpì una volta, in modo secco, e lei smise.

Corremmo via senza preoccuparci di essere visti, e le grida non le sentimmo subito. «Cristo!» «Cazzo, andiamocene!» Io e Jamie incontrammo Sandra il giorno dopo, al negozio. Indossava un maglione molto grande e aveva macchie scure sotto agli occhi. Sapevamo che ci aveva visti, ma non ci guardammo negli occhi.


Era un'ora impossibile della notte, ma chiamai comunque Cassie sul cellulare.

«Stai bene?» mi rispose con voce assonnata.

«Sì, certo. Mi sono ricordato di una cosa, Cass.»

Sbadigliò. «Dio, sarà meglio che sia importante, cazzo. Ma che ore sono?»

«Non lo so. Ascolta. Quell'estate io, Peter e Jamie vedemmo Jonathan Devlin e i suoi amici che stupravano una ragazza.»

Ci fu una pausa. Poi Cassie disse, con voce molto più sveglia: «Ne sei certo? Forse non capiste bene…»

«No, ne sono certo. Lei provò a urlare ma uno di loro la colpì. La tenevano ferma.»

«E loro vi videro?»

«Sì, sì. Scappammo e ci urlarono dietro.»

«Cazzo» fu il suo commento. Sentii che stava lentamente afferrando la situazione: una ragazzina violentata, uno stupratore in famiglia, due testimoni svaniti. Eravamo a pochi passi da un mandato. «Cazzo… ben fatto, Ryan. Conosci il nome della ragazza?»

«Sandra qualcosa.»

«Quella di cui hai già parlato? Cominceremo a cercarla domani.»

«Cassie» dissi, «se questa pista dovesse portarci da qualche parte, come faremo a spiegare che ne eravamo a conoscenza?»

«Ascolta, Rob, non pensare a questo per il momento, okay? Se troviamo Sandra, sarà l'unica testimone di cui avremo bisogno. Altrimenti andiamo da Devlin e lo affrontiamo. Gli scaraventiamo in faccia tutti i particolari e lo mandiamo fuori di testa finché non confessa… il modo lo troviamo.»

Mi colpì che non avesse nemmeno provato a mettere in discussione i dettagli che le avevo fornito. Deglutii per impedire che mi tremasse la voce. «Qual è il termine di prescrizione per la violenza carnale? Possiamo inchiodarlo per quello anche se non abbiamo prove per l'altra faccenda?»

«Non mi ricordo. Lo scopriremo domattina. Adesso ce la fai a rimetterti a dormire o sei troppo su di giri?»

«Sono troppo su di giri» risposi. Ero nervoso fin quasi all'isterismo. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse iniettato qualcosa di frizzante nel sangue. «Parliamo un po'?»

«Certo.» Sentii che smuoveva le lenzuola per sistemarsi più comodamente nel letto. Trovai la bottiglia di vodka e tenni il cellulare tra orecchio e spalla mentre me ne versavo un goccio. Non ci misi neppure un po' di tonic.

Mi parlò di quando aveva nove anni e aveva convinto tutti i bambini del vicinato che c'era un lupo magico sulle colline vicino al paese. «Dissi che avevo trovato una sua lettera sotto a un'asse del parquet in cui mi diceva che era lassù da quattrocento anni e che portava una mappa attorno al collo che ci avrebbe portati dritti al tesoro. Organizzai i bambini in una squadra – Dio, ero veramente una stronzetta comandina – e ogni weekend andavamo sulle colline alla ricerca di questo lupo. Ci capitava a volte di imbatterci in un cane da pastore e allora scappavamo via a perdifiato e finivamo nei corsi d'acqua, ridendo a crepapelle e divertendoci un mondo…»

Mi stiravo nel letto sorseggiando il mio drink. L'adrenalina stava dissolvendosi e il ritmo basso della voce di Cassie era confortevole. Mi sentivo caldo e piacevolmente esausto, come un bambino dopo una lunga giornata. «E magari non era neanche un cane da pastore o roba del genere» sono sicuro di averle sentito dire, «era troppo grande e completamente diverso, più selvatico» e subito dopo mi ero già addormentato.


