15

Quella sera stessa, Sam, Cassie e io cominciammo a smobilitare la sala operativa. Lavorammo con metodo e in silenzio, staccammo le foto, cancellammo le scritte multicolori dalla lavagna, sistemammo i documenti e i rapporti e li infilammo in scatoloni di cartone stampigliati in blu. Qualcuno aveva appiccato un incendio non lontano da Parnell Street, la sera prima, ed erano morti una profuga nigeriana e il suo bambino di sei mesi. A Costello e a un suo collega serviva la sala.

O'Kelly e Sweeney stavano interrogando Rosalind, in fondo al corridoio, con Jonathan alle spalle che la proteggeva. Mi ero aspettato che l'uomo sarebbe arrivato pronto a sparare a zero su tutti, magari anche a picchiare qualcuno, ma, a quanto pareva, non aveva creato problemi. Quando O'Kelly aveva raccontato ai Devlin, fuori dalla stanza degli interrogatori, quello che Rosalind aveva confessato, Margaret si era voltata verso di lui, aveva respirato profondamente e aveva gridato un selvaggio e rauco: «No!». La sua voce era rimbalzata contro le pareti del corridoio. «No. No. No. Era con le sue cugine. Come può farle questo? Come può… come… Oh, Dio, mi aveva avvisato, mi aveva avvisato che lei le avrebbe fatto questo! Lei…» Mi aveva puntato addosso un dito grasso e tremante e io avevo fatto un balzo prima che avessi potuto controllarmi. «… lei che la chiamava decine di volte al giorno, lei che le chiedeva di uscire, ed è solo una bambina, dovrebbe vergognarsi… e l'altra» aveva continuato, riferendosi a Cassie, «quella ha odiato Rosalind fin dall'inizio, Rosalind ha sempre detto che avrebbe cercato di incolpare lei per… cosa state cercando di farle? Ammazzarmela? Sarete contenti quando l'avrete ammazzata? Oh, mio Dio, la mia povera bambina… Perché la gente dice tutte queste bugie su di lei? Perché? Perché? Perché?» Si era artigliata i capelli ed era scoppiata in orrendi e devastanti singhiozzi.

Jonathan era rimasto immobile in cima alle scale, tenendosi alla balaustra, mentre O'Kelly cercava di calmare Margaret, e lanciandoci occhiate da incenerirci da sopra le spalle della donna. Era in completo e cravatta. Non so bene perché ma me lo ricordo chiaramente, quel vestito. Era blu scuro, con un po' di lucido dove era stato stirato troppe volte, e in qualche modo lo avevo trovato inesprimibilmente triste.

Rosalind era in arresto per omicidio e per aver aggredito un agente. Dall'arrivo dei suoi genitori aveva aperto la bocca solo una volta per sostenere, con labbra tremanti, che Cassie l'aveva colpita allo stomaco con un pugno e che si era solo difesa. Avremmo mandato un dossier all'ufficio del pubblico ministero per entrambe le accuse, ma sapevamo tutti che le prove per l'omicidio erano a dir poco inconsistenti. Non avevamo più nemmeno il collegamento con l'Ombra in Tuta Sportiva per dimostrare che Rosalind era stata complice: infatti la mia seduta con Jessica non era stata eseguita alla presenza di un adulto e non avevo modo di provare che fosse mai accaduta. Avevamo la parola di Damien e una serie di tabulati telefonici, ma era tutto.

Si stava facendo tardi, mancava poco alle otto, e l'edificio era molto tranquillo. Si registravano solo i nostri movimenti e una pioggerellina intermittente che picchiettava sui vetri della sala operativa. Staccai le foto del cadavere e le immagini di famiglia dei Devlin, gli appunti sull'Ombra in Tuta Sportiva e gli ingrandimenti sgranati di Peter e Jamie, tolsi loro gli adesivi usati per appiccicarli alla lavagna e li misi via. Cassie controllò ogni scatola, ci sistemò sopra i coperchi e li contrassegnò con un pennarello nero. Sam girò per la stanza con un sacchetto delle immondizie e raccolse i bicchieri di carta, svuotò i cestini, spazzò le briciole dai tavoli. Aveva delle macchie di sangue secco sul davanti della camicia.

La mappa di Knocknaree cominciava ad arricciarsi ai bordi e un angolino si strappò quando la staccai. Qualcuno ci aveva spruzzato dell'acqua e in alcuni punti l'inchiostro era colato, così che la caricatura dell'immobiliarista di Cassie aveva assunto un che di sinistro. «Questa la mettiamo agli atti» chiesi a Sam, «o…?»

Rimanemmo per un po' a guardarla: piccoli tronchi nodosi e il fumo che usciva dai camini delle case, fragile e nostalgico come quello di una favola. «Forse è meglio di no» rispose dopo un momento. Mi prese la mappa dalle mani, la arrotolò e la infilò nel sacchetto dell'immondizia.

«Manca un coperchio» disse Cassie. Delle croste scure e brutte a vedersi si erano formate sui tagli che aveva sulle guance. «Lì non ce ne sono più?»

«Ce n'era uno sotto il tavolo» rispose Sam. «Tieni…» Le lanciò l'ultimo coperchio. Lei lo sistemò e si alzò.

In piedi sotto le luci dei neon, ci guardammo l'un l'altro, i tavoli vuoti e il mucchio di scatole in mezzo a noi. "Tocca a me cucinare questa sera…" fui lì lì per dire, e sentii che lo stesso pensiero attraversò le menti di Sam e Cassie, un'idea stupida e impossibile, anche se non meno dolorosa.

«Bene» fece Cassie in tono pacato, con un lungo respiro. Lanciò un'occhiata alla stanza vuota attorno a noi e si pulì le mani sui jeans. «Direi che questo è tutto.»


Sono consapevole, comunque, del fatto che questa storia non mi pone in una luce particolarmente lusinghiera. So anche che, in quel pochissimo tempo che mi aveva conosciuto, Rosalind aveva fatto di me il cagnolino ammaestrato che correva su e giù per le scale per portarle un caffè, che annuiva mentre spandeva merda sulla mia collega, che, come un adolescente infatuato dei divi del cinema, la sognava come anima gemella. Ma prima che decidiate di ricoprirmi di disprezzo, considerate questo aspetto: ha fregato anche voi. Le vostre chance equivalevano alle mie. Vi ho raccontato tutto quello che vidi come lo vidi in quel momento. E se è stato ingannevole, ricordate: ve l'avevo detto. Ve l'avevo detto fin dall'inizio che io mento.

Mi è difficile descrivere il grado di orrore e ripugnanza che provai verso me stesso quando mi resi conto che Rosalind mi aveva fregato. Sono certo che Cassie avrebbe detto che, con la mia dabbenaggine, era più che naturale, che tutti gli altri bugiardi e criminali in cui mi ero imbattuto erano stati dei semplici dilettanti mentre Rosalind era una campionessa dalle doti innate, che lei invece era rimasta immune semplicemente perché ci era già cascata una volta, in passato. Ma Cassie non c'era. Alcuni giorni dopo avere chiuso il caso, O'Kelly mi informò che fino a quando non fossero stati emessi i verdetti, avrei lavorato lontano dall'unità investigativa principale, in Harcourt Street, «lontano da tutto quello che potresti mandare a puttane», per dirla con parole sue, e mi era stato difficile oppormi. Ero ancora ufficialmente alla Omicidi, quindi nessuno in realtà sapeva bene cosa farmi fare alla sezione generale. Mi assegnarono una scrivania e di tanto in tanto O'Kelly mi mandava una pila di cartacce burocratiche, ma ero quasi sempre libero di vagare per i corridoi, a origliare frammenti di conversazione e a schivare sguardi curiosi, incorporeo indesiderato: un fantasma.

