9

Quella sera mi ubriacai più di quanto non avessi fatto negli ultimi quindici anni. Passai metà della nottata seduto sul pavimento del bagno, a fissare il wc con lo sguardo vitreo e la speranza di riuscire a vomitare e chiuderla lì. I bordi del mio campo visivo ondeggiavano in maniera nauseante a ogni palpito del cuore e le ombre negli angoli guizzavano, pulsavano e si contorcevano in forme appuntite, piccole e striscianti, che sparivano al battito di ciglia successivo. Alla fine, quando mi resi conto che, pur non dando segni di migliorare, la nausea forse non sarebbe peggiorata, barcollai verso la mia stanza e mi buttai sul letto vestito. Caddi in un sonno profondo.

Feci dei sogni inquietanti, segnati da ostacoli e intoppi. Qualcosa che si dibatteva e ululava in una sacca di tela, una risata e un accendino che si avvicinavano. Vetro infranto sul pavimento della cucina e la madre di qualcuno che singhiozzava. Ero di un nuovo un pivello in una sperduta contea di confine e Jonathan Devlin e Cathal Mills si nascondevano sulle colline con fucili e un cane da caccia. Conducevano un'esistenza burrascosa e noi dovevamo prenderli, io e altri due detective della Omicidi, alti e freddi come statue di cera. Gli stivali affondavano nel fango viscoso che ti tirava giù. Mi svegliavo e mi riaddormentavo, in lotta con le coperte, le lenzuola attorcigliate e impregnate di sudore.

Mi svegliai la mattina dopo con un'immagine in mente, chiara e assoluta, sbattuta lì davanti come un'insegna al neon. Niente a che vedere con Peter o Jamie o Katy: Emmett, Tom Emmett, uno dei due detective della Omicidi venuto brevemente a Ballysperdutochissadove quando ero lì in addestramento. Emmett era alto e magrissimo, sempre vestito bene ma con sobrietà (adesso che ci penso, forse fu da lui che mi feci la mia prima e immutabile convinzione di come dovevano abbigliarsi i detective della Omicidi), con un viso che sembrava appena uscito da un vecchio film di cowboy, segnato e levigato come un pezzo di legno rimasto per molto tempo all'aria aperta. Era ancora nella squadra quando ci entrai io, mentre ora è in pensione, e sembrava un tipo simpatico anche se non riuscii mai a superare la soggezione iniziale che provai nei suoi confronti. Ogni volta che mi parlava, rimanevo paralizzato come uno studentello sotto interrogazione.

Un pomeriggio me ne stavo rintanato nel parcheggio di Ballysperdutochissadove, a fumare e a cercare di non farmi notare troppo mentre origliavo la loro conversazione. L'altro detective aveva fatto una domanda che mi era sfuggita ed Emmett aveva scosso la testa brevemente. «Se non è lui, allora abbiamo fatto solo stronzate» aveva detto, aspirando un'ultima boccata rude dalla sigaretta prima di spegnerla sotto il tacco di un'elegante scarpa. «Dovremo tornare. Ricominciare dall'inizio e capire cosa è andato storto.» Poi erano rientrati nella stazione, fianco a fianco, con le spalle curve e taciturni nelle loro discrete giacche scure.

Non c'è niente come l'alcol per scatenare i più acuti rimorsi: sapevo di avere incasinato le cose fino in fondo, in ogni modo possibile e immaginabile. Ma non aveva molta importanza, perché la soluzione ora era improvvisamente chiara in maniera sconcertante. Sentivo che quanto era accaduto, dall'incubo Kavanagh all'orribile interrogatorio di Jonathan, alle notti insonni e ai piccoli tradimenti della mente, tutto era stato mandato da un dio gentile e saggio per condurmi fino a quel momento. Avevo evitato il bosco di Knocknaree come la peste, penso che avrei interrogato tutta l'Irlanda e mi sarei scervellato fino a farmi esplodere la testa prima di metterci piede, ma ero stato bastonato fino a non avere più difese contro l'unica cosa che era di un'ovvietà accecante: ero la sola persona che, al di là di ogni dubbio, era depositaria di almeno alcune delle risposte, e se c'era qualcosa che avrebbe potuto farle riemergere quel qualcosa era il bosco… "Ricominciare dall'inizio."

Lo so che suona semplicistico, ma non so neppure come iniziare a descrivervi cosa significò, per me, quella lampadina da mille watt che mi si accendeva nella testa, quel faro che mi diceva che dopotutto non mi ero perso in un territorio sconosciuto: sapevo esattamente dove andare. Quasi scoppiai a ridere, seduto sul letto con la luce del primo mattino che filtrava tra le tende. Sarei dovuto essere in preda alla madre di tutti i doposbornia, invece mi sentivo come se avessi dormito per una settimana. Scoppiavo di energie come un ventenne. Mi feci la doccia, mi rasai e rivolsi un allegro "buongiorno" a Heather, tanto che, colta alla sprovvista, parve anche un po' sospettosa. Poi andai in città in auto, intonando l'ultima, orribile hit del momento che mandava la radio.

Trovai parcheggio a Stephen's Green e pensai che fosse un buon segno. È quasi impossibile, a quell'ora del mattino, e lungo la strada per l'ufficio acquistai alcune cose. In una piccola libreria nei pressi di Grafton Street trovai una bellissima copia di Cime tempestose, pagine spesse con i margini marrone, rilegata con un lussuoso tessuto rosso stampato in oro "da Ellis Bell", come recitava il frontespizio. Poi andai da Brown Thomas e comprai una maneggevole anche se complicata macchinetta per fare il cappuccino. Cassie andava matta per il caffè con la schiuma. Avevo pensato di regalargliela a Natale ma, non so bene per quale motivo, non l'avevo fatto. Andai a piedi in ufficio senza preoccuparmi di spostare l'auto. Mi sarebbe costata un occhio della testa di tassametro, ma era una di quelle allegre giornate di sole che ti spingono alla stravaganza.

Cassie era già alla sua scrivania con una pila di documenti davanti. Sam e gli altri agenti, per mia fortuna, non si vedevano in giro. «Buongiorno» disse, con una fredda occhiata di avvertimento.

«Ecco qua» esordii e le depositai le due buste davanti al naso.

«Cos'è?» chiese, sospettosa.

«Quello» risposi, e indicai l'aggeggio per il caffè, «è il tuo regale di Natale in ritardo. E questa è un'offerta di scuse. Sono veramente dispiaciuto, Cass, e non solo per ieri, ma per come sono stato in queste ultime settimane. Mi sono comportato da vero stronzo e hai tutto il diritto di essere furiosa con me. Ma ti prometto solennemente che non sarà più così. D'ora in poi sarò un essere umano normale.»

«Sarebbe una novità» commentò Cassie, e il peso che avevo sul cuore sparì. Aprì il libro – adora Emily Brontë – e fece scorrere le dita sul frontespizio.

«Sono perdonato? Mi metto in ginocchio se vuoi, dico sul serio.»

«Mi piacerebbe proprio» rispose Cassie, «ma qualcuno potrebbe vederti e le chiacchiere di corridoio farebbero nascere un casino infernale. Ryan, sei un cretino. Hai rovinato il mio broncio perfetto.»

«Non ce l'avresti fatta a mantenerlo comunque» la presi in giro, ma ero incredibilmente sollevato. «Per l'ora di pranzo ti sarebbe passata.»

«Non esagerare. Vieni qui, avanti.» Allungò un braccio, io mi piegai e l'abbracciai rapidamente. «Grazie.»

«Prego, non c'è di che» dissi. «E, sul serio, niente più atteggiamenti odiosi.»

Cassie mi osservò mentre mi toglievo la giacca. «Senti» riprese, «non è che sei stato solo un rompicazzo tremendo. Mi hai fatto preoccupare. Se non vuoi più avere a che fare con… no, ascolta… potresti far cambio con Sam, seguire la pista Andrews e lasciare che si occupi lui della famiglia. Dal punto in cui è arrivato chiunque potrebbe continuare la sua indagine. Non abbiamo bisogno di suo zio o cose del genere. Sam non farà domande, lo conosci. Non c'è ragione che tu ci perda la testa su questa faccenda.»

«Cass, sto bene, in pace con me stesso e con Dio» risposi. «Ieri è stata una specie di sveglia per me. Giuro su tutto ciò che ti viene in mente che ho capito come affrontare questo caso.»

«Rob, ricordi che mi avevi detto di prenderti a calci se avessi cominciato a fare lo strambo? Be', lo sto facendo. Metaforicamente, per il momento.»

«Senti, dammi altri sette giorni. Se per la fine della prossima settimana penserai ancora che non riesco a gestire la cosa, farò cambio con Sam. Okay?»