Il giorno successivo cominciammo a darci da fare per rintracciare una Sandra o Alexandra vissuta a Knocknaree o dintorni nel 1984. Fu una delle mattinate più frustranti della mia vita. Chiamai l'ufficio anagrafe e parlai con una donna che con voce annoiata e fortemente nasale mi disse subito che non poteva fornirci indicazioni senza un mandato del tribunale. Quando, scaldandomi un po', le feci presente che si trattava dell'omicidio di una bambina, capì che non mi sarei arreso e solo allora mi concesse di parlarne con qualcun altro e mi mise in attesa, con in sottofondo la musichetta Eine Kleine Nachtmusik che sembrava suonata con un dito solo su un vecchio Casio. Ma anche la seconda donna interpellata ripeté che senza autorizzazione non avrei potuto ottenere niente da lei.

Di fronte a me, Cassie stava tentando dal canto suo una ricerca sul registro elettorale del 1988 della zona sudovest di Dublino – partendo dal presupposto che quello era presumibilmente l'anno in cui la nostra Sandra era stata abbastanza grande da votare ma non abbastanza per andarsene di casa -, più o meno con i miei stessi risultati. Mi arrivava di tanto in tanto il chiacchiericcio di una voce, forse preregistrata, che le diceva nella cornetta di attendere, che la sua telefonata era importante e sarebbe stata passata al più presto all'interno desiderato. Cassie era annoiata e irrequieta, cambiava posizione ogni trenta secondi, sedeva a gambe incrociate per poi appollaiarsi sul tavolo, infine ruotava la sedia finché non rimaneva impigliata nel filo del telefono. Quanto a me, vedevo un po' appannato a causa del poco sonno, ero tutto sudaticcio – il riscaldamento andava al massimo anche se fuori non faceva molto freddo, perché Bernadette sostiene sempre di essere di salute cagionevole – ed ero sul punto di mettermi a urlare.

«Be', andate affanculo» scoppiai infatti, alla fine, sbattendo giù la cornetta all'ennesima ripetizione di Eine Kleine Nachtmusik. Mi sarebbe rimasta in testa per settimane. «Tutto questo non ha alcun senso.»

«La sua irritazione è importante per noi» mimò Cassie, con la testa rovesciata sul poggiatesta, guardandomi da sotto in su, «e sarà esacerbata al più presto. La ringraziamo per l'attesa.»

«Ammesso che questi deficienti ci diano qualche informazione, non sarà su un disco o in un database. Saranno cinque milioni di scatole da scarpe piene di documenti, e dovremo leggerceli tutti e guardare ogni singolo cazzo di nome. Ci vorranno settimane.»

«E magari si è anche trasferita, si è sposata, è emigrata e sarà pure morta, ma hai un'idea migliore?»

Mi venne, all'improvviso. «A dire il vero, sì» risposi afferrando la giacca. «Vieni.»

«Scusa? Dove andiamo?»

Girai la sedia di Cassie verso la porta mentre passavo. «A parlare con la signora Pamela Fitzgerald. Allora, chi è il tuo genio preferito?»

«Be'… Leonard Bernstein.» Cassie sbatté giù con gioia la cornetta e balzò in piedi. «Ma per oggi mi vai bene tu.»


Ci fermammo da Lowry a comprare una scatola di biscottini per la signora Fitzgerald, se non altro per scusarci del fatto che ancora non le avevamo ritrovato la borsetta. Fu un errore, perché la generazione della signora Fitzgerald è incontrollatamente competitiva in fatto di generosità. I biscotti significarono che si sentì in obbligo di tirare fuori dal freezer un sacchetto di focaccine, scongelarle nel microonde, spalmarci sopra il burro e riempire di marmellata un vecchio piattino, mentre sedevamo sull'orlo del suo insicuro divano, io che facevo ballare un ginocchio come un pazzo e Cassie che con lo sguardo mi segnalava di smetterla. Sapevo anche che quelle dannate focaccine andavano mangiate, altrimenti ci saremmo sentiti ripetere "Su, avanti" all'infinito.

La signora Fitzgerald ci controllava attentamente, strizzando gli occhi per vederci meglio, e sospirò soddisfatta e si rilassò nella poltrona soltanto quando ingollammo un sorso di tè – così forte che mi si accartocciò la bocca – e demmo un morso a una delle focaccine. «A me le focaccine piacciono molto» ci disse. «Ma quelle semplici, perché se sono alla frutta mi si attaccano alla dentiera.»

