8

Quando mi fermai davanti alla casa dei Devlin, Cassie disse: «Rob, magari ci hai già pensato, ma la cosa potrebbe prendere una direzione completamente diversa».

«In che senso?» chiesi, in tono assente.

«Sai quando dicevo della sensazione di posticcio relativa allo stupro, quello di Katy, intendo, e del fatto che non sembrava avere uno sfondo sessuale? Abbiamo qualcuno con un motivo non di carattere sessuale per volere che la figlia di Devlin fosse violentata e che poteva usare solo un arnese per farlo.»

«Sandra? All'improvviso, dopo vent'anni?»

«L'articolo di giornale potrebbe aver risvegliato qualcosa.»

«Cassie» dissi, inspirando profondamente, «sono un semplice ragazzo di provincia. Preferisco concentrarmi sull'ovvio. E l'ovvio, al momento, è Jonathan Devlin.»

«Dicevo per dire. Potrebbe tornare utile.» Allungò una mano e mi arruffò i capelli, rapida e goffa. «Forza, ragazzo di provincia. In bocca al lupo.»


Jonathan era solo in casa. Disse che Margaret aveva portato le ragazze da sua sorella e mi chiesi quando fosse successo e perché. Aveva un aspetto terribile. Era dimagrito così tanto che i vestiti gli pendevano addosso miseramente, e la faccia pure. Si era tagliato i capelli ancora più corti, rasati vicino alla cute. Gli davano un che di solitario e disperato che mi fece pensare alle civiltà antiche dove i parenti dei defunti offrivano i loro capelli sulle pire funerarie degli scomparsi. Mi indicò il divano e si sedette su una poltrona di fronte a me. Era proteso in avanti, con i gomiti sulle ginocchia e le mani strette. La casa sembrava deserta: non c'erano odori di cucina, né si sentiva la TV o la lavatrice in sottofondo; non c'erano libri lasciati aperti sui braccioli, niente che suggerisse che stesse facendo qualcosa quando ero arrivato.

Non mi offrì nulla da bere. Gli chiesi come andavano le cose. «Lei che ne dice?» fu la sua risposta. Gli spiegai che stavamo seguendo varie piste, respinsi le sue brusche domande su dettagli più specifici e chiesi se gli era venuto in mente altro che potesse essere rilevante. La selvaggia e incontenibile urgenza che avevo sentito in macchina era svanita non appena aveva aperto la porta. Mi sentivo più calmo e lucido di quanto non fossi stato per settimane. Margaret, Rosalind e Jessica potevano rientrare da un momento all'altro, ma non so perché ero certo che non sarebbe accaduto. Le finestre erano sporche e la luce del tardo pomeriggio scivolava sui mobiletti con le antine di vetro e sul legno lucido del tavolo da pranzo inondando la stanza di una luminescenza velata. Era come se fossimo sott'acqua. Sentivo un orologio che ticchettava in cucina, pesante e dolorosamente lento, ma a parte quello non si udiva altro, neppure fuori. Tutta Knocknaree poteva essersi riunita per poi svanire nell'aria, lasciando solamente me e Jonathan Devlin. C'eravamo noi due e basta, uno di fronte all'altro, divisi solo dal tavolino segnato dalle impronte tondeggianti lasciate dalle tazze, e le risposte erano così vicine che le sentivo accalcarsi e azzuffarsi negli angoli della stanza. Non c'era alcuna fretta.

«Chi è l'appassionato di Shakespeare?» mi risolsi a domandare, rimettendo via il blocco. Ovviamente la domanda non rivestiva alcuna importanza, ma pensai che potesse servire a fargli abbassare un po' la guardia. Ed era anche una cosa che mi incuriosiva.

Jonathan si accigliò, irritato. «Come?»

«I nomi delle sue figlie» spiegai. «Rosalind, Jessica, Katharine con la "a". Sono nomi da commedie di Shakespeare. Ho immaginato che alla base ci fosse una scelta ben precisa.»

Sbatté gli occhi. Per la prima volta mi guardò con un pizzico di calore e mi rivolse un mezzo sorriso, il sorriso compiaciuto ma timido del bambino che si aspetta che qualcuno noti il suo nuovo stemma da scout. «Sa, lei è la prima persona a coglierlo. Sì, li ho scelti io.» Inarcai un sopracciglio come per incoraggiarlo. «Ho attraversato una specie di fase di miglioramento personale, direi che potremmo definirla così, dopo il matrimonio… Ho cercato di orientarmi in mezzo a tutte quelle cose che uno deve sapere… Shakespeare, Milton, George Orwell… Milton non mi faceva impazzire, ma Shakespeare… È stata dura leggerlo, ma alla fine non ho lasciato indietro nulla. Scherzavo sempre con Margaret e le dicevo che se le gemelle fossero state un maschio e una femmina li avremmo chiamati Viola e Sebastian, ma secondo lei a scuola poi li avrebbero presi in giro…»

Il suo sorriso svanì. Lo sguardo volò altrove. Quello era il momento. Dovevo cogliere l'occasione. «Sono nomi bellissimi» ripresi e lui annuì distrattamente. «Ancora una cosa: le dicono nulla i nomi Cathal Mills e Shane Waters?»

«Perché?» Pensai di cogliere un guizzo di circospezione nei suoi occhi, ma potevo essermi sbagliato.

«Sono emersi nel corso delle indagini.»

Allentò istantaneamente le ciglia aggrottate e irrigidì le spalle come fosse stato un cane da combattimento. «Sono sospettati?»

«No» risposi con fermezza. Anche se lo fossero stati non glielo avrei rivelato, non solo per motivi procedurali, ma soprattutto perché Jonathan in quel momento era troppo instabile, con una tensione dentro che sembrava caricata a molla. Se era innocente, almeno della morte di Katy, allora anche un solo accenno di incertezza nella mia voce e sarebbe partito con un Uzi in mano alla volta delle loro case. «Stiamo solo seguendo tutte le piste. Mi dica di loro.»

Mi fissò per un altro secondo, poi si accasciò e si appoggiò allo schienale della poltrona. «Eravamo amici da ragazzi. Non siamo più in contatto da anni.»

«Quando vi siete conosciuti?»

«Quando le nostre famiglie si trasferirono qui. Direi intorno al 1974. Eravamo le prime tre famiglie dell'intero abitato, su in cima, il resto era ancora in costruzione. I dintorni erano tutti per noi. Giocavamo nei cantieri, dopo che i muratori se ne erano andati, come in una specie di labirinto enorme. Avremo avuto otto… nove anni.»

C'era qualcosa nella sua voce, una corrente sotterranea di nostalgia, profonda e costante, che mi fece comprendere quanto fosse solo, e non semplicemente per la morte di Katy. «E per quanto tempo siete rimasti amici?» chiesi.

«È difficile dirlo con esattezza. Cominciammo a prendere strade diverse intorno ai diciannove anni, ma per un po' ci tenemmo ancora in contatto. Perché? Cosa c'entra questo con il resto?»

«Due testimoni» cominciai, cercando di mantenere il tono di voce più inespressivo possibile, «affermano che nell'estate del 1984 lei, Cathal Mills e Shane Waters partecipaste allo stupro di una ragazza del luogo.»

Schizzò in piedi e agitò le mani strette a pugno. «Cosa… cosa cazzo c'entra con Katy? Mi sta accusando… cosa sta… cazzo!»

Gli rimandai uno sguardo pacato e lo lasciai finire. «Non posso non notare che non ha negato l'accusa» affermai.

«E non l'ho neanche ammessa, questa stronzata. Devo cercarmi un avvocato?»

Nessun avvocato al mondo gli avrebbe lasciato proferire un'altra parola. «Senta» dissi, sporgendomi in avanti e passando a un tono confidenziale e più leggero, «io sono della Omicidi, non della sezione Crimini sessuali. Mi interessa una violenza di vent'anni fa solo se…»

«Presunta violenza.»

«Come vuole, presunta violenza. Non mi interessa a meno che non abbia una ricaduta sull'omicidio. Sono qui solo per appurare questo.»

Jonathan riprese fiato per aggiungere qualcosa, e per un istante pensai che mi avrebbe ordinato di andarmene. «Se vuole restare in casa mia anche un solo secondo in più dobbiamo però chiarire una faccenda» disse. «Non ho mai alzato un dito sulle ragazze. Mai.»

«Nessuno l'ha accusata di…»

«Lei ci gira attorno fin dal primo giorno in cui è venuto qui e le insinuazioni non mi piacciono. Adoro le mie figlie. Le abbraccio per augurare loro la buonanotte. E finisce lì. Non le ho mai toccate, nessuna di loro, in modi che potrebbero definirsi scorretti. Sono stato chiaro?»

«Chiarissimo» risposi, cercando di non apparire sarcastico.

«Bene.» Annuì. Uno scatto secco e controllato. «Ora, per l'altra faccenda: non sono uno stupido, detective Ryan. Anche solo ipotizzando che io abbia fatto qualcosa che potrebbe spedirmi in prigione, perché cavolo dovrei raccontarglielo?»

Benedissi mentalmente Cassie. «Mi ascolti» mi affrettai a dire, «stiamo prendendo in considerazione la possibilità che la vittima potrebbe avere avuto qualcosa a che vedere con la morte di Katy, una sorta di vendetta per quello stupro.» Sgranò gli occhi. «È solo una possibilità remota e non abbiamo nessuna prova concreta, quindi non voglio perderci troppo tempo e, soprattutto, non voglio che lei la contatti in alcun modo. Se scoprissimo che è qualcosa di più di una possibilità, potrebbe rovinare tutto.»

«Non ci penso neanche. Come dicevo, non sono uno stupido.»

«Bene, mi fa piacere che questo punto sia chiaro. Ho bisogno della sua versione dei fatti, però.»

«E poi? Mi accuserà della violenza?»

«Non posso garantirle nulla» risposi. «Di certo non l'arresterò. Non sta a me decidere se formalizzare l'accusa oppure no, dipenderà dalla pubblica accusa e dalla vittima, ma dubito che voglia farsi avanti in qualche modo. E non le ho neppure letto i suoi diritti, quindi qualsiasi cosa dica non sarebbe ammissibile in un eventuale processo. Ho solo bisogno di sapere cos'è successo. A lei la scelta, signor Devlin. Quanto le interessa scovare l'assassino di Katy?»

Jonathan temporeggiò. Si sporse in avanti con le mani strette e mi guardò di traverso, uno sguardo lungo o sospettoso. Cercai di sostenerlo, di sembrargli degno di fiducia.

«Se solo riuscissi a farle capire» disse infine, quasi a se stesso. Con movimenti irrequieti si alzò dalla poltrona, andò alla finestra e si appoggiò al vetro. Ogni volta che guardavo dalla sua parte, il suo contorno illuminato si stagliava incombente contro i pannelli di vetro della finestra. «Ha degli amici che conosce da quando era un ragazzino?»

«No, non proprio.»

«Nessuno ti conosce come quelli con cui sei cresciuto. Potrei imbattermi in Cathal o in Shane domani, dopo tutto questo tempo, e saprebbero comunque di me più di quanto ne sappia Margaret. Eravamo molto legati, più che fratelli. Nessuno di noi aveva quella che si definirebbe una famiglia felice: Shane non ha mai conosciuto il suo vecchio, il padre di Cathal invece era un buono a nulla che non ha mai lavorato un giorno in vita sua, e i miei genitori erano entrambi alcolizzati. Non le sto dicendo queste cose per usarle come scuse, sia chiaro, sto solo cercando di farle capire come eravamo. A dieci anni facevamo cose da fratelli di sangue, le è mai capitato? Cose come tagliarsi i polsi e premerli assieme?»

«Non credo, no» risposi. Mi chiesi, fugacemente, se l'avessimo mai fatto. Sembrava proprio il nostro genere di rapporto.

«Shane aveva paura di farlo, ma Cathal riuscì a convincerlo. Cathal riuscirebbe a vendere l'acqua santa al papa.» Sorrideva un po', glielo sentivo nella voce. «Quando vedemmo I tre moschettieri alla TV, Cathal decise che quello sarebbe stato anche il nostro motto: tutti per uno, uno per tutti. Dovevamo sostenerci a vicenda, non c'era nessun altro dalla nostra parte. E aveva ragione.» Voltò la testa verso di me e mi lanciò un'occhiata valutativa. «Lei quanti anni ha… trenta-trentacinque?»

Annuii.

«Lei il peggio lo ha evitato. Quando finimmo la scuola erano gli inizi degli anni Ottanta. Questo paese era in ginocchio. Non c'era lavoro, da nessuna parte. Se papà non aveva un'azienda per poterti assumere, emigravi oppure vivevi del sussidio di disoccupazione. Anche avendo i soldi e i voti giusti per andare all'università, che fra parentesi noi non avevamo, significava solo posticipare la cosa di qualche anno. Non avevamo nulla da fare se non stare in giro tutto il giorno: niente a cui aspirare, niente a cui tendere; niente di niente, tranne noi tre. Non so se capisce quanto pericolosa poteva essere la situazione.»