«Okay» concesse, anche se non sembrava ancora convinta. Ero talmente d buonumore che quell'inatteso slancio protettivo, che di norma mi avrebbe fatto saltare la mosca al naso, mi parve commovente. Forse perché sapevo che non era più necessario. Le strinsi una spalla con un gesto goffo e mi diressi alla mia scrivania.

«A dire il vero» continuò Cassie mentre mi sedevo, «tutta questa faccenda di Sandra Scully dimostra che il proverbio "non tutto il male vien per nuocere" ha un suo fondamento di verità. Non vedevamo l'ora di mettere le mani sulle cartelle mediche di Rosalind e di Jessica, no? Be', abbiamo Katy che mostra segni di abuso fisico, Jessica presenta sintomi psicologici e ora Jonathan ammette lo stupro. Credo che abbiamo materiale circostanziale a sufficienza per ottenerle.»

«Maddox» le dissi, «sei un genio.» Quello era l'aspetto che mi aveva impensierito di più: che avessi fatto la figura dell'idiota lanciando la squadra in una specie di inutile caccia alle oche. A quanto pareva, non era stata poi così inutile. «Ma credevo tu pensassi che Devlin non fosse il nostro uomo.»

Cassie scrollò le spalle. «Non esattamente. Nasconde qualcosa, magari solo l'abuso… sì, insomma, non per minimizzare, ma hai capito cosa intendo. Oppure vuole coprire Margaret, o… non sono sicura quanto te che sia colpevole, ma mi piacerebbe vedere cosa c'è in quelle cartelle, tutto qui.»

«Anch'io non ne sono certo.»

Inarcò un sopracciglio. «Ne sembravi piuttosto sicuro, ieri.»

«A proposito» dissi, cambiando argomento, un po' a disagio, «sai se mi ha denunciato? Non ho le palle per controllare.»

«Visto che ti sei scusato così carinamente, ignorerò il tuo meraviglioso tentativo di incastrarlo. A me non ha detto nulla e comunque lo sapresti se l'avesse fatto: sentirebbero strillare O'Kelly fino a Knocknaree. Per lo stesso motivo, immagino che neppure Cathal Mills abbia denunciato me per avergli detto che ha un pisellino piccolo piccolo.»

«Non lo farà. Te lo vedi seduto alla scrivania di un qualche sergente a spiegare che hai insinuato che ha il cazzetto moscio? Ma con Devlin la faccenda è diversa. È già abbastanza fuori di testa di suo…»

«Non sparlare di Jonathan Devlin» intervenne Sam, irrompendo nella sala operativa. Era tutto rosso in viso e sovreccitato, con il colletto storto e una ciocca di capelli che gli ricadeva sugli occhi. «Giuro che, se non pensassi che potrebbe prenderla male, lo bacerei.»

«Sareste proprio una bella coppia» dissi, abbassando la penna. «Cosa ha fatto?» Cassie ruotò sulla sedia, un sorriso stampato sul volto.

Sam prese la sua sedia con un gesto teatrale, ci si lasciò cadere e sollevò i piedi sul tavolo, come gli investigatori privati nei vecchi film. Se avesse avuto anche il cappello l'avrebbe lanciato per la stanza. «Ha "solo" riconosciuto Andrews nel confronto vocale. A Andrews e al suo avvocato è quasi venuto un attacco di bile e anche Devlin non è che sia stato proprio contento di sentirmi… che diavolo gli avete detto? Ma alla fine lo hanno fatto tutti. Ho chiamato Devlin… ho pensato fosse il modo migliore; sapete com'è… tutti sembriamo un po' diversi al telefono. Poi ho fatto dire a Andrews e a un gruppetto dei ragazzi alcune frasi delle telefonate anonime: "Carina la ragazzina" e "Non hai idea della cosa in cui ti sei immischiato".»

Scostò la ciocca di capelli. Rideva e aveva l'espressione gioiosa e trionfante di un bambino. «Andrews borbottava, strascicava le parole e via così per rendere diversa la voce, ma Jonathan, il mio eroe, l'ha beccato in cinque secondi netti, senza batter ciglio. Mi ha urlato nelle orecchie al telefono, voleva sapere chi fosse e Andrews e il suo legale… ah, dimenticavo, il vostro uomo, Devlin, l'avevo in vivavoce così che potessero sentirlo anche loro, non volevo discussioni, dopo… se ne stavano lì con delle facce… come se avessero preso un tremendo calcio nel culo. È stato grandioso.»

«Oh, bravo» commentò Cassie, e si sporse sul tavolo per dargli un cinque. Con un sorriso grosso così, Sam si girò poi dalla mia parte e mimò il gesto anche con me.

«A essere onesti, sono proprio soddisfatto di me. Siamo ancora lontani dal poterlo incriminare per omicidio, ma qualche accusa di molestie sarà sufficiente a tenerlo qui per ulteriori interrogatori e consentirci di vedere dove possiamo arrivare.»

«L'hai trattenuto?» gli chiesi.

Sam scosse la testa. «Non gli ho detto nulla dopo il confronto, mi sono limitato a ringraziarlo e a comunicargli che ci saremmo fatti vivi. Voglio lasciarlo a bollire nel suo brodo per un po'.»

«Oh, questo è disonesto, O'Neill» dissi in tono serio. «Non me lo sarei mai aspettato da te.» Era divertente prendere in giro Sam. Non ci cadeva sempre, ma quando succedeva si accalorava e cominciava a balbettare.

Mi fulminò con lo sguardo. «E, inoltre, voglio vedere se c'è la possibilità di mettergli il telefono sotto controllo per qualche giorno. Se è il nostro uomo, sono pronto a scommettere che non l'ha fatto da solo. Il suo alibi tiene e comunque non è il tipo da rovinarsi il vestito nuovo con il lavoro sporco. Ricorrerebbe a qualcun altro. Il riconoscimento della sua voce magari lo fa andare nel panico tanto che chiama l'uomo che ha assunto. O si lascia sfuggire qualcosa, lo stupido.»

«Ripassa tutti i suoi tabulati telefonici» gli ricordai. «Vedi con chi ha parlato il mese scorso.»

«Ci sta lavorando O'Gorman» disse Sam compiaciuto. «Voglio dare a Andrews una settimana o due e vedere se emerge qualcosa, poi lo riprendiamo e…» Parve improvvisamente riluttante a proseguire, come colto tra vergogna e malizia. «Ricordate che Devlin disse che l'uomo al telefono sembrava un po' legato? E ieri ci chiedevamo se Andrews non fosse un po' alticcio? Credo che il nostro amico abbia qualche problema d'alcol. Mi chiedo come sarebbe messo se andassimo a trovarlo, che so… alle otto o alle nove di sera. Potrebbe… potrebbe parlare con più facilità e non chiamare subito l'avvocato. So che non è bene approfittare delle debolezze altrui, però…»

«Rob ha proprio ragione» disse Cassie, scuotendo la testa. «Hai una vena di crudeltà.»

Sam sgranò gli occhi per lo sgomento. Ma fu solo per un istante, poi capì l'antifona. «Ma vi potesse venire…» fece allegramente e ruotò sulla sedia con i piedi in aria.


Quella sera eravamo tutti un po' sopra le righe, emozionati come bambini che si ritrovano inaspettatamente con un giorno di vacanza dalla scuola. Lasciandoci nella più assoluta incredulità, Sam era riuscito a mandare O'Kelly dal giudice per fargli emettere il mandato per porre sotto controllo il telefono di Andrews per due settimane. Di solito, un provvedimento del genere lo si ottiene solo in presenza di grossi quantitativi di esplosivo, ma l'Operazione Vestale occupava ancora le prime pagine dei giornali un giorno sì e un giorno no: "Nessuna nuova pista per l'omicidio di Katy (a pagina 5: 'Tuo figlio è al sicuro?')". E l'alto livello di drammaticità ci conferiva maggior potere contrattuale. Sam era fuori di sé dalla gioia: «Ragazzi, me lo sento che il bastardo ci nasconde qualcosa, ci scommetterei dei soldi. Basterà qualche pinta in più, una di queste sere, e… centro! Lo becchiamo». Aveva portato del vino, un gradevolissimo bianco, per festeggiare. La confortante notizia mi faceva sentire più leggero. Avevo fame come non mi capitava più da settimane. Preparai un'enorme frittata tipo tortilla spagnola, cercai di farla ruotare come una crèpe e quasi mi finì nel lavandino. Cassie svolazzava per casa a piedi nudi e con un paio di jeans estivi tagliati, ora affettando una baguette di pane, ora alzando il volume dei Dixie Chicks, massacrando in ogni caso la mia coordinazione occhio-mano ai fornelli. «E qualcuno ha anche avuto il coraggio di mettere un'arma in mano a questo tipo; questione di tempo e comincerà a mostrarla in giro per far colpo sulle ragazze, col rischio di spararsi a una gamba…»

Dopo cena giocammo a una versione improvvisata di Cranium. Eravamo solo in tre e mi mancano le parole per descrivere le sceneggiate di Sam, dopo quattro bicchieri di vino, che cercava di mimare qualcosa quando era il suo turno. Le lunghe tende bianche si gonfiavano e sfioccavano alla brezza che entrava dalla finestra a ghigliottina aperta e una falce di luna se ne stava lì nel cielo del crepuscolo. Non ricordavo l'ultima volta che avevo trascorso una serata come quella, felice e spensierata, senza le piccole sfumature grigie che contornano ogni conversazione.