«Signora Fitzgerald» cominciò Cassie, «si ricorda di quei due bambini scomparsi nel bosco circa vent'anni fa?» All'improvviso quasi mi dispiacque che fosse stata lei a dirlo, ma a me mancava il coraggio. Ero certo che mi sarebbe venuta meno la voce e che mi sarei tradito. A quel punto, la signora Fitzgerald si sarebbe insospettita e, dopo avermi osservato con più attenzione, avrebbe finito per riconoscere il terzo bambino. A quel punto saremmo stati lì davvero tutto il giorno.

«Certo che me li ricordo» rispose, sdegnata. «Fu terribile. Non trovarono più neanche l'ombra di quei poverini. Nessun funerale degno di questo nome, niente di niente.»

«Cosa pensa che accadde?» chiese di punto in bianco Cassie.

Le avrei dato un calcio perché stava perdendo tempo, ma capii, sebbene riluttante, cosa la spinse a fare quella domanda. La signora Fitzgerald era la vecchietta furba della favola che sbirciava il mondo da una casetta fatiscente nel bosco, astuta e circospetta; c'era da credere che fosse in grado di fornire la risposta all'enigma, anche se magari un po' criptica per essere compresa subito.

Ispezionò la sua focaccina con aria pensierosa, le diede un morso e si picchiettò le labbra con un tovagliolino di carta. Ci stava tenendo sulla corda e se la godeva un mondo. «Un pazzo li ha gettati nel fiume» rispose alla fine. «Che Dio li benedica. Qualche pazzo che non si doveva lasciare in libertà.»

Notai che il mio corpo ebbe la solita, automatica reazione e la cosa mi fece infuriare: mi tremavano le mani e il battito cardiaco era aumentato. Appoggiai la tazza. «Allora crede che siano stati uccisi» dissi, abbassando la voce per essere certo di riuscire a controllarla.

«Certo, cos'altro, giovanotto? La mia povera mamma, che riposi in pace – era ancora viva allora; morì tre anni dopo di influenza -, diceva sempre che era stato il pooka, il folletto dispettoso, a prenderli. Ma era molto all'antica, che Dio la protegga.» Fui colto alla sprovvista. Il pooka è un antico personaggio che spaventa i bambini ed è tratto da una leggenda: è un selvaggio e malevolo discendente di Pan e antenato di Puck. Non era sulla lista di sospetti di Kiernan e McCabe. «No, sono finiti nel fiume, altrimenti i vostri uomini ne avrebbero ritrovato i corpi. Ci sono persone che dicono che sono ancora nella foresta, quei due poverini. Theresa King, che sta nella Lane, li ha visti l'anno scorso, mentre ritirava il bucato.»

Anche questa non me l'aspettavo, anche se forse avrei dovuto. Due bambini spariti per sempre nel bosco locale, era ovvio che entrassero a far parte del folklore di Knocknaree. Non credo ai fantasmi – piccole forme che sfrecciavano al tramonto, richiami senza parole – ma quel pensiero mi procurò brividi freddi lungo tutto il corpo. E indignazione: come poteva vederli una donna qualunque della strada accanto e io no?

«All'epoca» ripresi, cercando di riportare la conversazione sui binari giusti, «raccontò alla polizia che c'erano tre scapestrati che bazzicavano sempre al limitare del bosco.»

«Piccoli furfanti» rispose la signora Fitzgerald con passione. «Sputavano per terra, oltre a tutto il resto. Mio padre diceva sempre che sputare è segno di maleducazione. Ah, ma due di loro alla fine sono diventati bravi ragazzi. Il figlio di Concepta Mills si occupa di computer, ora. Si è trasferito in città, a Blackrock, per la precisione. Knocknaree non andava bene per lui. E Devlin, certo, abbiamo già parlato di lui. È il padre di quella povera piccola Katy, che Dio protegga la sua anima. È un brav'uomo.»

«E il terzo?» domandai. «Shane Waters?»

La signora Fitzgerald increspò le labbra e bevve un sorso di tè con fare compassato. «Non so niente di lui.»