Non ero certo della direzione che la conversazione stava prendendo, ma provai l'improvviso e sgradito guizzo di un sentimento che somigliava all'invidia. A scuola avevo sognato amicizie del genere: il legame disperato, a prova d'acciaio, dei soldati in battaglia o dei prigionieri di guerra, il mistero raggiunto solo dagli uomini in condizioni estreme.

Jonathan inspirò. «Comunque, a un certo punto Cathal cominciò a uscire con questa ragazza, Sandra. Inizialmente sembrò strano: eravamo tutti usciti con qualche ragazza ogni tanto, ma nessuno di noi aveva mai avuto una fidanzata vera. Ma lei, Sandra, era così carina… Rideva sempre e quella sua innocenza… credo sia stata il mio primo amore, fra l'altro… quando Cathal disse che le piacevo anch'io, che voleva stare anche con me, non riuscii a credere alle mie orecchie.»

«La cosa non la colpì come… un po' strana, a dir poco?»

«Non strana come potrebbe pensare lei. Lo so che adesso sembra pazzesco, ma avevamo sempre condiviso tutto. Era una nostra regola. E la cosa sembrava seguire quella linea. Più o meno nello stesso periodo, anch'io uscivo con una ragazza e anche lei, glielo giuro, andò con Cathal, non ci pensò due volte… in realtà, credo che avesse cominciato a uscire con me perché lui era già impegnato. Era molto più attraente di me.»

«E Shane sembrava non entrare nel gioco» osservai.

«Infatti. È lì che è cominciato ad andare tutto storto. Shane lo ha scoperto ed è andato fuori di testa. Credo che Sandra piacesse molto anche a lui, anche se penso che a infastidirlo maggiormente fosse il fatto di essersi sentito tradito da noi. Era sconvolto. Litigavamo praticamente tutti i giorni per quella faccenda. E andò avanti per settimane. Metà delle volte non voleva neppure parlare con noi. Io ero triste, sembrava che mi mancasse la terra sotto i piedi, lo sa come si ragiona a quell'età, ogni più piccola cosa sembra la fine del mondo…» Tacque.

«Poi cosa accadde?» lo spronai.

«Cathal cominciò a pensare che fosse stata Sandra a mettersi tra noi e che quindi doveva essere lei a riunirci. Ne era ossessionato, non parlava d'altro. Se avessimo avuto tutti la stessa ragazza, diceva, sarebbe stata suggellata per sempre la nostra amicizia, come la faccenda del giuramento di sangue tra fratelli, solo più forte. Non so più se ci credesse sul serio o se solo… non lo so. Non lo so. Lui aveva una vena strana, Cathal intendo, soprattutto per cose del genere… insomma, io avevo i miei dubbi, ma lui continuava all'infinito e Shane naturalmente gli stava dietro…»

«A nessuno di voi venne in mente di chiedere il parere di Sandra?»

Jonathan lasciò ricadere la testa contro il vetro, producendo un leggero tonfo. «Avremmo dovuto» rispose piano, dopo un po'. «Dio sa se avremmo dovuto farlo. Ma vivevamo in un mondo tutto nostro, fatto di noi tre soltanto. Nessun altro sembrava reale. Impazzivo per Sandra, ma così come impazzivo per la principessa Leila o per chiunque altra avesse colpito la nostra fantasia quella settimana, non nel modo in cui si ama davvero una donna. Non è una scusa, non ci sono scuse per ciò che abbiamo fatto. Ma è una ragione.»

«Cosa accadde?»

Si passò una mano sulla faccia. «Eravamo nel bosco» cominciò. «Noi quattro, perché io non stavo già più con Claire. Eravamo in questa radura dove andavamo ogni tanto. Non so in Inghilterra, ma quell'anno qui avemmo un'estate meravigliosa. Faceva caldo come in Grecia o quasi, mai una nuvola in cielo, luce fino alle dieci e mezzo di sera. Passavamo giornate intere fuori, nel bosco o nei dintorni. Eravamo tutti abbronzatissimi; io sembravo addirittura uno studente italiano, tranne che per quelle stupide aree più chiare intorno agli occhi per gli occhiali da sole che portavo…

«Era pomeriggio tardi. Eravamo stati alla radura tutto il giorno, a bere e a farci qualche canna. Credo fossimo tutti un po' storditi, non solo per il sidro e la roba fumata, ma per il sole e quell'atmosfera un po' folle che si crea a quell'età… avevo fatto a braccio di ferro con Shane, che una volta tanto era di un umore passabile, e l'avevo lasciato vincere. Stavamo facendo un po' di casino, ci spingevamo, lottavamo nell'erba, sa come fanno i ragazzi. Cathal e Sandra gridavano, ci prendevano in giro e poi Cathal cominciò a fare il solletico a Sandra che rideva e strillava. Si rotolarono fin sotto i nostri piedi e noi ci buttammo sopra di loro in una specie di mucchio. E d'un tratto Cathal gridò: "Ora!"…»

Attesi a lungo. «La violentaste tutti e tre?» chiesi infine.

«Solo Shane. Non che fosse meno grave. Io la tenni stretta…» Jonathan inspirò rapidamente tra i denti. «Non mi era mai capitata una cosa del genere. Credo che fossimo tutti un po' fuori controllo. Non parve una cosa reale, sa? Sembrava un incubo, o un brutto viaggio, e non finiva più. Faceva un caldo soffocante, io sudavo come un maiale e avevo la testa leggera. Mi guardavo intorno e vedevo gli alberi che si richiudevano intorno a noi, come se spuntassero rami freschi a vista d'occhio. Pensavo che ci avrebbero avvolti e inghiottiti. E i colori, poi, mi sembravano tutti sbagliati, strani, come in quei film ai quali sono stati aggiunti dopo. Il cielo era diventato tutto bianco e c'erano delle cose che schizzavano via sullo sfondo, delle piccole cose nere. Pensavo allora di dover avvertire gli altri che stava succedendo qualcosa, che c'era qualcosa che non andava… e intanto… intanto la tenevo, ma non sentivo le mani, era come se non fossero le mie. Non riuscivo a capire di chi fossero. Ero terrorizzato. Cathal era di fronte a me, dall'altra parte di Sandra, e il suo respiro sembrava il rumore più assordante al mondo, ma non lo riconoscevo, non riuscivo a ricordare chi fosse o cosa stessimo facendo. Sandra si dimenava e c'erano quei rumori… Cristo. Per un istante giuro che credetti che fossimo cacciatori e che quello era… un animale che avevamo abbattuto e che Shane stava finendo…»

«Se capisco bene» dissi freddamente – il tono della faccenda cominciava a non piacermi neanche un po' -, «in quel momento eravate sotto l'effetto di alcol e sostanze stupefacenti e forse anche di un colpo di calore. Oltre a dire che eravate sicuramente eccitati. Non crede che tutti questi fattori potrebbero aver avuto qualcosa a che vedere con quell'esperienza?»

Gli occhi di Jonathan si posarono per un momento su di me, poi lui scrollò le spalle in un piccolo gesto di sconfitta. «Sì, certo» rispose con pacatezza. «Forse. Glielo ripeto, non le sto raccontando tutto questo per accampare scuse. Lei me l'ha chiesto e io le ho risposto.»

Era una ricostruzione assurda, naturalmente, melodrammatica, oltre che egoista e assolutamente prevedibile: tutti i criminali che avevo interrogato erano ricorsi a una lunga e contorta storia, molto spesso migliore di questa, per dimostrare che in fin dei conti non era stata colpa loro o che, se non altro, quanto avevano commesso non era così brutto come sembrava. Ciò che mi infastidiva maggiormente era che una piccolissima parte di me ci credeva. Non ero per niente convinto dei motivi idealistici di Cathal, ma Jonathan… Innamorato più degli amici che delle donne, si era perso in una selvaggia zona grigia dei suoi diciannove anni e andava alla disperata ricerca di un qualche rito mistico che rimandasse indietro il tempo e rimettesse insieme il loro mondo privato sul punto di disintegrarsi. Non doveva essergli stato difficile vedere la cosa come un atto di amore, per quanto oscuro e distorto, e non traducibile in maniera chiara per l'aspro mondo esterno. Non che la cosa facesse qualche differenza: mi chiedevo anzi cos'altro avrebbe fatto per la sua causa.

«Non ha avuto più nessun contatto con Cathal Mills e Shane Waters?» chiesi, un po' crudelmente, mi rendevo conto.

«No» rispose piano. Diresse lo sguardo verso la finestra e rise, senza allegria. «Dopo tutto questo, eh? No. Cathal e io ci spediamo gli auguri di Natale. Li firma anche sua moglie. Sono anni invece che non sento Shane. Gli scrivevo, di tanto in tanto, ma non ha mai risposto, così ho smesso.»

«Avete cominciato ad allontanarvi non molto dopo lo stupro.»

«È stata un'evoluzione lenta, ci sono voluti anni. Ma, se analizziamo la cosa, in effetti è così, si può dire che è cominciata quel giorno, nel bosco. È stato strano, dopo… Cathal ne parlava in continuazione e Shane si innervosiva come un gatto sui carboni ardenti. Io mi sentivo in colpa da morire, non volevo neanche pensarci… ironico, vero? Doveva unirci per sempre e invece…» Scosse la testa come un cavallo infastidito da una mosca. «Ma forse le nostre strade si sarebbero separate comunque. Succede. Cathal si è trasferito, io mi sono sposato…»

«E Shane?»

«Scommetto che lo sa che Shane è in galera» rispose seccamente. Annuii. «Shane… Ascolti, se quello stupido fosse nato dieci anni dopo sarebbe stato un grande. Non dico che avrebbe ottenuto chissà che, ma avrebbe un lavoro decente e una famiglia. È una vittima degli anni Ottanta. C'è un'intera generazione là fuori che non ce l'ha fatta. Quando è arrivata la Tigre Celtica era già troppo tardi per molti di noi, eravamo troppo vecchi per ricominciare da capo. Cathal e io siamo solo stati più fortunati. Guardi me: facevo schifo in tutto tranne che in matematica, ma ho preso il massimo dei voti al diploma e così alla fine ce l'ho fatta a trovarmi un lavoro in banca. E Cathal cominciò a frequentare un giovane danaroso che aveva un computer e che gli insegnò a usarlo, così per scherzo. Alcuni anni dopo, quando tutti nel paese erano alla disperata ricerca di qualcuno che ne capisse di informatica, lui era uno dei pochi che sapesse andare oltre la semplice accensione di quelle dannate macchine. È sempre caduto in piedi, Cathal. Shane, invece, non ce l'ha fatta. Non aveva un lavoro, nessuna istruzione, nessuna prospettiva, niente famiglia. Che cosa avrebbe avuto da perdere se avesse fatto una rapina?»

Mi riusciva difficile provare anche un minimo di solidarietà per Shane Waters. «Nei minuti immediatamente successivi allo stupro» dissi, quasi contro la mia stessa volontà, «udiste qualcosa fuori dall'ordinario, come di un grosso uccello che sbattesse le ali?» Tralasciai ogni riferimento alla parte vocale. Anche in momenti come quello, c'è un limite per me invalicabile alle stranezze che sono disposto ad accettare.

Jonathan mi lanciò un'occhiata strana. «Il bosco era pieno di uccelli, volpi e chi più ne ha più ne metta. Non avrei notato nulla di particolare, non in quel momento. Non so se ho reso bene l'idea dello stato in cui ci trovavamo. Non c'ero solo io, capisce? Era come se fossimo tutti fatti d'acido. Tremavo dalla testa ai piedi, non vedevo chiaramente, tutto continuava a scivolare via. Sandra stava… Sandra rantolava, come se non riuscisse a respirare. Shane era disteso sull'erba a fissare gli alberi ed era tutto un fremito. Cathal cominciò a ridere, barcollava per la radura ululando, gli dissi che gli avrei dato un cazzotto se non avesse…» Si fermò.

«Che c'è?» chiesi, dopo un po'.

«L'avevo dimenticato» continuò lentamente. «Io non… di certo non mi piace ripensare a certe cose. Me ne ero dimenticato… Se era qualcosa, mi intenda bene, visto il nostro stato mentale, può essere stata benissimo soltanto la nostra immaginazione.»

Attesi. Alla fine sospirò e fece un movimento, come una piccola scrollata di spalle. «Be', io la ricordo così: afferrai Cathal e gli dissi di chiudere la bocca o lo avrei colpito. Lui smise di ridere e mi prese per la maglietta… sembrava un matto, tanto che per un istante pensai che ci saremmo azzuffati. Ma c'era qualcuno che continuava a ridere. E non era uno di noi. Era lontano, in mezzo agli alberi. Sandra e Shane cominciarono a urlare entrambi… forse urlai anch'io, non lo so, ma la voce che rideva si faceva sempre più forte… Cathal mi lasciò andare e gridò qualcosa a proposito di quei ragazzini, ma non sembrava proprio…»

«Ragazzini?» ripetei freddamente. Stavo combattendo contro un impulso irrefrenabile di scappare a razzo. Non era possibile che Jonathan riconoscesse in me il bambino che bighellonava in giro, con i capelli molto più chiari di adesso e un accento e un nome diversi, ma mi sentivo comunque improvvisamente nudo ed esposto.