Quando Sam se ne andò, Cassie volle insegnarmi a ballare lo swing. Dopo cena, ci eravamo bevuti un quasi cappuccino per inaugurare la macchinetta nuova e nessuno di noi aveva la benché minima voglia di andare a dormire. Dal lettore CD proveniva un vecchio brano, e Cassie mi prese le mani e mi fece alzare dal divano. «Come diavolo fai a sapere ballare lo swing?» chiesi.

«I miei zii pensavano che i bambini dovessero far un sacco di corsi. So anche disegnare al carboncino e suonare il piano.»

«Tutto insieme? Io so suonare il triangolo. E ho due piedi sinistri.»

«Non m'interessa, voglio ballare.»

L'appartamento era troppo piccolo. «Avanti» mi esortò Cassie, «togliti le scarpe.» Prese il telecomando, aumentò il volume a undici e uscimmo dalla finestra. Per la scala di sicurezza in ferro battuto, con gli strati di vernice che venivano via al tocco della mano, scendemmo sul tetto aggettante del piano di sotto.

Io non sono un gran ballerino, ma lei mi insegnò le mosse di base, senza stancarsi di ripeterle e schivando con destrezza i miei passi maldestri, così che, d'un tratto, cominciai a muovermi autonomamente e ci ritrovammo a ballare seguendo il ritmo sincopato ed elegante della musica e spingendoci pericolosamente ai bordi del tetto. Sentivo le mani di Cassie nelle mie, forti come quelle di una ginnasta e tuttavia flessibili. «Anche tu sai ballare!» gridò senza fiato, per coprire la musica e con gli occhi che le brillavano.

«Cosa?» gridai e inciampai. Risate che si srotolarono come stelle filanti nei giardini bui, di sotto.

Una finestra si aprì di colpo, più in basso, e una voce dall'accento anglo-irlandese sbraitò: «Se non abbassate chiamo la polizia!».

«Siamo noi la polizia!» rispose Cassie a pieni polmoni. Le tappai la bocca con un mano e scoppiammo in una risata esplosiva, non più trattenuta, finché, dopo un confuso silenzio, la finestra si richiuse con un gran fracasso. Cassie corse su per le scale, ci rimase attaccata con una mano e, continuando a ridacchiare, con l'altra puntò il telecomando attraverso la finestra, cambiò CD selezionando i notturni di Chopin, e abbassò il volume.

Ci distendemmo l'uno di fianco all'altra su quel tetto, con le mani dietro la testa, i gomiti che si sfioravano. Mi girava ancora un po' la testa per avere ballato e bevuto, ma piacevolmente. Il venticello era tiepido sul mio volto e, anche con le luci della città, si vedevano le costellazioni: l'Orsa maggiore, la cintura di Orione. Il pino in fondo al giardino stormiva come il mare, incessantemente. Per un istante mi parve che l'universo si fosse capovolto e che stessimo planando in un vasto bacile nero pieno di stelle. E seppi, al di là di ogni dubbio, che sarebbe andato tutto bene.


Mi tenni il bosco per il sabato sera, coccolandomi il pensiero come un bambino alle prese con un enorme uovo di Pasqua con una misteriosissima sorpresa dentro. Sam era a Galway per il weekend, al battesimo di una nipotina: ha una di quelle famiglie molto estese che organizzano riunioni e incontri praticamente tutte le settimane. C'era sempre qualcuno che veniva battezzato, o che si sposava, o che veniva sepolto. Cassie sarebbe uscita con un'amica e Heather avrebbe partecipato a uno speed-date in un hotel da qualche parte. Nessuno si sarebbe accorto della mia assenza.

Arrivai a Knocknaree verso le sette e parcheggiai nella piazzola di sosta. Mi ero portato il sacco a pelo, una torcia, un thermos di caffè molto corretto e un paio di sandwich – quei preparativi mi avevano fatto sentire un po' ridicolo, un po' come uno di quegli escursionisti tecnologicamente organizzati, o come un ragazzino scappato di casa – ma nulla per accendere un fuoco: gli abitanti della zona residenziale erano ancora molto allarmati, si sarebbero fiondati a chiamare la polizia se avessero visto un qualche misterioso chiarore e mi sarei trovato in una situazione estremamente imbarazzante. Inoltre, non sono un boy scout fatto e finito e avrei rischiato di mandare a fuoco quello che rimaneva del bosco.

Era ancora chiaro, lunghe lame di luce davano alla pietra del torrione una colorazione rosa dorata, e gli scavi e gli ammassi di terra smossa davano alla scena un che di magico e triste. Si udiva un agnello belare in lontananza, nei campi, e l'aria aveva un odore ricco e tranquillo: di fieno, di mucche, di fiori sconosciuti. Stormi di uccelli si esercitavano nella formazione a V oltre il crinale della collina. Fuori dal cottage, il cane da pastore si sedette sulle zampe posteriori e, fissandomi, produsse un mezzo latrato di preavviso. Poi decise che non rappresentavo una minaccia e si riaccucciò. Seguii gli accidentati percorsi degli archeologi, larghi a malapena per le carriole, attraversai il sito e raggiunsi il bosco: questa volta indossavo un vecchio paio di scarpe da ginnastica, jeans frusti e un pesante maglione.

Se, come me, siete essenzialmente gente di città, allora è probabile che quando immaginate un bosco pensiate a una cosa semplice: alberi tutti uguali in file ordinate, un morbido tappeto di foglie morte o aghi di pino, tranquillo come il disegno di un bambino. Magari i boschi artificiali creati dall'uomo saranno così, non ho modo di saperlo. Il bosco di Knocknaree, invece, era un bosco naturale, e più intricato e segreto di quanto ricordassi. Aveva un proprio ordine, le proprie fiere battaglie e alleanze. In quel momento io ero un intruso ed ebbi l'impressione, diffusa in tutto il corpo come un pizzicore, che la mia presenza fosse stata istantaneamente colta e che l'ambiente mi stesse osservando con un ambiguo sguardo collettivo, senza accettarmi o respingermi, per ora. Con riserva di giudizio.

Nella radura di Mark c'era cenere fresca nel punto in cui era stato acceso il fuoco e altri mozziconi di sigarette arrotolate sparsi sulla nuda terra lì attorno. C'era tornato, dopo la morte di Katy. Sperai ardentemente che non scegliesse proprio quella notte per ricongiungersi al suo patrimonio storico. Estrassi dalle tasche i sandwich, il thermos e la torcia, distesi il sacco a pelo sull'area compatta di erba schiacciata dove Mark aveva disteso il suo e mi misi a girovagare per il bosco, senza fretta.

Fu come imbattersi nelle rovine di una grande città antica, Atlantide o Pompei. Gli alberi si innalzavano più alti dei pilastri delle cattedrali, lottavano per farsi spazio, sostenevano grossi tronchi caduti, seguivano piegandosi la direzione del pendio della collina. Querce, faggi, frassini e altre specie di cui non conoscevo il nome. Lunghe lance di luce filtravano, deboli e sacre, attraverso le verdi arcate. Grandi estensioni di edera ricoprivano gli enormi tronchi, penzolavano come cascate dai rami, trasformavano i ceppi in menhir. I miei passi erano attutiti da uno spesso strato molle di foglie cadute. Mi fermai a rivoltarne un tratto con la punta della scarpa e mi colpì un forte odore di marcio. Scoprii la terra scura e umida, le teste delle ghiande, il pallido e frenetico dimenarsi di un verme. Degli uccelli si alzarono in volo lanciando richiami tra i rami, piccoli tramestii di avvertimento esplosero al mio passaggio.

Boscaglia e frammenti erosi del muro di pietra. Radici nodose, verdi di muschio e più spesse del mio braccio. Le basse rive del fiume, infestate di rovi (vi scivolavamo, sulle mani, sul sedere… "Ahia! La gamba!") e sovrastate da cespugli di bacche di sambuco e salici. Il fiume era come un foglio di oro vecchio, increspato e punteggiato di nero. Vi galleggiavano sottili foglie gialle, e il loro dondolio pareva quello di una massa solida.