«Ah… A lui è andata male, vero?» chiese Cassie in tono confidenziale. «Posso prendere un'altra focaccina, signora Fitzgerald? Erano secoli che non ne mangiavo di così buone.» Erano anche secoli che le facevano schifo. Dice che "non sanno di cibo".

«Prendila pure, cara, che un po' di carne addosso non ti farebbe male. Ce ne sono molte altre di là. Ora che mia figlia mi ha regalato il microonde, ne faccio sei dozzine alla volta, le congelo e le tiro fuori quando servono.»

Cassie scelse accuratamente la sua focaccina, ne morse un pezzo molto grande e commentò: «Mmm». Se ne avesse mangiate tante da spingere la signora Fitzgerald a scaldarne altre, le sarei saltato addosso. Deglutì e chiese: «Shane Waters vive ancora a Knocknaree?».

«Carcere di Mountjoy» rispose l'anziana donna, dando alle parole tutto il loro sinistro peso. «Sta proprio lì. Lui e un altro hanno rapinato un distributore di benzina armati di coltello e hanno spaventato a morte il poveretto che ci lavorava. Sua madre dice sempre che non è un cattivo ragazzo, che si fa influenzare facilmente, ma non c'è scusa per quel tipo di comportamento.» A quel punto avrei voluto presentarla a Sam: si sarebbero piaciuti.

«Disse alla polizia che c'erano anche delle ragazze con loro» la incalzai, preparando il taccuino.

Si succhiò la dentiera con disapprovazione. «Ragazzine sfacciate e impertinenti, tutt'e due. Anche a me non dispiaceva mostrare un po' le gambe quando ero giovane, non c'è modo migliore per farsi guardare dai ragazzi, no?» Mi fece l'occhiolino e rise, una risata rumorosa e rauca ma che le illuminò il viso. Si poteva vedere ancora che era stata una ragazza carina, dolce, un po' sfacciata e pimpante. «Ma i vestiti per quelle ragazzette erano solo soldi buttati via, perché fuori avrebbe potuto esserci un freddo pungente e non si sarebbero coperte di più. Oggi lo fanno tutte, con l'ombelico fuori e i pantaloncini ridottissimi, ma allora c'era ancora un po' di decenza.»

«Ricorda i loro nomi?»

«Aspettate che ci penso. Una era la figlia maggiore di Marie Gallagher. Vive a Londra da quindici anni e torna di tanto in tanto per mostrare i vestiti chic e il suo lavoro di lusso, ma Marie dice che in fin dei conti fa solo la segretaria. Ha sempre avuto un'alta opinione di sé.» Mi cascarono le braccia: Londra! Ma la signora Fitzgerald sorseggiò il tè, alzò un dito e riprese. «Claire, ecco come si chiama. Claire Gallagher. Non si è mai sposata. Ha frequentato un signore divorziato per alcuni anni, ha spezzato il cuore a sua madre, ma poi è finita.»

«E l'altra ragazza?» domandai.

«Ah, lei sta ancora qui. Vive con sua madre qualche strada più avanti, nella Close, la parte alta della zona residenziale, la più brutta, non so se mi spiego. Due figli e niente marito. Certo, cos'altro ci si potrebbe aspettare? Se vuoi i guai, non devi cercare molto per trovarli. È una Scully. Jackie è quella che ha sposato quel tipo di Wicklow, Tracy è quella che lavora nel negozio di scommesse… Sandra, ecco come si chiama. Sandra Scully. Finisci quella focaccina» ordinò poi la signora Fitzgerald vedendo che Cassie l'aveva furtivamente appoggiata e fingeva di essersene dimenticata.

«Grazie, signora Fitzgerald. Ci è stata di grande aiuto» dissi. Cassie colse l'occasione per infilarsi il resto della focaccina in bocca e, con la stessa espressione di un gatto a cui viene somministrato un medicinale, mandarla giù con il tè. Misi via il taccuino e mi alzai.

«Aspettate un momento» disse la signora Fitzgerald, facendo un gesto con la mano. Andò in cucina e tornò con un sacchetto di focaccine surgelate che mise nelle mani di Cassie. «Ecco qua, questo è per te. No, no, no» insistette, alle proteste di Cassie. Gusti personali a parte, non ci è permesso accettare nulla dai testimoni. «Ti faranno bene. Sei una giovinetta molto carina. Dividile con il tuo ragazzo se si comporterà bene.»


