Quello che vi consiglio di ricordare è che sono un detective. Il nostro rapporto con la verità è fondamentale ma incrinato, sprigiona riflessi confusi come vetro in frantumi. La verità è l'essenza delle nostre carriere, il finale di partita di ogni nostra mossa e la perseguiamo con strategie diligentemente costruite con bugie, dissimulazioni e ogni possibile declinazione dell'inganno. È la donna più desiderabile al mondo e noi gli amanti più gelosi, che ne negano per reazione a chiunque altro anche il minimo barlume. La tradiamo abitualmente, trascorriamo ore e giorni in un torpore di menzogne e poi torniamo a lei brandendo l'ultimo nastro di Möbius dell'amante: l'ho fatto solo perché ti amo alla follia.
Me la cavo piuttosto bene con le immagini, soprattutto quelle spicce, un po' banali. Non lasciatevi fregare da me, la nostra categoria non è una banda di cavalieri parfit gentil con tanto di farsetto, lanciati all'inseguimento della Signora Verità sul suo destriero bianco. Quello che facciamo è rozzo, grossolano e brutto. Una giovane fornisce l'alibi al suo ragazzo per la sera in cui lui è sospettato di avere rapinato uno dei negozi Centra, quelli sempre aperti che vendono un po' di tutto, su a nord, e di avere accoltellato il commesso: all'inizio flirto con lei, le dico che capisco perché lui voglia restare a casa, con la fidanzata che si ritrova. La tipa in questione ha i capelli ossigenati e unti, i tratti poco marcati e un che di rachitico dovuto a generazioni di malnutrizione. Tra me e me penso che se fossi il suo fidanzato non esiterei a scambiarla persino con un compagno di cella peloso che chiamano Rasoio. Poi le dico che nei pantaloni della sua tuta bianca così di classe abbiamo trovato delle banconote segnate provenienti da quel negozio e che lui sostiene che è stata lei a uscire quella sera e a dargliele quando è rientrata.
Lo faccio in maniera così convincente, con appena un'ombra di disagio e compassione per il tradimento del suo uomo, che alla fine la certezza di quattro anni trascorsi insieme a lui si disintegra come un castello di carte, e tra lacrime e moccio, mentre lui nella stanza degli interrogatori a fianco se ne sta con il mio collega e non fa altro che dire: «Vaffanculo, io ero a casa con Jackie», lei mi racconta tutto, dall'ora in cui è uscito di casa ai dettagli delle sue défaillance sessuali. Allora le do una pacchetta gentile sulla spalla e le offro un fazzolettino di carta e una tazza di tè, senza dimenticare il modulo con la dichiarazione.
Questo è il mio lavoro e non lo cominci nemmeno, oppure, se lo fai, non duri, senza una specie di naturale affinità con le priorità e le richieste che impone. Quello che sto cercando di dirvi, prima che vi mettiate a leggere la mia storia, è che… be', sono due cose: io desidero ardentemente la verità. E mento.
Ecco cosa lessi nel fascicolo, il giorno dopo essere stato promosso al grado di detective. Tornerò un sacco di volte su questa vicenda, in molti modi diversi. Forse è un evento minore, ma è il mio: è l'unica storia al mondo che solo io potrò raccontare.
Il pomeriggio del 14 agosto 1984, tre bambini, Germaine (Jamie) Elinor Rowan, Adam Robert Ryan e Peter Joseph Savage, tutti di dodici anni, stavano giocando nella strada dove abitavano, nella cittadina di Knocknaree, contea di Dublino. Era un giorno caldo e limpido e molti residenti erano in giardino, perciò furono innumerevoli i testimoni che videro i ragazzini in più occasioni nel corso del pomeriggio, in equilibrio sul muro in fondo alla strada, in sella alle loro biciclette, o su un dondolo fatto con un copertone.
All'epoca, Knocknaree non era molto sviluppata e un bosco piuttosto esteso confinava con l'abitato, separato solo da un muro di un metro e mezzo. Intorno alle 15.00 i tre bambini lasciarono le bici nel giardino davanti alla casa dei Savage, dicendo alla signora Angela Savage, che stava stendendo il bucato, che sarebbero andati a giocare nel bosco. Lo facevano spessissimo e conoscevano molto bene quella zona, così la signora Savage non si preoccupò che potessero perdersi. Peter aveva al polso un orologio e la madre gli ricordò di essere a casa per le 18.30, ora di cena. La conversazione venne confermata dalla vicina, la signora Mary Therese Corry, e molti testimoni videro i bambini scavalcare il muro in fondo alla strada e addentrarsi nel bosco.
Quando alle 18.45 Peter Savage non era ancora rientrato, sua madre chiese notizie alle madri degli altri due compagni, dando per scontato che fosse andato a casa di uno di loro. Ma neanche gli altri erano tornati. Di solito Peter Savage era un bambino affidabile, ma i genitori non si allarmarono perché convinti che i ragazzini, completamente assorbiti dal gioco, avessero dimenticato di controllare l'ora. Cinque minuti prima delle 19, la signora Savage si incamminò verso il bosco, in fondo alla strada, vi si addentrò per un breve tratto e li chiamò. Non udì risposta né vide o sentì qualcosa che potesse indicare che vi fosse qualcuno nelle vicinanze.
Tornò a casa per servire la cena al marito, Joseph Savage, e ai loro quattro figli minori. Dopo cena, il signor Savage e il signor John Ryan, padre di Adam Ryan, si spinsero un po' più in là nel bosco, chiamarono e di nuovo non ricevettero risposta. Alle 20.25, quando già cominciava a fare buio, i genitori iniziarono seriamente a preoccuparsi che i bambini potessero essersi persi e la signorina Alicia Rowan (madre single di Germaine), che disponeva di un telefono, chiamò la polizia.
Ebbero inizio le ricerche. A quel punto il timore era che i bambini fossero scappati di casa. La signorina Rowan aveva deciso che Germaine avrebbe frequentato un collegio a Dublino per restarvi durante la settimana e tornare a Knocknaree solo il sabato e la domenica; sarebbe dovuta partire due settimane dopo e tutti e tre i bambini erano particolarmente turbati al pensiero dell'imminente separazione. Tuttavia, una prima perquisizione nelle stanze dei ragazzini rivelò che non mancavano né abiti, né denaro, né oggetti personali. Il salvadanaio di Germaine, a forma di matrioska, era intatto e conteneva 5 sterline e 85 centesimi.
Alle 22.20, un poliziotto con una torcia trovò Adam Ryan in una zona particolarmente fitta di alberi e vegetazione, al centro del bosco, in piedi con la schiena e le palme delle mani contro una grossa quercia. Le unghie erano conficcate così in profondità nel tronco che si erano spezzate all'interno della corteccia. Sembrava essere lì da un po', ma non aveva risposto ai richiami del gruppo di ricerca. Venne trasportato all'ospedale. Fu fatta intervenire l'Unità cinofila e i cani seguirono le tracce degli altri due bambini fino a un punto non lontano da quello in cui era stato trovato Adam Ryan; poi cominciarono a confondersi e non riuscirono a proseguire.
Quando mi trovarono indossavo un paio di calzoncini blu di tela, una maglietta bianca a maniche corte, calzini bianchi di cotone e scarpe da ginnastica, bianche anche quelle. Sulle scarpe c'erano numerose chiazze di sangue, sui calzini un po' meno. Le successive analisi della modalità di diffusione delle chiazze rivelarono che il sangue era passato dall'interno delle scarpe all'esterno: c'era infatti sangue anche dentro i calzini ma in concentrazioni inferiori. Questo significava che le scarpe mi erano state tolte e che il sangue vi era finito dentro; solo dopo, quando il sangue aveva iniziato a coagularsi, le scarpe mi erano state rimesse ai piedi, trasferendo il liquido ematico ai calzini. La maglietta presentava quattro strappi paralleli, tra gli otto e i tredici centimetri, che correvano diagonalmente lungo la schiena dalla zona mediana della scapola sinistra alle costole posteriori destre.
Non avevo ferite, tranne qualche piccolo graffio sui polpacci, schegge sotto le unghie, che in seguito vennero ritenute compatibili con il legno della quercia, e profonde abrasioni sulle ginocchia, dove già iniziavano a formarsi delle croste. Si discusse se i graffi me li fossi procurati nel bosco oppure no, poiché una bambina più piccola (Aideen Watkins, 5 anni), che stava giocando in strada, affermò di avermi visto cadere dal muro quel giorno, qualche ora prima, e atterrare proprio sulle ginocchia; tuttavia, la sua dichiarazione cambiò nel corso dei vari interrogatori e non venne più considerata affidabile. Io ero praticamente in uno stato catatonico: per quasi trentasei ore non feci un solo movimento volontario e non parlai per le due settimane successive. Quando finalmente aprii bocca, non avevo ricordi tra il momento in cui ero uscito di casa, quel pomeriggio, e il momento in cui mi avevano visitato in ospedale.
Il sangue trovato su scarpe e calzini fu analizzato per individuarne il gruppo – l'analisi del DNA non era disponibile in Irlanda nel 1984 – e si scoprì che era di tipo A positivo. Anche il mio sangue era di tipo A positivo, tuttavia si ritenne improbabile che le abrasioni sulle ginocchia, per quanto profonde, avessero prodotto una quantità di sangue tale da impregnare in quel modo le scarpe da ginnastica. Il sangue di Germaine Rowan era stato analizzato due anni prima in occasione di un'appendicectomia e la cartella riportava anche per lei A positivo. L'ipotesi che il sangue appartenesse a Peter Savage, sebbene non vi fossero dati disponibili, fu scartata: entrambi i suoi genitori, si scoprì, appartenevano al tipo 0 e questo rendeva impossibile che lui fosse di qualsiasi altro gruppo. In assenza di un'identificazione certa, gli investigatori non poterono non tenere in considerazione la possibilità che il sangue fosse di un quarto individuo, né che provenisse da più fonti.