«Ah, c'erano questi ragazzini, piccoli, sui dieci, dodici anni, che giocavano sempre nel bosco. A volte ci spiavano, buttavano cose e poi scappavano, sa come funziona. Ma non mi sembrava uno di loro. Sembrava un uomo, o un ragazzo della nostra età. Non un bambino.»

Per una frazione di secondo fui lì lì per infilarmi nell'apertura che mi aveva fatto intravedere. Il lampo di circospezione si era dissolto e i piccoli e rapidi bisbigli negli angoli erano cresciuti fino a diventare un grido silenzioso, vicino, vicino come un respiro. Ce l'avevo sulla punta della lingua: "Quei bambini non vi stavano forse spiando, quel giorno? Non avevate paura che andassero a raccontarlo in giro? Cosa faceste per fermarli?". Ma poi il detective che era in me mi trattenne. Sapevo di avere una sola chance e che dovevo arrivarci sul mio terreno e con tutte le munizioni che riuscivo a portarmi.

Così chiesi: «Qualcuno di voi andò a vedere cosa fosse?»

Jonathan rifletté, a occhi chiusi, concentrato. «No. Come dicevo, eravamo tutti in stato di shock ed era decisamente più di quanto potessimo affrontare. Ero pietrificato, non ce l'avrei fatta a muovermi neppure volendo. Diventava sempre più forte, tanto che pensai che tutti gli abitanti sarebbero usciti per vedere cosa stava succedendo, e noi continuavamo a gridare… Alla fine smise… forse si spostò nel bosco, non so bene, e siccome Shane non la smetteva Cathal gli diede una sberla dietro la testa perché tacesse. Andammo via il più in fretta possibile. Tornai a casa, rubai un po' di roba forte da bere al mio vecchio e mi ubriacai come non mai. Non so cosa fecero gli altri.»

Con buona pace del misterioso animale selvatico di Cassie. Con ogni probabilità, c'era qualcun altro nel bosco quel giorno, qualcuno che, se aveva assistito alla violenza, quasi sicuramente aveva visto anche noi. Qualcuno che era poi di nuovo lì, una settimana o due dopo. «Ha qualche sospetto su chi potesse essere la persona che rideva?» chiesi.

«No. Ce lo domandò anche Cathal, dopo… Voleva sapere chi fosse, quanto avesse visto. Non ne ho idea.»

Mi alzai. «Grazie per il tempo che mi ha concesso, signor Devlin» conclusi. «Potrei avere bisogno di farle qualche altra domanda al riguardo più avanti, ma per il momento è tutto.»

«Aspetti» disse lui all'improvviso. «Pensa che sia stata Sandra a uccidere Katy?»

Aveva un'aria patetica, davanti alla finestra, con le mani strette a pugno nelle tasche del cardigan, ciononostante conservava un briciolo di sconsolata dignità. «No» risposi. «Non credo. Ma dobbiamo esplorare con attenzione tutte le possibilità.»

Jonathan annuì. «Immagino significhi che non avete un vero sospetto» disse. «No, lo so, lo so, non me lo può dire… se va a parlare con Sandra, le dica che mi dispiace. Abbiamo fatto una cosa orribile. So che è un po' tardi per scusarsi, avrei dovuto pensarci vent'anni fa, ma… glielo dica comunque.»


Quella sera andai a Mountjoy per incontrare Shane Waters. Sono certo che Cassie sarebbe venuta con me se l'avessi informata, ma era una faccenda che, per quanto possibile, volevo gestire da solo. Shane aveva una faccia da topo ed era agitato, portava baffetti rivoltanti ed era ancora pieno di brufoli. Mi ricordava Wayne il Tossico. Ricorsi a tutte le tattiche che conoscevo e promisi tutto quello che mi venne in mente, dall'immunità, al rilascio anticipato dalla condanna per rapina a mano armata, contando sul fatto che non fosse sufficientemente sveglio da sapere cosa potevo promettere e cosa no. Ma essendo uno dei miei punti deboli quello di sottovalutare il potere della stupidità, con l'inamovibile e irritante cocciutaggine di chi ha smesso da molto tempo di analizzare possibilità e ramificazioni, Shane rimase attaccato all'unica opzione che comprendeva. «Non so niente» continuò a ripetere, con una specie di anemico autocompiacimento che mi faceva venire voglia di urlare. «E non può provare il contrario.» Sandra, lo stupro, Peter e Jamie, anche Jonathan Devlin. «Non so di cosa sta parlando, amico.» Alla fine, quando mi resi conto che stavo seriamente correndo il rischio di gettargli qualcosa addosso, mollai la presa.

Sulla strada di casa inghiottii il mio orgoglio e chiamai Cassie, che non fece nemmeno finta di non avere intuito dove ero stato. Aveva trascorso la serata eliminando Sandra Scully dall'indagine. La notte in questione, Sandra aveva lavorato in un call center in città. Il suo responsabile e tutti gli altri del suo turno avevano confermato che era rimasta lì fino a poco prima delle due del mattino, quando aveva timbrato l'uscita e aveva preso il treno notturno per tornarsene a casa. Era una buona notizia – risistemava un po' le cose perché non mi piaceva l'idea di Sandra come possibile omicida – ma provai pena nell'immaginaria in un cubicolo senz'aria con luci al neon, circondata da studenti part-time e da attori in attesa di un provino.

Non mi dilungherò sui dettagli, ma ci impegnammo a fondo e con un'ingegnosità al limite della legalità nell'individuare il peggior momento per andare a parlare con Cathal Mills. Occupava una posizione abbastanza elevata dal nome incomprensibile in un'azienda che forniva "soluzioni aziendali di e-learning, software e localizzazione" (ne fui colpito perché non ritenevo possibile provare per lui più antipatia di quanta già non ne provassi). Gli piombammo tra capo e collo nel bel mezzo di un'importantissima riunione con un potenziale grosso cliente. Perfino l'edificio metteva i brividi: lunghi corridoi senza finestre e infinite rampe di scale che ti facevano perdere il senso dell'orientamento, aria tiepida miscelata con troppo poco ossigeno, un rumore basso e sordo quanto fastidioso prodotto dai computer e dal vocio controllato, enormi spazi occupati da cubicoli: una specie di labirinto per topi di uno scienziato pazzo. Cassie mi lanciò un'occhiata sconvolta mentre, al seguito di un androide, superavamo la quinta serie di porte che si aprivano solo con un badge.

Fu facile individuare Cathal nella sala riunioni: era quello al PowerPoint per le presentazioni. Era ancora un bell'uomo, alto e con le spalle larghe, gli occhi azzurri e luminosi e l'ossatura robusta… e pericolosa. Un po' di adipe, però, cominciava ad accumulargli in vita e ad appesantirgli la mascella. Ancora qualche anno e avrebbe assunto un'aria grossolana da suino. Il "nuovo cliente" erano quattro americani identici, privi di senso dell'umorismo e con addosso abiti scuri indistinguibili.

«Scusate, ragazzi» disse Cathal, rivolgendoci un aperto sorriso di avvertimento, «la sala riunioni è occupata.»

«Lo vedo bene» gli rispose Cassie. Si era abbigliata per l'occasione, con jeans strappati e una vecchia maglietta turchese con la scritta in rosso GLI YUPPY SANNO DI POLLO. «Sono il detective Maddox…»

«E io il detective Ryan» mi presentai, mostrando il distintivo. «Vorremmo farle qualche domanda.»

Il sorriso non si smosse, ma una fiammata furibonda gli attraversò lo sguardo. Capii che avevamo avuto ragione su di lui. «Non è un buon momento.»

«No?» fece Cassie, affabile, e si appoggiò con indolenza al tavolo così che l'immagine del PowerPoint svanì in qualcosa di informe che comparve sulla sua maglietta.

«No.» Cathal lanciò un'occhiata di sbieco ai suoi clienti che fissavano il vuoto con aria di disappunto o fingevano di esaminare carte.

«Mi sembra un ottimo posto per parlare» continuò lei, indicando la sala riunioni con l'aria di apprezzarla, «ma possiamo anche spostarci da noi, in sede, se lo preferisce.»

«Di cosa si tratta?» domandò Cathal. Fu un errore e se ne rese conto non appena ebbe pronunciato le parole. Se fossimo stati noi a parlare per primi, lì davanti ai cloni, sarebbe stato per notificargli una denuncia per molestie, e sembrava il tipo da querelarti. Invece no, era lui a domandare.

«Stiamo indagando sull'omicidio di una bambina» rispose Cassie, soave. «C'è la possibilità che il delitto sia collegato al presunto stupro di una ragazza e abbiamo ragione di credere che lei potrebbe essere utile alle indagini.»

Gli ci volle solo un mezzo secondo per riprendersi. «Non riesco a immaginare come» disse, serio. «Ma se si tratta di una bambina assassinata allora farò tutto quello che è in mio potere fare, naturalmente… Ragazzi» continuò, rivolto ai clienti, «mi scuso di questa interruzione, ma purtroppo il dovere chiama. Fiona vi accompagnerà a visitare l'edificio. Riprenderemo qui tra qualche minuto.»

«Ottimista» commentò Cassie con tono d'approvazione. «Mi piace l'ottimismo.»

Cathal la guardò malissimo e premette un pulsante su di un oggetto che si rivelò un interfono. «Fiona, potresti venire in sala riunioni e accompagnare questi signori a fare un tour del palazzo?»

Tenni la porta aperta per i cloni, i quali uscirono in fila con facce impassibili. «È stato un piacere» dissi congedandomi da loro.

«Erano della CIA?» fece Cassie, a bassa voce ma non troppo.

Cathal aveva già estratto il cellulare. Chiamò il suo avvocato, in maniera ostentata, credo per intimidirci, poi richiuse il telefono con uno scatto e, appoggiandosi allo schienale della poltrona, aprì bene le gambe e osservò lungamente Cassie con un lento e deliberato godimento. Per un folle istante fui tentato di dirgli qualcosa del tipo: "Mi hai dato tu la mia prima sigaretta, te lo ricordi?", solo per vedergli cascare le sopracciglia, per fargli sparire dalla faccia quel ghigno untuoso. Cassie sbatté le palpebre e gli rivolse un finto sorriso civettuolo. Perse la calma e diede una manata al bracciolo della poltrona, distendendo contemporaneamente il braccio per dare un'occhiata al Rolex.

«Ha fretta?» si informò Cassie.

«Il mio avvocato sarà qui tra venti minuti» rispose Cathal. «Ma per risparmiare il vostro e il mio tempo, oltre al disturbo, vi annuncio che non avrò nulla da dirvi nemmeno quando arriverà.»

«Oooh» disse Cassie, appollaiandosi sulla scrivania, su una pila di documenti. Cathal la squadrò, ma decise di non abboccare alla provocazione. «Stiamo sprecando ben venti minuti del preziosissimo tempo di Cathal. In fin dei conti, ha solo partecipato allo stupro di gruppo di una ragazzina. La vita è così ingiusta.»

«Maddox» intervenni.

«Non ho mai violentato una ragazza in vita mia» controbatté Cathal, con un sorrisetto disgustoso. «Non ne ho mai avuto bisogno.»

«Vedi, Cathal, è qui che la faccenda si fa interessante» proseguì Cassie in tono confidenziale. «Mi sembri un tipo che è stato un bel ragazzo. Così non posso fare a meno di chiedermi: hai delle difficoltà di carattere sessuale? È una cosa comune tra gli stupratori, sai? È per questo che hai bisogno di violentare le donne: cerchi disperatamente di provare a te stesso che sei come gli uomini veri, nonostante il tuo problemino.»

«Maddox…»

«Meglio per lei che stia zitta» disse Cathal.

«Che c'è, Cathal? Non riesci a fartelo venire duro? Sei ipodotato?»

«Mi faccia vedere il suo distintivo» scattò Cathal. «Presenterò denuncia. La cacceranno a calci nel culo prima ancora che possa capire cosa è stato.»

«Maddox» ripetei con durezza, imitando O'Kelly. «Devo dirti una parola. Adesso.»

«Sai, Cathal» concluse Cassie in tono di solidarietà, «oggi la scienza medica può aiutare molto in situazioni di quel tipo.» L'afferrai per un braccio e la spinsi fuori dalla porta.

In corridoio, a voce bassa ma udibile, la strapazzai un po': stupida stronza, un po' di rispetto, non è neanche un sospetto, bla bla bla. (Che non fosse "neanche un sospetto" era vero perché avevamo scoperto, con un po' di delusione, che Cathal aveva trascorso le prime tre settimane di agosto in cerca di nuovi clienti negli Usa e che c'erano le carte di credito con le quali aveva pagato i notevoli conti a provarlo.) Cassie sfoderò un sorriso e fece il segno dell'OK.

«Mi dispiace moltissimo, signor Mills» dissi, rientrando in sala riunioni.

«Non invidio il suo lavoro, amico» disse Cathal. Era furibondo, con macchie rosse sugli zigomi. Mi chiesi se Cassie non l'avesse in realtà punto sul vivo con qualche affermazione, e se Sandra non le avesse rivelato particolari che lei non aveva condiviso con me.