Trascorrevo notti insonni, in preda al mal di testa, sempre a muovermi, le coperte che mi infastidivano, la sveglia sul comodino che strisciava con lentezza interminabile verso l'alba, a immaginare destini cruenti quanto improbabili, con tanto di particolari, per Rosalind. Non volevo semplicemente che morisse, la volevo spazzata via dalla faccia della terra, ridotta a un ammasso irriconoscibile, sminuzzata in un tritacarne, incenerita, che di lei restassero solo poche polveri tossiche. Non avevo mai sospettato di avere un animo così sadico e mi fece ancora più orrore rendermi conto che avrei messo in atto con gioia uno qualsiasi di quei supplizi. Tutte le conversazioni che avevo avuto con lei mi vorticavano nella testa: vedevo con spietata chiarezza con quanta abilità mi avesse giocato, con quanta sicurezza avesse posato il dito su qualsiasi cosa, dalle mie vanità alle mie sofferenze, fino a raggiungere le mie paure più profonde e nascoste e a sottoporle al suo volere.

Ma, più di tutto, fu questa la presa di coscienza più odiosa: in fin dei conti, Rosalind non mi aveva impiantato un microchip dietro l'orecchio, né mi aveva drogato e spinto alla sottomissione. Ero stato io a infrangere ogni voto ed ero stato io a condurre la nave al naufragio. Lei si era limitata, come tutti coloro che conoscono il loro mestiere, a usare quello che aveva avuto a portata di mano. Le era bastato uno sguardo per valutare me e Cassie dalla testa ai piedi e decidere di scartare Cassie in quanto inutilizzabile. In me, invece, aveva visto qualcosa, una qualità sottile ma fondamentale, che l'aveva indotta a pensare che valesse la pena tenermi.


Non testimoniai al processo di Damien. Il pubblico ministero disse che era troppo rischioso, che erano troppe le probabilità che Rosalind avesse raccontato a Damien la mia "storia personale", come la definì. Si chiama Mathews, indossa cravatte sgargianti, spesso lo definiscono "dinamico" e ha il potere di stancarmi sempre. Rosalind non aveva più tirato fuori l'argomento forse perché Cassie era stata così convincente da indurla a passare ad armi più promettenti. A dire il vero, dubitavo che avesse detto alcunché di utile a Damien, ma non mi diedi pena di sostenere quella tesi.

Però andai a vedere Cassie che deponeva. Mi sedetti in fondo all'aula che, diversamente dal solito, era stipata di pubblico. Il processo era stato sulle prime pagine e argomento di programmi alla radio ancor prima di iniziare. Cassie indossava un misurato completo color tortora e si era stirata i capelli. Non la vedevo da qualche mese. Sembrava più magra, più spenta. Quella mobilità da argento vivo che associavo a lei era sparita, e quella nuova pacatezza attirò la mia attenzione sul suo volto, sulle delicate arcate sopraccigliari ben segnate, sulle curve ampie e nette della bocca. Era come se non l'avessi mai vista prima. Era invecchiata, non era più la svelta ragazzaccia con la Vespa in panne, ma non per quello mi pareva meno bella: quale che sia la bellezza ellittica che Cassie possiede, non è mai stata nella tonalità della carnagione, ma più in profondità, nei levigati contorni delle sue ossa. La osservai sul banco dei testimoni, con addosso quel vestito inusuale, e ripensai ai morbidi capelli sulla sua nuca, caldi e profumati di sole, e mi parve una cosa impossibile, il miracolo più grande e triste della mia vita: quei capelli li avevo toccati, una volta.

Fu bravissima, ma lo era sempre stata in tribunale. Le giurie le credono e lei riesce a mantenere la loro attenzione, cosa più difficile di quanto non sembri, soprattutto nei processi lunghi. Rispose alle domande di Mathews con voce chiara e pacata, tenendo le mani ripiegate in grembo. Al controinterrogatorio fece quello che poté per Damien: sì, era apparso agitato e confuso… sì, sembrava proprio che avesse creduto fino in fondo che l'omicidio fosse necessario per proteggere Rosalind e Jessica Devlin… sì, a suo avviso era sotto l'influenza di Rosalind e aveva commesso il crimine perché spinto da lei. Damien si rannicchiava sulla sedia e la fissava come un bambino che guarda un film dell'orrore, con un'espressione stordita e gli occhi sgranati e disorientati. Aveva tentato di suicidarsi con il lenzuolo della prigione quando aveva saputo che Rosalind avrebbe testimoniato contro di lui.

«Quando Damien confessò il crimine» domandò l'avvocato della difesa, «le disse perché l'aveva commesso?»

Cassie scosse la testa. «No, non quel giorno. Il mio collega e io gli chiedemmo ripetute volte la motivazione, ma si rifiutò di rispondere, oppure disse che non ne era certo.»

«Anche se aveva già confessato e dirvi il motivo non avrebbe potuto danneggiarlo ulteriormente. Lei come lo spiegherebbe?»

«Obiezione, si richiede alla teste di formulare delle congetture…»

"Il mio collega." Mi accorsi da come sbatté gli occhi nel pronunciarlo, dall'impercettibile movimento dell'angolazione delle spalle, che Cassie mi aveva visto rintanato in fondo all'aula. Ma non guardò mai nella mia direzione, neppure quando gli avvocati ebbero finito di farle domande e lei scese dal banco e uscì dall'aula. In quel momento pensai a Kiernan, a come doveva essersi sentito quando, dopo trent'anni di lavoro insieme, McCabe aveva avuto quell'infarto ed era morto. Più di quanto abbia mai invidiato qualcosa, gli invidiai quel dolore unico e inaccessibile.

Rosalind fu la teste successiva. Si diresse al banco in punta di piedi, in mezzo all'improvviso fermento di sussurri e di mani di giornalisti che scrivevano veloci. Rivolse a Mathews un timido sorrisetto a forma di bocciolo di rosa da sotto gli occhioni carichi di mascara. Me ne andai. Il giorno dopo, lessi sui giornali dei suoi singhiozzi quando aveva parlato di Katy, di come si fosse messa a tremare quando aveva ricordato la minaccia di Damien di uccidere le sue sorelle se avesse rotto con lui e, quando il legale del ragazzo aveva iniziato a scavare più a fondo, di come si fosse messa a gridare: «Come osa! Io adoravo mio sorella!» per poi svenire e obbligare il giudice ad aggiornare l'udienza al pomeriggio.

Non era stata rinviata a giudizio per decisione dei suoi genitori, ne sono certo, ma sua. Se avesse potuto scegliere, non credo si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di ricevere tutta quell'attenzione. Mathews aveva patteggiato lo stralcio della parte che la riguardava. Lo sanno tutti che le accuse di complotto sono molto difficili da dimostrare. Non c'erano prove solide contro Rosalind, la sua confessione era inammissibile, e comunque aveva ritrattato. Aveva spiegato che Cassie l'aveva fatta morire di paura facendole dei segni con la mano come per dirle che le avrebbe tagliato la gola. A parte tutto, in quanto minorenne le sarebbe stata inflitta una pena minima anche se fosse stata ritenuta colpevole. Inoltre, aveva sostenuto che, di tanto in tanto, avevamo fatto sesso, e per questo a O'Kelly era quasi venuto un colpo apoplettico, per non parlare del sottoscritto, e aveva portato la confusione generale a un livello prossimo alla paralisi.

Mathews si era giocato tutto concentrandosi su Damien. In cambio della sua testimonianza contro di lui, aveva offerto a Rosalind una sospensione della condanna a tre anni per condotta imprudente e per resistenza a pubblico ufficiale in occasione dell'arresto. Il solito tam-tam interno aveva fatto circolare la voce che le erano già state rivolte cinque o sei proposte di matrimonio e che i giornali e gli editori si stavano già accapigliando per assicurarsi i diritti della sua storia.