La mia mente vacillava, vorticando freneticamente. Ogni passo faceva scattare qualcosa intorno a me, ma come in un codice Morse ad alta frequenza che mi era impossibile cogliere. Lì avevamo corso, scapicollandoci con passo sicuro giù per la collina, lungo la ragnatela di sentieri appena accennati. Lì avevamo mangiato mele selvatiche dalle forme diverse prendendole da un albero contorto. Sollevando gli occhi verso quel turbinio di foglie, quasi mi aspettavo di vederci lassù, aggrappati ai rami come gatti selvatici. Dai margini di una di quelle piccole radure con l'erba alta e il cerfoglio selvatico, avevamo osservato Jonathan e i suoi amici tenere Sandra ferma a terra. Da qualche parte, magari nel punto esatto in cui mi trovavo io, il bosco aveva tremato e si era aperta una voragine che aveva inghiottito Peter e Jamie.

Non avevo un piano prestabilito per quella notte, non nel senso stretto della parola. Andare nel bosco, dare un'occhiata in giro, passarci la notte e sperare che accadesse qualcosa. Fino a quel momento, la mancanza di organizzazione non mi era parsa un ostacolo. Negli ultimi tempi, ogni volta che avevo tentato di pianificare qualcosa, era andato tutto storto in maniera spettacolare, era stato un fallimento con i fuochi d'artificio. Dovevo cambiare drasticamente tattica, e cosa poteva esserci di più drastico che buttarmi nella cosa senza nulla di preordinato e aspettare semplicemente di vedere cosa mi avrebbe portato l'onda buona? Immagino anche che quel modo di agire esercitasse un certo fascino sul mio senso del bizzarro. Credo di aver sempre desiderato, nonostante dal punto di vista del temperamento sia totalmente inadatto al ruolo, di vestire i panni dell'eroe mitico, aureo e indomito che galoppa senza sella per andare incontro al proprio destino su un cavallo che nessun altro sa cavalcare.

Ora che ero lì, però, la cosa non mi sembrava più un salto di fede imbevuto di spirito libero. Sembrava solo vagamente un po' hippy – avevo anche pensato di aiutare il mio subconscio ad avere successo con qualche genere di sostanza, ma la marijuana mi fa sempre dormire – e un po' più che vagamente idiota. D'un tratto mi resi conto che l'albero al quale ero appoggiato poteva essere benissimo quello dove ero stato trovato, che poteva presentare ancora le vecchie e pallidi cicatrici prodotte dalle mie unghie piantate nella corteccia. Mi resi anche conto che cominciava a imbrunire.

Fui quasi sul punto di andarmene. Tornai alla radura, scrollai il sacco a pelo dalle foglie morte e cominciai ad arrotolarlo. Mi trattenne il pensiero di Mark. Aveva trascorso la notte lì, e non una volta sola ma con regolarità, e non sembrava che gli fosse passato nemmeno per l'anticamera del cervello che potesse essere un'esperienza pericolosa. Non potevo lasciare che vincesse uno a zero, che fosse venuto a saperlo o meno. Si era acceso un fuoco, lui, ma io avevo una torcia e una Smith & Wesson, anche se mi sentivo un po' stupido ad averlo pensato. Ero a poche centinaia di metri soltanto dalla civiltà; dall'abitato, se non altro. Mi fermai, col sacco a pelo in mano, e un istante dopo lo srotolai nuovamente, mi ci intrufolai, lo chiusi fino alla cintura e mi appoggiai con la schiena a un albero.

Mi versai una tazza di caffè al whisky. Il sapore forte e adulto fu stranamente rassicurante. Gli squarci di cielo andavano scurendosi sopra di me, passando dal turchese a un indaco brillante. Gli uccelli si posavano sui rami e, dopo stridii e battibecchi furiosi, si sistemavano per la notte. I pipistrelli attraversavano il sito emettendo i loro suoni striduli e tra i cespugli si udiva ora un rapido balzo, ora uno tramestio, poi silenzio… In lontananza, nel quartiere, un bambino cantilenava a voce alta Ally Ally in free…

Senza che la cosa mi sorprendesse più di tanto, come se lo avessi sempre saputo, arrivai gradatamente a pensare che se fossi riuscito a ricordare qualcosa di utile l'avrei riferito a O'Kelly. Non subito, magari avrei aspettato un paio di settimane per riannodare qualche capo slegato e sistemare faccende mie, per così dire. Perché quando ne avessi parlato con O'Kelly, avrei potuto dire addio alla mia carriera.

Solo qualche ora prima, quel pensiero sarebbe stato come una mazzata. In qualche modo, quella sera, sembrava quasi un'ipotesi seducente, scintillava nell'aria, allettante lì di fronte a me, e me la rigirai con una sorta di sontuoso stordimento. Essere un detective della Omicidi, l'unica cosa per cui mi fossi mai impegnato seriamente, la cosa intorno alla quale mi ero costruito il guardaroba, l'andatura, un linguaggio, insomma la mia intera vita: l'idea di gettare via tutto in un colpo solo… era inebriante osservarla librarsi nel cielo come un palloncino. Avrei potuto cominciare a lavorare come investigatore privato, pensai, affittare un ufficetto in un malandato edificio georgiano, far stampare il mio nome a lettere dorate sul vetro smerigliato della porta, andare al lavoro quando ne avevo voglia e dribblare con perizia la legge, oltre a rompere le scatole a un furibondo O'Kelly per ottenere informazioni riservate. Mi chiesi, come in sogno, se Cassie mi avrebbe seguito. Mi sarei comprato un cappello floscio, un impermeabile e avrei condito il tutto con un arguto senso dell'umorismo. Me la immaginai seduta come una sciantosa al bar degli hotel, con un provocante abito rosso addosso e una macchina fotografica nel rossetto per incastrare gli uomini d'affari che tradivano le mogli… Quasi mi sfuggì una risata.

Mi accorsi che stavo per addormentarmi, e non lo avevo previsto. Lottai per restare sveglio. Ma tutte le notti insonni mi si stavano scaricando addosso in una volta sola, come sparate dritte in vena. Pensai al thermos del caffè e mi parve che prenderlo richiedesse uno sforzo immane. Il sacco a pelo si era riscaldato col calore del mio corpo e mi ero sistemato bene tra gli avvallamenti del terreno e dell'albero. Mi sentivo meravigliosamente comodo, quasi narcotizzato. Sentii la tazza del thermos scivolarmi dalle dita, ma non riuscii ad aprire gli occhi.

Non so quanto dormii. Ma mi ritrovai dritto a sedere e con un grido pronto a erompere prima ancora di essere completamente sveglio. Qualcuno aveva detto, in modo chiaro e distinto, e proprio nel mio orecchio: «Cos'è stato?».

Rimasi lì seduto a lungo, a sentire il sangue che mi saliva al collo. Le luci dell'abitato erano tutte spente. Il bosco era silenzioso, si udiva solo il sospiro del vento tra i rami sopra la mia testa. Da qualche parte giunse il rumore di un rametto spezzato.

Peter che, sul muro del castello, si girava e allungava la mano aperta verso me e Jamie per bloccarci: «Cos'è stato?».

Eravamo stati fuori tutto il giorno, da quando la rugiada aveva cominciato ad asciugarsi sull'erba. Faceva molto caldo, i respiri erano tiepidi come l'acqua del bagno e il cielo era del colore della fiamma di una candela. Avevamo dei brick di limonata nell'erba sotto un albero, per quando ci fosse venuta sete, ma si erano scaldati e appiattiti e le formiche stavano banchettando. Qualcuno stava usando un tagliaerba lungo la strada, qualcun altro aveva la finestra della cucina aperta, la radio a volume alto e stava cantando Wake Me Up Before You Go-Go. Due bambine facevano a turno con un triciclo rosa sul marciapiede e la sorellina smorfiosetta di Peter, Tara, giocava alla maestra nel giardino della sua amica Audrey. Le due ciarlavano con un gruppetto di bambole messe in fila. I Carmichael avevano comprato un irrigatore a spruzzo. Non ne avevamo mai visto uno e tutte le volte che lo usavano ci fermavamo a guardarlo, ma la signora Carmichael era una stronza, Peter diceva che se mettevi piede nel suo giardino ti spaccava la testa con un attizzatoio.