«Senta una cosa» ricominciai, sedendomi di fronte a lui e passandomi una mano esausta sulla faccia. «È con noi solo per una questione di quote. Non perderei tempo con una querela. Non la rimproverebbero nemmeno per paura che si rivolga alla Commissione per le pari opportunità. Ma i ragazzi e io la sistemeremo, mi creda. Ci dia solo un po' di tempo.»

«Lei sa di cosa ha bisogno quella troia, vero?» disse Cathal.

«Sì, lo sappiamo tutti di cosa ha bisogno» risposi, «ma lei ce l'avrebbe il coraggio di avvicinarsi per darglielo?»

Ci facemmo una risatina, tra uomini. «Ascolti» proseguii, «devo dirle che non c'è alcuna possibilità che qualcuno venga arrestato per quel presunto stupro. Anche se si tratta di una storia vera, è un reato ormai caduto in prescrizione. Io sto lavorando a un caso di omicidio. Non me ne frega un cazzo di quell'altra storia.»

Cathal estrasse dalla tasca un pacchetto di gomme da masticare sbiancanti, se ne infilò una in bocca e mi lanciò il pacchetto. A me fanno schifo, ma ne presi una comunque. Si stava calmando, il rossore stava svanendo. «State investigando sulla faccenda della ragazzina dei Devlin?»

«Esatto» risposi. «Lei conosceva il padre, giusto? Ha mai incontrato Katy?»

«Macché. Conoscevo Jonathan quando eravamo ragazzi, ma ci siamo persi di vista. Sua moglie è un incubo. È come cercare di fare conversazione con la carta da parati.»

«L'ho conosciuta» dissi, con un sorriso sardonico.

«Quindi, cos'è tutta questa faccenda dello stupro?» chiese Cathal. Masticava tranquillamente la gomma, ma aveva uno sguardo circospetto da animale.

«In pratica» spiegai, «stiamo controllando tutto quello che ha a che vedere con la vita dei Devlin e ci è giunto all'orecchio che lei, Jonathan Devlin e Shane Waters, nell'estate dell'84, faceste una cosa non troppo bella a una ragazza. Cosa accadde veramente?» Avrei voluto impiegare qualche altro minuto a creare il canonico legame di solidarietà tra maschi, ma non c'era tempo. Quando fosse arrivato il suo avvocato qualsiasi altra mossa da parte mia sarebbe stata preclusa.

«Shane Waters» ripeté Cathal. «Ecco un nome che non sentivo da un bel po'.»

«Può non dire nulla finché non arriva il suo avvocato» azzardai, «ma lei non è sospettato di questo omicidio. So che non era nemmeno in patria quella settimana. Voglio solo recuperare quante più informazioni posso sui Devlin.»

«Pensa che sia stato Jonathan a far fuori la piccola?» Cathal sembrava divertito.

«Me lo dica lei. Lo conosce meglio di me.»

Cathal appoggiò la testa allo schienale e rise. E fu come se perdesse vent'anni. Per la prima volta, assunse qualcosa di familiare: il bel taglio crudele delle labbra, il luccichio scaltro negli occhi. «Ascolti, amico, lasci che le dica una cosa su Devlin. Quell'uomo è una fottutissima femminuccia. Forse continuerà a fingere di essere un duro, ma non si faccia ingannare: non ha mai corso un rischio in tutta la sua vita senza che ci fossi io a dargli una spinta. Ecco perché oggi lui è quello che è e io» indicò la sala riunioni con un movimento del mento, «sono qui.»

«Quindi lo stupro non fu una sua idea.»

Scosse la testa e fece segno di no con un dito, ghignando, come a dire: "Ci hai provato". «Chi le ha detto che c'è stato uno stupro?»

«Avanti, amico» dissi, ricambiando il ghigno, «sa che non glielo posso rivelare. Testimoni.»

Cathal fece crepitare la gomma che stava masticando e mi fissò. «Okay» acconsentì alla fine. Tracce di sorriso gli aleggiavano ancora agli angoli della bocca. «Mettiamola così. Non c'è stata violenza, ma se, e sottolineo se, ci fosse stata, Jonner non avrebbe mai e poi mai avuto le palle anche solo per pensarci. Avrebbe trascorso le settimane seguenti in un tale stato di paura da farsela nelle mutande, a temere che qualcuno che avesse assistito andasse alla polizia, a blaterare che saremmo finiti tutti in galera, che era meglio costituirsi… Il ragazzo non ha il coraggio di ammazzare un gattino, figuriamoci una bambina.»

«E lei?» chiesi. «Lei non si sarebbe preoccupato che quei testimoni facessero la spia?»

«Io?» Il sorriso gli si allargò di nuovo sul volto. «Neanche per sogno, amico. Se, ipoteticamente, qualcosa del genere fosse successa, sarei stato fottutamente orgoglioso di me stesso e certo di farla franca.»


«Voto per arrestarlo» annunciai quella sera, da Cassie. Sam era a Ballsbridge, a un ricevimento con ballo e champagne annessi per il ventunesimo compleanno di suo cugino, così c'eravamo solo noi due, seduti sul divano a bere vino e a decidere come perseguire Jonathan Devlin.

«Per cosa?» domandò Cassie, ragionevole come sempre. «Non possiamo incastrarlo per lo stupro. Potremmo forse avere qualcosa per Peter e Jamie, solo che non abbiamo un testimone che ce li posizioni sulla scena della violenza e viene quindi a mancare il movente. Sandra non vi ha visti e se ti facessi avanti renderesti evidente il tuo coinvolgimento nel caso, a parte che O'Kelly ti taglierebbe le palle e le userebbe come decorazioni natalizie. E non abbiamo un solo elemento che colleghi Jonathan alla morte di Katy, solo disturbi di stomaco che potrebbero e non potrebbero essere dovuti a un abuso, e anche lì, potrebbe e non potrebbe essere stato lui. Tutto quello che possiamo fare è chiedergli di venire da noi per rispondere a qualche domanda.»

«Vorrei solo farlo uscire da quella casa» riflettei lentamente. «Sono preoccupato per Rosalind.» Era la prima volta che davo voce al disagio che sentivo. Era cresciuto in me, gradatamente e solo in parte riconosciuto, fin dalla prima, frettolosa telefonata che mi aveva fatto, ma negli ultimi due giorni aveva raggiunto un picco che non potevo ignorare.

«Rosalind? Perché?»

«Hai detto tu che il nostro uomo non uccide a meno che non si senta minacciato. Ci sta perfettamente con tutto quello che abbiamo sentito. Secondo Cathal, Jonathan era terrorizzato all'idea che raccontassimo della violenza, così sistema la faccenda con noi. Katy decide di smettere di stare male, magari lo minaccia di raccontare tutto, così lui la uccide. Se scopre che Rosalind ha parlato con me…»

«Non credo che tu ti debba preoccupare per lei» disse Cassie. Finì il vino. «Potremmo sbagliarci del tutto su Katy, dopotutto sono solo congetture. E non darei troppo peso a quello che ha detto Cathal Mills. Ha tanto l'aria di uno psicopatico e per gli psicopatici è più facile mentire che dire la verità.»

Inarcai le sopracciglia. «L'hai incontrato solo cinque minuti. Cos'è? Gli fai la diagnosi? A me è sembrato solo un cazzone.»

Lei fece spallucce. «Non sto dicendo che sono certissima su Cathal. Ma se sai dove guardare, sono incredibilmente facili da individuare.»

«Te l'hanno insegnato al Trinity?»

Cassie allungò la mano perché le passassi il mio bicchiere e andasse a riempirlo insieme al suo. «Non esattamente» rispose, dal frigo. «Ho conosciuto uno psicopatico una volta.»

Mi dava la schiena, e se c'era una qualche strana inflessione nella sua voce non la colsi. «In un programma su Discovery Channel dicevano che il cinque per cento della popolazione è costituita da psicopatici» osservai, «ma la maggior parte di loro non infrange la legge e quindi il loro disagio mentale non viene mai diagnosticato. Quanto vuoi scommettere che la metà di quelli al governo…»

«Rob» mi interruppe Cassie. «Stai zitto, per favore. Sto cercando di raccontarti una cosa.»

Questa volta percepii la tensione. Mi si avvicinò e mi passò il bicchiere. Portò il suo alla finestra e si appoggiò al davanzale. «Volevi sapere perché ho lasciato l'università» disse, con molta calma. «Il secondo anno feci amicizia con un tipo con cui andavo a lezione. Era molto conosciuto: belloccio, affascinante, intelligente, insomma interessante. Non era che gli stessi dietro o roba del genere, ma immagino che fossi lusingata dal fatto che mi degnasse di una qualche considerazione. Saltavamo le lezioni e passavamo ore al bar. Mi faceva dei regali, cose da poco, e alcune sembravano anche usate, ma eravamo studenti squattrinati, e poi, è il pensiero che conta, no? Tutti ritenevano che quello che c'era fra noi fosse bellissimo. Che fossimo così amici.»

Bevve un sorso ma lo mandò giù a fatica. «Scoprii molto presto che raccontava un sacco di balle senza un valido motivo. Sapevo che… Be', me l'aveva detto lui che aveva avuto un'infanzia orribile e che a scuola era preso di mira dai suoi compagni, così mi dissi che aveva sviluppato l'abitudine di mentire per proteggersi. Pensavo… Cristo santo, pensavo di poterlo aiutare: se si fosse convinto di avere un'amica su cui poter contare a prescindere da qualsiasi cosa, la sua autostima sarebbe cresciuta e non avrebbe più avuto bisogno di mentire. Avevo solo diciotto, diciannove anni.»

Non osavo muovermi, anche solo per appoggiare il bicchiere. Temevo che anche il più piccolo movimento sarebbe stato quello sbagliato, quello che l'avrebbe fatta scostare dal davanzale e rinunciare ad andare avanti su quell'argomento. La bocca tesa e distorta in una strana smorfia la faceva sembrare molto più vecchia e mi fece capire che quella era una storia che non aveva mai raccontato a nessuno.

«Non mi rendevo nemmeno conto che mi stavo allontanando da tutti gli altri amici che mi ero fatta, ma lui metteva il broncio e si mostrava distante se li frequentavo. A dire il vero, musone e distante lo era spesso, per le ragioni più disparate, e io ci mettevo un tempo infinito a cercare di capire cosa avessi fatto, a chiedere scusa e a metterci una pezza. Quando ci incontravamo non sapevo mai se sarebbe stato tutto abbracci e complimenti o freddezza e sguardi di disapprovazione, non c'era una logica. A volte le cose che faceva… anche piccole cose come prendere in prestito i miei appunti poco prima degli esami, dimenticare di riportarmeli per giorni e sostenere poi di averli persi, salvo indignarsi quando glieli vedevo spuntare dalla borsa… mi mandavano in bestia a tal punto che l'avrei ucciso a mani nude. Ma poi era carino quel tanto che bastava perché non volessi smettere di frequentarlo.» Fece un mezzo sorriso. «Non volevo ferirlo.»

Le occorsero tre tentativi per accendere una sigaretta… La Cassie che mi aveva raccontato di essere stata accoltellata senza sconvolgersi più di tanto… «Comunque» riprese, «la cosa andò avanti per quasi due anni. Nel mese di gennaio del quarto anno ci provò con me, nel mio appartamento. Lo respinsi… Non so perché, a quel punto ero talmente confusa che sapevo a stento quello che facevo, ma grazie a Dio avevo ancora un po' d'istinto a guidarmi. Dissi che volevo restassimo semplicemente amici, lui sembrò d'accordo, parlammo un altro po', poi se ne andò. Il giorno seguente, a lezione, tutti mi guardavano e nessuno voleva parlarmi. Mi ci vollero due settimane per capire cosa era successo. Alla fine bloccai una ragazza con la quale ero stata amica il primo anno, Sarah-Jane, e fu lei a dirmi che lo sapevano tutti quello che gli avevo fatto.»

Aspirò una rapida boccata dalla sigaretta. Mi stava guardando, senza vedermi, in realtà, perché aveva le pupille troppo dilatate. Pensai allo sguardo intontito e narcotizzato di Jessica Devlin. «La sera in cui l'avevo respinto, era andato direttamente all'appartamento di altre ragazze che studiavano con noi. In lacrime. Aveva raccontato che da un po' lui e io uscivamo insieme in gran segreto. Poi però lui aveva deciso che non funzionava e io avevo minacciato che se rompeva con me avrei detto a tutti che mi aveva violentata, sarei andata alla polizia, ai giornali, gli avrei rovinato la vita.» Cercò di scrollare la sigaretta nel posacenere, ma lo mancò completamente.

