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Non parlo mai di Knocknaree con la gente. Non vedo perché dovrei, porterebbe solo a una serie infinita di domande sui miei ricordi inesistenti o a ipotesi consolatorie e inaccurate sullo stato della mia psiche, e non ho alcun desiderio di affrontare nessuna delle due cose. I miei genitori sanno, ovviamente, e anche Cassie; poi c'è un amico dei tempi del collegio, Charlie, che fa il merchant banker a Londra e con il quale di tanto in tanto mi sento ancora, e infine c'è Gemma, una ragazza con la quale sono uscito per un periodo quando avevo diciannove anni. Passavamo un sacco di tempo assieme soprattutto a ubriacarci (era il tipo da angoscia profonda sulla quale pensavo che avrei potuto fare colpo con la mia storia). Nessun altro.

Quando andai in collegio abbandonai Adam e cominciai a farmi chiamare con il mio secondo nome. Non so se sia stata un'idea dei miei o mia, ma credo sia stata un'ottima scelta. Ci sono cinque pagine di Ryan solo nell'elenco telefonico di Dublino, ma Adam non è un nome particolarmente comune e lo scalpore fu enorme (anche in Inghilterra: scartabellavo furtivamente tutti i giornali che in teoria dovevano servire per accendere il caminetto dei prefect, gli studenti cosiddetti "anziani" che hanno l'incarico di mantenere la disciplina; strappavo tutto quello che ritenevo anche minimamente rilevante, lo memorizzavo e poi, nascosto in bagno, lo buttavo nel water e tiravo l'acqua); prima o poi qualcuno avrebbe fatto due più due. Oggi è improbabile che possano collegare il detective Rob e il suo accento inglese con il piccolo Adam Ryan di Knocknaree.

Sapevo, naturalmente, che avrei dovuto dirlo a O'Kelly, ora che stavo lavorando a un caso che sembrava connesso a "quello", ma, a essere franchi, neppure per un secondo presi in considerazione la possibilità di farlo. Mi avrebbero estromesso. Non ti permettono di lavorare a un'indagine verso la quale può esserci un personale coinvolgimento emotivo. Forse mi avrebbero perfino interrogato di nuovo su quel giorno nel bosco, e sinceramente non riuscivo a capire come questo avrebbe potuto avvantaggiare il caso o la comunità in generale. Ho ancora ricordi molto vividi e inquietanti del primo interrogatorio: voci maschili che non nascondevano la loro frustrazione e si lagnavano anche quando erano a tiro del mio udito, mentre nella mia mente scorrevano nuvole bianche in un cielo azzurro e infinito e il vento frusciava su una vasta distesa d'erba. Nelle prime due settimane dopo quel giorno, era tutto quello che riuscivo a vedere o a sentire. Non ricordo di avere provato nulla al riguardo, all'epoca, niente di buono o di cattivo, ma, col senno di poi, il pensiero era orribile – la mente completamente vuota, sostituita da un modello di test – e, per qualche processo associativo, riaffiorava tutte le volte che i detective tornavano e ci riprovavano, faceva capolino in un angolo della mia mente e mi spaventava a tal punto che, irritato e imbronciato, non collaboravo. Ci provarono, oh, se ci provarono… all'inizio di tanto in tanto, anche durante le vacanze scolastiche, poi una volta all'anno, più o meno, ma non avevo mai nulla da dire e con la fine della scuola smisero di venire. Penso che abbiano fatto bene perché, francamente, non capisco come un'eventuale inversione di tendenza da parte mia avrebbe potuto rivelarsi utile in qualche modo.

E inoltre immagino, se proprio vogliamo essere onesti, che lusingasse sia il mio ego sia il mio senso del pittoresco l'idea di custodire quello strano e opprimente segreto in un caso del genere senza destare alcun sospetto. Forse all'epoca pensavo che fosse una di quelle cose che anche l'enigmatico cane sciolto di Central Casting avrebbe fatto.


Chiamai la sezione Persone scomparse e quasi subito mi fornirono una possibile identificazione. Katharine Devlin, dodici anni, un metro e quarantacinque, corporatura snella, capelli lunghi e scuri, occhi nocciola, era scomparsa dal 29 di Knocknaree Grove (questo me lo ricordavo: tutto a Knocknaree si chiamava Knocknaree Grove o Close o Place o Lane, col risultato che la posta finiva invariabilmente all'indirizzo sbagliato) alle 10.15 del giorno prima, quando sua madre era andata per svegliarla e aveva scoperto che non c'era. Dai dodici anni in su vengono considerati abbastanza grandi per decidere da soli se concedersi una scappatina, e sembrava che anche lei lo avesse fatto volontariamente, così a Persone scomparse le avevano concesso un giorno per tornare a casa prima di avviare le ricerche. Avevano già fatto preparare il comunicato stampa da inviare ai mezzi di comunicazione per il telegiornale della sera.

Provai un senso di sollievo forse esagerato per l'avvenuta identificazione, anche se non ancora sicura al cento per cento. Ovviamente sapevo che una ragazzina, soprattutto se in buona salute, ben accudita e in un Paese piccolo come l'Irlanda, non può essere ritrovata cadavere senza che qualcuno salti fuori e la riconosca, ma c'era tutta una serie di elementi in quel caso che mi dava i brividi, e penso che una parte di me, cedendo alla superstizione, avesse creduto che la bambina sarebbe rimasta senza nome come se fosse spuntata dal nulla e che il suo DNA si sarebbe rivelato compatibile con il sangue delle mie scarpe e altre cose della serie X-Files. Sophie ci inviò una Polaroid del suo volto scattata da un'angolazione meno angosciante per mostrarla alla famiglia e così tornammo alle baracche di lamiera.

Come uno degli ometti degli antichi orologi svizzeri, Hunt emerse da una di esse mentre ci stavamo avvicinando. «Avete… voglio dire, è certo che sia un omicidio, vero? Quella povera bambina, è orribile.»

«Stiamo trattando la cosa come sospetta» risposi. «Quello che dobbiamo fare ora è scambiare due chiacchiere veloci con il suo gruppo. Poi vorremmo parlare anche con la persona che ha trovato il corpo; gli altri possono tornare al lavoro, ma devono stare fuori dalla zona delimitata come scena del crimine. Con loro parleremo dopo.»

«Come… c'è qualcosa che mostri… dove non devono stare? Il nastro e tutto il resto.»

«La scena del crimine è stata delimitata da un nastro» chiarii. «Basta che ne stiano fuori e andrà tutto bene.»

«Dobbiamo anche chiederle di assegnarci un luogo da usare come ufficio, qui sul sito» chiese Cassie. «Per tutto il giorno e magari anche più a lungo. Qual è secondo lei il posto migliore?»

«Usate pure la baracca dei reperti» intervenne Mark, materializzatosi da chissà dove. «Dell'ufficio vero e proprio ne abbiamo bisogno noi, e tutto il resto è una babilonia.» Non avevo mai sentito il termine usato in quel senso ma, da quello che potevamo vedere dalla porta, l'interno della baracca dalla quale era uscito Hunt era tutto una fanghiglia calpestata, banchi di lavoro curvi sotto il peso di attrezzi d'ogni genere, biciclette e corpetti gialli fosforescenti che mi ricordavano purtroppo il mio periodo in uniforme, e quindi risultava appropriato.

«Basta che ci siano un tavolo e qualche sedia e andrà benissimo» dissi io.

«Baracca dei reperti» ripeté Mark, e fece un cenno con la testa verso un'altra baracca.

«Cos'ha Damien?» chiese d'un tratto Cassie a Hunt.

Lui sbatté le palpebre, confuso, la bocca aperta, vera caricatura della sorpresa. «Damien… chi?»

«Damien del suo gruppo. Prima ci ha detto che di solito sono Mark e Damien a condurre le visite, ma Damien non era disponibile per il detective Ryan. Come mai?»

«Damien è uno dei due che hanno scoperto il corpo» spiegò Mark, mentre Hunt ci stava arrivando. «È rimasto scioccato.»

«Damien e poi?» chiese Cassie mentre scriveva.

«Donnelly» rispose allegramente Hunt, di nuovo su un terreno sicuro. «Damien Donnelly. Li firmo io gli assegni, sapete» aggiunse a mo' di spiegazione.

«Ed era con qualcuno quando ha scoperto il corpo?»

«Mel Jackson» si intromise Mark. «Melanie.»

«Andiamo a parlarci» dissi io.

Gli archeologi erano ancora a tavola nella loro mensa improvvisata. Erano in quindici o venti. Quando entrammo, voltarono simultaneamente le facce verso la porta, attenti e in sincrono come tanti uccellini. Erano tutti giovani, poco più che ventenni, e lo sembravano ancora di più a causa dell'abbigliamento grunge da studenti: pantaloni militari dimessi; pantaloncini corti, cascanti e ottimistici; magliette sbiadite di gruppi rock, tipo Nirvana e REM. Per non parlare di un'innocenza battuta dal vento e fresca di vita all'aria aperta che, sebbene fossi certo fosse solo illusoria, mi fece pensare ai kibbutz e alla serie TV Una famiglia americana. Le ragazze non erano truccate e avevano i capelli raccolti in una coda o in trecce: dovevano essere pratiche, non carine. I ragazzi non erano rasati di fresco e avevano scottature da prolungata esposizione al sole che si stavano spellando. Uno di loro, con una faccia da vero incubo notturno per il povero insegnante e un berretto di lana, si era annoiato e, con la fiamma di un accendino, aveva cominciato a sciogliere della roba su un CD rotto. Il risultato (cucchiaino piegato, monete, cellophane di pacchetto di sigarette e due patatine) era sorprendentemente piacevole, come una delle tante e meno ironiche manifestazioni di arte moderna urbana. C'era un forno a microonde macchiato di resti di cibo in un angolo, e una parte di me, piccola e inappropriata, avrebbe voluto suggerire all'artista di metterci dentro il suo CD per vedere cosa ne sarebbe stato.

Cassie e io cominciammo a parlare contemporaneamente, ma poi fui io a proseguire. Ufficialmente era lei il detective in capo, perché era stata lei a dire: «Lo prendiamo noi»; ma non abbiamo mai lavorato così e il resto della squadra era abituato a vedere "M &R" scribacchiato sulla lavagna dei casi, solo che avvertivo il bisogno impellente e ostinato di chiarire che ero in grado di gestire quel caso bene quanto lei.

«Buongiorno» esordii. La maggior parte di loro mormorò qualcosa; lo "Scultore" pronunciò con voce alta e stentorea: «Buon pomeriggio!». Tecnicamente era corretto, ma mi chiesi su quale delle ragazze stesse cercando di fare colpo. «Sono il detective Ryan, e questo è il detective Maddox. Come già sapete, questa mattina, qui nel sito, è stato rinvenuto il corpo di una ragazzina.»

Uno dei ragazzi espirò forte l'aria, poi trattenne di nuovo il respiro. Era in un angolo, stretto tra due ragazze che sembravano proteggerlo, e stringeva nervosamente una grossa tazza fumante tra le mani; aveva i capelli corti, marroni e ricci, e una faccia dolce e onesta, con le lentiggini, da componente di una boy-band. Ero quasi sicuro che quello fosse Damien Donnelly; gli altri apparivano mogi mogi (tranne lo Scultore) ma non traumatizzati, lui invece, sotto le lentiggini, era pallido e stringeva la tazza con troppa forza.

«Dovremo parlare con ciascuno di voi» annunciai. «Fino ad allora, non lasciate il sito. Ci vorrà un po' prima che finiamo con tutti, quindi abbiate pazienza se vi toccherà restare più a lungo.»

«Ma siamo sospettati o qualcosa del genere?» chiese lo Scultore.

«No» risposi, «ma dobbiamo scoprire se avete informazioni di una qualche rilevanza.»

«Ahhh» fece lui, deluso, e ricadde sulla sedia. Cominciò a sciogliere un riquadro di cioccolata sul CD poi colse lo sguardo di Cassie e mise via l'accendino. Lo invidiavo: ho sempre voluto essere una di quelle persone che riescono a prendere qualsiasi cosa, e più è raccapricciante meglio è, come una gran figata di avventura.

«Un'altra cosa» aggiunsi. «È facile che tra poco arrivino i giornalisti. Non parlate con loro, dico sul serio. Dare informazioni anche apparentemente insignificanti potrebbe danneggiare l'indagine. Vi lasciamo i nostri biglietti da visita nel caso in cui vi venisse in mente qualcosa che a vostro parere dovremmo sapere. In qualsiasi momento. Domande?»

«E se ci offrono… che so… milioni?» domandò lo Scultore.


La baracca dei reperti era meno imponente di quanto avessi pensato. Nonostante ciò che aveva detto Mark a proposito del materiale che era stato trafugato, forse sulla scia di Indiana Jones dovevo essermi creato un'immagine mentale di coppe d'oro, scheletri e pezzi di mosaico. In realtà, quello che vi trovammo furono un paio di sedie, un'ampia scrivania ingombra di carta da disegno e una quantità indescrivibile di quelli che sembravano cocci di terraglie infilati in sacchetti di plastica e ammucchiati su scaffalature di metallo traforato tipo "fai-da-te".

«Reperti» spiegò Hunt, indicando con la mano gli scaffali. «Immagino… be', magari in un altro momento. Ci sono gettoni bellissimi e ganci per abiti.»