Quando uscii dal tribunale scorsi Jonathan Devlin che fumava, appoggiato a un muro. Con la sigaretta vicino al petto, aveva la testa rovesciata all'indietro per osservare i gabbiani che roteavano sul fiume. Estrassi il mio pacchetto dal cappotto e mi unii a lui.

Mi lanciò un'occhiata e distolse nuovamente lo sguardo.

«Come va?» domandai.

Scrollò le spalle con veemenza. «Come può immaginare. Jessica ha tentato di uccidersi. È andata a letto e si è tagliata le vene col mio rasoio.»

«Mi dispiace» dissi. «Sta bene ora?»

Ebbe una specie di tic a un angolo della bocca mentre gli si formava un sorriso triste. «Sì. Fortunatamente, si è tagliata in orizzontale invece che in verticale, più o meno.»

Mi accesi la sigaretta mettendo le mani a coppa attorno alla fiamma. Era una giornata ventosa, con nuvole violacee che si addensavano. Erano previste piogge intense per la notte. «Posso farle una domanda?» chiesi. «Del tutto ufficiosa, stia certo.»

Mi squadrò con occhi scuri e senza speranza, segnati da qualcosa che somigliava al disprezzo. «Perché no?»

«Lei sapeva, vero? L'ha sempre saputo.»

Rimase a lungo in silenzio, tanto che mi chiesi se avrebbe ignorato la domanda. Alla fine sospirò e rispose: «Non è che sapessi. Non poteva essere stata materialmente lei perché era dalle cugine e non sapevo nulla di questo tipo, questo Damien. Ma mi facevo delle domande. Conosco Rosalind e mi interrogavo…».

«E non ha fatto nulla.» Avevo cercato di mantenere la voce inespressiva, ma doveva esserci finita ugualmente una nota accusatoria. Avrebbe potuto dirci il primo giorno com'era Rosalind, avrebbe potuto dirlo a qualcun altro negli anni precedenti, quando Katy aveva cominciato a stare male. Anche se sapevo che, alla lunga, non avrebbe fatto alcuna differenza, non potevo non pensare a tutte le vittime che quel silenzio si era lasciato dietro, a tutte le macerie che aveva prodotto.

Jonathan lanciò il mozzicone della sigaretta e si voltò per guardarmi dritto in faccia, con le mani infilate nelle tasche del soprabito. «Secondo lei, cosa avrei dovuto fare?» chiese, con voce bassa e dura. «È figlia mia anche lei. Ne avevo già persa una. Margaret non voleva sentire parlare male di lei. Anni fa cercai di mandare Rosalind da uno psicologo per tutte le bugie che diceva e Margaret divenne isterica e minacciò di lasciarmi e di portare via con sé le ragazze. E non sapevo nulla. Non avrei avuto un cazzo da dirvi! La tenevo d'occhio e pregavo che fosse stato uno degli imprenditori edili che lavorano nella zona. Lei cosa avrebbe fatto?»

«Non lo so» risposi, con sincerità. «Molto probabilmente quello che ha fatto lei.» Continuava a fissarmi, col respiro affannoso, le narici dilatate. Spostai la testa e tirai una boccata dalla sigaretta. Con un sospiro, Devlin si riappoggiò al muro.

«Adesso ho io una cosa da chiederle» cominciò. «Rosalind ci ha preso quando diceva che lei è quello a cui sparirono i due amici?»

La domanda non mi sorprese. Aveva il diritto di ascoltare o vedere tutte le registrazioni degli interrogatori a Rosalind e, da un certo punto di vista, mi ero sempre aspettato che me lo chiedesse, prima o poi. Sapevo che avrei dovuto negarlo – ufficialmente, era una storia che mi ero inventato, in maniera legale anche se un po' impietosamente, per guadagnarmi la fiducia di Rosalind – ma non ne avevo la forza, e poi non ne vedevo il motivo. «Esatto» risposi. «Adam Ryan.»

Jonathan voltò la testa e mi guardò a lungo. Mi chiesi quali ricordi stesse cercando di associare al mio volto.

«Noi non c'entrammo con quella faccenda» disse, e il tono sottomesso della sua voce, gentile, quasi pietosa, mi stupì. «Voglio che lo sappia. Niente di niente.»

«Lo so. Mi dispiace di essermi accanito.»

Annuì, lentamente. «Probabilmente avrei fatto la stessa cosa, al suo posto. E non è che fossi l'innocenza dipinta. Vide quello che facemmo a Sandra, vero? Lei c'era.»

«Sì» confermai. «Sandra non sporgerà denuncia.»

Mosse la testa come se quel pensiero lo disturbasse. Il fiume era scuro e compatto, con una lucentezza oleosa e poco piacevole. C'era qualcosa nell'acqua, forse un pesce morto, o dei rifiuti, e i gabbiani ci si accanivano.

«Cosa farà, ora?» chiesi inutilmente.

Jonathan scosse il capo e fissò il cielo sempre più basso. Aveva l'aria stanca; non quel genere di stanchezza che avrebbe potuto eliminare con una buona nottata di sonno e con una vacanza. Era qualcosa di intimo e incancellabile che si era sedimentato in solchi profondi intorno agli occhi e alla bocca. «Ci trasferiamo. Ci scagliano mattoni contro le finestre, qualcuno ha scritto "pidoffilo" con lo spray sull'auto; chi l'ha fatto non sa scrivere, ma il messaggio è chiaro. Potrò resistere fino a quando la faccenda dell'autostrada non si sarà sistemata, in un modo o nell'altro, ma dopo…»

Le accuse di abuso infantile, a prescindere da quanto possano essere infondate, devono essere controllate. L'indagine rispetto a quelle di Damien contro Jonathan non aveva portato a nulla che avesse potuto dimostrarle, al contrario, avevamo trovato materiale per confutarle, e quelli della sezione Crimini sessuali avevano lavorato con la massima discrezione. Ma per qualche misterioso sistema che funziona come i tamburi della giungla, i vicini vengono a sapere sempre tutto. C'è un sacco di gente che pensa che non c'è fumo senza arrosto.

«Manderò Rosalind in terapia, come ha detto il giudice. Ho letto delle cose e dappertutto dicono che non funzionano per le persone come lei perché sono fatte così e non c'è cura che tenga, ma devo tentare. E la terrò a casa con me il più a lungo possibile per vedere cosa combina ed eventualmente intervenire se scopro che fa i suoi giochetti con qualcun altro. A ottobre inizierà il college, musica al Trinity, ma le ho detto che l'affitto di un appartamento non glielo pago. Resterà a casa, oppure dovrà trovarsi un lavoro. Margaret continua a credere che non abbia fatto nulla e che siete stati voi a incastrarla, ma è contenta di tenersela vicina ancora per un po'. Dice che Rosalind è sensibile.» Si schiarì la voce e produsse un suono sgradevole, come se quella parola avesse un saporaccio. «Jess andrà a vivere ad Athlone, da mia sorella, non appena le cicatrici sul braccio saranno un po' meno evidenti. Cerchiamo di tenerla al sicuro.»

La bocca gli si storse in un mezzo sorriso amaro. «Far del male a sua sorella…» Per un istante pensai a come doveva essere stata quella casa negli ultimi diciotto anni, a come doveva essere ora, e lo stomaco mi si rivoltò per l'orrore.

«Vuole sapere una cosa?» disse improvvisamente Jonathan, con una nota di dolore. «Margaret e io uscivamo da un paio di mesi soltanto quando lei scoprì di essere incinta. Eravamo terrorizzati. Una volta riuscii a tirar fuori che forse poteva pensare a… a prendere la nave per l'Inghilterra. Ma… vabbè, lei è molto religiosa. Già stava malissimo all'idea di essere rimasta incinta, parlare poi di… è una brava donna, non mi pento di averla sposata. Ma se avessi saputo cosa… quello che… come sarebbe stata Rosalind, che Dio mi perdoni, ce l'avrei trascinata io su quella nave.»