In quel momento non mi venne in mente di chiedermi perché mi stesse raccontando quella storia, perché solo allora. Potrà sembrare strano, ma quel mese tutto era stato insolito, vagamente precario. Nel preciso istante in cui aveva pronunciato le parole "lo prendiamo noi" Cassie aveva dato l'avvio a un movimento tellurico inarrestabile. Cose familiari mi si aprivano e si rivoltavano sotto gli occhi, il mondo diventava bellissimo e pericoloso come una scintillante lama rotante. Quella storia, Cassie che apriva la porta di una delle sue stanze segrete, sembrava una parte naturale e inevitabile di quel cambiamento epocale. E, in un certo senso, immagino che lo fosse. Solo molto tempo dopo mi sarei reso conto che aveva cercato di dirmi una cosa ben specifica, se solo avessi prestato più attenzione.

«Mio Dio» commentai dopo un po'. «Solo perché gli avevi ammaccato l'ego?»

«Non solo» rispose Cassie. Indossava una morbida maglia color ciliegia. Notai che si alzava e si abbassava velocemente sopra i seni. Anche il mio cuore batteva forte. «Perché era annoiato. Perché, respingendolo, avevo espresso chiaramente che quello era il massimo divertimento che avrebbe ottenuto da me, così come era anche il massimo uso che avrei potuto fare di lui. Perché, se ci pensiamo, era solo divertimento.»

«Lo dicesti a Sarah-Jane quello che era successo?»

«Oh, certo» rispose Cassie con tono neutro. «Lo dissi a tutti quelli che non avevano smesso di parlarmi. Nessuno mi credette. Credettero a lui… i nostri colleghi, le conoscenze che avevamo in comune, in pratica tutti. Gente che in teoria sarebbe dovuta essere mia amica.»

«Oh, Cassie» dissi. Mi stavo trattenendo dall'andare da lei, abbracciarla, tenerla stretta fino a quando quella terribile rigidità non si fosse sciolta, fosse uscita dal suo corpo e lei fosse tornata dal luogo remoto dov'era finita. Ma quell'immobilità, quelle spalle incurvate come per proteggersi… non capivo se le avrebbe fatto piacere o se sarebbe stata la cosa peggiore che potessi fare. Date la colpa al collegio o, se preferite, a un difetto ben radicato del mio carattere. Il fatto è che non sapevo come comportarmi. Col senno di poi, dubito che avrebbe fatto differenza, ma mi fa desiderare ancora di più che avessi saputo cosa fare.

«Tenni duro per un altro paio di settimane» riprese Cassie. Si accese un'altra sigaretta con il mozzicone di quella precedente, cosa che non le avevo mai visto fare. «Era sempre circondato da persone che lo trattavano in maniera protettiva e mi guardavano male. Venivano da me e mi dicevano che era per colpa di donne come me se i veri stupratori la facevano franca. Una ragazza arrivò a dirmi che meritavo di essere stuprata, così avrei capito che cosa orribile avevo fatto.»

Rise, aspra. «Ironico, vero? Un centinaio di studenti di psicologia e nessuno che avesse riconosciuto il classico psicopatico. Sai la cosa strana? Mi sarebbe piaciuto che avessi fatto tutte le cose che sosteneva lui. Se così fosse stato, avrebbe avuto senso: avrei avuto quello che mi meritavo. Ma non avevo fatto nulla, eppure stava andando come stava andando. Non c'era correlazione di causa-effetto. Temetti di perdere la ragione.»

Mi sporsi in avanti, lentamente, come avrei fatto con un animale spaventato, e le presi una mano. Quel poco almeno riuscii a farlo. Rise, piano, mi strinse le dita e poi le lasciò. «Comunque… alla fine un giorno venne da me, in mensa. Tutte le altre ragazze cercarono di fermarlo, ma lui le respinse, venne coraggiosamente da me e disse ad alta voce, perché potessero sentirlo: "Ti prego, smettila di chiamarmi nel bel mezzo della notte. Ma che cosa ti ho fatto?". Rimasi di stucco. Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando. L'unica cosa che mi venne in mente di dire fu: "Ma non ti ho chiamato". Lui sorrise e scosse la testa, come a dire "certo, come no?", poi si piegò verso di me e, con un tono allegro, da discorso d'affari, mi bisbigliò: "Se mai m'infilassi in casa tua e ti violentassi, non credo che le tue accuse reggerebbero, che ne dici?". Mi sorrise di nuovo e tornò dalle sue amiche.»

«Piccola» dissi alla fine, con cautela, «magari è meglio se fai installare un allarme qui. Non voglio spaventarti, ma…»

Cassie scosse la testa. «E poi? Non esco più di casa? Non posso permettermi di diventare paranoica. La serratura funziona bene e tengo la pistola vicino al letto.» L'avevo notato, naturalmente, ma non sono pochi i detective che, non sentendosi al sicuro, hanno un revolver a portata di mano. «E comunque sono abbastanza sicura che non lo farebbe mai. So come gira la sua testa, purtroppo. Si diverte di più a pensare che me ne sto qui tutto il tempo a rodermi nell'attesa piuttosto che fare quello che deve fare e finirla lì.»

Fece l'ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone. Aveva la schiena così rigida che il movimento parve doloroso. «All'epoca, però, l'intera faccenda mi spaventò eccome, tanto che mollai l'università. Andai in Francia, ho dei cugini a Lione. Rimasi da loro per un anno. Lavorai come cameriera in un bar. Un bel periodo. Fu lì che comprai la Vespa. Poi tornai e feci domanda a Templemore.»

«Per causa sua?»

Si strinse nelle spalle. «Forse. Primo, magari qualcosa di buono è venuto fuori da tutta quella faccenda. Secondo, ora ho degli ottimi sensori per gli psicopatici. È come un'allergia: esposto una volta, rimani sensibilizzato per sempre.» Finì di bere con un lungo sorso. «L'anno scorso mi sono imbattuta in Sarah-Jane, in un pub in città. L'ho salutata, mi ha detto che lui se la cavava bene "nonostante tutti i tuoi sforzi" e se n'è andata.»

«I tuoi incubi riguardano questa cosa?» chiesi con gentilezza, dopo un po'. L'avevo svegliata io da quei sogni, un paio di volte, mentre lavoravamo a casi di omicidio con stupro, ma non aveva mai voluto rivelarmi i dettagli: agitava le braccia in maniera scomposta verso di me, annaspava pronunciando fiumi di parole incomprensibili e piene di angoscia.

«Esatto, sogno che è lui il tizio che dobbiamo prendere, ma non possiamo provarlo e quando scopre che al caso ci lavoro io… be', fa quello che deve fare.»

Diedi per scontato, all'epoca, che sognasse quell'uomo mentre metteva in atto la sua minaccia. Ora penso che mi sbagliassi, e credo che possa essere stato, anche se ne ho molti tra cui scegliere, il mio più grande errore.

«Come si chiamava?» chiesi. Volevo disperatamente fare qualcosa, risolvere quella situazione in qualche modo, magari fare un controllo generico sul tipo e cercare qualche motivo per arrestarlo. Era l'unica azione che mi veniva in mente. E immagino che una piccola parte di me, per crudeltà o per distaccata curiosità o chissà per cos'altro, avesse notato che Cassie si rifiutava di dirlo e volesse stare a vedere cosa sarebbe successo se l'avesse detto.

Gli occhi di Cassie incontrarono i miei e rimasi scosso dal concentrato di odio, duro come il diamante, che vi scorsi. «Legion» rispose.


Il giorno seguente, facemmo venire Jonathan in ufficio. Lo chiamai e, con la voce più professionale che mi riuscì, gli chiesi se non gli dispiaceva fermarsi da noi dopo il lavoro, solo per darci una mano con alcune faccende. La stanza degli interrogatori principale, quella grande con la sala d'osservazione per i confronti all'americana, era occupata da Sam, alle prese con Andrews, ma a noi andava bene così. Volevamo una stanza piccola; più piccola era meglio andava, per noi. «Gesù, Giuseppe e Maria e tutti i sette nani» esclamò O'Kelly, «d'un tratto spuntano sospetti come funghi. Avrei dovuto togliervi prima gli agenti di supporto, farvi sbattere un po' e obbligarvi a tirare su quel culo dalle sedie.»

Preparammo la stanza con la stessa cura di un set teatrale. Foto di Katy da viva e da morta su mezzo muro, e di Peter e Jamie, delle impressionanti scarpe da ginnastica e dei graffi sulle mie ginocchia sull'altra metà. Avevamo anche una foto delle mie unghie spezzate, ma metteva più a disagio me di quanto non avrebbe fatto con Jonathan – ho i pollici dalla forma molto particolare e già a dodici anni le mie mani erano quasi come quelle di un uomo adulto – e Cassie non disse nulla quando la rimisi nel dossier. Ammonticchiati in un angolo c'erano mappe, grafici, un po' di roba esoterica, analisi ematiche, tempistiche, dossier e scatole dalle etichette misteriose.

«Dovrebbe bastare» dissi, osservando il risultato finale. In effetti era notevole, con un che da incubo.

«Già.» L'angolo di una delle foto dell'autopsia si stava staccando dalla parete e Cassie, sovrappensiero, la rimise a posto. La sua mano restò lì per un istante, i polpastrelli lievemente appoggiati sul braccio grigio e nudo di Katy. Sapevo cosa stava pensando: se Devlin era innocente, allora quello che stavamo per fare era una crudeltà gratuita. Io però non avevo spazio per quel genere di preoccupazioni. Più spesso di quanto non vogliamo ammettere, la crudeltà fa parte del nostro mestiere.

Avevamo ancora una mezz'ora prima che Devlin smontasse dal lavoro ed eravamo troppo agitati per intraprendere altre attività. Uscimmo dalla stanza degli interrogatori, che cominciava a mettermi un po' in agitazione con tutti quegli occhi sgranati che guardavano. Mi dissi che era un buon segno e andai nella sala di osservazione a vedere come se la stava cavando Sam.

Aveva fatto la sua brava ricerca e ora Terence Andrews aveva una bella porzione di lavagna bianca tutta per sé. Proveniva da una lunga tradizione di agricoltori di Westmeath. Aveva studiato commercio all'università di Dublino e sebbene si fosse laureato con un voto mediocre aveva apparentemente sviluppato un'ottima padronanza degli elementi di base: a ventitré anni aveva sposato Dolores Lehane, una giovane della Dublino bene conosciuta mentre studiava lettere, e il padre di lei, un immobiliarista, lo aveva avviato nell'ambiente. Dolores lo aveva lasciato quattro anni prima e viveva a Londra con il cugino di lui e un notevole assegno per gli alimenti. Il matrimonio non era stato benedetto dall'arrivo di figli, ma si era rivelato tutt'altro che improduttivo: Andrews disponeva infatti di un piccolo ma attivissimo impero concentrato nell'area metropolitana di Dublino ma con avamposti a Budapest e a Praga, e si diceva che gli avvocati di Dolores e il fisco non ne conoscessero nemmeno la metà.

Secondo Sam, però, si era lasciato trascinare un po' troppo. L'appariscente casa da dirigente d'azienda, la macchina da pappone (una Porsche argento personalizzata, con vetri oscurati e cromature, il set completo insomma) e la tessera del golf club erano solo una facciata. Andrews in realtà non aveva più contante di me, il direttore della sua banca si stava agitando e nel corso degli ultimi sei mesi aveva cominciato a svendere appezzamenti di terreno di sua proprietà, ancora non sfruttati, per saldare le numerose ipoteche. «Se quell'autostrada non attraverserà Knocknaree, e in fretta» riassunse, «il ragazzo è con le pezze al culo.»

Andrews non mi era piaciuto fin da prima di conoscerne il nome, e non vidi nulla che potesse farmi cambiare opinione. Non molto alto, stava perdendo i capelli ed era rubicondo e robusto. Aveva una grossa pancia e si notava un leggero strabismo a un occhio, ma se molti uomini avrebbero cercato di nascondere quei difetti, lui li usava come armi: si portava in giro la pancia prominente come se fosse stata uno status symbol, come se il messaggio da cogliere dovesse essere: "Niente Guinness da poco, qui, bellezza, questa l'ho costruita con ristoranti dove tu non potresti permetterti di andare neanche fra cent'anni", e tutte le volte che Sam si distraeva e si guardava dietro le spalle per scoprire cosa stesse osservando l'occhio strabico del suo ospite, la bocca di Andrews si torceva in un piccolo ghigno di cattiveria e di trionfo.

L'unica cosa interessante che lo riguardava era, sorprendentemente, il bel completo che indossava. Se avessi dovuto immaginarlo, mi sarei aspettato un abito firmato, con la griffe ben in vista, ma che gli cadeva male addosso. Il vestito che portava, invece, era stato cucito a mano e il tessuto era di una morbida lana grigia con una lieve sfumatura di verde. Sotto, indossava una camicia color avorio con un leggero rigato color salvia. Non so bene perché, ma quella piccola incongruità mi spinse a pormi delle domande, a dire il vero per la prima volta, sulla linea d'indagine di Sam. Mi domandai se Andrews potesse essere più subdolo e pericoloso di quanto gli dessi credito.