«Li vedremo volentieri un altro giorno, dottor Hunt» lo anticipai. «Tra una decina di minuti ci manda Damien Donnelly?»

«Damien» ripeté Hunt, e uscì. Cassie chiuse la porta alle sue spalle. Con un "Come diavolo fa a gestire un intero scavo archeologico?" cominciai a sgomberare il tavolo dai disegni: erano schizzi molto belli, realizzati a matita con un tratto leggero, e ritraevano una vecchia moneta, da varie angolature. L'oggetto reale dei disegni, piegata da un lato e incrostata di terriccio, giaceva in mezzo al tavolo all'interno di un sacchetto di plastica trasparente, di quelli per alimenti. Misi il tutto sopra uno schedario.

«Avvalendosi di gente come quel Mark» rispose Cassie. «Scommetto che è organizzatissimo. Mi dicevi, della molletta per capelli?»

Distesi gli angoli dei disegni. «Credo che Jamie Rowan ne portasse una che corrisponde alla descrizione.»

«Ah» disse. «Me lo stavo chiedendo. È nel fascicolo, lo sai o te lo ricordi e basta?»

«Che differenza fa?» Mi venne fuori con più arroganza di quanto non avessi voluto.

«Be', se c'è un legame non è che possiamo proprio tenercelo per noi» ragionò Cassie. «Per esempio, se dobbiamo chiedere a Sophie di eseguire un riscontro del sangue con i campioni dell'84 dovremo anche dirle perché. Le cose sarebbero molto più facili da spiegare se il legame fosse lì nelle carte.»

«Sono quasi certo che ci sia» tagliai corto. Il tavolo ondeggiò; Cassie trovò un foglio bianco e lo piegò più volte per stabilizzarne una delle gambe. «Farò un controllo incrociato stasera. Fino ad allora non dire niente a Sophie, okay?»

«Certo» disse Cassie. «E se non c'è, troveremo un modo.» Testò nuovamente il tavolo: meglio. «Rob, sei a tuo agio con il caso?»

Non risposi. Dalla finestra, vidi i ragazzi dell'obitorio che avvolgevano il corpo nella plastica e Sophie che, a gesti, indicava cosa fare. Non faticarono molto per sollevare la barella – sembrava quasi senza peso – e trasportarla verso il furgone in attesa. Il vento fece vibrare il vetro contro la mia faccia. Mi girai di scatto. D'un tratto, con tutta la forza che avevo dentro, avrei voluto gridare: "Chiudete quella cazzo di bocca" o "Vaffanculo questo caso, io mollo"; qualsiasi cosa, qualcosa di sconsiderato e irragionevole e drammatico. Ma Cassie se ne stava lì appoggiata al tavolo e aspettava, osservandomi con i suoi occhi marroni e fermi, e io ho sempre avuto un ottimo autocontrollo, il dono di saper sempre scegliere tra sdrammatizzazione e irrevocabile.

«Nessun problema» risposi. «Dammi un calcio se divento troppo lunatico.»

«Con piacere» disse Cassie con un largo sorriso. «Dio, però… guarda tutta questa roba… Spero che avremo la possibilità di dare un'occhiata da vicino. Quando ero piccola volevo diventare archeologa, te l'avevo mai detto?»

«Solo un milione di volte» risposi. Una o due, in realtà.

«Allora sei fortunato ad avere la memoria di un pesce rosso, no? Scavavo sempre nel giardino sul retro, ma l'unica cosa che abbia mai trovato è stata una paperetta di ceramica col becco rotto.»

«Forse sarei dovuto essere io quello a scavare sul retro» dissi. Di norma, mi sarei lasciato andare a un commento sull'occasione persa da tutti i poliziotti di diventare archeologi, ma mi sentivo ancora troppo irrequieto e disorientato per qualcuno dei nostri abituali scambi di battute. Avrei finito solo per dire cose sbagliate. «Avrei potuto avere la collezione di pezzetti di terraglie più grande del mondo.»

«Ecco, questo potrebbe essere un buon argomento per chattare on-line» commentò Cassie, ed estrasse il blocco.


Damien entrò con aria goffa. Si portava dietro una sedia di plastica e nell'altra mano stringeva ancora la tazza con il tè, lo sentivo dall'odore. «Ho portato questa…» disse e usò maldestramente la mano con la tazza per indicare la sua sedia e le due sulle quali stavamo seduti noi. «Il dottor Hunt ha detto che volevate vedermi?»

«S-s-sì» confermò Cassie. «Ti direi di trovarti da sedere, ma vedo che ci hai pensato da solo.»

Gli ci volle un momento, poi ebbe una risatina, controllando i nostri volti per capire se andava bene. Si sedette, fece per appoggiare la tazza sul tavolo poi cambiò idea, se la tenne in grembo e ci guardò con i suoi occhioni azzurri ubbidienti. Era decisamente materiale per Cassie. Aveva proprio l'aspetto di uno che è abituato a lasciare che siano le donne a prendersi cura di lui; era già abbastanza scosso ed essere interrogato da un uomo l'avrebbe sconvolto a tal punto che non ci avremmo più tirato fuori nulla di utile. Senza dare nell'occhio, tirai fuori una penna.

«Senti» cominciò con tono suadente Cassie, «so che lo shock è stato forte per te. Mettici il tempo che ci vuole e spiegaci tutto dall'inizio, per bene. Parti da quello che stavi facendo stamattina, prima di andare alla pietra.»

Damien inspirò profondamente e si passò la lingua sulle labbra. «Eravamo… ehm… stavamo lavorando al canale di scolo medievale. Mark voleva vedere se riuscivamo a seguire il percorso un po' più giù lungo il sito. Vedete, ora noi stiamo facendo le ultime cosette, perché ormai lo scavo sta per finire…»

«Quando è iniziato?» chiese Cassie.

«Direi da un paio d'anni, ma io sono qui solo da giugno. Vado all'università.»

«Anche a me sarebbe piaciuto moltissimo fare l'archeologa» gli confidò Cassie. Le assestai un colpetto al piede sotto il tavolo. "Oh, no, ancora questa storia." Lei mise il suo sul mio. «Come sta andando lo scavo?»

Il volto di Damien si illuminò, come abbagliato di piacere, a meno che il sembrare abbagliato non fosse la sua espressione normale. «È stato incredibile, sono così felice di averlo fatto.»

«Ti invidio molto» fece Cassie. «Sai se per caso lasciano lavorare anche dei volontari, che so, per una settimana?»

«Maddox» dissi, imbronciato, «non è che possiamo discuterne dopo, dei tuoi cambiamenti di carriera?»

«Scuuusa» fece lei, roteando gli occhi verso Damien. Lui le rimandò un ghigno, e il legame si era creato. Cominciavo a provare una vaga, ingiustificata antipatia per il ragazzo. Ora capivo perfettamente perché Hunt avesse assegnato a lui il compito di guidare le visite del sito: sarebbe stato il sogno di qualsiasi PR; con quegli occhioni azzurri, timido timido, avrebbe fatto furore tra mammine e ragazzine. Solo che a me gli adorabili indifesi non sono mai piaciuti. Penso che sia la stessa reazione di Cassie davanti a quelle ragazze cresciute con la voce da bambina che si spaventano per un nonnulla e che gli uomini vogliono sempre proteggere: un mix di disgusto, cinismo e invidia. «Okay» riprese Cassie, «quindi poi sei andato alla pietra e…?»

«Dovevamo ripulirla dell'erba e del terriccio tutt'attorno» spiegò Damien. «Il resto di quella zona è stato spianato la settimana scorsa, ma gli abbiamo fatto lasciare un'area intatta attorno alla pietra perché non volevamo correre il rischio che il bulldozer la danneggiasse. Così, dopo la pausa di mezza mattina, Mark ha detto a me e a Mel di andare lassù a fare il lavoro di fino con il piccone mentre gli altri si occupavano del canale di scolo.»

«Che ora era?»

«La pausa di mezza mattina finisce alle undici e un quarto.»

«E poi?»

Damien deglutì e prese un altro sorso dalla tazza. Cassie si sporse in avanti come per incoraggiarlo e rimase in attesa.

«Noi… ehm… c'era qualcosa sulla pietra. Ho pensato che fosse una giacca o qualcosa del genere, che qualcuno se la fosse dimenticata lì. Ho detto… ehm… ho detto: "Ma quello cos'è?" e così ci siamo avvicinati e…» Abbassò lo sguardo nella tazza; le mani avevano preso a tremargli. «Era una persona. Ho pensato che forse era… non so… svenuta o una cosa così, perciò l'ho scossa per il braccio e… ehm… era strana a toccarla. Fredda e… e rigida. Allora mi sono abbassato per vedere se respirava, invece no. C'era sangue su di lei, ho visto sangue sulla faccia. Così ho capito che era morta.» Deglutì di nuovo.

«Stai andando alla grande» disse Cassie, con dolcezza. «Poi cosa avete fatto?»

«Mel ha detto: "Oh, mio Dio" o qualcosa del genere e siamo corsi via ad avvisare il dottor Hunt. Lui ci ha radunati tutti nella mensa.»

«Okay, Damien, ora ho bisogno che rifletta con attenzione» proseguì Cassie. «Hai visto nulla che ti è sembrato strano, oggi, o nel corso degli ultimi giorni? Qualcuno mai visto prima che si aggirava nella zona, qualcosa fuori posto?»

Damien spostò lo sguardo nel vuoto e dischiuse leggermente le labbra. Sorseggiò ancora il suo tè. «Forse non è il tipo di cose che intendete voi…»

«Qualsiasi cosa potrebbe esserci d'aiuto» lo rassicurò Cassie. «Anche la cosa più minuta.»

«Okay.» Damien annuì convinto. «Okay, allora. Lunedì stavo aspettando l'autobus per tornare a casa, vicino al cancello, avete presente? E ho visto questo tipo che scendeva lungo la strada e si dirigeva verso la zona residenziale. Non so neanche perché l'ho notato, forse… forse per come si è guardato in giro prima di avvicinarsi alle case, come se controllasse che nessuno lo stesse osservando o roba del genere.»

«Che ora era?» chiese Cassie.

«Qui noi finiamo alle cinque e mezzo, quindi direi le sei meno venti… E questa è l'altra cosa strana: voglio dire, non puoi andare da nessuna parte qui se non hai un'auto, tranne che al negozio e al pub, e il negozio chiude alle cinque. Così mi sono chiesto da dove venisse.»

«Che aspetto aveva?»

«Abbastanza alto, più di un metro e ottanta direi. Sulla trentina, forse… Grosso. Credo che fosse calvo. Portava una tuta da ginnastica blu scuro.»

«Te la sentiresti di lavorare con un nostro esperto per tirarne fuori un identikit?»

Damien sbatté gli occhi rapidamente, sembrava preoccupato. «Ehm… io… ehm… non l'ho visto così bene. Insomma, lui veniva dalla strada, dall'altro lato dell'entrata alla proprietà. Non è che stessi proprio guardando bene… non credo che ricorderei…»

«Va bene, va bene» disse Cassie. «Non preoccuparti, Damien. Se pensi di poterci fornire qualche altro dettaglio, fammelo sapere, okay? Nel frattempo, abbi cura di te.»

Trascrivemmo indirizzo e numero di telefono di Damien, gli consegnammo un biglietto da visita e lo rispedimmo dagli altri, con l'ordine di mandarci Melanie Jackson. Avrei voluto regalargli un lecca-lecca per essere stato un bambino così coraggioso, ma non sono compresi nel kit fornito dal dipartimento.

«Che ragazzo dolce» commentai, con tono evasivo, per sondare il terreno.

«Già» disse Cassie seccamente. «Se mai vorrò un cucciolotto lo terrò a mente.»


Mel fu molto più utile di Damien. Era alta, magrissima e scozzese, con braccia abbronzate e muscolose. Portava i capelli color sabbia raccolti in una coda disordinata e se ne stava seduta come un ragazzo, con i piedi ben piantati a terra e distanziati.

«Magari io sapete già, ma la bambina viene dalla zona residenziale» ci disse senza preamboli. «O da qualche parte qui nei dintorni, comunque.»

«Come fai a saperlo?» le chiesi.

«A volte, i ragazzini della zona vengono al sito. Durante l'estate non c'è molto da fare. Più che altro, vogliono sapere se abbiamo trovato dei tesori nascosti o degli scheletri. L'ho vista varie volte.»

«Quando è stata l'ultima?»

«Due, forse tre settimane fa.»

«Era con qualcuno?»

Mel fece spallucce. «Nessuno in particolare che mi ricordi. Solo un gruppetto di ragazzini, credo.»

Mel mi piaceva. Era scossa dalla vicenda ma si rifiutava di mostrarlo; giochicchiava con un elastico per capelli, facendogli assumere ogni tipo di forma tra le dita callose. Fece in pratica lo stesso racconto di Damien ma con molte meno moine e smancerie.

«Alla fine della pausa di mezza mattina, Mark mi ha detto di andare a ripulire con la piccozza la base della pietra cerimoniale, così da esporla completamente. Damien ha detto che sarebbe venuto anche lui. Di solito non lavoriamo da soli, è una tale noia… A metà della salita abbiamo intravisto qualcosa di bianco e blu sulla pietra. Damien ha detto: "E quello cos'è?". E io: "Magari è la giacca di qualcuno". Quando ci siamo avvicinati un po' di più mi sono resa conto che era una ragazzina. Damien le ha scosso un braccio per vedere se respirava, ma si vedeva che era morta. Non avevo mai visto un cadavere prima, ma…» Si morsicò l'interno di una guancia, scuotendo la testa. «Sono stronzate, vero, quando dicono: "Oh, sembrava proprio che dormisse"? Si vede eccome.»