"Vorrei tanto che l'avessi fatto" stavo per dirgli, ma sarebbe stata una crudeltà. «Mi dispiace» ripetei inutilmente.

Mi lanciò un'ultima occhiata, fece un respiro profondo e si strinse nelle spalle. «Sarà meglio che vada dentro… Rosalind potrebbe aver finito.»

«Credo che ci metterà un po'.»

«Mi sa di sì» rispose con tono piatto, e si avviò pesantemente verso i gradini del tribunale, col soprabito che sventolava dietro di lui, appena piegato dalle folate di vento.


Damien era stato giudicato colpevole e, date le prove presentate, non poteva essere altrimenti. C'erano state varie dispute legali, complicate, multilaterali, sull'ammissibilità e gli psichiatri avevano dibattuto a lungo e nel loro linguaggio pesantemente intriso di tecnicismi, sul funzionamento della mente di Damien. Ero venuto a saperlo da informazioni di terza mano, da brani di conversazioni di passaggio o da interminabili telefonate di Quigley che, a quanto pareva, si era dato come missione della sua vita scoprire perché fossi stato relegato ai lavori d'ufficio in Harcourt Street. L'avvocato del ragazzo si era incamminato lungo due linee di difesa: Damien era stato temporaneamente incapace di intendere o, se così non era, aveva pensato di proteggere Rosalind da lesioni personali gravi. Questo molto spesso genera un po' di confusione e può far nascere il cosiddetto ragionevole dubbio. Ma avevamo una confessione piena e, cosa forse ancora più importante, c'erano le fotografie dell'autopsia di una bambina morta. Damien si era preso l'ergastolo, che in pratica significava rimanere in galera dai sette ai quindici anni.

Dubito che avesse colto gli innumerevoli aspetti ironici della faccenda, ma molto probabilmente quella cazzuola gli aveva salvato la vita, e di certo gli avrebbe risparmiato esperienze sgradevoli in prigione. A causa dell'aggressione di natura sessuale contro Katy, era stato ritenuto reo di un crimine a sfondo sessuale e condannato a essere recluso nell'unità ad alto rischio, con i pedofili, gli stupratori e altri criminali che non se la sarebbero cavata bene in mezzo alla popolazione penitenziaria in generale. Forse, tutto sommato, era stato un bene perché, se non altro, gli dava la possibilità di uscire dalla prigione vivo e senza malattie trasmissibili.

C'era una piccola folla pronta al linciaggio, qualche decina di persone, che lo aspettava fuori dal tribunale dopo la condanna. Vidi la scena al telegiornale in un piccolo e squallido pub vicino alle banchine del porto. Un basso e minaccioso mormorio di approvazione si levò dai clienti abituali mentre, sullo schermo, degli impassibili agenti in uniforme conducevano un Damien barcollante tra la folla e verso un furgone che si allontanò tra una selva di pugni levati, grida rauche e qualche mezzo mattone lanciato dai presenti. «Introduciamo la cazzo di pena di morte» borbottò qualcuno, in un angolo. So che mi sarebbe dovuto dispiacere per Damien, che si era fregato con le proprie mani nel preciso istante in cui era passato davanti a quel tavolo per la raccolta di firme, e che io, tra tutti, sarei dovuto essere quello in grado di mettere insieme un po' di compassione per lui, ma non ci riuscii. Proprio non ci riuscii.


Sinceramente non me la sento di dilungarmi su cosa scoprii che significasse "sospeso in attesa di indagini": udienze nervose e senza fine, arcigne autorità con uniformi e abiti perfettissimamente stirati, spiegazioni e autogiustificazioni impacciate e umilianti, la fastidiosa sensazione di essere dall'altra parte dello specchio, di trovarsi dal lato sbagliato nella stanza degli interrogatori. Con mia sorpresa, O'Kelly si rivelò il mio più agguerrito difensore, si dilungò in lunghi e appassionati discorsi sulla mia percentuale di casi risolti, sulle mie tecniche di interrogatorio dei sospetti, su tutte quelle cose che non aveva mai tirato fuori prima. Anche se sapevo che non lo faceva per un'impossibile vena di affetto ma solo per proteggere se stesso, visto che il mio comportamento si rifletteva negativamente su di lui e aveva bisogno di giustificarsi per aver offerto rifugio a una specie di rinnegato come me all'interno della sua squadra per così tanto tempo, gli manifestai ugualmente la mia gratitudine in maniera patetica, quasi con le lacrime agli occhi, come se fosse stato il mio unico alleato al mondo. Cercai di ringraziarlo anche quando lo incontrai nel corridoio, dopo una di quelle sedute, ma riuscii a pronunciare solo poche parole e lui mi rivolse uno sguardo carico di tale profondo disgusto che iniziai a balbettare e a indietreggiare.

Alla fine, le varie autorità decisero di non licenziarmi e neppure, e sarebbe stato molto peggio, di rimandarmi al servizio in uniforme. Credo ancora una volta che non fu perché pensavano che meritassi una seconda chance. Più semplicemente, licenziarmi avrebbe attirato l'attenzione di qualche giornalista e avrebbe fatto nascere qualche domanda inopportuna con conseguenze altrettanto indesiderate. Naturalmente, mi cacciarono dalla sezione. Anche nei momenti di ottimismo più sfrenato, non ero mai arrivato a sperare che non l'avrebbero fatto. Mi rispedirono al gruppo degli agenti di supporto, facendomi intuire che non ne sarei uscito tanto presto, se mai ne fossi uscito. Per la verità, con un meraviglioso misto di delicatezza e sensibilità, me lo dissero senza tanti complimenti. A volte Quigley, con un senso della crudeltà molto più raffinato di quanto non gli abbia mai riconosciuto, mi chiede di partecipare a qualche indagine porta-a-porta o di presidiare il telefono delle informazioni dei cittadini alla polizia.

Ovviamente, il procedimento al quale venni sottoposto non fu così semplice come l'ho illustrato. Ci vollero mesi, mesi durante i quali restavo nel mio appartamento in un miserabile stordimento da incubo, con i risparmi che si assottigliavano ogni giorno di più e mia madre che timidamente mi portava la pasta al formaggio per essere certa che mangiassi. Per non parlare di Heather, che attaccava bottoni infiniti per spiegarmi il difetto del mio carattere che stava alla radice di tutti i miei problemi: a quanto pareva, dovevo imparare a prendere maggiormente in considerazione i sentimenti delle altre persone, i suoi in particolare. Concludeva dandomi il numero di telefono del suo terapeuta.

Quando tornai al lavoro, Cassie non c'era più. Se n'era andata il giorno della condanna di Damien. Alcune fonti dicevano che sarebbe stata promossa a sergente detective se fosse rimasta; altre, al contrario, che era stata obbligata ad andarsene per non essere cacciata a calci dalla squadra. Qualcuno l'aveva vista in un pub in città, mano nella mano con Sam. Altri dissero che era tornata all'università, a studiare archeologia. La morale di gran parte di quelle voci, si intuiva, era che le donne in realtà non fanno mai veramente parte della Omicidi.

Venne fuori in seguito che Cassie non aveva affatto lasciato la polizia. Era passata a Violenza domestica e aveva ottenuto un anno sabbatico per concludere il corso di psicologia – da qui la voce dell'università. Non mi stupivo che corressero tutte quelle voci. Lavorare a Violenza domestica è forse l'incarico più straziante in assoluto all'interno della polizia, visto che vi sono radunati i casi peggiori della Omicidi e di Crimini sessuali (famiglie devastate, bambini violati, moglie picchiate e ridotte in schiavitù) senza la relativa gloria. L'idea di lasciare una delle squadre d'élite per quel posto era inconcepibile per molti. Il tamtam diceva che doveva essersi bevuta il cervello.