Si era fatto accompagnare dal suo legale, naturalmente, e rispondeva a una domanda su dieci. Sam era riuscito, lavorando con accanimento su una pila di documenti da far girare la testa, a dimostrare che era proprietario di grossi appezzamenti di terreno a Knocknaree. Solo a quel punto Andrews aveva smesso di negare di avere anche mai sentito nominare quel luogo. Ma non c'era modo di fargli aprire bocca sulla sua situazione finanziaria, anzi diede a Sam una pacca sulle spalle e gli disse affabilmente: «Se avessi uno stipendio da poliziotto, Sam, ragazzo mio, sarei più preoccupato delle mie finanze che di quelle di chiunque altro» mentre l'avvocato mormorava con tono spento: «Il mio cliente non può rivelare informazioni su questo argomento» e tutti e due si mostravano profondamente scioccati nell'udire delle telefonate minatorie. Mi agitavo e controllavo l'orologio ogni trenta secondi. Cassie era appoggiata al vetro e mangiava una mela, offrendomene di tanto in tanto un morso, sovrappensiero.

Andrews però aveva un alibi per la notte in cui era morta Katy, e dopo una bella quantità di risentita retorica acconsentì a fornirlo. Aveva passato la serata a giocare a poker a Killiney con alcuni dei "ragazzi" e quando avevano finito, intorno a mezzanotte, aveva deciso di non tornare a casa in auto. «I poliziotti non sono più comprensivi come una volta» aggiunse, facendo un occhiolino a Sam. Così era rimasto a dormire nella stanza degli ospiti. Fornì i nomi e i numeri di telefono dei "ragazzi" perché Sam potesse avere conferma della situazione.

«Allora è fantastico» concluse Sam. «Dovremo solo confrontare le voci per poterla eliminare come autore delle telefonate.»

Un'espressione ferita si materializzò sul volto tozzo di Andrews. «Sono certo che si renderà conto, caro Sam, di non potersi aspettare da me più di quanto abbia già fatto» rispose, «dopo il modo in cui sono stato trattato.» Cassie cominciò a ridacchiare.

«Mi dispiace che si senta così, signor Andrews» disse Sam in tono severo. «Può dirmi quali aspetti del trattamento che le abbiamo riservato hanno rappresentato un problema, per l'esattezza?»

«Mi avete trascinato qui, facendomi perdere gran parte di una giornata di lavoro, Sam, e mi avete trattato come un sospettato» rispose Andrews, la voce che gli si gonfiava e vibrava a causa dell'ingiustizia subita. Anch'io cominciai a ridere. «Ora, so bene che siete abituati ad avere a che fare con gente da poco che non ha niente di meglio da fare, ma deve capire cosa significa tutto questo per un uomo della mia posizione. Sto perdendo opportunità d'oro perché sono qui ad aiutarvi, potrei avere già rinunciato a qualche migliaio di euro e adesso pretende anche che stia qui a fare non so cosa con la voce per un uomo di cui non ho mai neanche sentito parlare?» Sam aveva ragione: aveva una vocetta stridula da tenore.

«Nessun problema, questo lo risolviamo» disse Sam. «Non è necessario farlo adesso il confronto vocale. Se le aggrada, può tornare questa sera o domattina, in ore per lei non lavorative. Organizzo io. Le può andare bene?»

Andrews sporse le labbra. L'avvocato, un tipo neutro per natura, non mi ricordo neanche che faccia avesse, sollevò un dito esitante e chiese di poter conferire per qualche istante con il suo cliente. Sam spense la videocamera e venne a unirsi a noi nella sala d'osservazione. Si allentò la cravatta.

«Ciao» ci salutò. «Bella vista, eh?»

«Avvincente» risposi. «Dev'essere anche più divertente da dentro.»

«Non ti dico. Una risata al minuto. Cristo, avete visto quel maledetto occhio? Mi ci è voluto parecchio prima di capire perché all'inizio pensavo che non riuscisse a mantenere l'attenzione per più di…»

«Il tuo sospettato è più divertente del nostro» si intromise Cassie. «Quello che ci ritroviamo noi non ha neanche un tic o roba del genere.»

«A proposito» dissi, «non programmare il confronto vocale per questa sera. Devlin ha già un altro appuntamento, e dopo, se siamo fortunati, potrebbe non essere dell'umore per fare altro.» Se fossimo stati veramente fortunati, avremmo potuto chiudere il caso, entrambi i casi, quella sera stessa senza che Andrews dovesse fare altro, ma non ne accennai. Al solo pensiero, mi si stringeva la gola.

«Oddio, giusto» disse Sam. «L'avevo dimenticato, scusate. Ma abbiamo messo un bel po' di carne al fuoco, no? Due sospetti in un giorno.»

«Siamo forti, cazzo» commentò Cassie. «Un bel cinque per Andrews!» Incrociò gli occhi e partì con la mano per incontrare quella di Sam. La mancò. Eravamo tutti su di giri.

«Se qualcuno ti colpisce dietro la testa, rimani bloccato così» disse Sam. «È quello che è successo a Andrews.»

«E tu dagli un'altra botta e vedi di sbloccarlo» fece Cassie.

«Santo cielo, ma sei politicamente scorretta!» dissi. «Finisce che ti denuncio alla Commissione nazionale per i diritti degli strabici stronzi.»

«Senti chi parla. Sei un uomo bianco etero e quindi politicamente scorretto per definizione. Dovresti cedermi parte del tuo potere, non punzecchiarmi.»

«Non sono certo che il mondo sia pronto per una Cassie Maddox con più potere di così» la presi in giro.

«Non mi sta dicendo un cazzo di niente» ci interruppe Sam. «Ma va bene lo stesso. Non mi aspettavo granché da lui, oggi. Voglio solo innervosirlo un po' e che accetti di fare il confronto vocale. Una volta ottenuta un'identificazione, potremo metterlo un po' sotto pressione.»

«Aspettate un momento. Ma cos'è… sbronzo?» chiese Cassie. Si sporse fino ad appannare col respiro il vetro per osservare Andrews che gesticolava e bisbigliava furiosamente all'orecchio del suo avvocato.

Sam fece un largo sorriso. «Occhio di lince. Non credo sia proprio ubriaco, non abbastanza purtroppo da diventare ciarliero… ma in effetti emana odore di alcol, quando gli si va vicino. Se è bastato il pensiero di venire qui a scombussolarlo a tal punto da farsi un cicchetto, vuol dire che ha qualcosa da nascondere. Magari sono solo le telefonate, ma…»

Il legale di Andrews si alzò, si sfregò le mani lungo i lati dei pantaloni e fece nervosamente segno verso il vetro. «Secondo round» disse Sam mentre già cercava di rimettersi a posto il nodo della cravatta. «Ci vediamo dopo, ragazzi. Buona fortuna.»

Cassie mirò al cestino nell'angolo e lanciò il torsolo della mela. Lo mancò. «Tiro in sospensione di Andrews» commentò Sam, e si diresse verso l'uscita con un bel sorriso stampato in faccia.


Lo lasciammo al suo lavoro e uscimmo per fumarci una sigaretta. Forse sarebbe passato un po' di tempo prima che ne avessimo di nuovo la possibilità. C'è un ponticello sopraelevato che attraversa uno dei sentieri che entra nel giardino. Ci sedemmo lì, con la schiena appoggiata alla balaustra. La zona intorno al Castello aveva una colorazione dorata e nostalgica nella luce obliqua del tardo pomeriggio. Turisti in pantaloncini corti e con gli zaini si fermavano a osservare incuriositi le merlature. Uno di loro, non so per quale motivo, scattò una foto anche a noi. Un paio di bambini giocavano ai supereroi, con le braccia aperte, nell'intrico di sentieri del giardino.

L'umore era improvvisamente cambiato, l'esplosione di esuberanza si era dissipata e Cassie si era rinchiusa in un recinto di pensieri privati. Si teneva abbracciata alle ginocchia, volute di fumo salivano dalla sigaretta che bruciava, dimenticata, tra le sue dita. Di tanto in tanto le capita di essere di quell'umore. In quella circostanza ne fui felice. Neppure io avevo voglia di parlare. Riuscivo solo a pensare che stavamo per piombare su Jonathan Devlin con tutto quello di cui disponevamo; se mai fosse crollato, sarebbe stato quel giorno. In quel caso, non avevo la più pallida idea di quello che avrei fatto, di cosa sarebbe accaduto.

All'improvviso, Cassie sollevò la testa e andò con lo sguardo oltre le mie spalle. «Guarda» disse.

Mi voltai. Jonathan Devlin stava attraversando il cortile, con le spalle curve, le mani affondate nelle tasche del grande impermeabile marrone che indossava. Le linee altezzose degli alti edifici attorno a lui avrebbero dovuto schiacciarlo, invece mi sembrava che gli si conformassero, creando strane geometrie con lui come punto nodale, permeandolo di un significato denso e impenetrabile. Non ci aveva notati. Teneva la testa china e il sole, basso sui giardini, gli stava di fronte; forse a lui apparivamo solo come contorni indistinti, sospesi in una luminosa aureola come santi e doccioni scolpiti. Alle sue spalle, lasciava sull'acciottolato un'ombra lunga e ondeggiante.

Passò proprio sotto di noi e lo osservammo, da dietro, mentre avanzava verso l'entrata. «Be'…» Spensi la sigaretta. «Direi che è arrivato il nostro turno.»

Mi alzai e allungai una mano per aiutare Cassie a rimettersi in piedi, ma lei non si mosse. Mi fissò con occhi improvvisamente seri e indagatori.

«Cosa?» domandai.

«Non dovresti condurlo tu, questo interrogatorio.»

Non risposi. Rimasi lì sul ponte, con la mano protesa verso di lei. Dopo qualche istante, scosse la testa con aria disgustata e l'espressione di poco prima sparì. Mi afferrò la mano e si lasciò tirare su.


Lo portammo nella stanza degli interrogatori. Quando vide la parete sgranò gli occhi ma non proferì parola. «I detective Maddox e Ryan interrogano Jonathan Michael Devlin» pronunciò Cassie, rimescolando in una delle scatole e tirando fuori un fascicolo straripante. «Non è obbligato a dire nulla a meno che non lo desideri, ma tutto ciò che dirà verrà trascritto e potrà essere usato come prova. D'accordo?»

«Sono in arresto?» chiese Jonathan. Non si era mosso dalla porta. «Per cosa?»

«Cosa?» chiesi, stupito. «Ah, la lettura dei diritti… Santo cielo, no. È solo routine. Vogliamo solo aggiornarla sui progressi dell'indagine e vedere se ci può aiutare a fare un altro passo avanti.»

«Se fosse in arresto» aggiunse Cassie, lasciando cadere l'incartamento sul tavolo, «lo saprebbe. Per cosa pensava di poter essere in arresto?»

Jonathan si strinse nelle spalle. Lei gli sorrise, prese una sedia e la mise proprio di fronte alla spaventosa parete. «Prego, si sieda.» Dopo un momento, lui si tolse lentamente l'impermeabile e si sedette.

Lo aggiornai brevemente. Ero quello al quale lui aveva rivelato con fiducia la sua storia e quella era una piccola arma a corto raggio che non avevo intenzione di far esplodere fino al momento opportuno. Per il momento ero il suo alleato. Fui, in larga parte, onesto con lui. Gli parlai delle piste che avevamo battuto, degli esami di laboratorio eseguiti. Gli elencai, uno per uno, i sospetti che avevamo identificato ed eliminato: i compaesani convinti che lui stesse ostacolando il progresso, i pedofili e i tossici abituali, le Ombre in Tuta Sportiva, il tipo che pensava che il body di Katy fosse sfacciato, Sandra. Sentivo il fragile e silenzioso esercito di fotografie dietro di me, in attesa. Jonathan se la stava cavando bene, continuò a guardarmi fisso negli occhi per quasi tutto il tempo. Riuscivo però a vedere lo sforzo di volontà che si era imposto.

«Quindi, mi state dicendo che, in pratica, non avete concluso nulla» riassunse alla fine, con pesantezza. Appariva molto stanco.

«Oddio, no» intervenne Cassie. Era rimasta seduta all'angolo del tavolo, col mento appoggiato al palmo della mano, a osservare in silenzio. «Assolutamente no. Quello che il detective Ryan le sta dicendo è che abbiamo compiuto moltissimi progressi, in queste ultime settimane. Siamo riusciti a eliminare un sacco di gente. E questo è quello che ci resta.» Inclinò la testa verso la parete. Lui non le staccò mai gli occhi dal volto. «Abbiamo le prove che l'assassino di sua figlia è un uomo della zona, che conosce a fondo Knocknaree e dintorni. Disponiamo di prove scientifiche che collegano la sua morte con la scomparsa nel 1984 di Peter Savage e di Germaine Rowan, il che indica anche che l'assassino ha almeno trentacinque anni e ha mantenuto forti legami con l'area per oltre vent'anni. Molti degli uomini che corrispondono a questa descrizione hanno un alibi, quindi il campo si restringe ancor di più.»

«Le prove ci dicono anche» intervenni, «che non ci troviamo di fronte a un assassino che agisce sull'impeto del momento. Quest'uomo non ammazza a caso. Lo fa perché sente di non avere altra scelta.»

«Quindi pensate che sia un pazzo» disse Jonathan. Gli si contorse la bocca. «Un pazzo…»

«Non necessariamente» dissi. «Sto solo dicendo che a volte le situazioni sfuggono di mano, sfociano in tragedie che in realtà nessuno voleva accadessero.»