Pensiamo poco alla morte, di questi tempi, ma per tentare di esorcizzarla ci agitiamo in maniera scomposta con attività fisiche, cereali ad alto contenuto di fibre e cerotti alla nicotina. Mi vennero in mente l'arcigna determinazione vittoriana a ricordarcela sempre, le intransigenti lapidi tipo: "Ricorda, pellegrino, mentre passi, / Quello che tu sei io ero; / Ciò che sono tu sarai…". Ora la morte è fuori moda, vecchia, sgradevole. A definire la nostra era, secondo me, è la spinta in avanti: tutto costruito su misura fino a un punto di fuga da ricerche di mercato, marchi e band musicali confezionati in base a specifiche precise; siamo così abituati a vedere le cose trasformarsi in ciò che desideriamo che ci pare un oltraggio grave imbatterci nella morte, testardamente non manipolabile, solo e sempre immutabilmente se stessa. Il cadavere aveva scosso Mel Jackson molto più profondamente di quanto non sarebbe accaduto alla più protetta delle fanciulle vittoriane.

«Se il corpo si fosse trovato sulla pietra già ieri, avreste potuto non notarlo?» chiesi.

Mel sollevò lo sguardo e gli occhi erano sbarrati. «Oh, merda… volete dire che è stato lì tutto il tempo che noi…?» Poi scosse il capo. «No. Ieri pomeriggio, Mark e il dottor Hunt hanno fatto un giro completo del sito per stilare una lista delle cose da fare. L'avrebbero visto… vista. Non l'abbiamo notata subito questa mattina perché eravamo tutti giù in fondo al sito, all'estremità del canale di scolo; per come è fatto il pendio della collina, da laggiù non si riesce a vedere la parte superiore della pietra.»

Non aveva visto nessuno, niente di insolito, neppure il tipo strambo citato da Damien. «Ma non avrei potuto comunque. Io non prendo l'autobus. Quelli di noi che non sono di Dublino abitano nella casa che ci hanno affittato, a circa quattro chilometri da qui, lungo la strada. Mark e il dottor Hunt hanno l'auto e così ci riaccompagnano loro. Non passiamo davanti alla zona residenziale.»

Il "comunque" mi colpì. Suggeriva che Mel, come me, aveva dei dubbi sulla sinistra tuta da ginnastica blu scuro. Damien mi aveva dato l'impressione di essere una di quelle persone che ti direbbero qualsiasi cosa se pensassero di farti felice. Mi pentii di non avergli chiesto se il tipo portava anche i tacchi a spillo.


Sophie e i suoi giovani tecnici avevano finito con la pietra cerimoniale e stavano allargando i controlli avanzando in cerchio. Le dissi che Damien Donnelly aveva toccato il corpo e ci si era sporto sopra. Avremmo avuto bisogno delle sue impronte e dei capelli. «Che idiota» commentò Sophie. «Immagino che dovremmo anche essergli grati di non aver coperto il cadavere con la giacca.» Sudava all'interno della tuta di carta. Alle sue spalle, un giovane tecnico strappò nascostamente una pagina dal blocco e ricominciò da capo.

Lasciammo l'auto al sito e ci avviammo a piedi, girando attorno alla zona residenziale seguendo la strada. Conservavo ancora il ricordo, da qualche parte nei miei muscoli, di quando scavalcavo il muro: dove si trovava il punto d'appoggio per il piede, il cemento che ti grattava la rotula, il colpo all'atterraggio. Cassie volle fermarsi al negozio lungo la strada; erano già le due passate e forse non avremmo avuto un'altra occasione per pranzare. Cassie mangia come un'adolescente e odia saltare i pasti. La cosa di solito mi fa piacere – le donne che vivono di misurate porzioni di insalata mi infastidiscono – ma volevo che quella giornata passasse il più in fretta possibile.

Attesi fuori dal negozio a fumare, ma Cassie ne uscì con due sandwich nelle confezioni di plastica e me ne passò uno. «Tieni.»

«Non ho fame.»

«Mangia quel dannato sandwich, Ryan. Non ti porto in braccio a casa se mi svieni.» In realtà non sono mai svenuto in vita mia, ma tendo a dimenticarmi di mangiare finché poi non divento irritabile o vado in trance, e Cassie lo sa, anche se lo trova incomprensibile.

«Ho detto che non ho fame» ripetei con una punta di piagnucolio nella voce, ma aprii la confezione. Cassie aveva ragione, era probabile che sarebbe stata una giornata molto lunga. Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e lei estrasse una bottiglia di Coca al limone dalla sua borsa. Il sandwich, che ufficialmente doveva essere di pollo e altro ripieno, sapeva essenzialmente di plastica, e la Coca era calda e troppo dolce. Mi venne un po' di nausea.

Non voglio dare l'impressione che la mia vita sia stata segnata da ciò che è accaduto a Knocknaree, di avere vagato per vent'anni come una figura tragica dal passato oscuro che sorride tristemente al mondo da dietro un velo dolce-amaro di sigarette e ricordi. Knocknaree non mi ha lasciato in eredità incubi notturni, impotenza, paura patologica degli alberi o qualsiasi altra bella cosa che, in una fiction televisiva, mi condurrebbe da un terapeuta prima, alla redenzione poi e a un rapporto più comunicativo, infine, con una moglie che, benché frustrata, mi offre tutta la sua solidarietà. A essere sinceri, potrei andare avanti per mesi senza nemmeno pensarci. Di tanto in tanto, qualche giornale pubblica un articolo su persone scomparse e loro sono lì, Peter e Jamie, che sorridono dalla copertina del supplemento domenicale, in fotografie sgranate rese premonitrici dal senno di poi e dall'uso eccessivo, tra turisti spariti, casalinghe fuggite di casa e mormoranti schiere di perduti d'Irlanda. Vedo l'articolo e noto, con fare distaccato, che mi tremano le mani e che faccio fatica a respirare, ma si tratta di un puro e semplice riflesso fisico, e comunque dura solo pochi minuti.

Immagino che la faccenda abbia avuto i suoi effetti su di me, ma mi sarebbe impossibile, e a mio parere anche inutile, scoprire esattamente quali siano stati. Avevo dodici anni, dopotutto, un'età in cui i ragazzini sono smarriti e amorfi, si trasformano dal giorno alla notte, a prescindere dalla stabilità delle loro vite. E poche settimane dopo finii in collegio, il che mi formò e mi segnò in modo molto più drammatico ed evidente. Mi sembrerebbe ingenuo ed essenzialmente ipocrita smontare la mia personalità, prenderne un brandello e berciare: "Santi numi, guarda, questo viene da Knocknaree!". Ma ecco che ora, all'improvviso, il tutto riemergeva, beffardo e inamovibile, nel bel mezzo della mia vita, e non avevo la benché minima idea di cosa farci.

«Quella povera bimba» disse d'un tratto Cassie, fuori contesto. «Quella povera, piccola bimba.»


La casa dei Devlin era una bifamiliare con la facciata piatta e un piccolo prato verde sul davanti, come tutte le altre del quartiere, così poco particolare che non riuscivo a capire se mi fosse familiare o meno. Tutti i vicini si erano prodigati in piccole e frenetiche manifestazioni di individualismo regolando con ferocia i cespugli, piazzando gerani o altro; i Devlin invece si limitavano a tagliare il prato e lo lasciavano così, che di per sé già comunicava un certo grado di originalità. Vivendo più o meno nella parte centrale della zona residenziale, a cinque o sei strade dal sito, si erano persi l'arrivo dei poliziotti in uniforme, dei tecnici della Scientifica, del furgone dell'obitorio, tutto l'andirivieni terribile ed efficiente che da solo sarebbe bastato a fargli capire quello che c'era da capire.

Quando Cassie suonò il campanello, un uomo sulla quarantina venne ad aprire; era un po' più basso di me, cominciava ad arrotondarsi intorno alla vita, portava i capelli scuri tagliati con cura e mostrava grosse borse sotto gli occhi. Indossava un cardigan, pantaloni color cachi e teneva in mano una scodella di cereali. Avrei voluto dirgli che era tutto a posto, perché sapevo già con che cosa avrebbe dovuto confrontarsi nei mesi a venire. È il genere di situazione che la gente ricorda con strazio per tutta la vita: uno sta mangiando i cereali in casa propria quando arriva la polizia a dirgli che sua figlia è morta. Una volta ho visto una donna crollare sul banco dei testimoni, singhiozzava con tale veemenza che dovettero interrompere il processo e somministrarle un sedativo: era a lezione di yoga quando le avevano accoltellato il fidanzato.

«Signor Devlin?» chiese Cassie. «Sono il detective Maddox e questo è il detective Ryan.»

L'uomo spalancò gli occhi. «Siete della sezione Persone scomparse?» Aveva del fango sulle scarpe e i bordi dei pantaloni erano umidi; doveva essere stato fuori alla ricerca di sua figlia, da qualche parte nei campi sbagliati. Forse era rientrato per mettere qualcosa sotto i denti prima di provarci ancora, e poi ancora.

«Non esattamente» disse con dolcezza Cassie. Di solito lascio a lei questo genere di conversazioni, e non solo per codardia – questa è decisamente una delle parti peggiori del lavoro, guardare le autopsie non è niente al confronto – ma perché sappiamo entrambi che è molto più brava. «Possiamo entrare?»

Lui fissò la scodella e la posò goffamente sul tavolo dell'ingresso. Un po' di latte si versò su un mazzo di chiavi e su un berretto rosa da bambina. «Cosa volete?» chiese. La paura gli aveva fatto assumere un tono di voce aggressivo. «Avete trovato Katy?»

Udii un rumore leggero e guardai oltre le sue spalle. C'era una ragazza ai piedi delle scale che si teneva al corrimano. L'interno della casa era in penombra anche se era pomeriggio e c'era il sole, ma vidi il suo volto e fu come se fossi trafitto da una lama luminosa, qualcosa di simile al terrore. Per un inimmaginabile, vorticoso secondo mi parve di vedere un fantasma. Era la nostra vittima, la stessa ragazzina che avevamo trovato sulla pietra. Sentii un rumore assordante nelle orecchie.

Mezzo secondo dopo, naturalmente, il mondo si raddrizzò, il ruggito nelle orecchie scemò e mi resi conto di cosa stavo vedendo. Capii anche che non avremmo avuto bisogno della foto identificativa. Anche Cassie l'aveva vista. «Non ne siamo ancora sicuri» disse. «Signor Devlin, quella è la sorella di Katy?»

«Jessica» rispose l'uomo con voce arrochita. La ragazzina venne avanti. Senza staccare gli occhi dal volto di Cassie, Devlin allungò una mano dietro di sé, prese la ragazza per una spalla e la fece avanzare fin sulla porta. «Sono gemelle» spiegò. «Identiche. È… avete… avete trovato una bambina che le somiglia?» Jessica fissava un punto tra me e Cassie. Le braccia penzolavano mollemente lungo i fianchi, le mani erano invisibili sotto un'enorme maglia grigia.

«La prego, signor Devlin» continuò Cassie. «Dobbiamo entrare e parlare con lei e sua moglie in privato.» Scoccò un'occhiata a Jessica. Devlin abbassò lo sguardo, vide la propria mano sulla spalla della bambina e, trasalendo, la tolse. Restò come congelata a mezz'aria, come se lui non sapesse più cosa farne.

Ora sapeva, naturalmente. Se l'avessimo trovata viva, glielo avremmo detto. Arretrò dalla porta e con un gesto della mano ci fece entrare in salotto. Disse alla figlia: «Va' su da zia Vera», ci seguì e chiuse la porta.

La cosa terribile del salotto era la sua assoluta normalità, da satira sulle periferie. Tende di pizzo, divano e poltrone a fiori con quelle tipiche coperture sui braccioli e sui poggiatesta, una collezione di teiere decorate su una credenza, tutto lucidato e spolverato fino a brillare: sembrava, e spesso le case delle vittime e persino le scene del crimine lo sono, fin troppo banale per quel livello di tragedia. La donna seduta in una delle poltrone si adattava alla stanza: pesante nella sua solidità priva di forma, con un casco di capelli appena usciti dalla permanente e grandi occhi azzurri cascanti. Linee profonde le solcavano il volto, dal naso alla bocca.

«Margaret» disse Devlin, «sono detective.» La sua voce era tesa come la corda di un violino. Non andò da lei ma rimase vicino al divano, i pugni chiusi nelle tasche del cardigan. «Allora?» chiese.

«Signori Devlin» cominciò Cassie, «non c'è un modo facile per dire questa cosa. Il corpo di una ragazzina è stato trovato nel sito archeologico accanto a questa zona residenziale. Purtroppo, noi pensiamo che si tratti di vostra figlia Katharine. Mi dispiace.»

Margaret Devlin lasciò fuoriuscire il respiro come se l'avessero colpita allo stomaco. Le lacrime cominciarono a scenderle lungo le guance senza che lei sembrasse neppure accorgersene.

«Ma ne siete certi?» scattò Devlin. Aveva gli occhi sgranati. «Come fate a essere così sicuri?»