La parte brutta della zona residenziale non era in realtà tanto diversa da quella bella. Non ci ero mai stato, non che ricordassi, almeno, perché le nostre madri ci dicevano sempre di starne lontani. Le case erano un po' più insignificanti, c'erano erbacce e margherite che crescevano nei giardini e il muro di Knocknaree era coperto di graffiti di tipo innocuo come "Forza Liverpool", "Martina e Conor, per sempre", "Jonesy è gay", quasi tutti apparentemente fatti con un pennarello colorato. Erano quasi pittoreschi paragonati a quelli di zone più difficili. Non mi sarei preoccupato più di tanto se, per qualche motivo, avessi dovuto lasciare lì la macchina, di notte.

Fu Sandra ad aprirci la porta. Per un momento non ne fui certo. Non era come la ricordavo. Era stata una di quelle ragazze che fioriscono presto e altrettanto presto appassiscono. Nella mia confusa immagine mentale, era soda e voluttuosa come una pesca matura, con un'aureola di lucenti riccioli rosso-oro stile anni Ottanta, mentre la donna alla porta era sfiorita e molle, con un sguardo stanco e sospettoso e capelli sfacciatamente tinti. Avvertii un forte senso di perdita. Fu questione di un attimo, ma in quell'attimo quasi sperai che non fosse lei.

Poi ci rivolse la parola. «Desiderate?» La voce era più profonda e con qualche asprezza, ma riconobbi il tono dolce e sospirato. "Allora, chi di loro è il tuo ragazzo?", un'unghia lucente che si spostava da me a Peter, mentre Jamie scuoteva la testa ed esclamava: "Bleah!". Sandra aveva riso, con i piedi che scalciavano contro il muro: "Cambierai idea molto presto!".

«Signora Sandra Scully?» domandai. Annuì con diffidenza. Aveva capito che eravamo poliziotti molto prima che mostrassimo il distintivo ed era sulla difensiva. In casa, un bambino stava urlando e sbatteva qualcosa di metallico. «Sono il detective Ryan, e lei è il detective Maddox. La mia collega vorrebbe parlarle per qualche minuto.»

Sentii Cassie muoversi quasi impercettibilmente accanto a me. Aveva capito che l'avevo riconosciuta. Se avessi avuto qualche dubbio, avrei detto "vorremmo" e saremmo andati avanti tutti e due con le domande di routine su Katy Devlin fino a quando non ne avessi avuto la certezza. Ma non era il caso, e Sandra forse sarebbe riuscita a parlare meglio senza un uomo presente.

Sandra indurì la mascella. «Si tratta di Declan? Potete dire a quella vecchia strega che gli ho requisito lo stereo dopo l'ultima volta, quindi se sente qualcosa si tratta sicuramente di voci nella sua testa.»

«No, no, no» rispose prontamente Cassie. «Niente del genere. Stiamo lavorando su un vecchio caso e abbiamo pensato che forse ricordava qualche particolare che poteva esserci d'aiuto. Posso entrare?»

Sandra fissò Cassie per un momento, poi si strinse nelle spalle con un'espressione di sconfitta. «Ho scelta?» Si fece da parte e aprì un po' di più la porta. Sentii l'odore di qualcosa che stava friggendo.

«Grazie. Cercherò di non portarle via troppo tempo.» Mentre entrava in casa, Cassie si voltò a guardarmi e mi fece l'occhiolino per rassicurarmi. Poi la porta si chiuse alle sue spalle.


Rimase dentro per molto tempo. Seduto in macchina, fumai ininterrottamente fino a esaurire le sigarette, mi mangiai le unghie, tamburellai Eine Kleine Nachtmusik sul volante e tolsi la sporcizia dal cruscotto con la chiave della macchina. Avrei dato chissà cosa perché Cassie avesse avuto un microfono, o qualcosa del genere, per il caso in cui fosse stata necessaria la mia presenza là dentro. Non che non mi fidassi, ma non c'era stata lei, quel giorno, con Sandra, e Sandra sembrava essersi indurita con gli anni. Non ero certo che Cassie sapesse cosa domandarle esattamente. Avevo abbassato i finestrini e sentivo il bambino che urlava ancora e sbatteva l'oggetto di metallo; la voce alterata di Sandra, il rumore di uno schiaffo; lo strepito del bambino, più per l'oltraggio che per il dolore. Ricordavo i piccoli denti bianchi di Sandra quando rideva, l'incavo in ombra e misterioso nella V del suo top.