«Vede, signor Devlin, questo restringe ulteriormente il campo: cerchiamo qualcuno che conosceva tutti e tre i bambini e che aveva un motivo per volerli morti» spiegò Cassie. Stava in equilibrio sulle gambe posteriori della sedia, con le mani dietro la testa e gli occhi fissi su di lui. «Lo prenderemo. Ci stiamo avvicinando ogni giorno di più. Quindi, se c'è qualcosa che ci vuole dire… qualsiasi cosa, di entrambi i casi… questo è il momento.»

Jonathan non rispose subito. Fatta eccezione per il ronzio basso e sinistro delle luci al neon sopra di noi e il lento e monotono scricchiolio della sedia sulla quale Cassie si stava dondolando, la stanza era immersa nel silenzio. Jonathan spostò lo sguardo da Cassie alle fotografie: Katy sospesa in quell'impossibile arabesque, Katy che rideva su un prato verde con i capelli che svolazzavano da una parte e un panino in mano, Katy con un occhio semiaperto e sangue scuro incrostato sul labbro. Quello che vedevo sul volto dell'uomo era dolore nudo e crudo. Dovetti fare uno sforzo per non distogliere gli occhi e guardare altrove.

Il silenzio si protrasse. Riconobbi che, in maniera quasi impercettibile, qualcosa stava accadendo in Jonathan. C'è una sorta di crollo specifico della bocca e della colonna vertebrale, come un cedimento dei muscoli sottostanti, che i detective conoscono: appartiene all'istante che precede la confessione di un sospettato, quando alla fine, quasi con sollievo, lui lascia che le difese lo abbandonino. Cassie aveva smesso di dondolarsi sulla sedia e io sentivo il cuore in gola. Anche le fotografie, dietro di me, sembravano emettere piccoli respiri… inspiravano, trattenevano, espiravano… pronte a scivolare giù dalla parete, a involarsi lungo il corridoio e a uscire nella sera scura, liberate, se solo lui avesse detto la parola fatale.

Jonathan si passò duramente una mano sulla bocca, incrociò le braccia e ricambiò lo sguardo di Cassie. «No» disse. «Non c'è niente.»

All'unisono, Cassie e io lasciammo andare il fiato. In realtà sapevo che era stato troppo sperare che finisse così in fretta e ora, dopo quell'istante di trepida attesa, quasi non mi importava più. Perché a quel punto ero sicuro almeno che Jonathan sapesse qualcosa. Ce l'aveva praticamente detto.

Fu però uno shock. L'intero caso era stato così affollato di possibilità e di ipotesi ("Okay, ammettiamo solo per un secondo che sia stato Mark, va bene, e che la malattia e il vecchio caso alla fine non siano collegati, e che Mel stia dicendo la verità: da chi potrebbe essersi fatto aiutare per liberarsi del corpo?") che la certezza aveva cominciato a sembrare irraggiungibile, un lontano sogno d'infanzia. Mi sentivo come se mi fossi mosso tra abiti vuoti appesi in una soffitta poco illuminata e d'un tratto avessi sbattuto contro un corpo umano caldo, solido e vivo.

Cassie abbassò le gambe anteriori della sedia sul pavimento. «Va bene» disse, «va bene. Torniamo all'inizio. Lo stupro di Sandra Scully. Quando accadde, esattamente?»

La testa di Jonathan si voltò bruscamente verso di me. «Ha ragione» gli dissi. «Scadenza dei termini.» Non era vero perché, come avevamo avuto modo di scoprire, non c'era prescrizione per lo stupro, ma era irrilevante: non avevamo alcuna possibilità di incriminarlo comunque.

Mi rivolse una lunga e diffidente occhiata. «Estate dell'84» si decise alla fine. «Non saprei dirle la data.»

«Abbiamo delle dichiarazioni che lo situano nelle prime due settimane di agosto» disse Cassie e aprì il file. «Le sembra corretto?»

«Potrebbe benissimo essere.»

«Ci sono anche dichiarazioni che attestano la presenza di testimoni.»

Si strinse nelle spalle. «Non saprei.»

«Per la verità, Jonathan, ci è stato detto che lei li inseguì nel bosco e che tornò indietro dicendo: "Maledetti ragazzini". A me sembra che lei sapesse di chi si trattava.»

«Forse sì. Non ricordo.»

«Come si sentiva all'idea che dei bambini sapessero quello che avevate fatto?»

Un'altra alzata di spalle. «Lo ripeto, non ricordo.»

«Cathal sostiene…» Cassie sfogliò le pagine. «Cathal Mills afferma che lei era terrorizzato all'idea che andassero alla polizia. Lui dice che, cito testualmente, "era in un tale stato di paura da farsela nelle mutande", fine della citazione.»

Nessuna risposta. Jonathan si accomodò meglio sulla sedia, a braccia conserte, solido come un muro.

«Cosa avrebbe fatto per impedire che la denunciassero?»

«Nulla di che.»

Cassie rise. «Andiamo, Jonathan. Sappiamo chi erano quei testimoni.»

«Uno a zero per voi, allora.» Aveva ancora il volto contratto, duro, non cedeva di un millimetro, ma le guance stavano diventando rosse: si stava arrabbiando.

«E pochi giorni dopo lo stupro» proseguì Cassie, «due di loro sparirono.» Si alzò, senza fretta, stiracchiandosi, e attraversò la stanza per andare verso la parete con le foto.

«Peter Savage» disse, appoggiando un dito sulla foto di scuola. «Vorrei che guardasse questa foto, signor Devlin, per favore.» Attese finché Jonathan non sollevò la testa e, di scatto, non si mise a fissare la fotografia con atteggiamento di sfida. «Ci hanno detto che era un leader nato. Avrebbe potuto guidare la campagna "Spostiamo l'autostrada" insieme a lei, se fosse stato vivo. I suoi genitori non possono cambiare casa, lo sa questo? A Joseph Savage, qualche anno dopo, offrirono un lavoro da favola, ma avrebbe comportato il trasferimento a Galway e non se la sentirono: Peter sarebbe potuto tornare a casa un giorno e scoprire che se n'erano andati.»

Jonathan fece per dire qualcosa ma Cassie non gliene diede il tempo. «Germaine Rowan…» Spostò la mano verso la fotografia seguente. «… nota come Jamie. Voleva diventare veterinaria da grande. Sua madre non ha spostato nulla nella sua stanza, continua a spolverarla ogni sabato. Quando, negli anni Novanta, cambiarono i numeri di telefono e si passò a sette cifre, se lo ricorda?, be', Alicia Rowan si recò alla sede centrale di Telecom Éireann e li implorò, in lacrime, di lasciarle tenere il vecchio numero a sei cifre, nel caso in cui un giorno Jamie avesse cercato di chiamare casa.»

«Noi non abbiamo avuto nulla…» cominciò Jonathan, ma lei lo interruppe di nuovo, alzando la voce e coprendo quella di lui.

«E Adam Ryan.» La foto delle mie ginocchia sbucciate. «I suoi genitori si trasferirono per l'enorme pubblicità e per la paura che chiunque l'avesse fatto la prima volta tornasse a riprenderselo una seconda. Spariti dai radar. Ma, ovunque sia, è tutta la vita che si trascina dietro quell'evento. Lei ama Knocknaree, no, Jonathan? Lei ama far parte di una comunità all'interno della quale è vissuto fin da quando era piccolo? Anche Adam magari avrebbe fatto la stessa scelta, se gliene avessero dato la possibilità. Ora è là fuori, da qualche parte, in un qualsiasi posto del mondo, e non può più tornare a casa.»

Le parole mi risuonarono dentro come le campane di una città sommersa. Era brava, Cassie: anche se solo per una frazione di secondo, mi sentii invadere da un tale senso di feroce desolazione che mi sarei messo a ululare come un lupo, la testa rovesciata all'indietro.

«Lei sa quello che provano i Savage e Alicia Rowan per lei, Jonathan?» domandò Cassie. «Invidia. Lei ha potuto seppellire sua figlia, ma è anche peggio non poter fare nemmeno quello. Ricorda come si è sentito il giorno in cui Katy non tornava a casa? Sono vent'anni che loro si sentono così.»

«Quelle persone meritano di sapere cosa è successo, signor Devlin» intervenni, a bassa voce. «E non solo per il loro bene. Abbiamo lavorato sull'ipotesi che i due casi siano collegati. Dobbiamo sapere se ci stiamo sbagliando, o l'assassino di Katy potrebbe sfuggirci.»

Qualcosa attraversò lo sguardo di Jonathan. Una strana miscela di orrore e speranza, pensai, ma sparì troppo in fretta perché potessi esserne certo.

«Cosa accadde quel giorno?» insistette Cassie. «Il 14 agosto 1984. Il giorno in cui Peter e Jamie sparirono?»

Jonathan sprofondò di più nella sedia e scosse la testa. «Vi ho detto tutto quello che so.»

«Signor Devlin» incalzai, sporgendomi verso di lui, «è facile capire come sia potuto succedere. Lei era terrorizzato per la faccenda di Sandra.»

«Sapeva che la ragazza non rappresentava una minaccia» proseguì Cassie. «Era innamorata persa di Cathal, non avrebbe detto nulla che lo mettesse nei guai e se anche l'avesse fatto sarebbe stata la sua parola contro la vostra. Le giurie hanno la tendenza a dubitare delle vittime degli stupri, soprattutto di quelle che hanno già avuto rapporti sessuali consenzienti con i loro assalitori. Avreste potuto definirla una troia e tornarvene a casa liberi. Ma quei ragazzini… una sola parola da parte loro e sareste finiti in galera per direttissima. Non potevate sentirvi tranquilli finché fossero rimasti in circolazione.»

Si staccò dal muro, avvicinò una sedia e si sedette accanto a lui. «Non andaste a Stillorgan, quel giorno, vero?»

Jonathan si mosse, si raddrizzò appena nelle spalle. «Sì» scattò. «Invece sì. Io, Cathal e Shane. Al cinema.»

«Cosa andaste a vedere?»

«Quello che dissi ai poliziotti. Sono passati vent'anni.»

Cassie scosse la testa. «No» lo contraddisse. Quella piccola e fredda sillaba ricadde come una bomba di profondità. «Magari uno di voi, scommetterei su Shane… è quello che io avrei lasciato indietro… ci andò davvero al cinema, così da poter raccontare agli altri due la trama del film, nel caso in cui qualcuno avesse fatto domande. Forse ci andaste tutti e tre, per avere un alibi, ma ne usciste non appena si spensero le luci. Ma prima delle sei, due di voi, almeno, erano tornati a Knocknaree, nel bosco.»

«Cosa…» esclamò Jonathan. La sua faccia era deformata da una smorfia di disgusto.

«I ragazzini tornavano sempre a casa per l'ora di cena, alle sei e mezzo, e sapevate che poteva volerci un po' prima di trovarli, all'epoca il bosco era piuttosto esteso. Ma li trovaste. Stavano giocando, non si nascondevano, magari stavano anche facendo un bel po' di rumore. Li coglieste alla sprovvista, proprio come avevano fatto loro con voi, e li prendeste.»

Ci eravamo preparati quella parte in precedenza, naturalmente: avevamo studiato tutto a puntino, elaborato una teoria che permettesse di inserirci tutto quello che avevamo verificato fin nei minimi dettagli. Ma c'era qualcosa che si agitava in me, una piccola sensazione di disagio che sgomitava e si contorceva… "No, non è andata così…" Ma era troppo tardi: avevamo iniziato e non c'era modo di fermarci.

«Non ci siamo mai andati in quel maledetto bosco quel giorno. Noi…»

«Toglieste loro le scarpe per impedirgli di scappare. Poi uccideste Jamie. Non ne saremo certi fino a quando non troveremo i cadaveri, ma scommetto che usaste una lama. L'accoltellaste o le tagliaste la gola. In un modo o nell'altro il suo sangue finì nelle scarpe di Adam. Forse le usaste apposta per raccogliere il sangue, nel tentativo di non lasciare troppe tracce. Magari pensaste di gettarle nel fiume, insieme ai corpi. Ma poi, Jonathan, mentre eravate alle prese con Peter, vi distraeste e non prestaste attenzione a Adam. Lui si riprese le scarpe e si mise a correre a perdifiato. C'erano segni di lacerazioni sulla sua maglietta: credo che uno di voi stesse per accoltellarlo ma lui riuscì a sfuggirgli… e ve lo perdeste. Adam conosceva quel bosco meglio di voi e si nascose fino a quando le squadre di ricerca non lo trovarono. Come vi faceva stare la cosa, Jonathan? Sapere di aver fatto quello che avevate fatto per niente perché c'era ancora un testimone libero?»

Jonathan fissava il vuoto, con la mascella serrata. Mi tremavano le mani. Le feci scivolare sotto il tavolo.