«Signor Devlin» disse con gentilezza Cassie, «l'ho vista. È identica a sua figlia Jessica. Domani le chiederemo di venire a confermare l'identificazione, ma non ho dubbi, purtroppo. Mi dispiace.»

Devlin si girò verso la finestra, di nuovo lontano, un polso premuto sulla bocca, perso e con uno sguardo feroce. «Oh, Dio» mormorò Margaret. «Oh, Dio, Jonathan…»

«Cosa le è successo?» la interruppe bruscamente Devlin. «Come… come…»

«Purtroppo pare sia stata assassinata» disse Cassie.

Margaret si stava alzando dalla poltrona, con movimenti lenti, come sott'acqua. «Dov'è?» Le lacrime continuavano a scenderle copiose, ma la voce aveva una calma innaturale.

«È dal medico legale» rispose gentilmente Cassie. Se Katy fosse morta in modo diverso, avremmo potuto portarli da lei, ma con il cranio aperto, la faccia coperta di sangue… Dopo l'autopsia, i ragazzi le avrebbero almeno lavato via quello strato di inutile orrore.

Margaret si guardò attorno, intontita, toccandosi ripetutamente e meccanicamente le tasche della gonna. «Jonathan, non trovo le chiavi.»

«Signora Devlin» intervenne Cassie, mettendole una mano sul braccio. «Purtroppo non possiamo portarvi da Katy, per ora. Il medico legale deve esaminarla. Vi faremo sapere non appena potrete vederla.»

Margaret si allontanò da Cassie con uno strattone e si spostò al rallentatore verso la porta, pulendosi con una mano impacciata le lacrime dalla faccia. «Katy… dov'è?» Cassie lanciò con gli occhi una richiesta di aiuto a Jonathan, oltre la spalla della signora, ma lui aveva appoggiato le mani al vetro della finestra e fissava fuori, anche se in realtà non vedeva nulla, respirando in fretta, troppo in fretta, e intensamente.

«Per favore, signora Devlin» dissi con urgenza, cercando di frappormi, senza che se ne accorgesse, tra lei e la porta. «Le prometto che vi porteremo da Katy non appena potremo, ma al momento non potete vederla. Non è proprio possibile.»

Margaret mi fissò con gli occhi rossi e la bocca aperta. «La mia bambina» ansimò. Poi le crollarono le spalle e cominciò a piangere, con singhiozzi profondi, rauchi e incontrollati. Rovesciò la testa all'indietro e lasciò che Cassie (guardava invece me, con gli occhi spalancati e straziati: Oh, Dio…) l'accompagnasse docilmente per le spalle verso la poltrona e la facesse sedere nuovamente.

«Com'è morta?» chiese Jonathan, continuando a fissare il nulla fuori dalla finestra. Le parole erano indistinte, come se avesse le labbra intorpidite. «In che modo?»

«Non lo sapremo finché i medici non avranno terminato di esaminarla» risposi. «Vi terremo informati di tutti gli sviluppi.»

Sentii dei passi leggeri che correvano giù per le scale, la porta si spalancò e vedemmo una ragazza sulla porta. Dietro di lei, Jessica era ancora nell'ingresso, si succhiava una ciocca di capelli e ci fissava.

«Che succede?» domandò la ragazza, senza fiato. «Oh, Dio… è Katy?»

Nessuno rispose. Margaret si premette un pugno sulla bocca e i suoi singhiozzi divennero terribili suoni soffocati. Lo sguardo della ragazza passò di volto in volto, le sue labbra si schiusero. Alta e snella, con ricci castani che le scendevano sulla schiena, era difficile valutare quanti anni avesse: diciotto, venti… Ma era molto più curata della maggior parte delle ragazze che mi era capitato di incontrare: indossava pantaloni neri fatti su misura e scarpe col tacco alto, oltre a una camicia bianca dall'aspetto costoso, per finire con una sciarpa viola di seta avvolta intorno al collo. Aveva una presenza vitale, elettrica, che riempiva la stanza. In quella casa, appariva sorprendentemente fuori luogo.

«Per favore» disse, rivolgendosi a me. La voce era alta e chiara, sostenuta, con un accento da annunciatrice TV che mal s'accompagnava a quello morbido da classe popolare di provincia di Jonathan e Margaret. «Che è successo?»

«Rosalind» cominciò Jonathan. La voce gli uscì ruvida. Si schiarì la gola prima di continuare. «Hanno trovato Katy. È morta. Qualcuno l'ha uccisa.»

Jessica produsse un piccolo suono senza parole. Rosalind lo fissò per un istante, poi sbatté le ciglia e ondeggiò con una mano protesa verso lo stipite della porta. Cassie le mise un braccio intorno alla vita e la sostenne fino al divano.

Rosalind appoggiò la testa sui cuscini e le rivolse un debole sorriso di riconoscenza che Cassie ricambiò. «Potrei avere un po' d'acqua?» mormorò.

«Vado io» mi offrii. In cucina, linoleum lavato a fondo, tavola e sedie verniciati finto rustico. Aprii il rubinetto e mi diedi una rapida occhiata in giro. Niente di rilevante, tranne uno dei pensili alti che conteneva una serie di tubetti di vitamine e, in fondo, un flacone di dimensioni industriali di Valium con un'etichetta e il nome della persona alla quale era stato prescritto: Margaret Devlin.

Rosalind sorseggiò l'acqua e inspirò profondamente, tenendosi una piccola mano sul petto. «Prendi Jess e andate di sopra» le ordinò Jonathan.

«Per favore, fammi restare» chiese Rosalind, sollevando il mento. «Katy era mia sorella, qualsiasi cosa le sia accaduta, io posso… posso farcela. Sto bene ora. Mi dispiace per come mi sono sentita, ma ora sto bene, sul serio.»

«Vorremmo che Rosalind e Jessica restassero, signor Devlin» dissi io. «È possibile che sappiano qualcosa che potrebbe esserci d'aiuto.»

«Katy e io eravamo… eravamo molto vicine» disse Rosalind, guardando me. Aveva gli occhi di sua madre, grandi e azzurri, con quell'accenno a scendere verso il basso agli angoli esterni. Si spostarono, oltre le mie spalle: «Oh, Jessica» disse, tendendo le braccia. «Jessica, tesoro, vieni qui.» Jessica mi passò accanto con un balenio da animale selvatico negli occhi e andò a stringersi a Rosalind, sul divano.

«Mi dispiace tantissimo intromettermi in un momento del genere» dissi, «ma ci sono alcune domande che dobbiamo porvi quanto prima perché ci aiutiate a trovare chi ha fatto questo. Vi sentite in grado di parlare adesso, o preferite che torniamo tra qualche ora?»

Jonathan Devlin prese una sedia dal tavolo da pranzo, la sbatté sul pavimento e si sedette. Evidentemente, la cosa non gli andava giù. «Fatelo ora» disse. «Forza, con queste domande.»

Lentamente, facemmo ripercorrere loro la storia. Avevano visto Katy per l'ultima volta lunedì sera. Era stata a lezione di balletto a Stillorgan, qualche chilometro verso Dublino, dalle cinque alle sette. Rosalind era andata a prenderla alla fermata dell'autobus verso le 19.45 ed erano tornate a casa a piedi insieme. «Mi ha raccontato che si era divertita un sacco» disse, con la testa piegata sulle mani congiunte. Una cortina di capelli le ricadde sulla faccia. «Era una ballerina eccezionale… si era conquistata un posto alla Royal Ballet School, sapete… sarebbe partita tra poche settimane…» Margaret singhiozzò e le mani di Jonathan strinsero convulsamente i braccioli della sedia. Rosalind e Jessica erano poi andate a casa della zia Vera, dall'altra parte della zona residenziale, per passare la notte con le loro cuginette.

Katy aveva cenato con fagioli in salsa di pomodoro, pane tostato e succo d'arancia, poi era andata a far fare la passeggiata al cane di un vicino: era il suo lavoretto estivo per racimolare un po' di soldi per la scuola di balletto. Era tornata intorno alle 20.50, si era fatta un bagno e poi aveva guardato la TV con i genitori; era andata a dormire alle dieci, come al solito d'estate, e aveva letto per qualche minuto prima che Margaret le dicesse di spegnere la luce. Jonathan e Margaret erano rimasti ancora alzati a vedere la TV ed erano andati a dormire poco prima di mezzanotte. Prima di coricarsi, Jonathan, come sempre, aveva controllato che la casa fosse al sicuro: porte chiuse a chiave, finestre bloccate, catena all'ingresso principale.

Alle 7.30 della mattina dopo, si era alzato e si era recato al lavoro senza vedere Katy. Era un impiegato di sportello con una certa anzianità in una banca; aveva notato che la catena della porta non era inserita ma aveva dato per scontato che Katy, un'allodola per abitudine, fosse andata a casa della zia per far colazione con sorelle e cugine. «Lo fa, a volte» intervenne Rosalind. «Le piacciono le cose fritte e mamma… be', la mattina mamma è troppo stanca per cucinare.» Seguì un terribile suono straziante proveniente da Margaret. Tutte le ragazze avevano le chiavi della porta di casa, aggiunse Jonathan. Per essere più sicuri. Alle 9.20, quando Margaret si era alzata ed era andata a svegliare Katy, lei non c'era. Aveva atteso un po', supponendo, come Jonathan, che Katy si fosse alzata presto e fosse andata a casa della zia. Poi aveva chiamato Vera, solo per esserne certa. Dopo Vera, aveva telefonato a tutte le amiche di Katy e alla fine si era risolta a informare la polizia.

Cassie e io sedevamo in maniera poco rilassata sui bordi delle nostre poltrone. Margaret piangeva sommessamente ma senza interruzione. Dopo un po', Jonathan uscì dalla stanza e tornò con una confezione di fazzoletti di carta. Una signora minuscola come un uccellino e con gli occhi sporgenti – la zia Vera, pensai – scese in punta di piedi dalle scale e restò per qualche minuto nell'ingresso, incerta, torcendosi le mani. Poi, lentamente, si ritirò in cucina. Rosalind massaggiava le dita inerti di Jessica.

Katy, dissero, era stata una bambina buona, brava a scuola anche se non eccezionale, innamorata del balletto. Aveva un bel caratterino ma di recente non aveva avuto scontri con la famiglia o con altri. Ci fornirono i nomi delle sue migliori amiche perché potessimo controllare. Non era mai scappata di casa, no. Ultimamente era molto felice, emozionata all'idea di andare alla scuola di balletto. I ragazzi non le interessavano ancora, aggiunse Jonathan, aveva solo dodici anni, Cristo santo! Ma vidi che Rosalind gli scoccò un'occhiata e poi guardò me. Presi mentalmente nota di parlarle senza i genitori.

«Signor Devlin» domandai, «com'era il suo rapporto con Katy?»

Jonathan mi fissò. «Di che cazzo mi sta accusando?» scattò. Jessica produsse un guaito che era una risata, alto e isterico, e io feci un salto sulla poltrona. Rosalind storse le labbra e scosse la testa verso di lei, con le sopracciglia aggrottate, poi le sorrise, rassicurante, e le diede una piccola pacca. Jessica abbassò la testa e riprese a succhiarsi i capelli.

«Nessuno la sta accusando di nulla» chiarì Cassie con fermezza, «ma dobbiamo essere in grado di dire che abbiamo esplorato ed eliminato tutte le possibilità. Se tralasciamo qualcosa, quando prenderemo quell'uomo, e lo prenderemo, la sua difesa potrebbe cavalcare il ragionevole dubbio. So che rispondere a queste domande è doloroso, ma le assicuro, signor Devlin, che lo sarebbe ancora di più se quell'uomo venisse prosciolto perché non le abbiamo fatte.»

Jonathan inspirò attraverso il naso e si rilassò per un istante. «Il mio rapporto con Katy era fantastico» disse. «Parlava con me. Eravamo vicini. Io… lei era la mia piccola.» Jessica ebbe uno spasmo, mentre Rosalind sollevò per un attimo lo sguardo. «Litigavamo, come fanno tutti i padri e le figlie, ma era una figlia meravigliosa e una ragazza meravigliosa, e io l'adoravo.» Per la prima volta gli si incrinò la voce. Mosse la testa di scatto, rabbiosamente.

«E lei, signora Devlin?» chiese Cassie.

Margaret stava sbriciolandosi un fazzoletto in grembo; sollevò lo sguardo, ubbidiente come un bambino. «Ma certo, sono tutte fantastiche» disse. La sua voce era spessa e tremolante. «Katy era… un sogno. Non ha mai dato problemi. Non so come faremo senza di lei.» Storse la bocca in un tremito.

Non facemmo domande né a Rosalind né a Jessica. È improbabile che i ragazzi siano onesti sui fratelli e sulle sorelle quando i genitori sono nei paraggi, e se un ragazzino mente, soprattutto nel caso di una bambina piccola e confusa come Jessica, le bugie si fissano nella mente e la verità retrocede sullo sfondo. Più avanti, avremmo cercato di ottenere il permesso dei Devlin per parlare con Jessica e, se era minorenne, con Rosalind, da sole. Chissà perché, avevo l'impressione che non sarebbe stato facile.

«Vi viene in mente qualcuno che avrebbe voluto far del male a Katy per qualche motivo?» chiesi.