Personalmente non credo che il trasferimento di Cassie avesse nulla a che vedere con il suo cervello andato in fumo e, anche se potrà sembrare semplicistico ed egoista, dubito anche che avesse a che vedere con me, o almeno non nel modo in cui forse starete pensando. Se l'unico problema fosse stato che non sopportavamo più di stare nella stessa stanza, si sarebbe trovata un nuovo collega e avrebbe puntato i piedi, si sarebbe fatta vedere al lavoro di giorno in giorno più smagrita e spavalda finché non avessimo trovato un modo nuovo per relazionarci oppure finché non avessi chiesto io il trasferimento. Di noi due, lei è sempre stata la più testarda. Credo invece che se ne fosse andata perché aveva mentito a O'Kelly e a Rosalind Devlin, e loro le avevano creduto. E perché, quando mi aveva detto la verità, l'avevo accusata di mentire.

Rimasi in un certo senso deluso quando la storia dell'archeologia non si rivelò vera. Era stato facile immaginarla, e bello: Cassie su una collina verde, con piccozza e pantaloni multitasche, i capelli scostati dal volto, abbronzata, sporca di fango e sorridente.


Per un po' tenni d'occhio i giornali, ma non lessi mai di uno scandalo riguardante l'autostrada di Knocknaree. Il nome dello zio Redmond comparve solo in fondo alla tabella di un tabloid che illustrava quanto spendevano i contribuenti per i compensi di vari politici. Il fatto che Sam fosse ancora alla Omicidi mi faceva pensare che alla fine avesse fatto quello che gli aveva detto O'Kelly… anche se è possibile, naturalmente, che avesse portato il nastro a Kiely e che nessun giornale avesse voluto metterci il naso. Non so. Non vendette neanche la casa. Sentii invece che l'aveva data in affitto per una cifra nominale a una giovane vedova il cui marito era deceduto per un aneurisma cerebrale lasciandola con un bambino piccolo, una gravidanza difficile e nessuna assicurazione sulla vita. Suonatrice di violoncello freelance, non poteva neppure chiedere il sussidio di disoccupazione, per cui era rimasta indietro con l'affitto e il precedente padrone di casa l'aveva sfrattata. Così erano finiti, lei e i suoi bambini, nella stanza di un B &B pagata da un'organizzazione caritatevole. Non ho idea di come Sam avesse trovato quella donna: avrei giurato che fosse necessario risalire alla Londra vittoriana per un tanto pittoresco pathos. Forse aveva condotto una ricerca approfondita, com'era tipico da parte sua. Si era trasferito in un appartamento in affitto a Blanchardstown, credo, o in un qualche altro inferno di periferia simile. Le teorie che circolavano erano che stesse per lasciare la polizia per il convento e che avesse una malattia terminale.


Mi vidi con Sophie, se non altro perché le dovevo tutta una serie di cene e cocktail. Arrivai perfino a pensare che stessimo bene perché non mi faceva domande difficili. Ma dopo alcuni appuntamenti, prima che la relazione fosse progredita a sufficienza per potersi definire tale, mi scaricò. Mi informò, molto prosaicamente, che era abbastanza adulta da riconoscere la differenza tra "affascinante" e "suonato". «Dovresti frequentare donne più giovani» fu il suo consiglio. «Non sempre se ne accorgono.»


Era inevitabile che, di tanto in tanto, durante quegli interminabili mesi, trascorsi a giocare a poker solitario fino a tarda notte nel mio appartamento, a infliggermi dosi quasi letali di Radiohead e di Leonard Cohen, i miei pensieri tornassero a Knocknaree. Mi ero giurato, è ovvio, che quel luogo non avrebbe più avuto posto nella mia mente, ma credo che sia impossibile impedire agli esseri umani di essere curiosi. Solo non dovrebbe implicare un prezzo troppo alto.

Immaginate quindi la mia sorpresa quando non ci trovai niente. A quanto pareva, tutto quello che era accaduto prima del mio arrivo al collegio era stato asportato con precisione chirurgica, e questa volta per sempre. Peter, Jamie, i motociclisti e Sandra, il bosco, ogni singolo brandello di memoria che avevo cercato di recuperare con un'attenzione così laboriosa nel corso dell'Operazione Vestale era sparito. Ricordavo solo com'era stato ricordare quelle scene, tanto tempo prima. Ora avevano assunto quella patina da qualità scadente di vecchie pellicole che avevo visto o di storie che mi avevano raccontato. Le vedevo come da una distanza enorme: tre bambini scottati dal sole e in calzoncini malandati che, appollaiati sui rami, sputavano sulla testa di Willy Little e poi scappavano via ridendo. Col tempo, ne ero certo, anche quegli sfuocati brandelli sarebbero avvizziti e si sarebbero dissolti. Non sembravano più appartenermi e non riuscivo a scuotermi di dosso l'oscura e implacabile sensazione che fosse perché m'ero giocato una volta per tutte il diritto di avere dei ricordi.

Restava una sola immagine. Peter e io distesi sull'erba nel giardino davanti a casa sua, un pomeriggio d'estate. Avevamo tentato, alla nostra maniera, di costruire un periscopio con le istruzioni contenute in un vecchio annuario, ma dovevamo procurarci un tubo di cartone di quelli della carta da cucina. Non potevamo chiederlo alle nostre madri perché in quel periodo non parlavamo con loro. Avevamo arrotolato un giornale, ma continuava a piegarsi, e quindi tutto quello che vedevamo nel nostro periscopio era la pagina sportiva al contrario.

Eravamo entrambi di pessimo umore. Era la prima settimana di vacanze e c'era il sole, quindi sarebbe dovuta essere una giornata fantastica, avremmo potuto dedicarla alla sistemazione della nostra casa sull'albero o a congelarci le chiappe nel fiume o qualcosa del genere. Ma tornando a casa l'ultimo giorno di scuola, il venerdì, Jamie aveva annunciato, rivolta alle scarpe: «Tre mesi e poi andrò in collegio».

«Stai zitta.» Peter l'aveva spinta, ma piano. «No, che non ci andrai. Mollerà.» Era come se la bella patina delle vacanze fosse svanita in un'enorme nuvola di fumo nero che pesava su tutto. Non potevamo rientrare perché i nostri genitori erano arrabbiati con noi per la nostra decisione di non parlare con loro, e non avevamo voglia di andare nel bosco perché tutto quello che ci veniva in mente di fare sembrava stupido. E non potevamo nemmeno andare da Jamie per farla uscire perché si sarebbe limitata a scuotere la testa e a dire: "Che senso ha?" facendo peggiorare le cose. Così ce ne stavamo in giardino, annoiati, nervosi e irritati l'uno con l'altro, e con il periscopio che non funzionava, e anche con il mondo intero perché era una vera scocciatura. Peter strappava fili d'erba, ne mordicchiava le punte e le sputava in aria. Io ero steso sulla pancia, con un occhio aperto sulle formiche che si affaccendavano avanti e indietro, il sole che mi faceva sudare. "Quest'estate… è come se non ci fosse" pensavo. "Quest'estate fa schifo."

La porta di casa di Jamie si spalancò e lei schizzò fuori come se l'avessero sparata con un cannone. Udimmo il risolino dolente di sua madre, il rumore che fece la porta sbattendo sugli infissi quando si richiuse e, in mezzo, l'esplosione ad alto volume e in tutta la sua isteria dell'orribile Jack Russell dei Carmichael. Peter e io ci tirammo su. Jamie si bloccò al cancelletto di casa, cercandoci furiosamente con lo sguardo a destra e a sinistra. Quando le gridammo qualcosa, partì a razzo lungo il sentiero, saltò il muro del giardino di Peter e atterrò di piatto sull'erba e noi con lei per via del braccio a uncino intorno ai nostri colli. Gridavamo tutti insieme, perciò ci mettemmo qualche secondo per capire quello che stava gridando lei: «Resto qui! Resto qui! Non devo più andarmene!».