La ricerca continuò per tutta la notte del 14 agosto, e nelle settimane che seguirono squadre di volontari passarono al setaccio le colline e i campi vicini; tutti gli acquitrini e le zone paludose dell'area vennero esplorati, i sommozzatori scandagliarono il fondale del fiume che attraversava il bosco, senza alcun risultato. Quattordici mesi dopo, il signor Andrew Raftery, che si trovava a passeggiare con il suo cane nel bosco, scorse tra la sterpaglia un orologio da polso, a una sessantina di metri da dove mi avevano trovato. L'orologio era molto particolare: sul quadrante era raffigurato un calciatore stilizzato e la lancetta dei minuti terminava a forma di pallone. I signori Savage lo riconobbero come quello che portava Peter. La signora Savage confermò che lo aveva il pomeriggio della sparizione. Il cinturino di plastica pareva essere stato strappato dalla cassa di metallo con forza, forse dopo essersi impigliato in un ramo mentre Peter correva. La Scientifica identificò un certo numero di impronte digitali parziali sul cinturino e sul quadrante: tutte compatibili con quelle trovate sugli oggetti personali di Peter Savage.
Nonostante gli innumerevoli appelli della polizia e una campagna mediatica d'alto profilo, non furono trovate altre tracce di Peter Savage e di Germaine Rowan.
Sono entrato in polizia perché volevo diventare detective della Omicidi. Il periodo di addestramento e quello in uniforme – il Templemore College, i complicati e infiniti esercizi fisici, in giro nei minuscoli centri abitati con addosso una giacca fosforescente degna di un cartone animato, per scoprire quale dei tre delinquenti locali, indistinguibili l'uno dall'altro, avesse rotto la finestra del casotto in giardino della signora McSweeney – mi parvero un lungo, imbarazzante nonsense alla Ionesco, una specie di prova del tedio che dovevo superare, per una qualche mal congegnata ragione burocratica, se volevo guadagnarmi il mio vero posto. Non penso mai a quegli anni e nemmeno li ricordo con chiarezza. Non avevo amici. Il distacco che dimostravo da tutto mi sembrava involontario e inevitabile, come l'effetto secondario di un sedativo. Gli altri poliziotti però lo interpretavano come una deliberata forma di alterigia, una studiata presa in giro delle loro solide origini e ambizioni rurali. Forse lo era. Di recente ho trovato un diario di quel periodo: i miei colleghi sono descritti come "un branco di bovari dementi e ritardati che respirano con la bocca e che arrancano in un'atmosfera mefitica fatta di cliché, così spessa che si può sentire puzzo di pancetta, di cavolo, di merda di vacche e di candele da altare". Anche nell'ipotesi che avessi avuto una gran brutta giornata, penso comunque che questo mostri una certa mancanza di rispetto per le differenze culturali.
Quando riuscii a entrare alla Omicidi, nel mio armadio pendevano già da quasi un anno i vestiti nuovi: completi dal taglio perfetto, di stoffe così fini da farli sembrare vivi al tocco, camicie a righe azzurre o verdi delicatissime, sciarpe di cachemire morbide come conigli. Adoro la regola implicita che ti suggerisce come devi vestirti. Era una delle cose che mi affascinarono fin dall'inizio e mi attirarono verso il mio lavoro; quello e il linguaggio privato, funzionale, ellittico: ciò che rimane nascosto, le tracce, la Scientifica. In una delle cittadine alla Stephen King dove mi spedirono dopo Templemore ci fu un omicidio, un caso di violenza di ordinaria amministrazione tra le mura domestiche che era andato oltre le intenzioni di chi aveva commesso il reato. Poiché la precedente fidanzata dell'assassino era morta in circostanze sospette, la Omicidi inviò un paio di detective. Per tutta la settimana in cui restarono lì, tenni d'occhio costantemente la macchinetta del caffè dalla mia scrivania, in modo da poterlo prendere insieme a loro. Ci mettevo un po' di tempo ad aggiungere un goccio di latte e intanto tendevo l'orecchio ai ritmi della loro conversazione, scarna e brutale: quando l'ufficio ci manderà i test sulla tossicità; quando il laboratorio avrà identificato le impronte dei denti. Ripresi a fumare per poterli seguire fuori nel parcheggio e farmi una sigaretta a pochi metri da loro, fingendo di fissare il cielo ma non perdendomi nemmeno una parola di quello che si dicevano. Loro mi rivolgevano sorrisi fuggevoli e di circostanza, a volte mi accendevano la sigaretta con uno Zippo un po' ossidato prima di "congedarmi" con un gesto appena accennato della spalla e tornare a chissà quali astute e multiformi strategie. Prima fai venire mammina, poi lo lasci un'ora o due a casa a preoccuparsi di quello che lei sta dicendo, poi la ritiri in ballo. Prepara una stanza apposta, ma fallo entrare subito senza dargli tempo di studiarsela per bene.
Al contrario di quanto potreste supporre, non sono diventato detective con la speranza donchisciottesca di risolvere il mistero della mia infanzia. Lessi una sola volta il fascicolo, quel primo giorno, tardi, da solo, nella stanza della mia squadra, unica fonte di luce la lampada sulla scrivania: echi di nomi dimenticati svolazzavano nella mia testa come pipistrelli; testimoniavano, in un inchiostro ormai sbiadito, che Jamie aveva dato un calcio alla madre perché non voleva andare in collegio, che c'erano degli adolescenti "dall'aspetto pericoloso" che trascorrevano le serate a bighellonare al limitare del bosco, che una volta la madre di Peter era stata vista con un livido su uno zigomo. Non lo riaprii più. Erano queste cose arcane che scatenavano la mia bramosia, queste trame quasi invisibili come un testo in Braille. Erano come purosangue, quei due detective della Omicidi che passarono per Ballysperdutochissàdove; come trapezisti allenati al loro numero scintillante. Miravano alla posta più alta ed erano esperti nel loro gioco.
Sapevo che quello che facevano era crudele. Gli esseri umani sono bestiali e spietati. Osservare con occhi freddi e penetranti e poi con delicatezza sistemare questo o quel tassello, finché il fondamentale istinto di conservazione dell'uomo va in briciole, è crudeltà allo stato puro, nella sua forma più raffinata ed evoluta.
Sentimmo parlare di Cassie giorni prima che entrasse in squadra, forse persino prima che ricevesse l'offerta. Il passaparola dell'NBCI, l'Ufficio nazionale per le indagini criminali, è di un'efficienza che rasenta il ridicolo, stile vecchia zitella. La Omicidi è una sezione piccola e sottoposta a una pressione notevole: vi lavorano soltanto venti elementi in pianta stabile e se qualcosa si allontana dalla routine (quando qualcuno se ne va, quando arriva uno nuovo, quando c'è troppo lavoro, o ce n'è troppo poco) tende a sviluppare uno stato di eccitazione febbrile e claustrofobica, da isteria adolescenziale, piena di alleanze complicate e voci frenetiche. Di solito mi tengo fuori dal giro degli esaltati, ma il brusio su Cassie Maddox fu talmente forte che finii per sentirlo anch'io.
In primo luogo si trattava di una donna, il che causò un certo grado di sdegno malamente sublimato: siamo tutti addestrati a puntino per non lasciarci sconvolgere dai mali del pregiudizio, ma ci sono profonde venature di nostalgia per gli anni Cinquanta, anche tra gente della mia età. Per gran parte degli irlandesi gli anni Cinquanta sono finiti solo intorno al 1995, e a quel punto siamo passati direttamente al thatcherismo degli anni Ottanta. In passato si riusciva a spaventare un sospettato e a farlo confessare minacciandolo di dirlo a sua mamma, i soli stranieri nel Paese erano gli studenti di medicina e il lavoro l'unico posto dove si era al sicuro da donne petulanti. Cassie era solo la quarta donna a entrare alla Omicidi e almeno una delle altre era stata un errore madornale (deliberato, secondo alcuni): finito nel folklore della squadra quando ci era mancato poco che ci restassero secchi lei e il suo collega per essersi lasciati prendere la mano e aver lanciato la pistola sulla testa di un tizio che avevano incastrato.
Per di più, Cassie aveva solo ventotto anni ed era appena uscita da Templemore. La Omicidi è una delle squadre d'élite, e nessuno ci arriva sotto i trenta, a meno che il padre non sia un politico. Di solito bisogna farsi un paio d'anni da agente di supporto, dando il proprio aiuto ogni volta che c'è bisogno di scarpinare un po', e poi occorre farsi le ossa in almeno un paio di altre sezioni. Cassie poteva vantare meno di un anno alla Narcotici. Il passaparola – ricordate che stiamo parlando di detective – sosteneva inevitabilmente che andava a letto con qualcuno di importante o, in alternativa, che era la figlia illegittima di chissà chi o, ancora, con un tocco di originalità in più, che aveva beccato qualche pezzo grosso a comprare droga e quel posto era la ricompensa per farle tenere la bocca chiusa.
A me l'idea di Cassie Maddox non dava nessun problema. Ero alla Omicidi solo da pochi mesi, ma odiavo i pettegolezzi da spogliatoio, le competizioni in fatto di auto e di dopobarba, oltre alle barzellette un po' bigotte vendute come "ironiche" che mi facevano sempre venire voglia di lanciarmi in una pedante lezione sulla definizione di ironia. In generale preferisco le donne agli uomini. Anche nel mio caso non mancavano complicate insicurezze personali sul passaggio alla Omicidi. Avevo quasi trentun anni, con alle spalle due anni da agente di supporto e altri due alla Violenza domestica, quindi la faccenda era meno vaga che per Cassie, ma alle volte pensavo che i capi dessero per scontato che ero un bravo detective secondo lo stesso e assurdo cliché per cui alcuni uomini ritengono che una donna bionda, alta e magra sia bella anche se ha la faccia da tacchino affetto da ipertiroidismo, e il motivo è che sono dotato di tutti i requisiti. Ho un perfetto accento inglese da BBC, preso in collegio come mimetismo protettivo, e ci vuole un po' per togliersi di dosso una tale colonizzazione: anche se tifano per qualsiasi squadra giochi contro l'Inghilterra – conosco alcuni pub dove non potrei ordinare da bere senza rischiare un bicchiere fracassato in testa -, gli irlandesi tendono a dare ancora per scontato che chiunque porti ombrello e bombetta sia più intelligente, meglio istruito e abbia in generale maggiori probabilità di avere ragione. Aggiungiamo anche che sono alto e ho una struttura snella e gambe lunghe che mi fanno apparire asciutto ed elegante se l'abito che indosso è di buon taglio. Per finire, sono belloccio, in maniera non convenzionale. L'agenzia di comparse più famosa al mondo, la Central Casting, mi riterrebbe proprio un ottimo detective, probabilmente il brillante e ombroso cane sciolto che sfida gli alti gradi e rischia il collo, ma acchiappa sempre il colpevole.