Dopo quelle che mi sembrarono ore, sentii la porta chiudersi e vidi Cassie arrivare con l'andatura decisa lungo il vialetto d'accesso. Salì in macchina e lasciò andare rumorosamente il fiato. «Be'… ci hai preso. Le ci è voluto un po' per iniziare, ma poi…»

Il cuore mi batteva forte, non so se per il trionfo o per il panico. Non riuscivo a capirlo. «Cos'ha detto?»

Cassie aveva già tirato fuori le sigarette e stava cercando l'accendino. «Parti e svolta al primo angolo. Ha detto che non le piace la macchina qua fuori, che sembra della polizia e che i vicini poi sparleranno.»

Uscii dalla zona residenziale e parcheggiai nella piazzola di sosta di fronte allo scavo archeologico. «Allora?» chiesi, dopo averle scroccato una sigaretta e aver trovato un accendino.

«Sai cosa ha detto?» Cassie abbassò con violenza il vetro del finestrino e soffiò fuori il fumo. Mi accorsi d'un tratto che era furibonda, scossa. «Ha detto: "Non sono stata violentata, me lo hanno solo fatto fare". Lo ha detto tipo tre volte. Grazie a Dio, i suoi figli hanno solo quindici e quattro anni, troppo piccoli per essere…»

«Cass» la interruppi con il tono più calmo che mi riuscì. «Dall'inizio, se non ti dispiace?»

«L'inizio è che ha cominciato a uscire con Cathal Mills a sedici anni e lui ne aveva diciannove. Era considerato un gran figo, Dio solo sa perché, e Sandra era pazza di lui. Jonathan Devlin e Shane Waters erano i suoi migliori amici. Nessuno di loro aveva una ragazza, a Jonathan piaceva Sandra, a Sandra piaceva lui, e un bel giorno, dopo quasi sei mesi di "rapporto" con Cathal, questi le disse che Jonathan voleva, parole testuali, "farsela" e che secondo lui era una bella idea. Come se stesse offrendo ai suoi amici un sorso di birra o roba del genere. Dio, erano gli anni Ottanta e non avevano neanche i preservativi…»

«Cass…»

Lanciò l'accendino fuori dal finestrino mirando a un albero. Cassie ha un buon braccio: l'accendino centrò il tronco e cadde nella vegetazione. L'avevo già vista arrabbiata – le dico sempre che è colpa del nonno francese, che si tratta della tipica mancanza di controllo tutta mediterranea – e sapevo che, dopo essersela presa con l'albero, si sarebbe calmata. Aspettai. Si riappoggiò allo schienale, tirò una boccata dalla sigaretta e, passato qualche istante, mi sorrise, imbarazzata.

«Mi devi un accendino, diva» scherzai. «Allora, mi racconti tutta la storia?»

«E tu mi devi ancora il regalo di Natale dell'anno scorso. Comunque, per Sandra non fu un grosso problema scoparsi Jonathan. Accadde una volta o due, con entrambi che ne rimanevano un po' imbarazzati, dopo, e tutto filava liscio…»

«Questo quando?»

«All'inizio di quell'estate, nel giugno dell'84. Subito dopo Sandra, Jonathan cominciò a uscire con una ragazza – forse Claire Gallagher – e Sandra ha il sospetto che restituì il favore a Cathal, con il quale ebbe una grossa lite proprio per questo motivo. Sandra ci rimase così male che alla fine decise di dimenticare tutto.»

«Cristo» esclamai. «Ma dove vivevo? Nel Jerry Springer Show? Il programma per giovani scambisti?» A pochi metri e a qualche anno di distanza, io, Jamie e Peter giocavamo a freccette contro il terribile Jack Russell Carmichael. Tutte quelle dimensioni parallele all'interno di un'innocua e piccola zona residenziale. Tutti quei mondi a sé ordinati nello stesso spazio. Pensai agli oscuri strati sotterranei dell'archeologia, alla volpe fuori dalla finestra che chiamava a gran voce una città che a malapena coincideva con la mia.