Per un istante nessuno disse nulla. Poi Jonathan spinse la sedia all'indietro e balzò in piedi. «Gesù» esclamò. La testa gli ondeggiava avanti e indietro, come quella di un toro tormentato dal torero. «Quelle telefonate.»

«Telefonate?» ripetei.

«Cristo. Lo ammazzo. Ha detto che l'hanno trovata allo scavo?»

«Signor Devlin!» si intromise Cassie. «Si sieda e ci parli di queste telefonate.»

Lentamente, Devlin si girò a guardarla. Si sedette, ma io vedevo che c'era un che di assente e astratto nel suo sguardo. Ero pronto a scommettere che stava segretamente pensando al metodo migliore per scovare chi avesse fatto quelle telefonate. «Sapete dell'autostrada che attraverserà il sito archeologico?» disse. «La maggior parte della gente di qui è contraria. Alcuni sono interessati perché così salirebbe il valore delle loro abitazioni, visto che passerebbe proprio qui di fianco, ma la maggior parte di noi… Quel sito dovrebbe essere preservato. È unico ed è nostro, il governo non ha nessun diritto di distruggerlo senza neppure chiedercelo. C'è una campagna in corso qui a Knocknaree, "Spostiamo l'autostrada". Ne sono il presidente perché l'ho iniziata io. Facciamo picchetti e scriviamo lettere ai politici, per quel che può servire.»

«Poca reazione?» azzardai. Parlare della sua causa lo rinsaldava e la cosa mi affascinava: inizialmente mi era parso un piccolo uomo calpestato, non il tipo da condurre una crociata, ma chiaramente aveva uno spessore che a occhio nudo non si vedeva.

«Pensavo fosse solo burocrazia, sa, non vogliono mai fare cambiamenti. Ma le telefonate mi hanno fatto ricredere… La prima arrivò di sera tardi. Il tipo disse qualcosa come: "Senti, stupido bastardo, non hai idea della cosa in cui ti sei immischiato". Pensai che avesse sbagliato numero, riattaccai e tornai a dormire. Fu solo dopo la seconda che mi ricordai e collegai le cose.»

«Quando è arrivata la prima telefonata?» chiesi. Cassie stava scrivendo.

Jonathan guardò Margaret; lei scosse la testa mentre si tamponava gli occhi. «In aprile, più o meno, forse verso la fine. La seconda il 3 giugno, verso l'una e mezzo del mattino, l'ho scritto. Katy… non c'è il telefono in camera nostra, è in corridoio… e lei ha il sonno leggero. Andò lei. Disse che l'uomo le aveva chiesto: "Sei la figlia di Devlin?" e che lei aveva risposto: "Sono Katy" e lui: "Katy, di' a tuo padre di lasciar perdere la stramaledetta autostrada, perché so dove abitate". A quel punto ero arrivato io e le avevo strappato la cornetta di mano. L'uomo all'altro capo mi disse qualcosa tipo: "Carina la ragazzina, Devlin". Gli urlai di non provare mai più a chiamare casa mia e riattaccai.»

«Si ricorda qualche dettaglio della voce?» chiesi. «L'accento, l'età, nulla? Le è parsa una voce nota?»

Jonathan deglutì. Si stava concentrando al massimo, attaccato all'argomento come a un'ancora. «Non mi ha fatto suonare nessun campanello. Non giovane. Forse di una certa età. Accento di provincia, ma non lo saprei indicare, non di Cork o del nord, niente di così evidente. Sembrava… ho pensato che fosse ubriaco.»

«Ci sono state altre telefonate?»

«Un'altra, qualche settimana fa, il 13 luglio, alle due del mattino. Ho risposto io. Lo stesso tipo che diceva: "Allora tu non…".» Lanciò uno sguardo a Jessica. Rosalind le teneva un braccio sulle spalle, la cullava teneramente e le mormorava qualcosa all'orecchio. «"Allora tu non ascolti un c…, Devlin? Ti avevo avvertito di lasciare la c… di autostrada in pace. Te ne pentirai. So dove vive la tua famiglia."»

«Ha denunciato la cosa alla polizia?» chiesi.

«No» rispose lui, brusco. Attesi che me ne dicesse il motivo ma non lo fece.

«Non era preoccupato?»

«A essere onesti» disse, lanciando un'occhiata che era un terribile misto di tristezza e sfida, «ne ero felice. Voleva dire che stavamo andando da qualche parte. Chiunque fosse a telefonarmi non si sarebbe dato tanta pena se la campagna non avesse rappresentato una minaccia. Ma ora…» D'un tratto, si sporse verso di me e mi fissò negli occhi, con i pugni premuti assieme. Dovetti fare uno sforzo per non ritrarmi. «Se scopre chi ha fatto quelle telefonate, me lo deve dire. Lei me lo deve dire. Voglio la sua parola.»

«Signor Devlin» dissi, «le prometto che faremo tutto quanto è in nostro potere per scoprire di chi si tratta e se ha qualcosa a che vedere con la morte di Katy, ma non posso…»

«Ha spaventato Katy» intervenne Jessica, con una vocina rauca. Credo che avemmo tutti un sussulto. Ero stupefatto come se fosse stata una delle poltrone a dare il suo contributo alla conversazione; avevo cominciato a chiedermi se la gemella non fosse autistica, disabile o qualcosa del genere.

«Davvero?» fece Cassie in tono pacato. «Cosa ti disse Katy?»

Jessica la scrutò come se la domanda fosse incomprensibile. Il suo sguardo riprese a scivolare via; si stava ritraendo nel suo torpore privato.

Cassie si sporse in avanti. «Jessica» insistette, con estrema dolcezza, «c'è qualcun altro di cui Katy aveva paura?»

La testa di Jessica ondeggiò, la bocca si mosse, una mano esile si levò e strinse un angolo della manica di Cassie.

«È vero?» mormorò.

«Sì, Jessica» confermò Rosalind dolcemente. Staccò la mano di Jessica e strinse la ragazzina a sé, accarezzandole i capelli. «Sì, Jessica, è vero.» Jessica guardò da sotto il suo braccio con occhi sgranati e vacui.


Non disponevano di una connessione Internet, il che eliminava la deprimente possibilità di un qualche fuori di testa conosciuto in chat e che era di chissà dove. Non avevano neppure un impianto d'allarme, anche se dubitavo che si sarebbe rivelato un elemento rilevante: Katy non era stata strappata dal suo letto da un intruso. L'avevamo trovata vestita come chi avesse avuto intenzione di uscire (sì, confermò Margaret, a Katy piaceva vestire in coordinato; aveva cominciato a mettere insieme abiti e accessori perché lo faceva la sua insegnante di balletto, che lei venerava). Aveva spento la luce, atteso che i suoi si addormentassero e poi, nel corso della notte o nelle prime ore del mattino, si era alzata, vestita ed era andata da qualche parte. La chiave di casa ce l'aveva in tasca: prevedeva di rientrare.

Ispezionammo ugualmente la sua camera, in parte per scoprire eventuali indizi su dove potesse essere andata e in parte, non che lo pensassimo davvero, per l'ovvia quanto brutale possibilità che Jonathan o Margaret l'avessero uccisa e avessero poi creato la messinscena per far sembrare che quando era uscita di casa fosse ancora viva. Condivideva la stanza con Jessica. La finestra troppo piccola e la lampadina troppo fioca non facevano che aumentare la sensazione che la casa mi comunicava, da far accapponare la pelle. La parete di Jessica, fatto di per sé già vagamente inquietante, era tappezzata di stampe artistiche soleggiate e idilliache: picnic impressionisti, fate di Rackham, panorami di Tolkien. «Glieli ho regalati io» spiegò Rosalind, dalla porta. «Non è vero, cucciola?» Jessica annuì guardandosi le scarpe. La parete di Katy, meno sorprendentemente, aveva un unico tema fisso: foto di Barisnikov e Margot Fonteyn che sembravano ritagliate da riviste di programmi TV, una foto della Pavlova presa da un articolo di giornale, la sua lettera di accettazione alla Royal Ballet School, un bel disegno a matita di una giovane ballerina con la dedica "A Katy, 21/03/2003. Buon compleanno! Ti voglio bene, papà" scribacchiata nell'angolo del cartoncino leggero su cui era incollato.

Il pigiama bianco che Katy indossava il lunedì notte giaceva sul letto, arrotolato; lo prendemmo e lo infilammo per sicurezza in un sacchetto per le prove, insieme alle lenzuola e al suo cellulare, che stava nel cassetto del comodino, spento. Non aveva tenuto un diario – «Ne aveva cominciato uno un po' di tempo fa, ma dopo un paio di mesi si è stufata e l'ha "perso"» ci disse Rosalind, mettendo la parola tra virgolette e rivolgendomi un sorrisetto triste e saputo, «e non si è mai preoccupata di cominciarne un altro» -, prendemmo però i quaderni di scuola e un vecchio diario dei compiti, materiale che forse avrebbe potuto fornirci qualche indizio. Le ragazze avevano una minuscola scrivania in finto legno ciascuna e su quella di Katy c'era una piccola scatola tonda di metallo piena di elastici per capelli. Con un'improvvisa e leggera fitta, riconobbi due fiordalisi di seta.


«Mamma mia» fu il commento di Cassie, quando lasciammo la zona residenziale e ci incamminammo lungo la strada. Si arruffò i riccioli con le mani.

«Ho visto quel nome da qualche parte, non tanto tempo fa» dissi. «Jonathan Devlin. Appena torniamo, facciamo un controllo al computer e vediamo se ha qualcosa sulla fedina penale.»

«Dio, quasi spero che si riveli così semplice» fece Cassie. «In quella casa mi sembrano tutti fuori di testa, e anche molto.»

Ero felice e sollevato che lo avesse detto. Avevo trovato una quantità di cose sui Devlin che mi inquietavano: Jonathan e Margaret non si erano toccati una sola volta, a stento si erano guardati; dove ci saremmo aspettati un andirivieni di vicini curiosi e solidali, non c'era invece nessuno tranne la spettrale zia Vera. Ogni componente della famiglia sembrava provenire da un pianeta completamente diverso. Ma poiché, da individuo irritabile qual ero, non potevo fidarmi del mio giudizio, mi faceva piacere sapere che anche Cassie aveva percepito qualcosa di anomalo. Non mi stava venendo un esaurimento, né stavo perdendo il controllo della mente o altro, sapevo che sarei stato bene una volta che fossi arrivato a casa e mi fossi seduto per un po' da solo a far sedimentare il tutto; ma quella prima visione di Jessica mi aveva quasi fatto venire un infarto, e sapere poi che era la sorella gemella di Katy non era servito a rassicurarmi come avrebbe dovuto. Quel caso era troppo pieno di parallelismi sghembi e scivolosi, e non riuscivo a scrollarmi di dosso la fastidiosa sensazione che in qualche modo fossero deliberati; tutte le coincidenze sembravano una bottiglia che il mare aveva fatto arrivare sulla sabbia, ai miei piedi, con il mio nome inciso a chiare lettere sul vetro e all'interno un messaggio scritto in un codice beffardamente indecifrabile.

La prima volta che andai in collegio, raccontai ai miei compagni che avevo un fratello gemello. Mio padre era un discreto fotografo dilettante e un sabato di quell'estate, dopo che ci aveva visti tentare una nuova acrobazia con la bici di Peter, cioè andare a tutta velocità sul muretto del giardino che ci arrivava al ginocchio e prendere il volo alla fine, ce lo fece fare e rifare all'infinito, per mezzo pomeriggio, mentre lui se ne stava accovacciato nell'erba a cambiare obiettivi, finché non ebbe usato un intero rullino in bianco e nero e non ebbe ottenuto lo scatto desiderato: siamo a mezz'aria; io guido e Peter è sul manubrio con le braccia spalancate, entrambi abbiamo gli occhi ermeticamente chiusi, le bocche sono spalancate come caverne (le alte e stridule grida dei ragazzi) e i capelli al vento sono aureole fiammeggianti. Sono praticamente certo che subito dopo lo scatto precipitammo rotolando sul prato e che mia madre se la prese con mio padre per averci incoraggiato. Non c'è terreno nel fotogramma, cosicché sembra che stiamo volando, in assenza di gravità, contro lo sfondo del cielo.

Incollai la foto a un cartoncino, lo appoggiai sull'armadietto di fianco al letto, dove avevamo il permesso di tenere due foto di famiglia, e raccontai agli altri ragazzi storie molto particolareggiate, alcune vere, altre immaginarie e, ne sono certo, assolutamente non plausibili, di avventure che io e il mio gemello avevamo affrontato durante le vacanze. Lui era in un'altra scuola, dicevo, in Irlanda; i nostri genitori avevano letto che era più sano se i gemelli venivano separati. E stava imparando ad andare a cavallo.