In realtà non ho praticamente nulla in comune con il tipo di cui sopra, non ero certo però che gli altri lo avessero notato. A volte, dopo una dose eccessiva di vodka in solitaria, mi si presentavano alla mente scenari vividi e paranoici nei quali il sovrintendente scopriva che ero in realtà il figlio di un dipendente pubblico di Knocknaree e mi faceva trasferire alla sezione Diritti di proprietà intellettuale. Con Cassie Maddox intorno, pensavo, la gente avrebbe forse passato meno tempo ad avere sospetti su di me.
Quando alla fine arrivò, tutta la faccenda si sgonfiò parecchio. La profusione di voci mi aveva lasciato l'immagine mentale di una persona uscita da una fiction TV, con gambe lunghissime e capelli da spot di qualche shampoo e magari con addosso una tutina in latex attillata. Il nostro sovrintendente, O'Kelly, la presentò alla riunione del lunedì mattina. Lei si alzò e disse qualcosa di molto generico sulla sua felicità di unirsi alla squadra e sulla speranza di dimostrarsi all'altezza. Era di statura media, con una cascata di riccioli neri e una struttura da ragazzo, magra e con le spalle larghe. Non era il mio tipo. A me sono sempre piaciute le ragazze molto femminili, dolci e tenere, con l'ossatura leggera, che posso sollevare e far ruotare con un solo braccio, ma in lei c'era qualcosa di particolare, forse il suo modo di stare in piedi, col peso che gravava su un'anca, diritta e sciolta come una ginnasta; forse era solo per il mistero che aleggiava su di lei.
«Ho sentito dire che proviene da una famiglia di massoni e che hanno minacciato di sciogliere la squadra se non l'avessimo presa» commentò Sam O'Neill, dietro di me. Sam è un tipo tracagnotto, allegro e flemmatico, originario di Galway. Non lo immaginavo tra quelli che si sarebbero lasciati travolgere dallo tsunami di chiacchiere.
«Oh, Cristo santo» replicai, cascandoci come un pollo. Sam mi rivolse un ampio sorriso e scosse la testa, poi mi oltrepassò e andò a sedersi. Tornai a osservare Cassie, che si era accomodata e aveva posato un piede contro la sedia davanti a lei, il blocco per gli appunti sulla coscia.
Non era vestita come un detective della Omicidi. Impari per osmosi non appena ti dai un'occhiata in giro: ci si attende da te un aspetto professionale, da persona istruita, con abiti costosi ma discreti e appena un tocco di originalità. Restituiamo ai contribuenti quello che hanno pagato sotto forma di cliché consolatori. Di solito facciamo gli acquisti in quel negozio chic e caro che è Brown Thomas, durante le svendite, e a volte accade di arrivare al lavoro con completi identici, il che è piuttosto imbarazzante. Fino ad allora il più eccentrico della squadra era stato quell'idiota di Quigley, che parlava come Daffy Duck con un accento del Donegal e portava sotto l'abito magliette con slogan tipo PAZZO BASTARDO, perché pensava di essere un temerario. Quando alla fine si rese conto che nessuno di noi ne era sconvolto, né tanto meno interessato, fece venire mammina in città perché lo portasse a fare shopping da BT.
Il primo giorno inserii Cassie in quella stessa categoria. Portava pantaloni multitasche, un maglione di lana color vinaccia con le maniche che le scendevano ben oltre i polsi e un paio di scarpe da ginnastica decrepite: decisi che era solo una posa, del tipo: "Senti un po', sono troppo figa per le tue convenzioni". La scintilla di ostilità che mi accese dentro non fece altro che aumentare il suo fascino. Una parte di me è incredibilmente attratta dalle donne che mi innervosiscono.
Nel corso delle due settimane successive non feci molto caso a lei, tranne che nella maniera generica con cui noti qualsiasi donna dall'aspetto decente quando sei circondato da soli uomini. Tom Costello, il nostro brizzolato veterano, le mostrava un po' come funzionavano le cose e io lavoravo al caso di un barbone pestato a morte in un vicolo. Qualcosa del sapore avvilente e inesorabile della sua vita era sopravvissuto al suo decesso; si trattava di uno di quei casi senza speranza fin dall'inizio: nessuna pista, nessuno che avesse visto o sentito nulla. Chiunque l'avesse ucciso era stato probabilmente così ubriaco o strafatto da non ricordarsi nemmeno di averlo accoppato. Così, la scintilla da novellino entusiasta che brillava in me cominciava a offuscarsi un po'. Inoltre, stavo lavorando con Quigley e la cosa non funzionava. La sua idea di humour consisteva nel ripetere lunghe parti di Wallace & Gromit e poi buttarci su una risata alla Woody Woodpecker per dimostrare quanto fossero divertenti. Avevo il sospetto di essere finito con lui non perché fosse carino con il pischello fresco fresco ma perché nessuno ci voleva stare. Non avevo né il tempo né l'energia di conoscere Cassie. A volte mi chiedo per quanto saremmo andati avanti così. Anche in una squadra piccola ci sono sempre persone con le quali non vai mai oltre i sorrisi e qualche cenno d'assenso scambiato lungo i corridoi, semplicemente perché le vostre strade non si incrociano mai con le loro.
Noi diventammo amici grazie al suo scooter, una Vespa color crema del 1981 in condizioni penose che, nonostante il prestigio del marchio, mi ricordava un bastardino con una goccia di border collie nel suo pedigree. Io la chiamo Golf Cart per infastidire Cassie. Lei chiama Veicolo di compensazione la mia vecchia e malandata Land Rover bianca, con tanto di commento compassionevole per le mie ex fidanzate, Ecomobile quando è in preda alla vena bolscevica. Il Golf Cart suddetto scelse una tremenda giornata di pioggia di settembre, sferzata dal vento, per decidere di non volerne più sapere di partire, proprio fuori dall'ufficio. Io stavo uscendo dal parcheggio e vidi questa ragazzetta fradicia, con una giacca impermeabile rossa che sembrava proprio Kenny, quello di South Park. Se ne stava ferma di fianco alla Vespa altrettanto fradicia e sbraitava dietro un autobus che l'aveva lavata da capo a piedi. Accostai e abbassai il finestrino per chiederle: «Bisogno di una mano?».
Lei mi squadrò e rispose gridando: «Cosa te lo fa pensare?». Poi, prendendomi totalmente alla sprovvista, scoppiò a ridere.
Per circa cinque minuti, mentre cercavo di far ripartire la Vespa, mi innamorai di lei. La giacca impermeabile, di varie misure troppo grande, la faceva sembrare una bimba di otto anni, con tanto di stivali da pioggia con le coccinelle sopra e due enormi occhi nocciola, ciglia bagnate e il musetto di un gattino che spuntavano dal cappuccio rosso. Avrei voluto asciugarla dolcemente con un bel telo di morbida spugna, davanti a un camino acceso. Ma poi disse: «Senti, lascia stare, bisogna saperselo lavorare, 'sto coso» e io, inarcando un sopracciglio, ripetei: «'Sto coso? Contegno, ragazza!».
Me ne pentii subito. Non sono mai stato un granché con le battute e, non si sa mai, poteva essere una femminista sfegatata che mi avrebbe tenuto una lezione sotto la pioggia su Amelia Earhart. Invece mi rivolse un'occhiata di traverso, poi batté le mani bagnate e disse con voce bassa e suadente, alla Marilyn: «Ohhh, ho sempre sognato un cavaliere con l'armatura scintillante che venisse a salvarmi, povera piccola! Solo che nei miei sogni era anche bello».
Quello che stavo vedendo si trasformò in un istante, come attraverso un caleidoscopio sbattuto di qua e di là. Smisi di innamorarmi di lei e da quel momento cominciò a piacermi immensamente. Guardai la sua giacca impermeabile e dissi: «Oh, mio Dio, stanno per ammazzare Kenny». Poi caricai il Golf Cart sul retro della Land Rover e la portai a casa.
Aveva un "mini", l'espressione che i padroni di casa usano per indicare un monolocale con posto per ospitare un amico per la notte, all'ultimo piano di una casa georgiana semidiroccata a Sandymount. La strada era tranquilla, l'ampia finestra a ghigliottina dava sui tetti e verso la spiaggia. C'erano una libreria di legno carica di vecchi tascabili, un malconcio divano vittoriano rivestito con una stoffa di una tonalità turchese acceso, un grande futon con un piumino patchwork. Nessun ornamento o poster, una manciata di conchiglie, sassi e castagne sul davanzale della finestra.
Non ricordo nulla di specifico di quella serata e neppure lei, a quanto dice, ricorda qualcosa di speciale. Non ho dimenticato alcune delle cose di cui parlammo, ho qualche immagine chiarissima in mente, ma di quanto effettivamente ci dicemmo niente di niente. La cosa mi colpisce ed è strana, e a seconda dell'umore le attribuisco un che di magico. Collego la serata a quegli stati di alienazione di cui nei secoli sono stati accusati fate, streghe ed extraterrestri, e dai quali nessuno ritorna immutato. Ma quelle sacche perdute e liminali di tempo sono generalmente solitarie, e l'idea di condividerne una mi fa pensare a gemelli, a mani che brancolano in uno spazio dove c'è assenza di gravità e di parole.
So di essere rimasto per cena, una cena quasi da studenti, pasta e salsa direttamente dal barattolo, whisky caldo in tazze di porcellana. Mi ricordo che Cassie aprì un enorme armadio che occupava gran parte di una parete per tirarne fuori una salvietta così che potessi asciugarmi i capelli. Qualcuno, forse lei, aveva inserito dei ripiani nell'armadio. Erano posizionati ad altezze inarrivabili, stipati degli oggetti più disparati: non riuscii a vedere bene, ma c'erano casseruole dallo smalto sbreccato, blocchi per appunti dalla copertina marmorizzata, morbidi maglioni dai colori sgargianti, mucchi scomposti di carta scribacchiata. Era qualcosa di simile allo sfondo di quelle illustrazioni con dettagli impossibili e infinitesimali delle casette delle fiabe.
Mi ricordo di aver chiesto alla fine: «Allora, come ci sei finita nella squadra?». Avevamo parlato di come si stesse ambientando e pensai di averla buttata lì con sufficiente noncuranza, ma lei mi rivolse un sorrisetto birichino, come se stessimo giocando a dama e mi avesse beccato mentre cercavo di distrarla da una mossa maldestra.
«Per essere una ragazza, intendi?»