Non avevamo fatto altro che andare in bici. A Peter avevano regalato una Evil Knievel per il suo compleanno – se la facevi impennare, riuscivi a saltare pile intere di vecchi annuari Warlord - così ci stavamo esercitando. Costruimmo una rampa in strada con mattoni e un pezzo di compensato che il padre di Peter aveva nel capanno in giardino – «La faremo sempre più alta» diceva Peter. «Aggiungeremo un mattone al giorno.» – ma traballava da matti e non riuscivo mai a non attaccarmi ai freni prima di prendere il volo.

Jamie provò la rampa un paio di volte, poi rimase lì a bighellonare al bordo della strada, a staccare un adesivo dal manubrio e a scalciare un pedale per farlo girare velocemente. Quella mattina era uscita tardi ed era stata zitta tutto il giorno. Non era mai stata una chiacchierona, ma quel giorno era diverso: il suo silenzio era come una densa nuvola che la circondava, e rendeva irrequieti me e Peter.

Peter volò dalla rampa urlando e atterrò zigzagando furiosamente, mancando di pochissimo le bambine sul triciclo. «Siete degli scemi, ci ammazzerete una di queste volte» esclamò stizzita Tara, senza staccarsi dalle bambole. Indossava una lunga gonna a fiori che scendeva fin sull'erba e un grande cappello dalla forma strana con un nastro attorno.

«Non sei il mio capo» le gridò per tutta risposta Peter. Sterzò sul prato di Audrey e sgusciò davanti a Tara, strappandole il cappello dalla testa. Come se avessero fatto le prove, Tara e Audrey si misero a strillare all'unisono.

«Adam! Prendi!» Lo seguii nel giardino, pur sapendo che saremmo finiti nei guai se la mamma di Audrey fosse uscita. Riuscii ad afferrare il cappello senza cadere dalla bici, me lo misi in testa e feci un giro intorno alla classe delle bambole senza tenere il manubrio. Audrey cercò di buttarmi giù ma la schivai. Era simpatica e non sembrava veramente arrabbiata, così cercai di non passare sopra le sue bambole. Tara si posizionò con le mani sui fianchi e cominciò a urlare a Peter. «Jamie!» gridai. «Vieni!»

Jamie, che era rimasta in strada sbattendo ritmicamente la ruota anteriore contro il bordo della rampa, lasciò cadere la bici, prese la rincorsa e saltò oltre il muro.

Peter e io ci dimenticammo di Tara, che intanto ci urlava dietro: «Sei proprio un disgraziato, Peter Savage, te lo dico io, aspetta solo che la mamma senta come ti comporti…». Frenammo e ci guardammo. Audrey mi strappò il cappello dalla testa e corse via, controllando che non la inseguissi. Lasciammo le bici in strada e scavalcammo il muro dietro a Jamie.

Era al dondolo fatto con il pneumatico e ogni tanto si slanciava dando un calcio al muro. Teneva la testa bassa e riuscivo a vedere solo un paravento di capelli chiari e dritti e la punta del suo naso. Ci sedemmo sul muro e aspettammo.

«Mami mi ha misurata stamattina» disse alla fine, torturandosi una crosticina su una nocca.

Perplesso, pensai allo stipite della porta della cucina: legno bianco lucido, con segni di matita e date a indicare la mia crescita. «Allora?» chiese Peter. «Scemotta.»

«Per le uniformi!» gli gridò contro Jamie. «Sei duro, eh?» Scese dal pneumatico, atterrò pesantemente e si mise a correre nel bosco.

«Ehi!» disse Peter. «Ma che cos'ha?»

«Il collegio» risposi. Solo a pronunciarlo mi venivano le gambe molli.

Peter mi fece una faccia incredula e disgustata. «Ma non ci andrà. L'ha detto la sua mami.»

«No, non è vero. Ha detto: "Vedremo".»

«Sì e poi più niente da allora.»

«Vabbè, però adesso l'ha fatto, a quanto pare.»

Peter strizzò gli occhi per il sole. «Andiamo» disse e saltò giù dal muro.

«Ma dove?»

Non rispose. Recuperò la sua bici e quella di Jamie e riuscì a condurle entrambe nel suo giardino. Io presi la mia e lo seguii. Con una fila di mollette del bucato pinzate sull'orlo del grembiule, sua madre stava stendendo la biancheria. «Non dar fastidio a Tara» gli ingiunse.

«Va bene» rispose Peter e lasciò cadere le bici sull'erba. «Marni, andiamo nel bosco, okay?» Il piccolo Sean Paul era steso su un telo, indossava solo il pannolino e cercava di gattonare. Lo toccai esitante nel fianco col piede. Lui rotolò, mi afferrò la scarpa da ginnastica e mi rivolse un gran sorriso. «Buono bimbo» gli dissi. Non volevo andare a recuperare Jamie. Avrei potuto restare lì, a occuparmi di Sean Paul per la signora Savage, e aspettare che Peter tornasse a dirmi che Jamie sarebbe partita.

«Si cena alle sei e mezzo» avvisò la signora Savage e, mentre Peter passava, allungò una mano sovrappensiero per lisciargli i capelli. «Hai l'orologio con te?»

«Come no.» Peter le agitò il polso sotto il naso. «Dai, Adam, andiamo.»

Quando c'era qualcosa che non andava, di solito andavamo nello stesso posto: la sala più in alto del castello. Le scale per le quali ci si arrivava erano crollate da tempo e da sotto non si poteva nemmeno immaginare che ci fosse qualcosa lassù. Bisognava arrampicarsi lungo il muro esterno fino in cima e poi saltare sul camminamento di pietra. L'edera che lo ricopriva ci facilitava il compito: era come il nido di un uccello, abbarbicato lassù.

Jamie era lì, rannicchiata in un angolo con un gomito piegato a uncino sopra la bocca. Piangeva forte e in maniera scomposta. Una volta, secoli prima, le era finito il piede in un buco dei conigli mentre correva e si era rotta la caviglia. Ce l'eravamo caricata sulle spalle fino a casa e non aveva versato una sola lacrima, neanche quando ero inciampato e le avevo stortato la gamba. Si era limitata a un: «Ahia, Adam, sta' attento, scemo!» e mi aveva dato un pizzicotto sul braccio.

Scesi nella sala. «Vai via!» mi urlò Jamie, soffocata dal braccio e dalle lacrime. Aveva il viso rosso e i capelli arruffati, con le mollette che le pendevano storte. «Lasciami sola.»

Peter era ancora sul muro. «Vai in collegio?» le chiese.

Jamie strizzò occhi e bocca, ma i singhiozzi trattenuti si udirono ugualmente. Quasi non capivo quello che diceva. «Non me l'ha mai detto, faceva finta che andasse tutto bene e invece… mentiva!»

Fu l'ingiustizia della cosa a colpirmi maggiormente, a lasciarmi senza parole. «Vedremo» aveva detto la madre di Jamie, «non preoccuparti» e noi le avevamo creduto e avevamo smesso di preoccuparci. Nessun adulto ci aveva mai traditi prima di allora, non su qualcosa di quell'importanza, e non riuscivo a capirlo. Avevamo trascorso l'intera estate convinti di avere tutto il tempo del mondo.

Peter camminò sulla cima del muro, avanti e indietro, in equilibrio precario, poi lo rifece su una gamba sola. «Allora rifacciamo la stessa cosa. Ammutinamento.»

«No!» gridò Jamie. «Ha già pagato le tasse d'iscrizione e tutto il resto, è troppo tardi… Vado tra due settimane! Due settimane…» Strinse le mani a pugno e le abbatté sul muro.

Non potevo sopportarlo. Mi inginocchiai accanto a lei e le misi un braccio attorno alle spalle. Se lo scrollò via ma, quando ce lo rimisi, lo lasciò lì. «Non piangere, Jamie» la implorai. «Ti prego, non piangere.» Il vortice verde e oro dei rami tutt'intorno, Peter sconcertato e Jamie che piangeva, la pelle setosa e abbronzata del suo braccio che mi faceva fremere la mano. Il mondo intero sembrava ondeggiare, la pietra del castello che rollava sotto di me come i ponti delle navi nei film… «Sarai a casa tutti i weekend…»

«Ma non sarà la stessa cosa!» si lamentò Jamie. Rovesciò la testa all'indietro e singhiozzò senza neppure cercare di nasconderlo, una fragile gola scura rivolta verso gli squarci di cielo. L'infelicità nella sua voce mi colpì profondamente. Aveva ragione, non sarebbe stata mai più la stessa cosa, mai più.

«No, Jamie, non piangere… smettila…» Non riuscivo a stare fermo. Sapevo che era una cosa stupida ma per un istante fui lì lì per dirle che sarei andato al posto suo, che l'avrei sostituita, che sarebbe potuta restare per sempre… Prima di rendermene conto, chinai la testa e la baciai su una guancia. Sentii le lacrime umide sulla mia bocca. Jamie odorava di erba al sole, calda e verde, inebriante.