«Poi però» continuò Cassie, «Shane scoprì cosa stava succedendo e pretese la sua parte. Ovviamente, a Cathal andava bene, a Sandra no. Shane non le piaceva, lo ha chiamato "segaiolo brufoloso". Ho avuto l'impressione che fosse un po' un reietto, che gli altri due stessero con lui per abitudine, perché erano amici fin da piccoli. Cathal insisteva per convincerla – voglio dare un'occhiata alla storia di Cathal su Internet, ricordamelo – e lei continuava a dire che ci avrebbe pensato. Alla fine, la trascinarono nel bosco e, mentre Cathal e il nostro caro Jonathan la tenevano, Shane la violentò. Non è sicura della data esatta, ma sa che aveva dei lividi ai polsi che temeva non le passassero prima di tornare a scuola. Quindi dev'essere stato più o meno in agosto.»

«Ci vide?» chiesi, mantenendo un tono calmo. Che quella storia cominciasse a combaciare con la mia mi disorientava ma era anche tremendamente eccitante.

Cassie mi guardò. Il suo volto non lasciava trasparire nulla ma sapevo che voleva assicurarsi che stessi bene. Cercai di sembrare a mio agio. «Non proprio. Era… be', sai lo stato in cui era. Ma ricorda di aver sentito qualcuno nella boscaglia e poi i ragazzi mettersi a urlare. Jonathan vi ha rincorso e quando è tornato indietro ha detto qualcosa tipo "maledetti mocciosi".»

Scosse la cenere fuori dal finestrino. Dalla sua postura capii che non aveva finito. Sull'altro lato della strada, Mark, Mel e altri due stavano facendo qualcosa con delle aste e un metro giallo. Si gridarono qualcosa l'un l'altro. Mel rise con la sua voce cristallina e gridò di rimando: «Ti piacerebbe!».

«E?» chiesi, quando non riuscii più a sopportare il silenzio. Tremavo come un cane da caccia che punta una preda. Come dicevo, non ho l'abitudine di malmenare i sospettati, ma con la mente mi vedevo già sbattere Devlin contro un muro, come avrebbe fatto Sipowicz, quello della serie NYPD, urlargli in faccia e riempirlo di pugni fino a cavargli la verità.

«Sai cosa?» continuò Cassie. «Sandra non lasciò Cathal Mills. Continuò a uscire con lui finché non fu lui a lasciarla, alcuni mesi dopo.»

Fui lì lì per sbottare: "E questo è tutto?". «Credo che il periodo di prescrizione sia più lungo se lei era minorenne» dissi, invece. La mia mente correva a cento all'ora mentre contemplava le diverse strategie di interrogatorio. «Potremmo avere ancora tempo. È proprio il tipo di persona che mi piacerebbe arrestare nel bel mezzo di una riunione importante.»

Cassie scosse la testa. «Non c'è alcuna possibilità che Sandra sporga denuncia. Pensa che sia stata tutta colpa sua perché andava a letto con lui.»

«Andiamo a parlare con Devlin» proposi e misi in moto.

«Aspetta un secondo» mi fermò Cassie. «C'è un'altra cosa. Magari non è niente, ma… Quando ebbero finito, Cathal… penso sinceramente che dovremmo indagare in ogni caso su di lui per trovare qualcosa con cui incriminarlo… Cathal disse: "Brava la mia ragazza" e le diede un bacio. Lei era seduta, tremava, cercava di rimettersi i vestiti e di risistemarsi. E in quel momento sentirono qualcosa fra gli alberi, a poca distanza. Sandra dice di non aver mai sentito niente del genere. Come di un uccello enorme che sbattesse le ali, ha detto, però è sicura che fosse un suono vocale, un richiamo. Sussultarono tutti, urlarono, poi Cathal gridò qualcosa tipo "quei maledetti bambini rompono di nuovo i coglioni" e lanciò dei sassi fra gli alberi, ma il rumore non cessò. Proveniva da una zona in ombra e non riuscivano a vedere niente. Erano paralizzati, spaventati. Riuscivano solo a gridare. Poi finì e la cosa parve allontanarsi tra gli alberi. Sembrava grande almeno quanto una persona, ha detto. Scapparono a casa. E c'era un odore, ha detto, un forte odore di animali, come di capre, o roba del genere, o come quello che si sente allo zoo.»