«A dire il vero, intendevo per essere così giovane» aggiustai il tiro, anche se naturalmente stavo pensando a entrambi gli aspetti.
«Ieri Costello mi ha chiamata "figliolo"» aggiunse Cassie. «"Buon lavoro, figliolo." Poi si è agitato e ha cominciato a balbettare. Penso avesse paura che lo denunciassi.»
«Forse era un complimento, a modo suo» dissi.
«E io l'ho presa così, infatti. In realtà è proprio tenero.» Si infilò una sigaretta in bocca e protese una mano. Le lanciai il mio accendino.
«Qualcuno mi ha detto che lavoravi sotto copertura come prostituta e ti sei imbattuta in uno dei capoccia» buttai lì, ma Cassie si limitò a rilanciarmi l'accendino e a rivolgermi un ampio sorriso.
«Quigley, giusto? Mi ha detto che tu invece eri una talpa dei servizi segreti di Sua Maestà.»
«Cosa?» Mi sentivo offeso e caddi dritto dritto nella mia stessa trappola. «Quigley è un idiota.»
«Ma dai!» fece lei e cominciò a ridere. Un istante dopo, ridevo anch'io. La faccenda della talpa mi infastidiva. Se mai qualcuno ci avesse creduto, non mi avrebbero più rivolto la parola. Essere preso per un inglese è una cosa che mi fa imbestialire all'ennesima potenza, ma in un certo qual senso mi piaceva l'idea di immaginarmi come un James Bond.
«Sono di Dublino» specificai. «L'accento l'ho preso in collegio, in Inghilterra. E quel bovaro lobotomizzato lo sa benissimo.» Era vero: nel corso delle prime settimane nella squadra mi aveva letteralmente tormentato su cosa ci facesse uno sbarbato inglese nella polizia irlandese, come un bambino che riesce a passare ore e ore a punzecchiarti un braccio e a ripetere ciclicamente "Perché? Perché? Perché?", tant'è che alla fine avevo infranto la mia regola sulla privacy e gli avevo spiegato il motivo dell'accento. Forse avrei dovuto essere più discreto.
«Com'è lavorare con lui?» chiese Cassie.
«Diciamo che piano piano mi farà diventare matto» risposi.
Qualcosa, e non so cosa, si fece strada nella mente di Cassie. Lei stragiura che a quel punto stavamo bevendo caffè e sostiene che sono solo io a credere che fosse whisky caldo perché quell'inverno ne bevemmo spessissimo, ma io lo so per certo, ricordo le punte dei chiodi di garofano sulla lingua, il vapore inebriante. Comunque, qualcosa la spinse ad appoggiarsi di fianco, passarsi la tazza da una mano all'altra, e a tirarsi su la maglia fino ad appena sotto il seno. Ne rimasi così sconcertato che ci misi un po' a capire cosa mi stava mostrando: una lunga cicatrice, ancora rossa, spessa e con i segni dei punti di sutura che sembravano zampette di ragno. Formava una curva attorno a una costola. «Mi hanno accoltellata» spiegò.
Era così ovvio che mi imbarazzava il fatto che nessuno ci avesse pensato. Un detective ferito in servizio ha la possibilità di scegliere a quale sezione essere assegnato. Immagino avessimo ignorato quell'eventualità perché di solito un accoltellamento avrebbe mandato in tilt il tam-tam della polizia. E invece non ne avevamo sentito parlare.
«Cristo» commentai. «Ma com'è successo?»
«Ero infiltrata all'università di Dublino» iniziò Cassie. Questo spiegava sia i vestiti sia che non fossimo a conoscenza di quell'informazione; sui poliziotti che lavorano sotto copertura c'è la massima segretezza. «È così che sono diventata detective tanto in fretta. Al campus c'era un giro di droga e alla Narcotici volevano scoprire chi c'era dietro, avevano bisogno di una persona che potesse passare per una studentessa. Ufficialmente, ero iscritta a un corso postlaurea in psicologia; prima dell'Accademia di polizia mi sono fatta qualche anno di psicologia al Trinity, quindi la materia la conoscevo… e l'aspetto della studentessa ce l'ho.»
Era vero. Il suo volto aveva una purezza che non ho mai visto in nessun altro. La pelle era senza pori come quella di un bambino e i tratti, la bocca grande, gli zigomi alti e arrotondati, il naso regolare, le sopracciglia dall'ampia curvatura facevano sembrare le altre persone confuse e indistinte. Da quello che potevo giudicare, non si truccava mai, tranne che per un po' di burrocacao leggermente rosso che profumava di cannella e che la faceva sembrare ancora più giovane. Pochi l'avrebbero considerata bella, ma i miei gusti sono sempre stati orientati verso i prototipi e non i prodotti in serie. Mi piaceva molto di più guardare lei che una qualsiasi delle bionde prosperose e clonate che le riviste costantemente mi inducono a desiderare, insultando così la mia intelligenza.
«E la copertura ti è saltata?»
«No» rispose, indignata. «Ho scoperto chi era lo spacciatore principale, un ragazzo ricco ma decerebrato di Blackrock, che naturalmente studiava economia e business. Per mesi mi sono impegnata per diventargli amica, ridevo alle sue battute di merda, gli rileggevo le tesine. Poi gli proposi di occuparmi io dello smercio con le ragazze, sarebbero state meno nervose a comprare droga da un'altra donna, no? L'idea gli piacque, tutto filava a meraviglia e ogni tanto buttavo lì che forse sarebbe stato più facile se avessi incontrato direttamente il suo fornitore invece di ricevere la roba tramite lui. Solo che proprio in quel periodo l'amico cominciò a farsi un po' troppo del suo stesso speed; era maggio e aveva gli esami. Divenne paranoico, decise che stavo cercando di fregargli il giro, così mi rifilò una coltellata.» Bevve un sorso dalla tazza. «Non dirlo a Quigley però. L'operazione è ancora in corso, quindi non dovrei nemmeno parlarne. Lascia che il povero stronzo si goda le sue illusioni.»
Rimasi molto colpito dalla faccenda, e non solo per la coltellata. Dopotutto, mi dissi, non aveva fatto qualcosa di particolarmente coraggioso o intelligente, semplicemente non era riuscita a scansarsi in tempo. Ero colpito anche dal pensiero di un lavoro oscuro, adrenalinico come quello sotto copertura, e dalla totale noncuranza con la quale lei aveva raccontato la storia. Poiché avevo lavorato sodo a perfezionare un atteggiamento di disinvolta indifferenza, so riconoscere l'indifferenza vera quando la vedo.
«Cristo» commentai di nuovo. «Immagino che si sia beccato un trattamento di prima classe quando l'hanno portato dentro.» Non ho mai picchiato un sospettato, non credo ce ne sia bisogno, basta che creda che potresti farlo, ma ci sono colleghi che lo fanno e a chi accoltella un poliziotto è probabile che spuntino dei lividi durante il tragitto verso la stazione di polizia.
Sollevò un sopracciglio e mi guardò divertita. «Certo che no. Avrebbe mandato in fumo tutta l'operazione. Hanno bisogno di lui per arrivare al suo fornitore e hanno ricominciato con un altro agente infiltrato.»
«Ma tu non vuoi che lo arrestino?» ribattei, frustrato dalla sua calma e dalla mia strisciante ingenuità. «Ti ha accoltellato!»
Cassie scrollò le spalle. «Dopotutto, se ci pensi bene, da un certo punto di vista ha ragione lui: stavo facendo finta di essere sua amica per fotterlo. E lui era uno spacciatore drogato. Si è comportato di conseguenza.»
Dopo di che la mia memoria torna a farsi nebulosa. So che, deciso a mia volta a fare colpo su di lei, e non essendo mai stato accoltellato o coinvolto in una sparatoria o roba del genere, le raccontai la storia lunga, sconnessa e quasi tutta vera di un tipo che aveva minacciato di buttarsi dal tetto di un condominio con il figlio piccolo quando ancora stavo alla Violenza domestica. Credo sinceramente di essere stato un po' alticcio: altro motivo per cui sono così certo che stessimo bevendo whisky caldo. Ricordo una infiammata conversazione su Wilfred Owen, credo, Cassie in ginocchio sul divano che gesticola, la sua sigaretta che si consuma, non fumata e dimenticata nel posacenere. Ci prendevamo in giro, in maniera brillante ma guardinghi come bambini timidi che si incontrano la prima volta, l'uno a controllare segretamente la reazione dell'altro per essere certi entrambi di non aver superato qualche confine o aver ferito dei sentimenti. Davanti al caminetto e con i Cowboy Junkies in sottofondo, Cassie che canticchiava piano, con un tono dolce e rauco.
«La droga che ti passava il tuo amico spacciatore» chiesi, più tardi, «la vendevi davvero agli studenti?»
Cassie si alzò per mettere il bollitore sul fuoco. «Qualche volta» rispose.
«E la cosa non ti faceva star male?»
«Tutto del fatto di essere sotto copertura mi faceva star male» rispose. «Tutto.»
Quando la mattina dopo arrivammo al lavoro eravamo amici. Fu proprio così semplice: piantammo i semi senza pensarci e ci risvegliammo con la nostra pianta di fagiolo che era spuntata. Durante la pausa incrociai lo sguardo di Cassie e mimai una sigaretta, così uscimmo e ci sedemmo a gambe incrociate alle estremità opposte di una panchina, come due reggilibro. Alla fine del turno mi aspettò, inveendo al cielo per la mia lungaggine: «È come uscire con Paris Hilton. Non dimenticarti la matita per le labbra, tesoro, mica vogliamo che l'autista debba tornare indietro apposta.» Propose "una pinta" mentre scendevamo le scale. Non riesco a spiegare l'alchimia che aveva tramutato una serata nell'equivalente di anni trascorsi insieme serenamente; l'unico motivo che riesco a trovare è che forse avevamo riconosciuto, in modo così certo da non lasciar spazio nemmeno alla sorpresa, di condividere la stessa moneta.