L'estate riprese vita. In un battito di ciglia, passò dal grigio a un possente blu e oro. L'aria risuonava del frinire delle cavallette e dei tagliaerba, turbinava di rami e api e soffioni, era morbida e dolce come panna montata. Dall'altra parte del muro, ecco che il bosco ci chiamava con la più alta e silenziosa delle voci, scuoteva i propri tesori per darci il benvenuto. L'estate faceva nascere viticci d'edera, ci prendeva sotto le braccia, ci tirava. L'estate si riscattava, sbocciava davanti a noi, lunga un milione di anni.

Ci liberammo dal mucchio e ci mettemmo seduti, affannati, ancora incapaci di credere alle nostre orecchie.

«Sul serio?» chiesi. «Per sempre?»

«Sì. Ha detto: "Vedremo, ci penserò ancora e inventeremo qualcosa". Ma quando dice così vuol dire che va bene, solo che non me lo vuole ancora dire. Non vado da nessuna parte!»

Esaurite le parole, Jamie mi diede uno spintone e io le afferrai un braccio, le salii sopra e, sfregandole il polso, le feci venire gli spilli. Ora sorridevo ed ero felice, così felice che non mi sarei più mosso di lì.

Peter disse: «Dobbiamo festeggiare. Picnic al castello. Andate a casa, prendete un po' di cose e ci vediamo là».

Sfrecciai in casa e andai in cucina. Mia madre stava passando l'aspirapolvere al piano di sopra. «Mami! Jamie non va via, posso prendere delle cose per un picnic?» Acchiappai tre pacchetti di patatine e un mezzo pacchetto di biscotti con la crema dentro, me li infilai sotto la maglietta e, salutando con la mano mia madre che dalla cima del pianerottolo mi guardava con la faccia attonita, fui di nuovo fuori.

Lattine di Coca-Cola, la schiuma che ne usciva e noi sul muro del castello. Brindammo. «Abbiamo vinto!» gridò Peter, verso l'alto, verso i rami e i raggi di sole che filtravano, la testa all'indietro e il pugno levato in segno di vittoria. «Ce l'abbiamo fatta!»

Jamie gridò: «Resterò qui per sempre!» e si mise a ballare sul muro come fosse fatta d'aria. «Per sempre, sempre, sempre, sempre!» Quanto a me, mi limitavo a strillare, a emettere grida selvagge senza parole. Il bosco raccoglieva le nostre voci e le rimandava ingigantite, le intesseva nel fruscio delle foglie, nel gorgoglio del fiume, nel richiamo di tutti gli altri abitanti di quel nostro regno in un lungo e alto peana.

Quel ricordo non si dissolse nel fumo e non mi scivolò via tra le dita. Rimase, e rimane tuttora, caldo, nitido e mio, unica, scintillante moneta nella mia mano. Se era stato il bosco a decidere di lasciarmi un solo ricordo, era stato molto gentile a scegliere quello.


Per uno di quegli impietosi strascichi che a volte riservano casi come questo, Simone Cameron mi telefonò non molto tempo dopo il mio rientro al lavoro. Il numero del mio cellulare lo aveva preso dal biglietto da visita che le avevo lasciato. Non poteva sapere che nel frattempo mi avevano messo al controllo incrociato delle dichiarazioni di quelli che venivano fermati a bordo di auto rubate e che non avevo più nulla a che fare con il caso di Katy Devlin. «Detective Ryan» disse, «abbiamo trovato una cosa che credo debba vedere.»

Era il diario di Katy, quello che Rosalind ci aveva detto che la sorella, stanca di scriverci, aveva buttato via. L'addetta alle pulizie della Cameron Academy, in un momento di sacro furore per il suo lavoro, lo aveva trovato attaccato con lo scotch dietro un poster incorniciato di Anna Pavlova appeso alla parete dello studio. Quando aveva letto il nome sulla copertina, aveva chiamato Simone, tutta emozionata. Avrei dovuto dare a Simone il numero di Sam e riattaccare, invece abbandonai la mia postazione e partii per Stillorgan.

Erano le undici del mattino e Simone era l'unica persona presente alla scuola di ballo. Lo studio era inondato di luce solare e le foto di Katy erano state staccate dalla bacheca degli annunci, ma un effluvio di quell'odore professionale, di resina, di sudore forte, di cera per i pavimenti, fece riemergere tutto: i ragazzi con gli skateboard che rumoreggiavano in strada al buio, il tramestio di piedi fasciati e le chiacchiere nel corridoio, la voce di Cassie al mio fianco, l'urgenza che avevamo portato con noi in quella stanza.

La cornice con il poster era a faccia in giù sul pavimento. Sul retro erano stati attaccati dei fogli di carta impolverati che formavano una specie di tasca posticcia. Il diario era lì. Era solo un quaderno di quelli che si usano a scuola, pagine a righe e copertina arancio sporco, riciclato. «L'ha trovato Paula, ma doveva andare via, per un altro lavoro» disse Simone. «Se vuole ho il suo numero di telefono.»

Lo raccolsi. «L'ha letto?» chiesi.

Simone annuì. «Un po'. Abbastanza.» Indossava pantaloni neri, stretti, e un morbido pullover in tinta. Sembrava ancora più esotica di quando l'avevo vista con la gonna lunga e il body. I suoi straordinari occhi avevano lo stesso sguardo immobile di quando le avevamo detto di Katy.

Sedetti su una delle sedie di plastica. "Katy Devlin PRIVATISSIMO! STARE ALLA LARGA! EHI, DICO A TE!" c'era scritto sulla copertina, ma lo aprii comunque. Era pieno per quasi tre quarti. La calligrafia era tondeggiante e curata, con qualche accenno di individualità come uno svolazzo sulla "y" e sulle "g", una "s" maiuscola alta e arricciata. Simone si sedette di fronte a me e mi osservò mentre leggevo, le mani una sull'altra, in grembo.

Il diario copriva un periodo di quasi otto mesi. All'inizio, le annotazioni erano regolari, magari una mezza paginetta ma tutti i giorni. Dopo diventavano intermittenti, due alla settimana, poi una. Riguardavano in gran parte il balletto. "Simone dice che il mio arabesque è migliorato ma devo pensare che proviene da tutto il corpo e non solo dalla gamba, soprattutto la linea sinistra deve essere assolutamente dritta." "Stiamo imparando un pezzo nuovo per il saggio di fine anno, la musica è da Giselle + devo fare le fouettés. Simone dice: 'Ricorda, questo è il modo di Giselle di dire al suo fidanzato che le ha spezzato il cuore' + quanto le manca + è la sua unica possibilità quindi deve essere lo scopo di tutto quello che faccio. Va così solo un po'." Seguivano varie righe di un'annotazione misteriosa, una specie di partitura musicale codificata. Il giorno in cui era stata accettata alla Royal Ballet School era tutto una sovreccitata esplosione di maiuscole e punti esclamativi e adesivi a forma di stella: "VADOOO VADOOO VADOOO VADOOO VERAMENTE!!!!!".

C'erano passaggi su cose fatte con le amiche: "Siamo rimaste a dormire a casa di Christina sua mamma ci ha propinato una pizza strana con le olive + abbiamo giocato al gioco della verità a Beth piace Matthew. A me non piace nessuno le ballerine si sposano quasi tutte solo dopo aver fatto carriera quindi magari quando avrò trentacinque o quarant'anni. Ci siamo truccate Marianne stava benissimo ma Christina si è messa troppo ombretto e sembrava sua madre!!". La prima volta che lei e le sue amiche avevano avuto il permesso di andare in città da sole: "Preso il bus + shopping da Miss Selfrige con Marianne + ho comprato lo stesso top ma il suo è rosa con la scritta viola mentre il mio è azzurro e rosso. Jess non è potuta venire così le ho preso una spilletta con fiore per i capelli. Poi siamo andate da MacDonald's Christina ha infilato un dito nella mia salsa barbecue così io ne ho messa un po' sul suo gelato abbiamo riso talmente forte che la guardia ha detto che ci mandava fuori se non smettevamo. Christina gli ha chiesto vuoi un po' di gelato alla salsa barbecue?".