Rimase così stupefatta che smise di piangere. Voltò la testa dalla mia parte, come una sciabolata, e mi piantò gli occhi in faccia, occhi cerchiati di rosso e di un azzurro intenso. Erano vicinissimi. Sapevo che stava per far qualcosa, assestarmi un pugno, ricambiare il bacio…

Peter saltò giù dal muro e atterrò sulle ginocchia davanti a noi. Mi afferrò il polso, forte, e poi afferrò quello di Jamie. «Ascoltate» disse. «Scappiamo.»

Lo fissammo a occhi sbarrati.

«Che stupidaggine» sbottai, dopo un po'. «Ci prenderanno.»

«No, no che non lo faranno, non subito. Possiamo nasconderci qui per qualche settimana, senza problemi. Non deve essere per sempre o cose del genere… Aspettiamo che sia più sicuro. Una volta iniziata la scuola, torniamo a casa e sarà troppo tardi. E anche se la mandano via lo stesso, chissenefrega! Scappiamo ancora. Andiamo a Dublino e prendiamo Jamie. A quel punto la espelleranno e dovrà tornare a casa. Facile!»

Gli brillavano gli occhi. L'idea prese forma, si ingigantì, cominciò a roteare lì nell'aria tra noi.

«Potremmo vivere qui» disse Jamie. Le venne meno il respiro per un lungo singhiozzo. «Nel castello, voglio dire.»

«Ci sposteremo tutti i giorni. Qui, nella radura, sull'albero grande con i rami a forma di nido. Non gli daremo la possibilità di prenderci. Pensi sul serio che qualcuno potrebbe trovarci qui? Avanti, su!»

Nessuno conosceva il bosco come noi. Scivolare tra la boscaglia, leggeri e silenziosi come guerrieri pellerossa, in osservazione tra il folto degli alberi e sui rami più alti, immobili, mentre il gruppo alla nostra ricerca avanzava con passo pesante…

«Faremo i turni per dormire.» Jamie se ne stava seduta più dritta, ora. «Uno di noi farà la guardia.»

«Ma i nostri genitori» dissi pensando alle mani calde di mia madre, immaginandomela che piangeva, disperata, «si preoccuperanno un sacco. Penseranno che…»

Jamie stirò la bocca. «Certo… mia madre no. Non mi vuole tra i piedi comunque.»

«E la mia pensa quasi esclusivamente ai piccoli» rincarò Peter. «E a mio padre di certo non gliene fregherà nulla.» Jamie e io ci scambiammo uno sguardo. Non ne parlavamo mai, ma sapevamo entrambi che, quando si ubriacava, il padre di Peter a volte li picchiava. «E poi, chi se ne frega se i genitori si preoccupano? Non te l'hanno detto che Jamie sarebbe finita in collegio, no? Ti hanno lasciato credere che era tutto a posto!»

Aveva ragione, pensai, stordito. «Potrei lasciare un biglietto… solo per dirgli che stiamo bene.»

Jamie cominciò a dire qualcosa ma Peter la interruppe. «Esatto, perfetto! Lascia un biglietto con su scritto che siamo andati a Dublino, o a Cork, o altrove. Così ci cercheranno là mentre noi saremo qui, tutto il tempo.»

Si rimise in piedi e tirò su anche noi. «Ci state?»

«Io in collegio non ci vado» disse Jamie, pulendosi la faccia con l'avambraccio. «Non ci vado, Adam. Neanche per sogno. Farò qualsiasi cosa.»

«Adam?» Vita selvaggia, abbronzati e scalzi tra gli alberi. Il muro del castello aveva un che di freddo e indistinto al tatto. «Adam, che altro dovremmo fare? Vuoi lasciare che mandino via Jamie? Non vuoi far qualcosa?»

Mi strattonò per il polso. La sua mano era forte, pressante. Sentivo il mio battito pulsare nella presa. «Ci sto.»

«Sì!» gridò Peter, vibrando un pugno nell'aria. L'urlo echeggiò tra gli alberi, alto, selvaggio e trionfante.

«Quando?» chiese Jamie. Le brillavano gli occhi per il sollievo, aveva la bocca aperta e sorrideva, era in punta di piedi, pronta a prendere il volo non appena Peter avesse dato il via. «Ora?»

«Frena, frena» le disse Peter con un largo sorriso stampato in faccia. «Dobbiamo prepararci. Andiamo a casa e recuperiamo tutti i soldi che abbiamo. Abbiamo bisogno di provviste, ma dobbiamo comprarle a poco a poco, così nessuno si insospettisce.»

«Wurstel e patate» proposi. «Possiamo accendere un fuoco con i rametti…»

«No, niente fuoco, lo vedrebbero. Non prendete roba da cuocere. Cibi in scatola, fagioli in salsa di pomodoro e quei cerchietti di pasta precotti ad esempio. Devi dire che sono per tua madre.»

«Qualcuno deve procurarsi un apriscatole…»

«Ci penso io, mia madre ne ha uno in più, non se ne accorgerà.»

«Sacchi a pelo e torce…»

«Sì, bravo, ma aspetteremo l'ultimo minuto per quelle cose, non vogliamo che si accorgano che non ci sono più…»

«Possiamo lavare i vestiti nel fiume…»

«… e infilare i rifiuti in un tronco cavo, così nessuno potrà trovarli…»

«Quanti soldi avete ragazzi?»

«Quelli che mi hanno regalato per la comunione sono tutti sul conto postale, non li posso prendere.»

«Allora, roba che costa poco. Ci procureremo… latte e pane…»

«Bleah, il latte va a male!»

«Ma no, lo mettiamo al fresco nel fiume, in un sacchetto di plastica…»

«Jamie beve il latte raggrumato!» gridò Peter. Fece un salto verso il muro e cominciò ad arrampicarsi verso la cima.

Jamie saltò dietro di lui. «No che non lo bevo, tu lo bevi!» Gli afferrò una caviglia e cominciarono ad azzuffarsi, là in cima, ridendo a crepapelle. Li raggiunsi e Peter mi trascinò nella baruffa. Lottammo, vocianti e ridanciani, senza fiato, pericolosamente in equilibrio. «Adam mangia gli scarafaggi!» «Vaffanculo, è successo quando eravamo piccoli…»

«Zitti!» Peter si districò da noi e si accovacciò, immobile, facendoci segno di tacere. «Cos'è stato?»

Fermi e in allerta come lepri spaventate, ci mettemmo in ascolto. Il bosco era fermo, fin troppo, come in attesa. La normale animazione pomeridiana di uccelli e insetti e animaletti invisibili si era interrotta come per ordine della bacchetta di un direttore d'orchestra. Solo da qualche parte, davanti a noi…

«Che ca…» bisbigliai.

«Shhh…» Musica, o una voce, o semplicemente uno scherzo del fiume sulle rocce, il vento nel tronco cavo di un albero… Il bosco aveva un milione di voci che cambiavano a ogni stagione e tutti i giorni. Era impossibile conoscerle tutte.

«Andiamocene» disse Jamie, con gli occhi scintillanti. «Andiamocene» e si lanciò giù dal muro come uno scoiattolo volante. Si tenne a un ramo, penzolò, si lasciò cadere rotolando e si mise a correre. Peter aveva già saltato dopo di lei, prima ancora che il ramo avesse smesso di oscillare. Scesi faticosamente anch'io e mi misi al loro inseguimento «Aspettatemi, aspettatemi…»

Il bosco non era mai stato così lussureggiante e selvaggio. Le foglie lanciavano bagliori di luce solare come fossero girandole e i colori erano così brillanti che ci potevi vivere, l'odore della terra, così ricca e fertile, era amplificato e inebriante come il vino della messa. Schizzammo tra nuvole di moscerini, saltammo fossi e ceppi d'alberi in putrefazione, i rami turbinavano attorno a noi come acqua, le rondini compivano acrobazie lungo il nostro percorso e tra gli alberi, a lato, giuro, c'erano tre cervi che stavano al nostro passo. Mi sentivo leggero, fortunato e libero, non avevo mai corso così velocemente o saltato senza sforzo così in alto. Un colpo di reni e avrei potuto prendere il volo.