Non appena ebbe finito il training con Costello, facemmo squadra io e lei. O'Kelly cercò di metterci i bastoni tra le ruote, non gli piaceva l'idea di due pivelli che lavoravano insieme e, inoltre, doveva anche trovare qualcuno per Quigley. Ma per una fortuna sfacciata più che per affinate capacità investigative, avevo trovato un tipo che si vantava di aver ucciso il barbone, quindi ero entrato nella manica di O'Kelly e ne approfittai. Ci avvisò che ci avrebbe affidato solo i casi più semplici e le situazioni disperate, «niente che necessiti di vero lavoro da detective». Annuimmo docilmente e lo ringraziammo di nuovo, ben consapevoli che gli assassini non sono così attenti da far sì che i casi complessi si presentino secondo una precisa rotazione. Cassie spostò la sua roba sulla scrivania di fianco alla mia, Costello finì con Quigley e come un labrador martirizzato ci rivolse sguardi di rimprovero per settimane intere.
Nei due anni successivi ci guadagnammo, credo, una buona reputazione nell'ambito della squadra. Portammo in ufficio il sospettato per l'aggressione nel vicolo, un drogato di nome Wayne, e lo interrogammo per sei ore finché non confessò, anche se, cancellando dal nastro tutte le ripetizioni di "Ma vaffanculo", dubito che resterebbero più di quaranta minuti. «Wayne…» dissi a Cassie, mentre gli prendevamo una Sprite e dallo specchio unidirezionale lo osservavamo schiacciarsi i brufoli. «Perché i suoi genitori non gli hanno tatuato in fronte alla nascita "Nessuno nella mia famiglia ha mai finito la scuola superiore"?» Wayne aveva picchiato a morte il barbone, conosciuto col nome di Eddie Barba, perché quel poveretto gli aveva rubato una coperta. Dopo aver firmato la confessione, volle sapere se poteva riavere la sua coperta; lo consegnammo agli agenti in divisa e gli dicemmo che ci avrebbero pensato loro, quindi andammo a casa di Cassie con una bottiglia di champagne e restammo alzati a parlare fino alle sei del mattino per poi arrivare tardi al lavoro, imbarazzati e ancora con la ridarella.
Attraversammo la prevedibile fase in cui Quigley e altri continuavano a chiedermi se me la scopavo e, in caso affermativo, se era una aperta a nuove esperienze, e quando finalmente riuscirono a capire che non era così, passarono un altro po' di tempo a insinuare che forse era lesbica: ho sempre considerato Cassie una donna molto femminile, ma capivo come, per un certo tipo di mentalità, il suo taglio di capelli, l'assenza di trucco e i pantaloni di velluto da ragazzo potessero far supporre tendenze saffiche. Cassie alla fine si scocciò e sistemò la faccenda presentandosi alla festa di Natale con un abito da sera nero senza spalline e un giocatore di rugby di una bellezza un po' rude di nome Gerry. In realtà si trattava di un suo secondo cugino felicemente sposato, ma era molto protettivo nei suoi confronti e non fece obiezioni all'idea di trascorrere una serata a fingere di guardarla con adorazione, se questo fosse servito ad agevolarle la carriera.
Dopo, le chiacchiere finirono e tutti ci lasciarono più o meno in pace, il che ci andava benissimo. Contrariamente alle apparenze, Cassie non è una persona particolarmente socievole, non più di quanto lo sia io; è vivace e rapida nelle battute e chiacchiera con chiunque, ma quando poteva scegliere preferiva la mia compagnia a quella di un folto gruppo. Dormii un sacco di volte sul suo divano. La nostra percentuale di soluzione di casi era buona e stava aumentando; O'Kelly smise di minacciare di dividerci tutte le volte che compilavamo le scartoffie in ritardo. Andammo in tribunale a vedere Wayne – c'eravamo ormai affezionati a lui, il nostro primo caso risolto – che veniva condannato a dieci anni per omicidio colposo («Ma vaffanculo»). Sam O'Neill disegnò con perizia una caricatura di noi due come fossimo Mulder e Scully (ce l'ho ancora da qualche parte) e Cassie l'appiccicò di fianco al computer, vicino a un adesivo di quelli da attaccare alle auto che diceva "Piedipiatti cattivo! Niente ciambellina!".
A posteriori, credo che Cassie sia arrivata sulla scena proprio al momento giusto per me. La mia visione di outsider della Omicidi, una visione abbagliante e irresistibile, non aveva incluso elementi come Quigley, o i pettegolezzi, o gli interminabili ripetitivi interrogatori di drogati con un vocabolario di sei parole e accenti da trapano del dentista in bocca. Mi ero immaginato un'esistenza tirata all'estremo, tutte le cose piccole e insignificanti disintegrate in un ritmo così veloce da fare scintille, mentre la realtà mi aveva lasciato disorientato e deluso, come un bambino che, dopo aver aperto il suo luccicante regalo di Natale, ci trova un paio di calzettoni di lana. Se non fosse stato per Cassie, credo che sarei potuto finire come quel detective della serie Law & Order, quello che ha l'ulcera e che pensa che tutto sia una cospirazione governativa.
Il caso Devlin ci venne affidato un mercoledì mattina d'agosto. Secondo i miei appunti erano le 11.48, quindi tutti gli altri si stavano prendendo un caffè e Cassie e io stavamo giocando a Worms sul mio computer.
«Ahh» esplose Cassie, mentre spediva uno dei suoi vermi a dare una bella botta al mio con una mazza da baseball per poi sbatterlo giù da una roccia. Il mio verme, Groundsweeper Willy, mi gridò: "Aaahhh, razza di imbranato!" mentre scivolava nell'oceano.
«Te l'ho lasciato fare» le dissi.
«Come no, tesoro» convenne con ironia Cassie. «Nessun vero uomo potrebbe essere battuto da una ragazzina. Lo sa anche il verme: solo una checca, senza testosterone, con le palle grandi come uva passa può…»
«Per fortuna sono abbastanza sereno sulla mia mascolinità e non mi sento neppure lontanamente intimorito da…»
«Sst» fece Cassie, girandomi la faccia verso il monitor. «Fa' il bravo bambino. Zitto, fai il bravo e gioca col tuo vermicello. Lo sa il cielo che non ci giocherà più nessuno.»
«Credo che mi farò trasferire in un posto tranquillo e sano come il reparto d'assalto delle teste di cuoio» commentai.
«Loro hanno bisogno di tempi di reazione rapidi, tesoro» fece lei. «Se ti ci vuole mezz'ora per decidere cosa fare con un verme immaginario, di certo non vorranno che ti occupi di ostaggi.»
A quel punto O'Kelly irruppe nella stanza e chiese: «Dove sono finiti gli altri?». Cassie pigiò in tutta fretta Alt+Tab. Uno dei suoi vermi si chiamava O'Puzzelly, e lo mandava regolarmente a finire in situazioni disperate, per vederlo saltare in aria per colpa di una pecora esplosiva.
«Pausa» dissi.
«Un gruppetto di archeologi ha trovato dei resti umani. Chi va?»
«Lo prendiamo noi» si offrì Cassie, togliendo il piede dalla mia sedia così da poterlo reinfilare sotto la sua scrivania.
«Perché noi?» chiesi. «Non può occuparsene il medico legale?»
Per legge, gli archeologi sono obbligati a chiamare la polizia se trovano resti umani a profondità inferiori ai due metri e settanta. Questo nel caso in cui a qualche genio venga l'idea di tenere nascosto un omicidio seppellendo il cadavere in un cimitero del XVI secolo con la speranza che venga datato all'epoca medievale. Devono aver pensato che chiunque riesca a scavare oltre i tre metri di profondità senza essere scoperto meriti un po' di margine per l'impegno profuso. Agenti in divisa e medici legali vengono chiamati con una certa regolarità, quando subsidenza ed erosione portano in superficie uno scheletro, ma di solito si tratta di una formalità perché è relativamente semplice distinguere resti antichi da resti moderni. I detective entrano in scena solo in circostanze eccezionali, in genere quando una torbiera ha preservato carne e ossa così bene che il corpo ha ancora l'assordante immediatezza del cadavere fresco.
«Non questa volta» si affrettò a dire O'Kelly. «Sono recenti. Una donna giovane, sembra un omicidio. Sono stati gli agenti in divisa a chiedere il nostro intervento. Sono a Knocknaree, non lontano, quindi non c'è bisogno che restiate fuori città.»
Qualcosa di strano accadde al mio respiro. Cassie smise di buttare oggetti nella sua cartella e sentii il suo sguardo saettare su di me per una frazione di secondo. «Signore, mi dispiace, non ce la facciamo a prendere un altro omicidio proprio ora. Siamo nel bel mezzo del caso McLoughlin e…»
«La cosa non ti ha preoccupato, Maddox, quando pensavi si trattasse solo di un pomeriggio in giro» la interruppe O'Kelly. A lui Cassie non piace per tutta una serie di prevedibilissime ragioni: perché è una donna, per come si veste, per la sua età e per la sua storia quasi eroica. E la prevedibilità infastidisce Cassie molto di più del fatto di non essere apprezzata. «Se avevate tempo per una scampagnata, avete tempo anche per un'indagine seria. Quelli della Scientifica sono già quasi sul posto» concluse O'Kelly, e uscì.
«Oh, merda» commentò Cassie. «Oh, merda, quel segaiolo. Ryan, mi dispiace. Proprio non pensavo…»
«È tutto a posto, Cass» tagliai corto. Uno degli aspetti che preferisco in Cassie è che sa quando starsene zitta e lasciarti in pace. Toccava a lei guidare, ma fece il giro, prese posto sul sedile del passeggero e, una volta seduta, estrasse dalla sua cartella il porta-CD e me lo passò. Chi guida ha diritto di scegliere la colonna sonora, solo che io tendo a dimenticare di portare i CD. Presi la prima cosa che mi sembrava avere un bel basso potente e alzai il volume al massimo.
Non ero più stato a Knocknaree da quell'estate. Ero andato anch'io in collegio alcune settimane dopo la data prevista per la partenza di Jamie. Il mio però era nel Wiltshire, in Inghilterra, quanto di più lontano i miei genitori potessero permettersi, e quando tornai a casa per Natale stavamo a Leixlip, dall'altra parte di Dublino. Arrivati alla superstrada, Cassie dovette tirare fuori la cartina per trovare l'uscita giusta e per seguire le indicazioni lungo stradine secondarie piene di buche e con erba e cespugli ai lati che graffiavano i finestrini.