Aveva provato le scarpette a punta di Louise, le faceva schifo il cavolo e si era fatta cacciar fuori dalla lezione di irlandese per avere mandato un SMS a Beth nella fila a fianco alla sua. La si sarebbe potuta definire una bambina felice, ridanciana e troppo frettolosa per usare la punteggiatura. Nulla di speciale che la riguardasse tranne il ballo ed era soddisfatta così. Ma, poco oltre la metà, il terrore emergeva dalle pagine come i fumi della benzina, acri e stordenti. "Jess è triste che vado alla scuola di balletto piangeva. Rosalind dice che se vado Jess si ucciderà + sarà colpa mia non dovrei essere sempre così egoista. Non so cosa fare se chiedo a mamma e papà poi magari non mi fanno andare. Non voglio che Jess muore."

"Simone ha detto che non posso più permettermi di ammalarmi così stasera ho detto a Rosalind che non voglio berlo. Rosalind dice che devo o non sarò più brava a ballare. Ho avuto paura perché lei si è arrabbiata tanto ma anch'io mi sono arrabbiata e ho detto no che non le credevo credo che mi fa stare solo male. Dice che sarà peggio per me + Non permette a Jess di parlarmi."

"Christina è arrabbiata con me martedì è venuta da me + Rosalind le ha detto che quando andrò alla scuola di balletto non le vorrò più bene come prima come amica + Christina non ci crede che non l'ho detto. Adesso Christina e Beth non mi parlano ma Marianne invece sì. Odio Rosalind LA ODIO LA ODIO LA ODIO."

"Ieri il mio diario era sotto il letto come sempre ma poi non riuscivo più a trovarlo. Non ho detto niente ma poi mamma ha portato Rosalind + Jess da zia Vera io sono rimasta a casa + ho cercato dappertutto in camera di Rosalind era dentro scatola da scarpe nel suo armadio. Avevo paura di prenderlo perché adesso se ne accorge e si arrabbierà davvero tanto ma non mi importa. Lo terrò qui da Simone posso scrivere quando mi esercito da sola."

L'ultima annotazione di Katy risaliva a tre giorni prima della sua morte. "A Rosalind dispiace che si è comportata male con me perché vado via era solo preoccupata per Jess + triste perché io vado lontano e le mancherò. Per scusarsi mi darà portafortuna per il ballo."

La sua voce risuonava piccola e vivace attraverso le lettere tonde, vergate con la biro; vorticava nella luce del sole insieme alle particelle di polvere. Katy, morta da un anno, le ossa nel cimitero grigio e geometrico di Knocknaree. Avevo pensato pochissimo a lei dalla fine del processo. Anche durante l'indagine, a essere franchi, aveva occupato un posto molto meno importante di quanto sarebbe stato ipotizzabile. La vittima è la persona che non conoscerai mai. Katy era stata solo una somma di immagini trasparenti e in conflitto, riflesse attraverso le parole di altre persone, importante non di per sé ma per la sua morte e per la scia di fuochi d'artificio di conseguenze che si era lasciata dietro. Un solo momento allo scavo di Knocknaree aveva cancellato qualsiasi altra cosa fosse mai stata. Ripensai a lei, distesa su quel pavimento di legno chiaro, le fragili ali delle sue scapole che si muovevano al ritmo della scrittura, con la musica che le si diffondeva intorno.

«Avrebbe fatto qualche differenza se l'avessimo trovato prima?» chiese Simone. La sua voce mi fece sussultare e aumentare il battito cardiaco. Mi ero quasi dimenticato della sua presenza.

«Probabilmente no» risposi. Non sapevo se sarebbe stato effettivamente così, ma era ciò che lei aveva bisogno di sentirsi dire. «Non c'è nulla qui che colleghi direttamente Rosalind a un crimine. C'è scritto che le faceva bere delle cose, ma se la sarebbe cavata comunque, avrebbe sostenuto che si trattava di una bevanda a base di vitamine. Stessa cosa per il portafortuna; non prova nulla.»

«Ma se l'avessimo trovato prima che morisse» insistette con tono pacato Simone, «allora sì.» Non c'era nulla che potessi dire al riguardo, nulla di nulla.

Infilai il diario e la piccola tasca di carta in un sacchetto per le prove e li inviai a Sam, al Castello di Dublino. Sarebbero finiti in una scatola nel seminterrato, da qualche parte vicino ai miei vecchi vestiti. Il caso era chiuso, non potevamo farcene più nulla a meno che, o fino a quando, Rosalind non avesse fatto la stessa cosa a qualcun altro. Mi sarebbe piaciuto mandare il diario a Cassie, come forma di scuse mute quanto inutili, ma non si trattava più nemmeno di un caso suo e comunque non ero più certo che avrebbe capito la mia motivazione.


Alcuni mesi dopo mi dissero che Cassie e Sam si erano fidanzati. Bernadette mandò una e-mail circolare per raccogliere fondi per un regalo. Quella sera raccontai a Heather che il figlio di non so chi aveva la scarlattina e mi chiusi in camera dove mi scolai vodka, lentamente ma con metodo, fino alle quattro del mattino. Poi chiamai Cassie sul cellulare.

Al terzo squillo rispose, con la voce impastata: «Maddox».

«Cassie» dissi. «Cassie, non sposerai quel noioso campagnolo, vero?»

La sentii prendere fiato, come per prepararsi a dire qualcosa, ma poi lo lasciò uscire di nuovo.

«Mi dispiace» proseguii. «Per tutto. Mi dispiace così tanto. Ti voglio bene, Cass. Ti prego.»

Attesi ancora. Dopo un po', udii un colpo, quindi Sam che in sottofondo chiedeva: «Chi era?».

«Sbagliato numero» disse Cassie, ancora più lontana. «Un tipo ubriaco.»

«Allora perché sei rimasta tanto al telefono?» Si sentiva che stava scherzando, che la stuzzicava. Fruscio di lenzuola.

«Mi ha anche detto che mi ama, così volevo vedere chi era» rispose Cassie. «In realtà cercava Britney.»

«Come tutti noi, del resto» disse Sam. Poi: «Ahia!» e Cassie che ridacchiava. «Certo che mordi, tu, eh?»

«Ti sta bene» fece Cassie. Risate basse, fruscio, un bacio, un lungo sospiro soddisfatto, Sam che mormorava felice: «Piccola». Poi più nulla se non i loro respiri che scemavano lentamente verso il sonno.

Rimasi seduto a lungo a osservare il cielo che rischiarava fuori dalla finestra, realizzando d'un tratto che sul cellulare di Cassie non era apparso il mio nome. Sentivo la vodka che si faceva strada nel mio sangue, il mal di testa che cominciava a premere alle porte. Sam russava, piano. Non ho mai saputo se Cassie avesse creduto di avere riattaccato o se avesse voluto ferirmi, o se avesse voluto farmi un ultimo regalo, un'ultima notte ad ascoltarla respirare.


Com'era da prevedere, l'autostrada andò avanti sul tracciato originario. "Spostiamo l'autostrada" era riuscita a bloccarla abbastanza a lungo con ingiunzioni, appelli costituzionali, ricorsi perfino alla Corte Europea, credo, ma andò avanti. Uno sgangherato gruppo di dimostranti, che con un abile gioco di parole si faceva chiamare Knocknafree (sono pronto a scommettere che fra loro ci fosse anche Mark), piantò un accampamento in mezzo al sito per fermare i bulldozer. Ci riuscì per qualche altra settimana, fino a quando il governo non ottenne un ordine del tribunale. Non c'era mai stata speranza per loro. Mi sarebbe piaciuto chiedere a Jonathan Devlin se credeva sul serio, a dispetto di tutti i ricorsi storici, che questa volta l'opinione pubblica avrebbe fatto la differenza, oppure se aveva sempre saputo come sarebbe andata a finire ma aveva voluto provarci lo stesso. In ogni caso, lo invidiavo.