«Coosa?» esclamai. Ora mi aveva davvero colto alla sprovvista.

«Non foste voi?»

«Non che io ricordi» risposi. Sapevo che eravamo scappati via, che mi mancava il fiato per la corsa, che non ero certo di cosa stesse succedendo ma che di sicuro c'era qualcosa di molto sbagliato. Ricordavo noi tre che ci guardavamo, ansimanti, al limitare del bosco. Dubitavo seriamente che potessimo aver deciso di tornare alla radura per metterci a fare strani rumori d'ali e spandere odore di capra. «Se lo sarà immaginato.»

Cassie si strinse nelle spalle. «Certo, potrebbe esserselo immaginato. Ma mi sono anche chiesta se nel bosco magari non ci fosse un qualche tipo di animale pericoloso.»

L'animale più feroce che c'è in Irlanda è molto probabilmente il tasso, ma ci sono anche storie molto antiche, specie nelle Midland: di pecore morte con la gola squarciata, di viaggiatori notturni che, lungo i sentieri, si imbattevano in grandi ombre o che scorgevano occhi luminosi. La spiegazione di solito fa ricorso a qualche cane da pastore senza padrone, a occhi di gatti visti al buio, ma alcuni fatti rimangono comunque inspiegati. Pensai agli strappi sul dorso della mia maglietta. Senza credere all'esistenza di misteriosi animali selvatici, anche Cassie ne è sempre stata affascinata, perché quelle linee le riportano alla mente il Cane Nero che seguiva i viandanti medievali, e perché le piace l'idea che nel paese ci siano parti sconosciute e non ancora presenti sulle mappe, non ancora regolate e monitorate con telecamere a circuito chiuso. Le piace pensare che ci siano ancora angoli segreti d'Irlanda con animali non addomesticati delle dimensioni di un puma che si aggirano indisturbati.

Anche a me l'idea piace, normalmente, ma in quel momento non avevo proprio il tempo di pensarci. Fin da quando quel caso aveva avuto inizio, fin dal preciso momento in cui eravamo apparsi con la nostra auto in cima alla collina e avevamo visto Knocknaree estendersi di fronte a noi, l'opaca membrana fra me e quel giorno nel bosco si era lentamente ma inesorabilmente assottigliata. Ora era così sottile che riuscivo a sentire i piccoli rumori furtivi dall'altra parte, un battere d'ali e un fruscio, come di una falena intrappolata nelle mani chiuse a coppa. Non c'era spazio per strambe teorie di animali esotici, elfi o mostri di Loch Ness.

«No» le risposi. «No, Cass. Praticamente ci vivevamo, in quel bosco. Lo avremmo saputo se ci fosse stato qualcosa di più grande di una volpe. E quelli che vennero a cercarci ne avrebbero rinvenuto le tracce. O c'era un voyeur con un cattivo odore addosso che li stava osservando, oppure si è immaginata tutto.»

«Potrebbe anche essere» commentò Cassie con un tono neutro. Mi scossi. «Un momento, e ora come ci organizziamo?»

«Di certo questa volta non me ne starò seduto in questa cazzo di macchina ad aspettare» risposi, accorgendomi di aver alzato pericolosamente il volume della voce.

Inarcò leggermente un sopracciglio. «Veramente pensavo di restarci io… Be', non seduta in macchina. Ti scarico e vado a parlare un altro po' con le cugine o roba del genere. Puoi mandarmi un SMS quando vuoi che ti venga a prendere. Tu e Devlin potete farvi una bella chiacchierata fra uomini. Non parlerebbe di stupro se ci fossi anch'io.»

«Oh» mormorai, a disagio. «Okay, grazie, Cass. Mi sembra un buon piano.»

Scese e io cominciai a spostarmi verso il lato del passeggero, pensando che volesse guidare lei. Ma Cassie andò verso gli alberi e si mise a scalciare tra l'erba alta fino a quando non trovò l'accendino. «Eccolo» disse in tono burbero ma con un sorrisetto di sbieco, e me lo allungò. «Adesso però voglio il mio regalo di Natale.»

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