Quando tornai per il secondo anno capii che era solo questione di tempo e la storia del gemello mi avrebbe messo nei guai, guai seri e imbarazzanti: qualche compagno che avesse incontrato i miei genitori ai Giochi della Gioventù avrebbe chiesto cinguettante perché non fosse venuto anche Peter. Così lasciai la foto a casa, infilata in una fessura del materasso come fosse un segreto sporco, e smisi di citare mio fratello nella speranza che tutti si dimenticassero che ce l'avevo. Un ragazzino di nome Full, versione ridotta di Quigley che quando diventammo un po' più grandicelli era quello che se ne veniva sempre fuori con una tortura nuova per i gay, percepì il mio disagio e si attaccò all'argomento, così che alla fine dovetti raccontargli che il mio gemello era stato sbalzato da cavallo quell'estate ed era morto per la caduta. Passai gran parte di quell'anno nel terrore che la chiacchiera sul fratello morto di Ryan giungesse alle orecchie degli insegnanti e, tramite loro, ai miei genitori. Ora, naturalmente, sono quasi certo che la cosa si verificò e che gli insegnanti, già informati della saga di Knocknaree, decisero di essere sensibili e comprensivi (rabbrividisco ancora al solo pensarci) e lasciarono scemare la chiacchiera su quella morte. Penso di averla scampata per un pelo: un po' più avanti negli anni Ottanta mi avrebbero con ogni probabilità spedito da uno strizzacervelli per bambini e obbligato a condividere i miei sentimenti con pupazzetti per le dita.

Tuttavia mi dispiaceva essermi dovuto liberare del mio gemello. Era stato confortante sapere che Peter era vivo e a cavallo, da qualche parte, in una ventina di altre menti come la mia. Se nella foto ci fosse stata anche Jamie, probabilmente avrei tirato fuori che ero uno di tre gemelli e sarebbe stato molto più difficile trovare una via d'uscita.


Quando tornammo al sito, i giornalisti erano arrivati. Rifilai loro l'imbonimento standard preliminare (è la parte che mi tocca, sulla base che io, più di Cassie, ho l'aspetto dell'adulto responsabile): cadavere di ragazzina, nome da non rivelare fino a quando i parenti non ne saranno stati informati, stiamo trattando la faccenda come morte sospetta, chiunque ritenga di avere delle informazioni utili è pregato di contattarci… no comment no comment no comment.

«È opera di una setta satanica?» chiese un donnone in pantaloni di acetato che le donavano poco. L'avevamo già conosciuta; lavorava per uno di quei tabloid con la tendenza ai titoli con giochi di parole e un'ortografia alternativa.

«Non ci sono assolutamente prove che lo indichino» risposi, un po' altezzoso. In realtà non ci sono mai. I culti satanici omicidi sono come lo yeti per i detective: nessuno ne ha mai visto uno e non c'è dimostrazione che esistano, ma basta un'impronta un po' più grossa e indistinta e i media si trasformano in un branco schiumante e rabbioso, così dobbiamo comportarci come se, almeno in parte, prendessimo seriamente in considerazione l'idea.

«Ma è stata trovata su un altare che i Druidi usavano per i sacrifici umani, no?» insistette la donna.

«No comment» risposi. Mi era appena venuto in mente: la lastra di pietra con la scanalatura lungo il bordo mi ricordava il tavolo dell'autopsia con i canaletti per far defluire il sangue. M'ero così dannato nel tentativo di ricondurre quella pietra al 1984 quando invece si trattava di ricordi più recenti, di qualche mese prima soltanto. Cristo.

Alla fine i giornalisti mollarono la presa e cominciarono ad andarsene. Cassie era rimasta seduta sui gradini della baracca dei reperti, mescolandosi con il panorama e tenendo le cose sott'occhio. Quando vide la cicciona puntare su Mark, che era uscito dalla mensa e si dirigeva verso il container della toilette, si alzò e si incamminò verso di loro, facendo in modo che Mark la scorgesse. Vidi che si scambiavano uno sguardo, alle spalle della giornalista, e che Cassie scuoteva la testa, divertita, lasciandoli poi agli affari loro.

«Che problema c'era?» chiesi, mentre cercavo la chiave della baracca.

«Le sta tenendo una lezione sul sito» rispose Cassie, dandosi manate ai pantaloni per togliersi la polvere, e sorrise. «Ogni volta che lei cerca di chiedergli qualcosa sul cadavere, lui le dice "un attimo" e va avanti con la pantomima sul governo che sta per distruggere la scoperta più importante dai tempi di Newgrange, oppure inizia a parlarle di insediamenti vichinghi. Mi piacerebbe un mondo stare qui a godermi la scena; credo che la signora potrebbe aver trovato finalmente pane per i suoi denti.»


Tutti gli altri archeologi non ebbero granché da aggiungere, tranne lo Scultore, che in realtà si chiamava Sean e riteneva che dovessimo prendere in considerazione la possibilità del coinvolgimento di un vampiro. Divenne molto più serio quando gli mostrammo la foto identificativa, ma sebbene anche lui, come gli altri, avesse visto Katy, o forse Jessica, bazzicare al sito a volte con altri ragazzini della loro età, altre con una ragazza più grande che corrispondeva alla descrizione di Rosalind, nessuno aveva notato qualche personaggio strano che la osservasse o cose del genere. In realtà, nessuno di loro aveva visto nulla di sinistro, «tranne qualche politico che si presenta per farsi scattare una foto davanti al suo patrimonio storico prima di mandarlo a puttane. Volete qualche descrizione?» aggiunse Mark. Nessuno ricordava nemmeno l'Ombra in Tuta Sportiva, il che rafforzava il mio sospetto che fosse stato o un tipo assolutamente normale che abitava nella zona residenziale ed era andato a farsi una passeggiata oppure l'amico immaginario di Damien. In tutte le indagini c'è gente così, gente che finisce per farti sprecare montagne di tempo perché ha l'impulso di rivelarti cose che crede tu voglia sentirti dire.

Gli archeologi di Dublino, e cioè Damien, Sean e qualche altro, erano tutti a casa propria il lunedì e il martedì notte; il resto era nella casa che avevano affittato, a quattro-cinque chilometri dallo scavo; Hunt, che naturalmente si rivelò molto lucido su tutto ciò che riguardava l'archeologia, era rimasto a casa, a Lucan, con la moglie. Confermò la teoria della giornalista grassa secondo la quale la pietra su cui era stata gettata Katy era un altare sacrificale dell'Età del Bronzo. «Non siamo certi che si trattasse di sacrifici umani o animali, naturalmente, anche se… ehm… la forma indicherebbe che potrebbero essere stati umani. Le dimensioni sarebbero quelle giuste. Un manufatto molto raro. Significa che questa collina era un luogo di profonda importanza religiosa nell'Età del Bronzo, capite? Che peccato… questa strada.»

«Avete trovato altre strutture religiose druidiche?» chiesi. Se quel luogo si fosse rivelato una Newgrange Due, ci sarebbero voluti mesi prima di poter districare il caso dalla frenesia mediatica new age che si sarebbe scatenata.

Hunt mi rivolse uno sguardo ferito. «Assenza di evidenza non è evidenza di assenza» mi disse con tono di rimprovero.

Fu l'ultimo a essere interrogato. Mentre stavamo mettendo via la nostra roba, il tecnico giovane del laboratorio bussò debolmente alla porta e mise la testa dentro. «Ehm» cominciò. «Salve. Sophie mi manda a dirvi che per oggi abbiamo finito e che c'è un'altra cosa che forse dovreste vedere.»

Avevano raccolto gli indicatori e lasciato la pietra al suo destino, di nuovo in mezzo al campo, cosicché l'intero sito ora sembrava deserto; i giornalisti se n'erano andati da un pezzo e gli archeologi erano tornati tutti a casa, tranne Hunt, che in quel momento stava salendo su un'infangata Ford Fiesta rossa. Poi, fuori dall'agglomerato di baracche, scorsi qualcosa di bianco tra gli alberi.

La routine collaudata e senza scossoni dei colloqui era servita se non altro a stabilizzare il mio umore (Cassie chiama questi colloqui preliminari di esplorazione "fase del niente" del caso: nessuno ha visto "niente", nessuno ha sentito "niente", nessuno ha fatto "niente"), ciononostante sentii qualcosa che mi saettava lungo la spina dorsale mentre mettevamo piede nel bosco; non paura quanto piuttosto una scossa d'allarme, come quando qualcuno ti sveglia chiamandoti per nome o quando un pipistrello grida a un tono troppo elevato per poterlo sentire. Il sottobosco era spesso e morbido d'anni di foglie cadute che affondavano sotto il peso dei miei piedi, e gli alberi erano cresciuti abbastanza da filtrare la luce e trasformarla in un riverbero verde e incessante.

Sophie e Helen ci stavano aspettando in una piccola radura, un centinaio di metri all'interno. «Ho lasciato tutto così com'è perché poteste dare un'occhiata» spiegò Sophie, «ma voglio raccogliere tutta questa merda in un sacchetto prima che cominci a fare buio. Non voglio montare l'impianto di illuminazione.»

Qualcuno aveva usato la radura per campeggiarci. Una zona delle dimensioni di un sacco a pelo era stata liberata dai rami più appuntiti e lo strato di foglie appariva ben pressato; a qualche metro di distanza, in un ampio cerchio di terra nuda, c'erano i resti di un fuoco da campo. Cassie emise un fischio.

«È il punto dove è avvenuta l'uccisione?» domandai, senza troppa speranza. Se così fosse stato, Sophie sarebbe venuta a interrompere i nostri colloqui.

«Ma figuriamoci» rispose. «Abbiamo condotto una ricerca minuziosa: nessun segno di lotta e non una sola goccia di sangue. Si è rovesciato qualcosa vicino al falò ma il test è risultato negativo e dall'odore sono praticamente certa che sia vino rosso.»

«Allora è un campeggiatore d'alto bordo» commentai, inarcando le sopracciglia. Mi ero immaginato un barbone bucolico, ma le forze di mercato sono tali per cui "avvinazzato", in Irlanda, è un termine metaforico: l'ubriacone medio va a sidro forte o vodka da poco, non a vino. Mi chiesi se poteva trattarsi di una coppia con tendenze avventurose o nessun altro posto dove andare, ma le dimensioni dello strato di foglie schiacciate potevano accogliere a malapena una persona. «Trovato altro?»

«Analizzeremo la cenere per vedere se hanno bruciato abiti intrisi di sangue o roba del genere, ma sembra proprio solo legno. Abbiamo delle impronte di scarponi, cinque mozziconi di sigaretta e questo.» Sophie mi passò un sacchetto di plastica trasparente etichettato con un pennarello. Lo alzai verso la luce verde e Cassie si avvicinò per guardare da dietro la mia spalla: un capello, lungo, biondo e ondulato. «L'abbiamo trovato vicino al fuoco» chiarì Sophie, facendo scattare col pollice il cappuccio del pennarello.

«Abbiamo un'idea di quando è stato usato questo luogo?» chiese Cassie.

«Sulla cenere non è piovuto. Controllerò le precipitazioni di questa zona, ma so che dove vivo io è piovuto lunedì mattina presto.» Lo ricordavo anch'io: mi ero svegliato e pioveva, di quella pioggia sottile e stizzosa che sembra intenzionata a continuare all'infinito, anche se a mezzogiorno si era già schiarito. «E sto a soli cinque chilometri. Perciò qualcuno è stato qui ieri notte o la notte prima.»

«Posso vedere i mozziconi?» domandai.

«Fa' pure» disse Sophie. Trovai una maschera e un paio di pinzette nella mia borsa (avremmo potuto ricavare il DNA dai mozziconi o le impronte) e mi accovacciai vicino a uno degli indicatori posizionati nei pressi del falò. Il mozzicone era di una sigaretta arrotolata, sottile e fumata fino in fondo; uno che stava molto attento a non sprecare tabacco.

«Mark Hanly fuma sigarette fatte a mano» dissi mentre mi rialzavo. «E ha i capelli lunghi e biondi.»

Cassie e io ci guardammo. Erano già le sei passate e O'Kelly avrebbe chiamato di lì a poco per avere un primo rapporto. Con Mark ci avremmo messo un po', anche dando per scontato che non ci fossimo persi in quel dedalo di stradine e avessimo trovato la casa degli archeologi.

«Lascia stare, gli parliamo domani» risolse Cassie. «Voglio andare a trovare l'insegnante di balletto mentre rientriamo. E poi sto svenendo dalla fame.»

«È come avere un cagnolino» dissi a Sophie. Helen parve scioccata.

«Sì, ma col pedigree» protestò allegramente Cassie.

Notai che le mie scarpe erano un disastro, proprio come aveva previsto Mark, con robaccia rossastra e marrone in ogni cucitura, ed erano anche state delle belle scarpe. Mi consolai all'idea che anche quelle del killer sarebbero state nella stessa situazione. Mentre tornavamo alla mia auto attraverso il sito mi guardai indietro, verso il bosco, e vidi nuovamente un fluttuare di bianco: Sophie, Helen e il giovane tecnico del laboratorio si muovevano tra gli alberi, silenziosi e intenti come fantasmi.


La Cameron Dance Academy era ubicata sopra una videoteca di Stillorgan. In strada, tre ragazzi con pantaloni cascanti si esercitavano con gli skateboard su un muretto basso e gridavano. L'assistente dell'insegnante, una ragazza molto carina di nome Louise, indossava una tutina nera attillata e scarpette a punta anch'esse nere, oltre a una gonna lunga fino a metà polpaccio; Cassie mi rivolse un'occhiata divertita mentre la seguivamo lungo le scale. La ragazza ci fece accomodare e ci disse che Simone Cameron stava terminando una lezione, così attendemmo sul pianerottolo.