Ovviamente, ho sempre sperato di poter ricordare cosa era successo in quel bosco. I pochi che sanno della faccenda di Knocknaree suggeriscono immancabilmente, prima o poi, di provare con la regressione ipnotica, ma per qualche motivo trovo l'idea di cattivo gusto. Sono profondamente sospettoso nei confronti della regressione ipnotica, del reiki, dell'aromaterapia e di qualsiasi cosa abbia anche un minimo aggancio con la New Age, e non per le pratiche in sé, che per quanto posso vedere da una distanza di sicurezza potrebbero anche essere utili, ma per le persone che girano in quegli ambienti, che sembrano sempre quelle del tipo che ti inchiodano in un angolo alle feste e ti spiegano come hanno scoperto di essere dei sopravvissuti e che per questo meritano di essere felici. Temo che potrei uscire dall'ipnosi con quella patina zuccherosa di illuminazione compiaciuta di un diciassettenne che ha appena scoperto Kerouac e comincia a fare proseliti nei pub.
Il sito di Knocknaree era un vasto campo sul leggero pendio di una collina. Era stato spogliato completamente fino alla nuda terra, messo sottosopra e picchettato da indecifrabili quanto intenzionali scarabocchi archeologici (trincee, formicai giganti, baracche in lamiera, frammenti sparsi di mura grezze, labirinti) che lo rendevano surreale come un paesaggio postnucleare. Da un lato era delimitato da una folta schiera di alberi, lungo l'altro correva un muro, sovrastato da ordinati timpani, che si estendeva dagli alberi alla strada. Verso la cima del pendio, nei pressi del muro, alcuni tecnici erano ammassati intorno a qualcosa che era delimitato dal nastro delle scene del crimine, azzurro e bianco. Probabilmente li conoscevo tutti, ma il contesto li trasformava, con le loro tute bianche, le mani inguantate e i loro sofisticati strumenti senza nome, in qualcosa di sinistro e magari collegato alla CIA. I pochi elementi identificabili avevano un aspetto solido e rassicurante da libro illustrato: un basso cottage dipinto di bianco proprio in fondo alla strada, un cane da pastore bianco e nero disteso davanti, con le zampe che gli si contraevano di tanto in tanto; una torre di pietra coperta di edera che s'increspava come acqua nella brezza. Un tremolio di luce sovrastava la fetta scura di fiume che attraversava un angolo del campo.
scarpe da ginnastica affondate nel terreno dell'argine, ombre a forma di foglia su una maglietta rossa, canne da pesca di rami e cordicelle, uno scappellotto ai più piccini: Zitti! O spaventerete i pesci!
Quel campo si trovava nel luogo in cui venti anni prima c'era il bosco. La striscia di alberi era quello che ne era rimasto. Ai tempi vivevo in una delle case dietro il muro.
Non me l'ero aspettato. Non guardo il telegiornale irlandese, si trasforma sempre in una macchia indistinta da mal di testa di politici tutti uguali, con gli occhi da sociopatici, che blaterano producendo un rumore bianco senza significato, come il borbottio confuso che ottieni quando ascolti un 33 giri a velocità superiore. Mi limito alle notizie dall'estero, dove la distanza semplifica le cose abbastanza da dare l'illusione che ci sia una differenza tra i vari attori. Sapevo, per una sorta di vaga osmosi, che c'era un sito archeologico da qualche parte intorno a Knocknaree e che c'era una controversia che lo riguardava: alternativi con capelli rasta che manifestavano con cartelli contro degli operatori immobiliari. Ma i dettagli non li avevo colti, così come l'esatto luogo. Proprio non me l'ero aspettato.
Parcheggiai in una piazzola dall'altra parte della strada rispetto al gruppo di baracche in lamiera, tra il furgone della Scientifica e una grossa Mercedes nera. Era quella di Cooper, il medico legale. Scendemmo dall'auto e mi fermai a controllare la pistola: pulita, carica, sicura inserita. Io indosso la fondina da spalla, qualsiasi altra posizione più in vista mi dà un senso di goffaggine, l'equivalente legale dell'esibizionismo. Cassie dice: «Vaffanculo la goffaggine, quando sei alta un metro e sessantotto, sei giovane e donna, mostrare un po' di autorità non fa male», e infatti la porta alla cintura. Spesso la differenza funziona a nostro vantaggio: la gente non sa di chi preoccuparsi maggiormente, se della ragazzetta con la pistola o del ragazzone che apparentemente non ce l'ha, e l'indecisione disorienta il malcapitato.
Cassie si appoggiò all'auto e rovistò nella cartella in cerca delle sigarette. «Vuoi?»
«No, grazie» risposi. Mi sistemai l'imbracatura, tirai le cinghie, mi assicurai che non fossero storte. Mi sentivo le dita spesse e impedite, come staccate dal corpo. Non volevo che Cassie mi facesse notare che, chiunque fosse questa ragazza e indipendentemente da quando fosse stata uccisa, era assai improbabile che l'omicida se ne stesse rintanato dietro una delle baracche e che ci fosse bisogno di tenerlo sotto tiro. Rovesciò leggermente la testa all'indietro e soffiò il fumo verso i rami sopra di noi. Era una tipica giornata estiva irlandese, incerta in modo irritante, tutta sole e nuvole che si avvicendavano in cielo, per non parlare della brezza che ti piega in due, pronta in qualsiasi momento a portarti una pioggia scrosciante o un sole rovente, o entrambi.
«Avanti» dissi. «Entriamo nel personaggio.» Cassie spense la sigaretta contro la suola della scarpa, reinfilò il mozzicone nel pacchetto e ci avviammo lungo la strada.
Un tipo di mezza età con un maglione che perdeva i pezzi indugiava nei pressi delle baracche con un'aria sperduta. Quando ci vide si rianimò.
«Signori detective» si rivolse a noi. «Dovete essere i detective, vero? Dottor Hunt… voglio dire, Ian Hunt. Sono il direttore del sito. Da dove vorreste… ecco insomma… l'ufficio o il corpo o…? Non so bene, capite. Il protocollo e cose del genere.» Era una di quelle persone che appena le vedi cominci immediatamente, e senza volerlo, a trasformare in un cartone animato: un paio d'ali, un becco e… ta-ta, il Professor Picchio Verde.
«Detective Maddox, e questo è il detective Ryan» fece Cassie incaricandosi delle presentazioni. «Se è possibile, dottor Hunt, magari uno dei suoi colleghi potrebbe fornire una descrizione rapida del sito al detective Ryan mentre lei mostra a me i resti?»
"Stronzetta" pensai. Mi sentivo al tempo stesso teso come una corda di violino e intontito, come se fossi in preda ai postumi di una sbornia epocale e avessi cercato di schiarirmi la testa con troppa caffeina. La luce che rimbalzava da un frammento di mica all'altro nel terreno pieno di solchi era troppo brillante, ingannevole, guizzante. Non ero dell'umore giusto per essere protetto. Ma una delle regole non dette in vigore tra me e Cassie è che, almeno in pubblico, non ci contraddiciamo. E a volte uno di noi se ne approfitta.
«Ehm… sì» acconsentì Hunt, sbattendo le palpebre dietro le lenti. Dava l'impressione di essere sempre lì lì per far cadere qualcosa, appunti scritti su blocchi di carta gialla a righe, fazzoletti sgualciti, pasticche per la gola ancora mezzo incartate, anche se in realtà non aveva nulla in mano. «Sì, naturalmente. Sono tutti… be', di solito sono Mark e Damien a fare le visite ma, vedete, Damien è… Mark!» chiamò, rivolto verso la porta aperta di una baracca di lamiera e intravidi un gruppo di persone accalcate attorno a un tavolo spoglio: giacche militari, panini e tazze fumanti, terra sul pavimento. Uno dei ragazzi lasciò andare alcune carte e cominciò a districarsi dalle sedie di plastica.
«Ho detto a tutti di restare là dentro» spiegò Hunt. «Non ero certo… le prove. Le impronte e… le fibre.»
«Ha fatto benissimo, dottor Hunt» lo rassicurò Cassie. «Cercheremo di sbrigarci con la scena del crimine per lasciarvi tornare al lavoro prima possibile.»
«Ci sono rimaste solo poche settimane» disse il ragazzo sulla porta della baracca. Era basso e asciutto, con una corporatura che sarebbe potuta sembrare quasi gracile, da bambino, se avesse avuto una felpa pesante, ma indossava una maglietta, pantaloni militari infangati e un paio di anfibi, e sotto le maniche i muscoli guizzavano, scolpiti come quelli di un peso piuma.
«Allora farai meglio a muoverti e portare in giro il mio collega» gli intimò Cassie.
«Mark» intervenne Hunt. «Mark, questo detective ha bisogno che tu gli faccia vedere il sito. Il solito, sai.»
Mark guardò Cassie per un altro istante, poi annuì, forse decidendo che aveva superato una specie di suo test privato. Spostò lo sguardo su di me. Poteva avere tra i venti e i venticinque anni, portava i capelli lunghi e chiari legati a coda di cavallo, aveva un volto da volpe e occhi verdissimi e particolarmente intensi. Gli uomini come lui, ai quali interessa solo ciò che loro stessi pensano degli altri e non viceversa, mi hanno sempre trasmesso grande insicurezza. Hanno una specie di certezza a 360 gradi che mi fa sentire un imbranato, uno smidollato, nel posto sbagliato e con addosso gli abiti sbagliati.
«Le serviranno gli stivali di gomma» mi disse, lanciando un'occhiata sarcastica alle mie scarpe. Come volevasi dimostrare. Aveva un marcato accento del nord, forse Roscommon, o magari Monaghan. «Ce ne sono nella baracca degli attrezzi.»
«Andrà benissimo così» rifiutai. Immaginavo che gli scavi archeologici implicassero trincee con qualche metro di fango, ma non avrei trascorso neanche morto la mattinata arrancando dietro quel tipo, con il vestito che mi ricadeva in maniera ridicola in stivali di gomma in cui aveva messo i piedi qualcun altro. Avrei voluto qualcosa, una tazza di tè, una sigaretta, uno dei panini spiaccicati della baracca, qualsiasi cosa che mi desse la scusa per sedermi cinque minuti a riflettere su come affrontare la cosa.
Mark inarcò un sopracciglio. «Contento lei. Di qua.»
Si incamminò tra i prefabbricati senza controllare che lo seguissi. Cassie, inaspettatamente, mi rivolse un ghigno mentre mi avviavo; non un sorriso fatuo, di solidarietà, no, un malizioso ghigno del tipo "Beccato!", il che mi fece sentire un po' meglio. La guardai grattandomi una guancia con il dito medio.