Il giorno in cui lessi sui giornali che erano iniziati i lavori, mi precipitai. Teoricamente, dovevo essere a Terenure per un porta-a-porta, alla ricerca di qualcuno che avesse visto un'auto rubata usata per una rapina, ma nessuno avrebbe sentito la mia mancanza per un'ora o due. Non so bene perché ci andai. Non si trattava del drammatico finale di un caso da chiudere, nulla del genere. Era il semplice e ritardato impulso di vedere quel posto un'ultima volta.

M'ero aspettato che ci fosse disordine, ma non uno sconquasso di quelle dimensioni. Sentii il ruggito dei macchinari molto prima di arrivare in cima alla collina. L'intero sito era irriconoscibile, uomini con casacche fosforescenti che sciamavano come formiche e che gridavano ordini inintelligibili per il rumore, mastodontici bulldozer incrostati di fango che spostavano da una parte all'altra grandi quantitativi di terra girando attorno con oscena delicatezza ai resti delle mura.

Parcheggiai sul lato della strada e scesi dall'auto. C'era un piccolo assembramento di scoraggiati dimostranti nella piazzola di sosta. Quella almeno era rimasta intatta, per il momento. Il castagno continuava a lasciar cadere i suoi frutti. La gente che si era radunata aveva cartelli con scritte a mano come "Salviamo il nostro patrimonio" e "La storia non è in vendita" nel caso che si fossero fatti vivi i giornali. La terra che era stata rivoltata e divelta sembrava estendersi all'infinito, occupare un'area che era molto più grande del sito archeologico vero e proprio. Poi capii: l'ultima striscia di bosco era scomparsa quasi del tutto. C'erano tronchi segati, radici esposte che si protendevano follemente verso il cielo grigio. Le motoseghe attaccavano senza posa gli ultimi alberi rimasti.

Il ricordo mi colpì al petto con una tale potenza che rimasi senza fiato: l'arrampicata sul muro del castello, i pacchetti di patatine che crepitavano nella maglietta, il rumore del fiume che gorgogliava più in basso, da qualche parte, la scarpa da ginnastica di Peter che cercava un punto di appoggio poco più in alto di me, i capelli biondi di Jamie che ondeggiavano tra le foglie… Tutto il mio corpo ricordò: la sensazione ruvida e familiare della pietra contro il palmo della mano, lo sforzo del muscolo della coscia quando mi spingevo su, verso il turbinio di verde e di luce… Mi ero così abituato a pensare al bosco come all'invincibile nemico in agguato, all'ombra che ricopriva ogni angolo segreto della mia mente. Mi ero completamente dimenticato che, per gran parte della mia vita, era stato il nostro parco giochi preferito e il nostro adorato e bellissimo rifugio. Me ne ricordavo ora che lo stavano abbattendo.

Ai margini del sito, nei pressi della strada, uno degli operai aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette tutto schiacciato da sotto il corpetto arancione e si stava tastando con metodo le tasche alla ricerca dell'accendino. Trovai il mio e andai da lui.

«Grazie, figliolo» disse, con la sigaretta fra i denti e le mani a coppa intorno alla fiamma. Era sulla cinquantina, piccolo e forte, con la faccia da terrier: amichevole, non impegnativa, con sopracciglia cespugliose e grossi baffi a manubrio.

«Come sta andando?» chiesi.

Scrollò le spalle, aspirò il fumo e mi rese l'accendino. «Ah, be', ho visto di peggio. Grosse pietre maledette ovunque, tutto qua.»

«Magari vengono dal castello. Qui c'era un sito archeologico.»

«Come se non lo sapessimo» commentò e fece cenno verso i dimostranti.

Sorrisi. «Trovato nulla di interessante?»

Mi guardò negli occhi e capii che mi stava valutando: dimostrante, archeologo, spia del governo? «Tipo cosa?»

«Non so… pezzi archeologici, magari. Ossa di animali. Ossa umane.»

Aggrottò le sopracciglia. «Cosa sei? Un poliziotto?»

«No» mentii. L'aria aveva l'odore umido della terra smossa e della pioggia in agguato. «Due miei amici scomparvero qui, negli anni Ottanta.»

Annuì pensieroso e senza mostrarsi sorpreso. «Me lo ricordo, sì che me lo ricordo» disse. «Due ragazzini. Sei quello che era con loro?»

«Sì» risposi. «Proprio io.»

Aspirò a lungo e senza fretta dalla sigaretta e mi sbirciò con un leggero interesse. «Mi dispiace per quello che hai passato.»

«Sono trascorsi tanti anni…»

Annuì. «Che io sappia, non abbiamo trovato ossa. Magari qualcosa di conigli o volpi, ma niente di più grande. Se fosse successo avremmo chiamato la polizia.»

«Lo so» dissi. «Era per essere sicuro.»

Rimase pensieroso per un po', scrutando il sito. «Prima, uno dei ragazzi ha trovato questo.» Cercò nelle tasche, a partire da quelle in basso fino a quelle in alto, e da sotto il corpetto estrasse una cosa. «E di questo che ne pensi?»

Lasciò cadere l'oggetto nel palmo della mia mano. Era a forma di foglia, piatto, stretto e lungo circa quanto il mio pollice, fatto di un metallo liscio, reso opaco dal trascorrere del tempo. Un bordo era frastagliato, forse si era staccato da qualcosa, molto tempo prima. L'operaio aveva cercato di ripulirlo, ma aveva ancora piccole incrostazioni di terra. «Non lo so» risposi. «Forse la testa di una freccia, o un pezzo di pendente.»

«L'ha trovato nel fango attaccato agli stivali, durante la pausa caffè» continuò l'uomo. «Me l'ha dato da far vedere al bimbo di mia figlia. Quello è matto per l'archeologia.»

L'oggetto era freddo nella mano, più pesante di quanto mi sarei aspettato. Su un lato, delle incisioni ormai quasi lisce formavano un motivo. Lo orientai verso la luce: un uomo, figura appena accennata, con corna da cervo.

«Puoi tenerlo, se ti piace» disse l'uomo. «Il ragazzo non sentirà la mancanza di una cosa che non ha mai avuto.»

Serrai la mano intorno all'oggetto. I bordi mi punsero. Per effetto del mio battito, lo sentivo come palpitare. Probabilmente il suo posto era un museo. Mark ci sarebbe impazzito. «No» risposi. «Grazie. Lo dia a suo nipote.»

Si strinse nelle spalle e inarcò le sopracciglia. Gli rimisi l'oggetto in mano. «Grazie per avermelo mostrato» gli dissi.

«Nessun problema» rispose l'uomo e se lo rimise in tasca. «Buona fortuna.»

«Anche a lei» contraccambiai. Stava cominciando a venire giù una pioggerella fine e brumosa. Gettò il mozzicone nell'impronta di un pneumatico e tornò al lavoro, tirandosi su il bavero.

Mi accesi una sigaretta e rimasi per un po' a guardare gli uomini che lavoravano. L'oggetto di metallo mi aveva lasciato dei sottili segni rossi sul palmo della mano. Due bambini, tra gli otto e i nove anni, stavano in equilibrio sul muro della zona residenziale. Gli operai fecero dei cenni con le braccia e gridarono loro qualcosa. I bambini sparirono ma ricomparvero pochi minuti dopo. I dimostranti avevano tirato fuori gli ombrelli e si passavano dei sandwich informi. Osservai la scena a lungo, fino a quando il cellulare non cominciò a vibrare insistentemente nella mia tasca. Ora pioveva forte. Spensi la sigaretta, mi abbottonai la giacca e mi diressi verso l'auto.

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