Per quanto corremmo? I nostri punti di riferimento preferiti dovevano essersi spostati per consentirci quella corsa veloce perché li superammo tutti; saltammo la lastra di pietra e ci librammo nella radura con un solo balzo, tra le sferzate dei rovi di mora e i conigli che sollevavano il muso per vederci passare. Smuovemmo il pneumatico dell'altalena nella nostra scia e ci fermammo alla quercia cava. E davanti a noi, così dolce e selvaggio da far male, così pieno di lusinga…

Gradatamente mi accorsi che nel sacco a pelo ero zuppo di sudore, che la schiena contro il tronco dell'albero era così rigida che tremavo, che annuivo con colpi secchi e convulsi della testa, come un giocattolo. Il bosco era nero e vuoto come sarebbe stato agli occhi di un cieco. In lontananza, si udiva un rapido picchiettio come di gocce di pioggia sulle foglie, minuscole e in espansione. Lottai per ignorarlo, per continuare a seguire quel fragile filo d'oro della memoria, per non abbandonarlo in quell'oscurità, o non avrei più ritrovato la via di casa.

La risata che scivolava alle spalle di Jamie come in uno sfarfallio di lucenti bolle di sapone, api che ronzavano in un raggio di sole, le braccia di Peter che si aprivano nel salto di un ramo caduto, un grido entusiasta. I nodi dei lacci delle scarpe che mi si allentavano, scampanii di allarme che salivano insistenti da qualche parte dentro di me, le case si dissolvevano come bruma dietro di noi… Siete sicuri? Siete sicuri? Peter, Jamie, aspettate… fermatevi…

Il picchiettio si andava estendendo a tutto il bosco, si alzava e si abbassava, si avvicinava da ogni lato. Era nei rami alti sopra la mia testa, nella boscaglia dietro di me, piccolo, rapido e preciso. Mi si drizzarono i capelli sulla nuca. "Pioggia" mi dissi con quello che era rimasto della mia mente, "è solo pioggia", ma non riuscivo a sentirne nemmeno una goccia. Lontano, dall'altra parte del bosco, si levò un urlo, un suono acuto, insensato.

Avanti Adam, sbrigati, sbrigati…

L'oscurità davanti a me si stava muovendo, si addensava. C'era un rumore, come di vento che facesse stormire le foglie, un forte vento che investiva il bosco per cercarsi un sentiero. Pensai alla torcia, ma le dita, già attorno all'impugnatura, erano raggelate. Sentivo che quel filo d'oro si tendeva, tirava. Qualcosa dall'altra parte della radura respirò, qualcosa di grosso.

Giù al fiume. Fermata in scivolata, i rami dei salici che ondeggiavano e l'acqua che sparava schegge di luce come milioni di piccoli specchi, accecanti, stordenti. Occhi dorati dalle ciglia lunghe come quelli dei gufi.

Corsi. Mi liberai a fatica dall'impaccio del sacco a pelo e mi lanciai nel bosco, lontano dalla radura. Rovi mi attanagliavano le gambe, ghermivano i miei capelli, battiti d'ala mi esplodevano nelle orecchie. Urtai violentemente con la spalla contro il tronco di un albero e rimasi senza fiato. Buche e avvallamenti invisibili mi si aprivano improvvisi sotto i piedi così che non riuscivo a correre abbastanza velocemente. Le gambe sparivano fino alle ginocchia nel sottobosco. Era come se stesse realizzandosi il più tipico degli incubi dell'infanzia. Dell'edera rampicante mi finì sulla faccia e urlai, credo. Non sarei mai uscito da quel bosco, questo lo sapevo, avrebbero ritrovato il sacco a pelo e… per un istante visualizzai, come nella realtà, Cassie con la felpa rossa che si inginocchiava nella radura tra le foglie che cadevano dagli alberi e toccava il tessuto con una mano guantata… e poi più nulla, per sempre.

Poi vidi uno spicchio di luna nuova tra le nuvole in movimento e seppi di essere fuori, di essere allo scavo. Il terreno era insidioso, si scivolava e cedeva sotto il peso. Inciampai, agitai le braccia scompostamente per mantenere l'equilibrio e mi scorticai lo stinco contro una sporgenza del vecchio muro, ma rimasi in piedi e continuai a correre. Sentivo nelle orecchie un respiro affannoso ma non avrei saputo dire se era il mio. Come tutti i detective, avevo dato per scontato che fossi io il cacciatore. Non mi aveva neppure lontanamente sfiorato l'idea che potessi essere invece la preda.

La Land Rover, bianca e scintillante, lì nell'oscurità, mi apparve come una meravigliosa chiesa pronta a offrire riparo. Mi ci vollero due o tre tentativi prima di riuscire ad aprire la portiera. Feci anche cadere le chiavi, per cui dovetti cercare freneticamente tra foglie ed erba secca, guardandomi selvaggiamente alle spalle, quasi certo ormai di non riuscire più a trovarle, fino a quando non mi ricordai di avere la torcia ancora stretta in pugno. Alla fine mi arrampicai dentro, sbattei il gomito contro il volante, chiusi tutte le portiere e rimasi lì a sedere, ansimando per un po' d'aria e sudando copiosamente. Tremavo troppo per mettermi alla guida e dubito anche che sarei riuscito ad andarmene di lì in retromarcia senza sbattere contro qualcosa. Trovai le sigarette e me ne accesi una. Sentivo il disperato bisogno di qualcosa da bere, di qualcosa di forte, o anche di una bella canna. Avevo i jeans sporchi di fango all'altezza delle ginocchia ma non ricordavo di essere caduto.

Quando le dita furono sufficientemente salde per premere i numeri chiamai Cassie. Doveva essere già ben oltre mezzanotte, forse molto più tardi, ma rispose al secondo squillo e sembrava sveglia e pimpante. «Ciao, come va?»

Per un orribile momento pensai di non riuscire a tirare fuori la voce. «Dove sei?»

«Sono arrivata a casa da una ventina di minuti. Emma, Susanna e io siamo andate al cinema e poi a cena al Trocadero e, Dio, ci hanno servito un vino rosso sublime, incredibile. C'erano tre tipi che hanno cercato di attaccare bottone ed Emma diceva che erano attori e che ne aveva visto uno in TV in quella serie ospedaliera…»

Era allegrotta ma non proprio ubriaca. «Cassie» la interruppi, «sono a Knocknaree. Allo scavo.»

Una pausa, brevissima, poi, con voce calma e diversa, mi chiese: «Vuoi che venga a prenderti?».

«Sì, grazie.» Non me ne ero reso conto finché non me l'aveva domandato, ma era proprio quello il motivo per cui l'avevo chiamata.

«Okay, vengo subito.» Riattaccò.

Ci mise un'eternità ad arrivare, tanto perché cominciassi ad andare nel panico e a immaginare scenari da incubo: era stata spiaccicata da un camion sulla tangenziale, aveva bucato e l'avevano rapita dei trafficanti di esseri umani lungo la strada… Trovai la forza di estrarre la pistola e mettermela in grembo, oltre al buonsenso di non togliere la sicura. Accesi una sigaretta dopo l'altra e gli occhi mi lacrimavano per l'abitacolo pieno di fumo. Fuori, delle cose frusciavano e si muovevano nella boscaglia, ramoscelli si spezzavano. Non potevo fare a meno di voltarmi ora da una parte ora dall'altra, con il cuore che batteva all'impazzata e la mano che stringeva la pistola. Ero certo a volte di vedere un viso al finestrino, feroce e ghignante, ma non c'era mai nessuno. Accesi la luce interna ma mi faceva sentire troppo esposto, un uomo primitivo e i predatori attirati dal fuoco e in attesa oltre il cerchio, così la spensi subito.

Alla fine sentii il ronzio della Vespa e vidi il faro spuntare da dietro la collina. Rimisi la pistola nella fondina e aprii la portiera. Non volevo che Cassie mi vedesse trafficarci. Dopo l'oscurità, quella luce era sconvolgente, surreale. Si fermò in strada e appoggiò il piede a terra. Mi chiamò con un "ciao".

«Ciao» dissi, scendendo goffamente dall'auto. Avevo le gambe rigide e contratte: probabilmente ero stato tutto il tempo con i piedi puntati contro il pavimento. «Grazie.»

«Nessun problema. Ero sveglia.» Era arrossata e aveva gli occhi lucidi per il vento. Quando mi avvicinai, percepii il freddo che emanava. Si tolse lo zainetto dalle spalle e ne estrasse un altro casco. «Tieni.»

Con il casco non sentii più nulla, solo il rumore sommesso del sangue che mi pulsava nelle orecchie. L'aria scivolava dietro di me, scura e fresca come acqua. Le luci delle auto e le insegne al neon mi passavano oltre come pigre scie. La cassa toracica di Cassie era sottile e solida tra le mie mani, e si spostava quando lei cambiava marcia o si piegava per curvare. Era come se la Vespa galleggiasse sulla strada. Mi sarebbe piaciuto che ci trovassimo su una di quelle infinite freeway americane dove puoi andare avanti per tutta la notte, per sempre.