Mark mi fece attraversare il sito per uno stretto sentiero tra misteriosi sterramenti e blocchi di pietra. Camminava come uno che pratica arti marziali o come un bracconiere, con la falcata lunga, agile ed equilibrata. «Un canale di scolo medievale» disse, indicando. Un paio di corvi si alzarono in volo da una carriola abbandonata piena di macerie, poi decisero che eravamo innocui e tornarono a piluccare nella terra. «E quello è un insediamento neolitico. Questo luogo è stato abitato più o meno ininterrottamente fin dall'Età della Pietra. E lo è ancora. Vede il cottage? Risale al XVIII secolo. Uno dei posti dove organizzarono la Ribellione del 1798.» Mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla e io ebbi l'impulso assurdo di spiegargli il mio accento e informarlo che non solo ero irlandese, ma venivo da dietro l'angolo, proprio così. «Il tipo che ci abita ora è un discendente dell'uomo che l'ha costruito.»
Eravamo giunti alla torre di pietra al centro del sito. Si intravedevano feritoie attraverso l'edera, e una sezione del muro crollato pendeva da un lato. Aveva un che di vagamente familiare, in modo frustrante, di onirico, ma non sapevo se fosse perché era proprio così che me lo ricordavo o perché era così che avrei dovuto.
Mark estrasse un pacchetto di tabacco da una delle tante tasche dei pantaloni e cominciò ad arrotolarsi una sigaretta. Aveva del nastro adesivo bianco di carta avvolto alla base delle dita di entrambe le mani. «Il clan Walsh costruì questo torrione nel Trecento e vi aggiunse un castello nel corso dei due secoli successivi» spiegò. «Questo era il loro territorio, da quelle colline laggiù» fece un segno con la testa in direzione dell'orizzonte, verso alture ricoperte di alberi scuri, «fino a un'ansa del fiume oltre quella fattoria grigia. Erano ribelli, razziatori. Nel XVII secolo cavalcavano fino a Dublino, dritti dritti fino alla caserma degli inglesi a Rathmines, arraffavano qualche fucile, staccavano la testa ai soldati che incrociavano e poi se la davano a gambe. Ci voleva sempre un po' prima che gli inglesi fossero pronti a inseguirli, e a quel punto erano ormai già quasi qui.»
Era la persona giusta per raccontare quella storia. Pensai a cavalli impennati, alla luce delle fiaccole, a risate da brivido, al ritmo sempre più ossessivo dei tamburi da guerra. Oltre lui, vedevo Cassie, su, alla scena del crimine delimitata dal nastro, che parlava con Cooper e prendeva appunti.
«Mi spiace interromperti» dissi, «ma temo di non avere tempo per il tour completo. Ho bisogno solo di una panoramica generale del sito.»
Mark mi lanciò un'occhiata, poi leccò la cartina, sigillò la sigaretta e trovò un accendino. «D'accordo» disse, e cominciò a indicare. «Insediamento neolitico, pietra cerimoniale dell'Età del Bronzo, un deposito dell'Età del Ferro, abitazioni vichinghe, torrione del XIV secolo, castello del XVI, cottage del XVIII.» "La pietra cerimoniale dell'Età del Bronzo" era il luogo dove si trovavano Cassie e i tecnici.
«Il sito è sorvegliato, la notte?» chiesi.
Rise. «Noo. Chiudiamo a chiave la baracca dei reperti, ovviamente, e l'ufficio, ma qualsiasi cosa abbia un minimo di valore va subito alla sede centrale. E abbiamo cominciato a chiudere a chiave il capanno degli attrezzi un mese fa, o due. Sono sparite alcune cose e abbiamo scoperto che i contadini usavano i nostri tubi per irrigare i campi quando non pioveva. Tutto qua. Che senso avrebbe sorvegliarlo? Tra un mese non ci sarà più niente, tranne questo.» Assestò un colpo al muro della torre; qualcosa sgattaiolò via nell'edera sopra le nostre teste.
«E perché?» chiesi.
Lui mi fissò, mettendo nell'espressione quel genere di incredulo disgusto che di solito ti riservano solo i gatti. «Tra un mese» cominciò a spiegarmi con chiarezza «il fottuto governo spianerà il sito con il bulldozer e ci costruirà sopra una fottuta autostrada. Per grazia loro, lasceranno come fottuta aiuola il torrione spartitraffico, così che potranno avere un orgasmo raccontando quanto hanno fatto per preservare il nostro patrimonio storico.»
Mi venne in mente la faccenda dell'autostrada, una notizia del telegiornale: uno scialbo personaggio politico si scagliava contro gli archeologi che volevano dai contribuenti altri miliardi per rifare i progetti. A quel punto immagino di aver cambiato canale. «Cercheremo di non farvi perdere troppo tempo» dissi. «Il cane del cottage abbaia quando arriva qualcuno sul sito?»
Mark si strinse nelle spalle e tornò alla sua sigaretta. «Non con noi, ci conosce. Gli diamo delle cose da mangiare, gli avanzi. Potrebbe abbaiare se qualcuno si avvicinasse troppo al cottage, soprattutto di notte, ma non lo fa se quel qualcuno si tiene rasente il muro. È fuori dal suo territorio.»
«E le auto? Abbaia alle auto?»
«Alla sua ha abbaiato? È un cane da pastore, non da guardia.» Lasciò uscire tra i denti un sottile filo di fumo.
Quindi il killer poteva essere arrivato al sito da qualsiasi direzione: dalla strada, dall'abitato, anche dal fiume, in caso gli fosse piaciuto fare le cose difficili. «È tutto, per il momento» conclusi. «Grazie per il tuo tempo. Se vai ad aspettare con gli altri, tra qualche minuto verremo ad aggiornarvi sulla situazione.»
«Non metta i piedi su tutto quello che le sembra archeologico» raccomandò Mark e si avviò a lunghe falcate verso le baracche di lamiera. Io, invece, proseguii su per il pendio, verso il corpo.
La pietra cerimoniale dell'Età del Bronzo era enorme e piatta, lunga poco più di due metri per uno circa di larghezza e uno di altezza, ricavata da un unico grande blocco. Il campo che la circondava era stato spianato con i bulldozer senza tanti riguardi e non era successo molto tempo prima, a giudicare da come il terreno era molle e cedeva sotto le mie scarpe. Ma una sorta di cuscino era stato lasciato intatto intorno alla pietra, così che essa si elevava come un'isola in mezzo alla terra rivoltata. Sopra, tra le ortiche e l'erba alta, si stagliava una cosa bianca e blu.
Non era Jamie. Più o meno l'avevo capito perché, se ci fosse stato il minimo dubbio, Cassie sarebbe venuta a dirmelo, ma ne rimasi ugualmente turbato. Quella ragazza aveva i capelli lunghi e scuri e una treccia le stava di traverso sul viso. Quello fu tutto ciò che notai, lì per lì: i capelli scuri. Non mi venne neppure in mente che, se si fosse trattato del corpo di Jamie, non sarebbe stato in quelle condizioni.
Mi ero perso Cooper; stava tornando alla strada e scuoteva i piedi a ogni passo come fanno i gatti. Un tecnico stava scattando delle foto, un altro passava la polvere sulla pietra per il rilevamento delle impronte; un gruppetto di agenti locali se ne stava a gingillarsi e a chiacchierare con i ragazzi dell'obitorio, vicino alla barella. L'erba era disseminata di indicatori numerati triangolari. Cassie e Sophie Miller, accovacciate accanto alla pietra, osservavano qualcosa sul bordo. Riconobbi Sophie immediatamente: nessuna tuta avrebbe potuto nascondere la postura rigida della sua schiena. Sulla scena del crimine, Sophie è il mio tecnico preferito. È magra, tratti scuri, dal carattere schivo, ha occhi luminosi e timidi da topo di campo e il copricapo bianco la fa tanto infermierina che si piega sui letti dei soldati feriti, con i cannoneggiamenti in sottofondo, e mormora qualcosa di consolatorio o somministra un po' d'acqua da una borraccia. In realtà, è rapida, impaziente, e riesce a mettere al proprio posto tutti, dai sovrintendenti ai rappresentanti della pubblica accusa, con poche ed efficaci parole. Mi piace l'incongruenza.
«Da che parte?» chiesi ad alta voce, accennando al nastro di delimitazione. Non si cammina su una scena del crimine se i ragazzi della Scientifica non ti dicono che puoi farlo.
«Ciao, Rob» gridò Sophie, raddrizzando e abbassando la maschera. «Aspetta un attimo.»
Cassie mi raggiunse per prima. «È morta da un giorno o giù di lì» spiegò pacatamente, prima che arrivasse anche Sophie. Aveva un certo pallore intorno alla bocca. I bambini fanno questo effetto a gran parte di noi.
«Grazie, Cass» le dissi. «Ciao, Sophie.»
«Ehilà, Rob. Voi due mi dovete ancora una bevuta.» Le avevamo promesso cocktail a profusione se fosse riuscita a velocizzare i tempi di alcune analisi ematiche per noi, un paio di mesi prima. Da allora non avevamo fatto che ripetere a intervalli regolari: «Dobbiamo vederci per quella bevuta», ma non ci eravamo mai riusciti.
«Dacci una mano anche in questo caso e ci aggiungiamo anche la cena» replicai. «Cosa abbiamo?»
«Sesso femminile, bianca, tra i dieci e i tredici anni» disse Cassie. «Nessuna identificazione per ora; in tasca ha una chiave, che sembra quella di casa, ma è tutto. Le hanno fracassato il cranio, ma Cooper ha trovato emorragie petecchiali e possibili segni di legatura sul collo, quindi dovremo aspettare l'autopsia per essere certi della causa del decesso. È completamente vestita ma pare sia stata violentata. È una faccenda piuttosto strana, Rob. Cooper dice che è morta da circa trentasei ore, ma non c'è praticamente attività di insetti e non vedo proprio come gli archeologi avrebbero potuto non notarla se fosse stata lì tutto ieri.»
«Questa non è la scena primaria, vero?»
«Neanche per sogno» confermò Sophie. «Non ci sono schizzi sulla pietra, neanche sangue dalla ferita alla testa. È stata uccisa da qualche altra parte, forse tenuta nascosta un giorno e poi portata qua.»
«Trovato qualcosa?»