Cassie si spostò verso una bacheca di sughero appesa al muro e io mi guardai attorno. C'erano due sale, con piccole finestre rotonde sulle porte: in una, Louise stava mostrando a un gruppetto di bambini come fare la farfalla o l'uccellino o qualcosa del genere; nell'altra, una decina di ragazzine in tutù bianchi e calzamaglia rosa si muovevano in coppie con salti e giravolte, mentre in sottofondo, da un vecchio giradischi, proveniva un gracchiante Valse des Fleurs. Per quanto mi era possibile giudicare, c'erano, per usare un eufemismo, un'ampia gamma di abilità. La donna che insegnava aveva i capelli bianchi raccolti in una crocchia molto tirata, ma il corpo era snello ed essenziale come quello di una giovane atleta; era vestita come Louise e teneva in mano una bacchetta con la quale toccava le caviglie e le spalle delle ragazzine e impartiva istruzioni.

«Guarda qui» fece Cassie a bassa voce.

Il poster era di Katy Devlin, anche se mi ci volle un po' a riconoscerla. Indossava una camiciola di garza bianca e aveva una gamba sollevata dietro di sé a formare un arco impossibile eppure realizzato senza sforzo. Sotto la foto, la scritta a larghe lettere: MANDIAMO KATY ALLA ROYAL BALLET SCHOOL! AIUTIAMOLA A RENDERCI ORGOGLIOSI! E si fornivano i dettagli della raccolta fondi: "Saletta della parrocchia di St. Alban, 20 giugno, ore 19, serata di ballo con gli studenti della Cameron Dance Academy. Biglietti: 10 euro / 7 euro. Tutto l'incasso sarà devoluto al pagamento delle tasse di frequenza di Katy". Mi chiesi cosa ci avrebbero fatto adesso con quel denaro.

Sotto il poster c'era un ritaglio di giornale, con uno scatto artistico di Katy alla barra; i suoi occhi, nello specchio, scrutavano il fotografo con una gravità intensa e senza età. La piccola ballerina di Dublino prende il volo, "The Irish Times" del 23 giugno: «"La mia famiglia mi mancherà, ma non vedo l'ora" ha dichiarato Katy. "Fin da quando avevo sei anni ho sempre voluto diventare una ballerina. Non riesco a credere che andrò veramente; a volte, quando mi sveglio, penso di aver soltanto sognato."» Sicuramente l'articolo doveva aver sollecitato donazioni per le tasse di Katy, ecco un'altra cosa che avremmo dovuto controllare. Però non ci aveva reso un favore: anche i pedofili leggono i giornali, e si trattava di una foto che attirava gli sguardi, così il campo dei potenziali sospetti si era appena allargato fino a includere praticamente l'intero Paese. Diedi un'occhiata agli altri annunci: tutù in vendita, taglia 38-40; qualcuno che viveva nella zona di Blackrock era interessato a fornire un mezzo di trasporto, andata e ritorno, per gli Intermedi?

La porta della stanza si aprì e un'orda di ragazzine tutte uguali ci sommerse, chiacchierando, spingendo e gridando insieme. «Cosa posso fare per voi?» ci chiese Simone Cameron, dalla soglia.

Aveva una bellissima voce, profonda come quella di un uomo ma per niente maschile, ed era più vecchia di quanto avessi pensato: la faccia era ossuta e solcata da rughe profonde che si intrecciavano. Capii che ci aveva presi per una coppia di genitori venuti a chiedere informazioni per la loro figlia e per un istante ebbi l'impulso incontrollabile di assecondarla, di chiedere costi e orari per poi andarcene, lasciandole la sua illusione e la sua studentessa modello per un altro po'.

«Signora Cameron?»

«Simone, ve ne prego» disse. Aveva occhi straordinari, quasi dorati, grandi e dalle palpebre pesanti.

«Sono il detective Ryan, e lei è il detective Maddox» ci presentai, per la centesima volta quel giorno. «Possiamo parlarle per qualche minuto?»

Ci portò nella stanza e i nostri passi risuonarono sul pavimento di legno pallido. Sistemò tre sedie in un angolo. Uno specchio occupava tutta una parete e tre sbarre correvano per tutta la sua lunghezza, posizionate a tre diverse altezze. Poiché con la coda dell'occhio mi vedevo continuamente riflesso e la mia testa sembrava muoversi a scatti, riposizionai la sedia con un'altra angolatura.

Informai Simone della morte di Katy, era decisamente il mio turno. Mi ero aspettato che piangesse, credo, ma non lo fece: spostò la testa un po' all'indietro, i solchi del volto si approfondirono, ma fu tutto.

«Ha visto Katy a lezione lunedì sera, vero?» chiesi. «Come le è sembrata?»

Sono poche le persone che riescono a reggere il silenzio, ma Simone Cameron era particolare: attese, senza muoversi, con un braccio allungato dietro lo schienale della sedia, finché non fu pronta a parlare. Dopo un bel po', disse: «Come sempre. Forse un po' sovreccitata. Ci ha messo alcuni minuti per tranquillizzarsi e concentrarsi, ma era naturale: stava per andare alla Royal Ballet School. Si era emozionata sempre più col passare dell'estate». Voltò la testa leggermente da una parte. «Ieri sera non è venuta a lezione, ma ho pensato che fosse di nuovo malata. Se avessi chiamato i suoi genitori…»

«Ieri sera era già morta» intervenne Cassie con dolcezza. «Non c'era più nulla che lei potesse fare.»

«Di nuovo malata?» chiesi. «Era stata malata di recente?»

Simone scosse la testa. «No, non di recente. Ma non ha una salute di ferro.» Abbassò le palpebre per un istante e gli occhi ne furono nascosti. «Aveva» si corresse, e le riaprì. «Sono l'insegnante di Katy da sei anni. Per molti di questi, forse a cominciare da quando ne aveva nove, è stata spesso malata. E anche sua sorella Jessica, ma lei aveva il raffreddore, la tosse: credo sia semplicemente cagionevole. Katy soffriva di periodi di vomito, diarrea; a volte talmente seri da richiedere ricoveri in ospedale. I medici pensavano che si trattasse di una forma di gastrite cronica. Sarebbe dovuta andare alla Royal Ballet School l'anno scorso, sapete, ma ebbe un attacco acuto alla fine dell'estate e dovettero operarla per capire cosa avesse; quando si riprese, il trimestre era già molto avanti e lei non avrebbe potuto recuperare. Dovette ripetere il provino in primavera.»

«E di recente gli attacchi erano scomparsi?» chiesi. Dovevamo dare un'occhiata alle cartelle cliniche di Katy, e in fretta.

Simone sorrise al ricordo; fu una piccola cosa, ma che colpiva. Distolse gli occhi. «Mi premeva che stesse sufficientemente bene per seguire il corso, i ballerini non possono permettersi di saltare troppe lezioni per problemi di salute. Quando quest'anno Katy venne nuovamente accettata, un giorno la trattenni, alla fine della lezione, e le dissi che avrebbe dovuto continuare a vedere un medico per scoprire cosa c'era che non andava. Katy stette ad ascoltarmi, poi scosse la testa e disse, in tono molto solenne, come fosse un voto: "Non starò più male". Cercai di farle capire che non era una cosa da ignorare, che la sua carriera poteva dipendere da questo, ma non volle aggiungere altro. E in effetti da allora non è più stata male. Pensai semplicemente che avesse superato la cosa; la volontà può essere molto potente e Katy ha… aveva una fortissima volontà.»

L'altra lezione stava finendo; sentivo le voci dei genitori sul pianerottolo, un'altra ondata di piedini, il loro cicaleccio. «Insegnava anche a Jessica?» chiese Cassie. «Ha fatto anche lei il provino per la Royal Ballet School?» Agli inizi di un'indagine, a meno che non si abbia per le mani un sospetto ovvio, tutto ciò che si può fare è scoprire il più possibile della vita della vittima e sperare che suoni qualche campanello d'allarme. Ero certo che Cassie avesse ragione, avevamo bisogno di sapere altre cose sulla famiglia Devlin. E Simone Cameron voleva parlare. È un fenomeno in cui ci imbattiamo spesso, persone che vogliono continuare a parlare, disperatamente, perché quando smettono noi ce ne andiamo e loro restano sole con ciò che è accaduto. Noi ascoltiamo, facciamo di sì con la testa, siamo partecipi e immagazziniamo tutto ciò che dicono.

«Ho insegnato a tutte e tre le sorelle, in periodi diversi» rispose Simone. «Jessica sembrava bravina da piccola e lavorava sodo; ma a mano a mano che cresceva si faceva sempre più timida, in maniera paralizzante, al punto che qualsiasi esercizio pareva uno sforzo immane da portare a termine, e così lo dissi ai suoi genitori: dissi loro che a mio parere era meglio che non avesse più dovuto affrontare tutto questo.»

«E Rosalind?» chiese Cassie.

«Rosalind aveva del talento, ma non si applicava e pretendeva risultati immediati; dopo qualche mese passò a un corso di violino, credo. Disse che era una scelta dei suoi genitori, ma credo che fosse lei a essere annoiata. Lo vediamo spesso nei bambini piccoli: quando non vedono subito dei risultati e quando si rendono conto del tipo di impegno che è richiesto, diventano frustrati e mollano. Francamente, nessuna delle due sarebbe mai arrivata alla Royal Ballet School.»

«Ma Katy…» cambiò soggetto Cassie, sporgendosi in avanti.

Simone la osservò a lungo. «Katy era… sérieuse.»

Ecco cosa dava alla sua voce quella qualità distintiva: da qualche parte, lontano, c'era un tocco di francese che dava forma alle intonazioni. «Seria» precisai.

«Di più» disse Cassie. Sua madre era mezzo francese e da bambina aveva trascorso estati intere con i nonni in Provenza; dice di avere dimenticato gran parte del francese parlato ormai, ma lo capisce ancora. «Una professionista.»

Simone reclinò la testa. «Esatto. Lei adorava anche il duro impegno, non solo i risultati che portava, le piaceva di per sé. Un vero talento per la danza non è comune; il temperamento per farne una carriera è ancora più raro. Trovarli entrambi riuniti insieme…» Distolse nuovamente lo sguardo. «Certe sere, quando veniva utilizzata solo una delle sale, mi chiedeva di potersi esercitare nell'altra.»

Fuori, il giorno cominciava a declinare verso la sera; gli urli dei ragazzi con gli skateboard arrivavano deboli e cristallini attraverso il vetro. Pensai a Katy Devlin sola nella stanza, a osservarsi nello specchio, assorta, distaccata e seria al tempo stesso, mentre si muoveva in lente rotazioni e flessioni; un piede teso che si sollevava; i lampioni in strada che stampavano rettangoli color zafferano sul pavimento; le Gnossiennes di Satie che uscivano dal gracchiante giradischi. Simone stessa sembrava una molto sérieuse e mi chiesi come mai fosse finita lì, sopra una videoteca di Stillorgan, con l'odore di unto che saliva dal negozio di patatine fritte a fianco, a insegnare danza a ragazzine con madri che pensavano avrebbe dato loro una buona postura o che volevano foto in tutù da incorniciare. Improvvisamente mi resi conto di cosa doveva aver significato per lei Katy Devlin.

«Cosa pensavano i signori Devlin del fatto che Katy andasse alla scuola di balletto?» chiese Cassie.

«La sostenevano molto» rispose Simone, senza esitazioni. «Ne fui sollevata, e anche sorpresa. Non tutti i genitori sono disposti a lasciare andare via una figlia di quell'età e molti, con buona ragione, sono contrari all'idea che le loro figlie diventino ballerine professioniste. Il signor Devlin, in particolare, era molto contento. Erano molto vicini, credo. Mi piaceva questa cosa, voglio dire che volesse ciò che era meglio per lei anche se significava lasciarla andare via.»

«E sua madre?» proseguì Cassie. «Le era vicina anche lei?»

Simone scrollò leggermente una spalla. «Meno, credo. La signora Devlin è… piuttosto vaga; sembra sempre stupirsi di tutte le sue figlie. Non credo sia molto intelligente.»

«Ha notato qualche presenza strana qui intorno, nei mesi scorsi?» chiesi. «Qualcuno che le ha dato da pensare?» Le scuole di balletto, le piscine e i gruppi scout sono calamite per i pedofili. Se qualcuno era andato a caccia di una vittima, quello era il posto più ovvio dove avrebbe potuto individuare Katy.

«Capisco cosa intende, ma no. Ci stiamo attente. Una decina di anni fa c'era un uomo che se ne stava sempre seduto su un muro sulla collina e guardava dentro la scuola con un binocolo; abbiamo sporto denuncia alla polizia, ma non hanno fatto nulla finché non tentò di convincere una delle bambine a salire in auto con lui. Da allora facciamo molta attenzione.»

«C'è stato qualcuno che ha mostrato per Katy un interesse secondo lei inappropriato?»

Simone ci pensò, poi scosse la testa. «Nessuno. Tutti ammiravano le sue doti di ballerina, molta gente ha contribuito alla raccolta dei fondi per le sue tasse di frequenza, ma nessuno più di altri.»

«C'era qualcuno geloso del suo talento?»

Simone rise e fu un suono forte e rapido attraverso il naso. «Questo non è uno stage per genitori. Vogliono che le loro figlie imparino un po' a ballare, quel tanto che basta perché siano carine; non vogliono che diventi una carriera vera e propria. Sono sicura che qualcuna delle altre bambine fosse gelosa, sì. Ma tanto da ucciderla? No.»