«Vede, Jonathan» riprese Cassie, «è per questo che penso che foste solo in due. Tre ragazzi grandi e grossi contro tre bambini, non ci sarebbe stata gara. Non avreste avuto bisogno di togliere loro le scarpe per non farli scappare, sarebbe bastato che teneste un bambino a testa e Adam non avrebbe mai fatto ritorno a casa. Ma se eravate solo in due, cercare di bloccarne tre…»

«Signor Devlin» dissi. La mia voce aveva uno strano suono, echeggiante. «Se lei è quello che non era presente, se lei è quello che era andato al cinema per fornire l'alibi, be', allora deve dircelo. C'è una grossa, grossissima differenza tra essere un assassino ed essere solo un complice.»

Jonathan mi guardò come anche Cesare doveva aver guardato Bruto. Tu quoque, Brute… «Siete fuori di testa, tutti e due» rispose. Respirava rumorosamente con il naso. «Voi… vaffanculo tutto quanto. Non li toccammo neanche quei ragazzini.»

«Lo so che non era lei il capobanda, signor Devlin» dissi. «Era Cathal Mills. Ce l'ha detto lui. Cito: "Jonner non avrebbe mai e poi mai avuto le palle anche solo per pensarci". Se lei fu solo complice, o anche solo un testimone, faccia un favore a se stesso e ce lo dica ora.»

«Sono solo un mucchio di stronzate. Cathal non ha confessato nessun omicidio, perché di omicidi non ne abbiamo commessi. Non ho la più pallida idea di cosa sia successo a quei ragazzini e non me ne frega niente. Non ho niente da dire su di loro. Voglio solo sapere chi ha fatto questo a Katy.»

«Katy» ripeté Cassie, sollevando le sopracciglia. «Okay, come vuole. Torneremo dopo su Peter e Jamie. Parliamo di Katy.» Spinse indietro la sedia con uno stridio, facendo sobbalzare Jonathan, e si avvicinò alla parete. «Queste sono le cartelle mediche di Katy. Quattro anni di patologie gastriche inspiegabili, che finiscono la scorsa primavera quando dice alla sua insegnante di danza che smetterà, e in un batter d'occhio, non sta più male. Il medico legale sostiene che era tutto a posto. Vuole sapere cosa ci dice questa faccenda? Ci dice che qualcuno stava avvelenando Katy. Non è difficile: un po' di candeggina per le pulizie qui, una dose di detersivo per sgrassare il forno là, anche l'acqua salata è sufficiente. Succede di continuo.»

Stavo osservando Jonathan. Il rossore dovuto alla rabbia gli era defluito dalle guance. Ora era bianco, bianco come un morto. La sensazione di disagio che avevo provato poco prima evaporò come foschia e d'un tratto fui di nuovo certissimo: lui sapeva.

«E non si trattava di un estraneo, Jonathan, non si trattava di un costruttore che ce l'aveva con lei. Era qualcuno che aveva accesso a Katy quotidianamente, qualcuno di cui lei si fidava. Ma questa primavera, quando Katy ha avuto la seconda chance alla Royal Ballet School, quella fiducia stava cominciando a ridursi. Si rifiutò di continuare a prendere quella roba. Forse minacciò di dirlo. E poi, solo qualche mese dopo…» Cassie diede una manata a una delle commoventi foto post mortem. «… Katy muore.»

«Stava coprendo sua moglie, signor Devlin?» chiesi con gentilezza. Riuscivo a respirare a stento. «Di solito, quando un bambino viene avvelenato, è la madre. Se cercava solo di tenere unita la sua famiglia, possiamo aiutarla. Possiamo fare in modo che la signora Devlin riceva l'aiuto di cui ha bisogno.»

«Margaret adora le nostre figlie» disse Jonathan. La voce era tesa come la corda di una chitarra. «Non lo farebbe mai.»

«Mai cosa?» volle sapere Cassie. «Non farebbe mai star male Katy, o non l'ammazzerebbe mai?»

«Nulla in assoluto. Mai e poi mai.»

«Quindi chi ci resta?» domandò Cassie. Era appoggiata al muro, indicava la foto post mortem e lo osservava imperturbabile come la protagonista di un dipinto. «Rosalind e Jessica hanno entrambe un alibi solidissimo per la notte in cui Katy è morta. Chi resta?»

«Non ci provi nemmeno a insinuare che io possa aver fatto del male a mia figlia» minacciò Jonathan. «Non ci provi nemmeno.»

«Abbiamo tre bambini assassinati, signor Devlin, tutti e tre uccisi nello stesso luogo, tutti e tre uccisi molto probabilmente per coprire altri crimini. E abbiamo una persona che è sempre nel bel mezzo di entrambi i casi: lei. Se ha una buona spiegazione per la cosa, è meglio che la tiri fuori ora.»

«Questa è una stronzata, una cazzata incredibile, non ci posso credere» disse Jonathan. Stava alzando pericolosamente la voce. «Katy è… qualcuno ha ammazzato mia figlia e voi volete una spiegazione da me? È il vostro lavoro questo, cazzo. Siete voi quelli che dovrebbero dare a me delle spiegazioni, non accusarmi di…»

Mi ritrovai in piedi ancora prima di rendermene conto. Gettai il blocco per gli appunti, che produsse un rumore secco, mi puntellai sulle mani e mi sporsi sul tavolo, fermandomi a pochi centimetri dalla sua faccia. «Uno del posto, Jonathan, trentacinque anni o più, che vive a Knocknaree da oltre vent'anni. Uno che non ha un alibi solido. Uno che conosceva Peter e Jamie, che aveva accesso quotidiano a Katy e con un forte movente per ucciderli tutti. Di chi cazzo stiamo parlando, secondo lei? Mi dica il nome di un'altra persona che corrisponda a questa descrizione e giuro su Dio che potrà uscire da quella porta e non le romperemo più le scatole. Avanti, Jonathan. Ce ne dica uno. Uno solo.»

«Allora arrestatemi!» ruggì Jonathan. Allungò le mani strette a pugno, polso contro polso. «Avanti, se siete così sicuri, cazzo, con tutte le vostre prove… arrestatemi! Avanti!»

Non so dirvi, e mi chiedo se riuscite a immaginarlo anche voi, con quanta parte di me avrei voluto farlo. Mi passò tutta la vita davanti agli occhi, come si dice che succeda a chi sta annegando: notti di lacrime in gelidi dormitori, zig-zag in bicicletta al grido di: "Guarda mamma, senza mani", sandwich con burro e zucchero, caldi per essere rimasti in tasca, voci di detective continuamente nelle orecchie. Ma sapevo che non avevamo abbastanza prove, che il castello sarebbe crollato e che in dodici ore lui sarebbe uscito da quella porta libero come un uccellino e colpevole come il peccato. Non ero mai stato altrettanto sicuro di qualcosa in vita mia. «Vaffanculo» dissi, tirandomi su le maniche della camicia. «No, Devlin. No. Te ne sei stato qui a prenderci per il culo tutta la sera e ne ho le scatole piene.»

«Arrestatemi, oppure…»

Mi buttai su di lui col braccio alzato pronto a colpirlo. Fece un salto all'indietro in posizione di difesa, mandando la sedia a rotolare con un gran fracasso. Ma Cassie era già su di me e mi stava tenendo il braccio con entrambe le mani. «Cristo, Ryan! Fermati!»

Lo avevamo fatto molte altre volte. È la nostra ultima spiaggia, quando sappiamo che un sospetto è colpevole, abbiamo bisogno della confessione e lui non vuole parlare. Dopo lo slancio iniziale e la mossa di afferrarmi il braccio da parte di Cassie, lentamente mi rilasso e, senza smettere di lanciare occhiate torve al sospettato, mi scrollo via di dosso le mani di Cassie, faccio qualche torsione per sgranchirmi spalle e collo e crollo di nuovo a sedere scompostamente sulla sedia, le dita che tamburellano nervosamente il piano del tavolo. A quel punto subentra Cassie che, facendo finta di tenermi d'occhio per accertarsi che non mi faccia prendere da qualche altro attacco di ferocia, riprende l'interrogatorio. Qualche minuto dopo ha un sobbalzo, controlla il cellulare e dice: "Merda, devo rispondere. Ryan… ma stai calmo, capito? Okay? Ricorda quello che è accaduto l'ultima volta". E ci lascia soli. Funziona sempre. Di solito non devo neppure alzarmi dalla sedia. Quante volte l'abbiamo fatto… dieci, dodici? L'avevamo perfezionato con la stessa cura degli stuntman del cinema.

Solo che questa volta era tutto vero e mi faceva arrabbiare il fatto che Cassie non lo capisse. Cercai di liberare il braccio, ma lei era più forte di quanto non mi fossi aspettato, i suoi polsi sembravano d'acciaio. Sentii una cucitura che partiva da qualche parte, nella mia manica. Ci strattonammo un po' in quella goffa situazione. «Lasciami andare…»

«Rob, no…»

La sua voce mi giunse attutita e priva di significato nell'immenso ruggito che avevo in testa. Vedevo solo Jonathan, sopracciglia abbassate e mento protratto come un boxeur, in un angolo, a pochi metri di distanza. Spinsi il braccio in avanti con tutta la forza che avevo in corpo e sentii che Cassie mancava la presa a terra con un piede, ma inciampai nella sedia e prima di poterle dare un calcio e buttarla da una parte per raggiungere Jonathan Cassie aveva ripreso l'equilibrio, mi aveva preso l'altro braccio e me lo stava torcendo dietro la schiena. Il tutto con un'unica, rapida mossa. Mi mancò il fiato.

«Che cazzo stai facendo?» mi sibilò in un orecchio, furibonda. «Non sa niente di niente.»

Le parole mi colpirono come una secchiata d'acqua fredda in faccia. Ma anche se si sbagliava, sapevo che non c'era nulla che potessi fare, proprio nulla, e rimasi senza respiro, impotente. Mi sentivo come se mi avessero disossato.

Cassie avvertì che la tensione in me si stava allentando. Mi spinse di lato e fece un passo indietro repentino, con le mani ancora tese e pronte. Ci fissammo come nemici, da una parte all'altra della stanza, entrambi col fiatone.

C'era qualcosa di scuro che le si stava allargando sul labbro inferiore e dopo un istante mi resi conto che era sangue. Per un orribile momento, come se fossi stato in caduta libera, pensai di averla colpita. Scoprii dopo che non ero stato io: quando mi ero staccato, per il contraccolpo si era data una manata sulla bocca e si era tagliata il labbro contro gli incisivi. Non che la cosa facesse molta differenza, ma quella visione mi fece tornare in me. «Cassie…» cominciai.

Lei mi ignorò. «Signor Devlin» disse freddamente, come se non fosse successo nulla. C'era solo un accenno di tremore nella sua voce. Jonathan – mi ero completamente dimenticato di lui – avanzò lentamente dall'angolo senza togliermi gli occhi di dosso. «Per il momento la lasciamo andare senza formalizzare alcuna accusa. Ma le consiglierei di restare dove possiamo trovarla e di non tentare di contattare la vittima dello stupro. Chiaro?»

«Certo» rispose Devlin, dopo un istante. «Bene.» Rimise in piedi la sedia con uno strattone, prese l'impermeabile che si era attorcigliato allo schienale e se lo rimise con scatti rapidi e arrabbiati. Sulla porta, si voltò e mi rivolse uno sguardo duro. Pensai per un momento che mi avrebbe detto qualcosa, che avrebbe minacciato di denunciarmi. O che, dopotutto, mi gettasse un qualche inquietante brandello di informazione… Ma cambiò idea e se ne andò, scuotendo la testa disgustato. Cassie lo seguì fuori e si richiuse la porta alle spalle, sbattendola con un tonfo.

Mi lasciai cadere su una sedia e mi presi il viso tra le mani. Non avevo mai fatto nulla del genere prima di allora. Odio profondamente la violenza fisica, è sempre stato così. Il solo pensiero mi fa venire i brividi. Anche quando facevo il prefect, probabilmente con più potere e meno responsabilità di un qualsiasi adulto al di fuori dei dittatori di qualche piccolo paese sudamericano, non ho mai bacchettato nessuno. Ma un minuto prima ero stato sul punto di azzuffarmi con Cassie come un bulletto ubriaco in una rissa da bar, di battermi con Jonathan Devlin nella stanza degli interrogatori trascinato dal desiderio incontenibile di prenderlo a ginocchiate nello stomaco e sfondargli la faccia fino a renderla una poltiglia sanguinolenta. E avevo fatto male a Cassie. Mi chiesi con lucido distacco se non stessi perdendo il senno.

Alcuni minuti dopo, Cassie rientrò, chiuse la porta e ci si appoggiò, con le mani infilate nelle tasche dei jeans. Il labbro aveva smesso di sanguinarle.

«Cassie» dissi, passandomi le mani sulla faccia. «Mi dispiace veramente. Stai bene?»

«Che cazzo ti ha preso?» Aveva una macchia di fuoco sugli zigomi.

«Pensavo che sapesse qualcosa. Ne ero certo.» Mi tremavano così tanto le mani che sembravano quelle di un attorucolo incapace di simulare uno shock. Le strinsi per fermarle.

«Rob» disse, lei, calma, «non ce la puoi fare a reggere.» Non risposi. Dopo un bel po', sentii la porta chiudersi alle sue spalle.

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