«A volontà» rispose. «Fin troppo. I ragazzini del luogo bazzicano da queste parti. Mozziconi di sigaretta, lattine di birra, un paio di Coca, gomme da masticare, i resti di tre spinelli. Due preservativi usati. Una volta trovato il sospetto, il laboratorio potrà cercare riscontri con tutta 'sta roba, che sarà un incubo, tra parentesi, ma a essere onesti mi sa che è il solito ciarpame da adolescenti. Ci sono impronte di piedi ovunque. Una molletta per capelli. Non credo fosse sua, era infilata nel terriccio alla base della pietra e pare che sia lì da un pezzo, ma magari controlliamo lo stesso. Non sembra quella di un'adolescente. È di quelle in plastica, con una fragolina in fondo; di solito le portano le bambine più piccole.»
il drappo biondo che si solleva
Mi parve d'essere sospinto bruscamente all'indietro e dovetti controbilanciarmi per recuperare l'equilibrio. Sentii Cassie che diceva qualcosa, in fretta, da qualche parte sull'altro lato di Sophie. «Forse non è la sua. Tutto ciò che indossa è bianco e blu, fino all'elastico per i capelli. Questa ragazzina era tutta coordinata. Ma controlleremo comunque.»
«Tutto okay?» mi chiese Sophie.
«Sto bene» risposi. «Ho solo bisogno di un po' di caffè.» Il vantaggio del fatto che adesso a Dublino si trova facilmente il doppio espresso, così alla moda, è che puoi attribuire qualsiasi stranezza dell'umore all'astinenza da caffeina. Nell'era del tè questa scusa non aveva mai funzionato, non in modo altrettanto credibile, almeno.
«Per il suo compleanno gli regalerò una flebo di caffeina» disse Cassie. Anche a lei piace Sophie. «È ancora più inutile senza la sua dose. Digli della roccia.»
«Sì, abbiamo trovato due cose interessanti» spiegò Sophie. «C'è un sasso all'incirca di queste dimensioni» unì le mani a coppa a una distanza di circa venti centimetri «e sono praticamente certa che sia una delle armi del delitto. Era nell'erba vicino al muro. Su un'estremità ci sono capelli, sangue e frammenti d'osso.»
«Ci sono impronte?» chiesi.
«No. Alcune sbavature, ma sembrano prodotte da guanti. Le parti interessanti riguardano il luogo in cui si trovava, vicino al muro. Potrebbe significare che l'ha scavalcato, provenendo dalla zona residenziale, anche se forse è quello che ci vuole far pensare. E il fatto che si sia preoccupato di lasciarlo cadere. Io lo avrei lavato e lo avrei sotterrato in giardino, invece di trasportarlo insieme al corpo.»
«Non poteva essere lì nell'erba?» domandai. «Magari ci ha fatto cadere il corpo sopra, nel tentativo di gettarlo oltre il muro.»
«Non credo» dissentì Sophie. Si spostava a piccoli passi nel tentativo di spingermi verso la pietra; voleva tornare al lavoro. Distolsi lo sguardo. I cadaveri non mi fanno venire la pelle d'oca ed ero certo di avere visto di peggio: un anno prima, un bambino piccolo che camminava appena e che il padre aveva preso a calci fin quasi a spezzarlo in due e che non era stato trovato per dieci giorni. Ma ugualmente mi sentivo strano, stordito, come se gli occhi non fossero a fuoco per accogliere quell'immagine. "Magari ho veramente bisogno di caffè" pensai. «Il sangue era sulla parte inferiore e l'erba sotto è fresca, ancora viva. No, il sasso non era lì da molto.»
«Inoltre, quando è stata portata qui, non sanguinava più» aggiunse Cassie.
«Oh, certo, altra cosa interessante» disse Sophie. «Vieni a dare un'occhiata qui.»
Mi piegai all'inevitabile e passai sotto il nastro. Gli altri tecnici sollevarono lo sguardo e si allontanarono dalla pietra per farci spazio. Erano entrambi molto giovani, poco più che tirocinanti e d'un tratto pensai a come dovevamo apparirgli: quanto più grandi, quanto distaccati, quanto molto più a nostro agio nelle piccole arti e trattative dell'età adulta. In qualche modo servì a rinsaldarmi, l'immagine di due detective della Omicidi con i volti segnati dall'esperienza che non comunicavano nulla, che camminavano fianco a fianco e si avvicinavano a quella bambina morta.
Era rannicchiata sul lato sinistro, come se si fosse addormentata sul divano cullata dai pacifici mormorii degli adulti in sottofondo. Il braccio sinistro era proteso oltre il bordo della pietra; il destro le stava adagiato sul petto, la mano piegata a formare un angolo improbabile. Indossava pantaloni multitasche blu fumo, di quelli che hanno toppe e cerniere nei posti più impensati, una maglietta bianca con una fila di fiordalisi stilizzati stampati sul davanti e scarpe da ginnastica bianche. Cassie aveva ragione, ci aveva messo impegno: la spessa treccia che le attraversava la guancia era chiusa da un fiordaliso di seta blu. Era piccola e molto magra, ma il polpaccio, che una delle gambe dei pantaloni arrotolata lasciava scoperto, appariva teso e muscoloso. Tra i dieci e i tredici anni sembrava un'ipotesi azzeccata: il seno era appena accennato, sotto la maglietta. C'era sangue rappreso sul naso, sulla bocca e sulle estremità degli incisivi. Il vento le scompigliava i capelli, soffici e ricci, non raccolti nella treccia.
Le mani erano avvolte in sacchetti di plastica trasparenti legati ai polsi. «Sembra che abbia lottato» disse Sophie. «Ha un paio di unghie rotte. Non scommetterei sul fatto di trovare del DNA sotto le altre perché sembrano molto pulite, ma dovremmo scovare fibre e qualche traccia sugli abiti.»
Per un istante fui stordito dall'impulso di lasciarla lì: allontanare le mani dei tecnici, gridare agli addetti dell'obitorio di togliersi dai piedi. Le avevamo già imposto un tributo fin troppo alto. L'unica cosa che le era rimasta era la morte e io avrei voluto lasciarle almeno quella. Avrei voluto avvolgerla in una coperta morbida, pettinarle i capelli sporchi di sangue, crearle un giaciglio di foglie e fruscii di animaletti. Lasciarla dormire, scivolare per sempre lungo il suo segreto fiume sotterraneo, mentre il respiro delle stagioni alternava soffioni e fasi lunari e fiocchi di neve sopra di lei. Ci aveva provato così intensamente a vivere…
«Ce l'ho anch'io quella maglietta» disse Cassie con voce pacata, alle mie spalle. «Penney, reparto bambini.» Gliel'avevo già vista addosso, ma sapevo che non l'avrebbe più messa. Violata, quell'innocenza era troppo grande e definitiva per permettere una qualsiasi, per quanto ironica, affinità.
«Era questo che ti volevo mostrare» disse bruscamente Sophie. Lei non ama il sentimentalismo o lo humour nero sulla scena del crimine, pensa che siano una perdita di tempo, tempo che dovrebbe essere impiegato sul dannato caso, ma il sottinteso è che le strategie per affrontare la situazione sono roba da smidollati. Indicò il bordo della pietra. «Vuoi i guanti?»
«Tanto non tocco nulla» assicurai e mi chinai verso l'erba. Da quell'angolatura riuscii a vedere che uno degli occhi della bambina era semiaperto. Una fessura, come se stesse fingendo di dormire, in attesa del momento di saltare su con le braccia spalancate e gridare: "Bu! Fregati!". Uno scarafaggio nero lucente si arrampicava con metodo lungo l'avambraccio.
Un solco largo circa un dito era inciso intorno alla base superiore della pietra, a quattro-cinque centimetri dal bordo. Il tempo e gli agenti atmosferici l'avevano eroso e levigato, ma in un punto lo scalpello dell'incisore aveva staccato un pezzo di pietra dall'orlo del solco e lasciato una piccola sporgenza frastagliata. Sulla parte inferiore c'era uno sbaffo di una sostanza scura, quasi nera.
«L'ha notato Helen» spiegò Sophie. La ragazza sollevò gli occhi e mi rivolse un timido, orgoglioso sorriso. «Abbiamo passato il tampone e scoperto che si tratta di sangue. Ti farò sapere se è umano. Dubito che abbia a che vedere con il cadavere; il sangue della bambina era già coagulato quando è stata portata qui e comunque ci scommetterei che questo è vecchiotto. Potrebbe appartenere a un animale oppure provenire dal graffio di un qualche ragazzino, o chissà che, ma è comunque interessante.»
Pensai al delicato incavo in corrispondenza dell'osso del polso di Jamie, alla parte posteriore del collo di Peter, così bianca dove gli avevano tagliato i capelli. Sentivo che Cassie esitava a guardarmi. «Non vedo come potrebbe essere collegato» dissi. Mi drizzai perché stava diventando difficile rimanere in equilibrio sui calcagni senza toccare la pietra, e sentii un improvviso afflusso di sangue alla testa.
Prima che ce ne andassimo dal sito, salii sul piccolo crinale, più in alto rispetto al corpo della bambina, e lanciai un'occhiata a 360 gradi per imprimermi la scena nella memoria: trincee, case, campi, accessi, angoli e allineamenti. Lungo il muro della zona residenziale era stata lasciata una stretta striscia di alberi, forse per proteggere la sensibilità estetica dei residenti dal rigore del panorama archeologico. Dal ramo di uno degli alberi pendeva uno spezzone di corda di plastica blu. Era sfilacciata e corrosa e poteva lasciar supporre sinistre storie gotiche di folle pronte al linciaggio, di suicidi di mezzanotte, ma io sapevo cos'era: era ciò che restava di un'altalena fatta con un pneumatico.
Benché fossi giunto a pensare a quanto era accaduto a Knocknaree come se fosse successo a un'altra persona, a uno sconosciuto, una parte di me era rimasta lì tutto quel tempo. Mentre oziavo a Templemore o me ne stavo spaparanzato sul futon di Cassie, quel bambino incontenibile non aveva mai smesso di girare in circoli impazziti sull'altalena con il pneumatico, di scavalcare un muro all'inseguimento della lucente testa di Peter, di svanire nel bosco in un lampo di gambe abbronzate e risate.
C'era stato un periodo in cui avevo creduto, insieme alla polizia, ai media e ai miei frastornati genitori, di essere il restituito, il ragazzo riportato a casa sano e salvo dal riflusso dell'assurda marea che si era preso Peter e Jamie. Ora non più. Sotto certi aspetti, troppo oscuri e vitali per essere definiti metaforici, non ho mai lasciato quel bosco.