Stava leggendo quando l'avevo chiamata. Il futon era già stato tirato fuori, con il piumino patchwork e i cuscini bianchi; Cime tempestose e la maglietta di varie taglie più grande erano ai piedi del letto. C'erano pile semiorganizzate di materiale del lavoro: una foto del segno della legatura sul collo di Katy mi saltò agli occhi, rimase nell'aria come un'immagine residua. Il resto era sparso sul tavolino basso e sul divano, coperto dagli abiti che Cassie aveva indossato per uscire: un paio di jeans scuri e stretti, un top di seta rosso con ricami in oro, di quelli che si allacciano al collo e lasciano la schiena nuda. L'abat-jour, una cosina tondeggiante con il paralume in carta gialla, dava alla stanza un calore accogliente.

«Da quando non mangi?» chiese Cassie.

Mi ero dimenticato dei sandwich, forse erano da qualche parte nella radura. Così come il sacco a pelo e il thermos. Avrei recuperato il tutto la mattina dopo, insieme all'auto. Al pensiero di tornarci, foss'anche di giorno, un brivido mi corse velocemente lungo il collo. «Non lo so bene» risposi.

Cassie cercò nell'armadio e mi passò una bottiglia di brandy e un bicchiere. «Un goccio mentre ti preparo qualcosa. Uova e toast?»

A nessuno dei due piace il brandy, e infatti la bottiglia era ancora chiusa e polverosa, forse un premio di qualche pesca natalizia o roba del genere. Ma una piccola e più obiettiva parte della mia mente era sicura che Cassie avesse ragione: ero sotto shock. «Sì… fantastico» dissi. Mi sedetti sul bordo del futon – il pensiero di liberare il divano da tutta quella roba sembrava complicato oltre ogni immaginazione – e rimasi a fissare la bottiglia di brandy per un po', finché non mi resi conto che, teoricamente, avrei dovuto aprirla.

Ne buttai giù un po' troppo e tossii (Cassie mi lanciò un'occhiata ma non aggiunse nulla). Ne sentii l'impatto, lente strisce dolci e brucianti di calore che si avventuravano nelle mie vene. La lingua mi pulsava, forse c'era stato un momento in cui me l'ero morsicata. Me ne versai un altro po' e lo sorseggiai con più cautela. Cassie si muoveva con maestria nel cucinotto: una mano agli odori da un mobiletto, l'altra alle uova dal frigo, l'anca per richiudere un cassetto. Aveva lasciato i Cowboy Junkies a volume basso. Di solito mi piacciono, ma quella sera continuavo a sentire cose nascoste sotto la linea di basso, rapidi bisbigli, richiami, un battito della sezione ritmica che non ci sarebbe dovuto essere. «Possiamo spegnere?» domandai, quando non ne potei proprio più. «Eh?»

Lasciò l'osservazione della padella e si girò con un cucchiaio di legno in mano. «Sì, certo» rispose dopo un istante. Spense lo stereo, prese il pane, tostato nel frattempo, e ci mise sopra le uova. «Ecco qua.»

Quel profumo mi fece ricordare che avevo fame. Buttai giù il tutto a grandi morsi, fermandomi a stento per respirare. Era pane da toast ai cereali e le uova erano infarcite di spezie ed erbe aromatiche: non avevo mai mangiato niente di più buono e gustoso. Cassie era seduta a gambe incrociate sul futon e mi osservava alle prese con il toast. «Ancora?» chiese, quando ebbi finito.

«No» risposi. Tanto e troppo in fretta. Lo stomaco protestava con crampi malefici. «Grazie.»

«Cosa è successo?» mi domandò con calma. «Ricordi qualcosa?»

Cominciai a piangere. Piango così raramente – mi sarà capitato una volta o due da quando avevo tredici anni, e credo che entrambe le volte fossi ubriaco, e quindi non contano – che mi ci volle un po' per capire cosa stava accadendo. Mi passai una mano sulla faccia e mi osservai le dita bagnate. «No» risposi. «Nulla che possa essere utile. Ricordo tutto di quel pomeriggio. Ricordo che andammo nel bosco, ricordo le cose di cui parlammo, ricordo che sentimmo qualcosa… non so cosa… e di esserci messi a correre per andare a vedere cosa fosse… E poi il panico. Cazzo, il panico più totale.» Mi si incrinò la voce.

«Ehi» fece Cassie. Si allungò sul futon e mi mise una mano sulla spalla. «È un grosso passo avanti, tesoro. La prossima volta ti ricorderai il resto.»

«No» la contraddissi. «No, non andrà così.» Non sarei mai riuscito a spiegarlo e ancora adesso non so perché ne fossi così sicuro. Era stato il mio asso nella manica, l'ultima pallottola, e l'avevo sprecata. Mi presi il viso tra le mani e piansi come un bambino.

Non mi abbracciò né cercò di consolarmi, e gliene fui grato. Se ne rimase lì composta, a massaggiarmi la spalla con il pollice mentre continuavo a piangere. E non piangevo per quei tre bambini, non posso dire una cosa del genere, ma per la distanza impossibile da colmare che mi divideva da loro, per i milioni di chilometri che separavano quei pianeti. Per tutto quello che avevamo avuto da perdere. Eravamo stati così piccoli, così sconsideratamente certi che insieme avremmo potuto cimentarci contro il buio e le complesse minacce del mondo adulto, buttarci ridendo nella mischia.

«Scusami» dissi alla fine. Mi raddrizzai e mi asciugai la faccia col dorso della mano.

«Per cosa?»

«Per avere fatto la figura dell'idiota. Non era mia intenzione.»

Cassie scrollò le spalle. «Siamo pari. Così adesso sai come mi sento quando faccio quei sogni e tu mi devi svegliare.»

«Sì?» Non mi era mai venuto in mente.

«Sì.» Rotolò sul futon, allungò una mano verso un pacchetto di fazzoletti di carta che stavano nel comodino e me lo passò. «Soffia.»

Feci un sorriso stiracchiato e mi soffiai il naso. «Grazie, Cass.»

«Come va?»

Inspirai profondamente ed ebbi un fremito, poi, senza che potessi trattenermi, sbadigliai. «Sto bene.»

«Sei quasi pronto a crollare?»

La tensione stava lentamente scivolandomi via dalle spalle e mi sentivo più stanco di quanto non fossi mai stato in tutta la mia vita, ma continuavano a esserci piccole ombre che comparivano rapide dietro le palpebre e tutti gli scricchiolii e i rumori della casa, di cui in altri momenti non mi sarei accorto, ora mi facevano sussultare. Sapevo che quando Cassie avesse spento la luce e mi fossi ritrovato solo sul divano, l'aria si sarebbe riempita di cose senza nome che premevano, muovevano la bocca senza emettere suoni e si agitavano. «Credo di sì» risposi. «Ti dispiace se dormo qui?»

«Nessun problema. Ma sappi che se ti metti a russare finisci dritto dritto sul divano.» Si drizzò a sedere, sbattendo le palpebre, e cominciò a togliersi le mollette dei capelli.

«Niente russamenti» promisi. Riuscii a togliermi le scarpe e i calzini, ma svestirmi mi parve impresa impossibile. Mi infilai sotto il piumino con tutti i vestiti addosso.

Cassie si tolse la felpa, scivolò sotto le coperte accanto a me e i suoi riccioli si sparsero, ribelli. Senza neppure pensare a quello che facevo, l'abbracciai e lei si rannicchiò con la schiena contro di me.

«'Notte, piccola» le dissi. «Grazie di nuovo.»

Mi diede una pacca impacciata sul braccio e si allungò per spegnere l'abat-jour. «'Notte, scemo. Dormi bene. E svegliami se hai bisogno.»

I suoi capelli sul mio volto avevano un dolce odore di verde, di foglie di tè. Sistemò la testa sul cuscino e sospirò. Era calda, compatta e a me vennero in mente l'avorio lucido, le castagne lucenti: la soddisfazione pura di quando hai nella mano qualcosa che ci sta alla perfezione. Non ricordavo l'ultima volta che avevo tenuto stretto qualcuno in quel modo.

«Sei sveglia?» mormorai, dopo un po'.

«Sì» rispose Cassie.

Restammo immobili. Sentii l'aria intorno a noi cambiare, sbocciare e rabbrividire come su una strada rovente. Il cuore mi batteva all'impazzata, o forse era il suo che batteva contro il mio petto, non ne sono certo. La feci voltare tra le mie braccia e la baciai, e dopo un istante lei ricambiò il bacio.

So di aver detto che scelgo sempre di sdrammatizzare rispetto all'irrevocabile e, sì, quello che intendevo è che sono sempre stato un codardo, ma mentivo: non sempre. Ci fu quella notte. Ci fu quella volta.

Загрузка...