D'un tratto, sembrava esausta. La sua elegante posa non era cambiata, ma gli occhi erano velati di fatica. «Grazie del suo tempo» dissi. «La ricontatteremo se avremo bisogno di chiederle altro.»

«Ha sofferto?» chiese inaspettatamente. Non ci stava guardando.

Era la prima persona a volerlo sapere. Stavo per darle la classica non risposta, che eravamo in attesa dei risultati dell'autopsia, quando Cassie intervenne: «Non ci sono prove che lo dimostrino. Non possiamo ancora esserne certi, ma pare sia stata una cosa rapida».

Con un certo sforzo, Simone voltò la testa e incrociò lo sguardo di Cassie. «Grazie» le disse.

Non si alzò per accompagnarci e io pensai che forse non era sicura di potercela fare. Mentre richiudevo la porta, le lanciai un'ultima occhiata attraverso la finestra rotonda: era ancora seduta, con la schiena dritta, immobile e con le mani piegate in grembo, la regina di una favola lasciata sola nella torre a piangere la sua principessa perduta, portata via da una strega.


«"Non starò più male"» ripeté Cassie, in auto. «E così è stato.»

«Volontà, come ha detto Simone?»

«Forse.» Ma non sembrava convinta.

«O magari stava male apposta» suggerii. «Vomito e diarrea sono abbastanza facili da indurre. Magari cercava di attirare l'attenzione e una volta entrata alla scuola di balletto non ne aveva più bisogno. Riceveva tutta l'attenzione che voleva anche senza stare male, articoli di giornale, raccolta fondi e così via.» Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di mitico e meraviglioso nell'idea di avere un gemello identico, ma capivo che nella realtà poteva condurre a molta concorrenza nella ricerca di attenzioni, e avere una sorella maggiore come Rosalind di certo non sarebbe d'aiuto. «Ho bisogno di una sigaretta.»

«Sindrome di Münchhausen?» propose Cassie allungando una mano dietro per cercare le sigarette nella tasca della mia giacca. Io fumo Marlboro rosse. Cassie non è fedele a una sola marca ma in genere compra Lucky Strike Lights, che io considero sigarette da femmina. Ne accese due e me ne passò una. «Riusciamo a recuperare anche le cartelle cliniche delle due sorelle?»

«Rischioso» dissi. «Sono vive, quindi vale la riservatezza. Ma se ottenessimo il consenso dei genitori…» Fu Cassie questa volta a scuotere il capo. «Perché, a cosa stai pensando?»

Abbassò il vetro del finestrino di qualche centimetro e il vento le scompigliò la frangia. «Non so… la gemella, Jessica… il fatto che sembri spaesata come un uccellino caduto dal nido potrebbe avere a che fare con lo stress della sparizione di Katy, ma è comunque magrissima. Anche sotto quella maglia enorme si vedeva che era almeno la metà di Katy, e la stessa Katy non era un gigante. E l'altra sorella… c'è qualcosa di poco chiaro anche in lei.»

«Rosalind?»

Forse per un che di strano nel tono della mia voce, Cassie mi lanciò un'occhiata di sghembo. «Ti piace.»

«Sì, direi di sì» ammisi, sulla difensiva senza sapere perché. «Sembra una brava ragazza. È molto protettiva con Jessica. Perché, a te no?»

«E questo cosa c'entra?» fece lei con freddezza e, mi parve, un po' ingiustamente. «A prescindere da chi l'apprezza, si veste in modo strano, mette troppo trucco…»

«È ben curata, quindi cosa c'è di sbagliato?»

«Senti, Ryan, fa' un favore a entrambi e cresci. Sai esattamente cosa intendo. Sorride quando non deve e, lo avrai notato certamente anche tu, non portava il reggiseno.» L'avevo notato ma non mi ero reso conto che l'avesse fatto anche Cassie, e la cosa mi irritò. «Magari è una brava ragazza sul serio, ma c'è qualcosa che mi puzza.»

Non aggiunsi altro. Cassie gettò quello che restava della sigaretta fuori dal finestrino, si infilò le mani nelle tasche e sprofondò nel sedile come un'adolescente imbronciata. Accesi le luci di posizione e aumentai la velocità. Ero scocciato e sapevo che anche lei lo era con me, ma non sapevo bene come fosse successo.

Il cellulare di Cassie squillò. «Oh, santo cielo…» sbottò lei, guardando lo schermo. «Buonasera, signore… Pronto?… Pronto?… Signore?… Maledetti cellulari.» E riattaccò.

«Cattiva ricezione?» dissi freddamente.

«La fottuta ricezione andava benissimo» rispose lei. «Voleva solo sapere quando saremmo rientrati e perché ci mettevamo tanto… e non avevo voglia di parlargli.»

Di solito riesco a tenere il broncio più a lungo di Cassie, lei non ha un livello di attenzione sufficiente per quel tipo di cose, ma non ce la feci a trattenermi e mi misi a ridere. Dopo un istante, scoppiò a ridere anche Cassie.

«Ascolta» disse, «non volevo fare la stronza con Rosalind. Sono preoccupata.»

«Stai pensando a un abuso sessuale?» In qualche remota parte della mia mente, quel pensiero si era affacciato, ma mi aveva disturbato a tal punto che lo avevo rimosso. Una sorella eccessivamente sexy, una molto sottopeso e una assassinata, dopo varie e misteriose malattie. Ripensai alla testa di Rosalind piegata su quella di Jessica e provai un improvviso quanto insolito impeto di protezione. «Il padre abusa di loro. La strategia di Katy per gestire la cosa è stare male, per odio contro se stessa o per ridurre le occasioni di abuso. Quando l'accettano alla scuola, decide che deve stare bene e che il ciclo deve arrestarsi; magari affronta il padre, minaccia di rivelare tutto. Così lui la uccide.»

«Ci può stare» ammise Cassie. Stava guardando gli alberi che le scorrevano accanto, lungo il bordo della superstrada, e le vedevo solo la nuca. «Ma, per esempio, ci può stare anche la madre se salta fuori che Cooper si è sbagliato sulla violenza sessuale. Sindrome di Münchhausen per procura. Sembrava proprio incarnare il ruolo della vittima, l'hai notato?»

L'avevo notato. A volte, il dolore e lo strazio rendono anonimi con la stessa efficacia di una maschera da tragedia greca, altre volte riducono la gente all'essenziale. E questo è il vero e gelido motivo per cui, naturalmente, cerchiamo di essere noi a informare le famiglie della perdita che hanno subito, piuttosto che lasciare il compito agli agenti in divisa: non per mostrare quanto siamo sensibili, ma per vedere come reagiscono. Avevamo portato così tante cattive notizie da saper riconoscere le variazioni. La maggior parte delle persone rimane scioccata e frastornata, sta in piedi a fatica, senza alcuna idea di cosa fare con ciò che si ritrova per le mani; la tragedia è un territorio nuovo che deve affrontare senza una guida, che deve imparare a elaborare e a gestire passo intontito dopo passo intontito. Margaret Devlin non era rimasta sorpresa. Era anzi sembrata quasi rassegnata, come se dolore e strazio fossero la caratteristica del suo stato.

«Quindi essenzialmente lo stesso modello» dissi. «Fa star male una o tutte le sue figlie e quando Katy, accettata alla scuola di balletto, cerca di uscire dallo schema la madre la uccide.»

«Potrebbe anche spiegare perché Rosalind si veste come una quarantenne» aggiunse Cassie. «Cerca di essere un'adulta per sfuggire alla madre.»

Squillò il mio, di cellulare. «Oh, che palle!» esclamammo all'unisono.


Rifeci la scenetta della cattiva ricezione e passammo il resto del tempo in auto a redigere una lista di possibili linee di indagine. O'Kelly ama gli elenchi; un buon elenco avrebbe potuto distrarlo dalla sfuriata che ci avrebbe sicuramente riservato per non averlo richiamato.

Noi lavoriamo praticamente al Castello di Dublino e, nonostante tutte le connotazioni coloniali, questo è uno degli elementi che mi gratificano di più del mio lavoro. All'interno, gli uffici sono stati amorevolmente sistemati così da essere come qualsiasi altro ufficio aziendale del Paese: cubicoli, luci fluorescenti epilettiche, moquette che rilascia scariche elettrostatiche e pareti dai colori istituzionali, direttamente da sogni orwelliani al formaggio. Ma l'esterno degli edifici è protetto dalla sovrintendenza e quindi è ancora intatto: oro, mattoni rossi decorati e marmo, con merlature e torrette e sculture corrose di santi nei punti più imprevedibili. D'inverno, nelle sere nebbiose, percorrere gli spazi acciottolati è come attraversare Dickens: tenui lampioni dorati che lanciano ombre con strane angolature, campane che suonano nelle vicine cattedrali, passi che echeggiano nell'oscurità. Cassie dice che ci si può quasi fingere tanti ispettori Abberline al lavoro sugli omicidi di Jack lo Squartatore. Una sera del mese di dicembre, sotto una luna piena che illuminava tutto, si mise a fare la ruota nel cortile centrale.

La finestra dell'ufficio di O'Kelly era illuminata ma, per il resto, l'edificio era al buio. Erano le sette passate e se ne erano andati tutti a casa. Ci intrufolammo il più silenziosamente possibile. Cassie andò in punta di piedi in ufficio per il controllo al computer su Mark e i Devlin e io scesi nel seminterrato dove conserviamo i fascicoli dei vecchi casi. Cantina per il vino in passato, quei burloni della squadra Design aziendale non ci sono ancora arrivati perciò è ancora tutta pietra e colonne e campate con archi bassi. Cassie e io ci siamo ripromessi che un giorno ci porteremo un paio di candele, nonostante ci sia la luce elettrica e in aperta sfida con le normative di sicurezza antincendio, e passeremo la sera a cercare passaggi segreti.

La scatola di cartone (Rowan G., Savage P., 14/8/84) era esattamente dove l'avevo lasciata più di due anni prima; dubito che qualcuno l'avesse toccata da allora. Estrassi il fascicolo e lo sfogliai fino alla dichiarazione rilasciata dalla madre di Jamie alla sezione Persone scomparse e, grazie a Dio, c'era: capelli biondi, occhi nocciola, maglietta rossa, pantaloncini di jeans tagliati, scarpe da ginnastica bianche, mollette per capelli rosse decorate con fragoline.

Mi infilai l'incartamento sotto la giacca, in caso mi fossi imbattuto in O'Kelly. Non c'era motivo per cui non avrei dovuto avercelo, soprattutto ora che il collegamento con il caso Devlin era conclamato, ma per una qualche ragione mi sentivo colpevole, clandestino, come se mi stessi dando alla latitanza con un manufatto tabù. Risalii in ufficio. Cassie era al computer ma aveva lasciato le luci spente perché O'Kelly non le notasse,

«Mark è pulito» disse. «E anche Margaret Devlin. Jonathan ha avuto una condanna, lo scorso febbraio.»

«Pornografia infantile?»

«Cristo, Ryan, hai proprio una mente melodrammatica. No, disturbo delle quiete pubblica: stava protestando contro l'autostrada e ha superato lo sbarramento della polizia. Il giudice gli ha affibbiato una multa da cento sacchi e venti ore di servizio alla comunità, e le ha aumentate a quaranta quando Devlin gli ha fatto notare che, per quello che lo riguardava, era stato arrestato proprio mentre rendeva un servizio alla comunità.»

Non era lì che avevo visto il nome di Devlin perché, come ho già detto, avevo solo una vaga idea dell'esistenza di una controversia sull'autostrada. Ma spiegava perché Jonathan Devlin non avesse denunciato le telefonate anonime alla polizia: non ci vedeva come alleati, soprattutto non in relazione a ciò che aveva a che fare con l'autostrada. «La molletta per capelli è nella dichiarazione in archivio» annunciai.

«Ben fatto» disse Cassie, con appena un accenno di domanda nella voce. Stava spegnendo il computer e si voltò per guardarmi. «Sei contento?»

«Non ne sono certo» risposi. Ovviamente, mi faceva piacere sapere che non stavo perdendo la testa e non stavo immaginando cose. A quel punto, però, mi chiedevo se effettivamente me l'ero ricordato o se l'avevo solo visto nel fascicolo, e quale delle due possibilità mi piacesse meno, e, infine, se non avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa su tutta quella dannata faccenda.

Cassie aspettava. Nella penombra della sera, i suoi occhi apparivano grandi, opachi, speculativi. Sapevo che mi stava dando la possibilità di dire: "Vaffanculo la molletta, dimentichiamoci di averla trovata". Anche ora, per quanto possa sembrare inutile, la tentazione di chiedermi cosa sarebbe successo se l'avessi fatto c'è.

Ma era tardi, la giornata era stata lunga e volevo andare a casa; essere trattato con i guanti di velluto (anche da Cassie; a qualcun altro avrei staccato la testa a morsi) mi ha sempre infastidito. Sorvolare su quella linea di indagine sembrava richiedere uno sforzo maggiore che lasciare che facesse il suo corso. «Chiami Sophie per il sangue?» chiesi. Nella stanza male illuminata, sembrava accettabile ammettere almeno quella debolezza.

«Certo» rispose lei. «Più tardi, però, va bene? Andiamo a parlare con O'Kelly prima che gli venga un aneurisma. Mi ha mandato un SMS mentre eri nel seminterrato. Non pensavo che lo sapesse fare, e tu?»


Chiamai l'interno di O'Kelly, lo informai che eravamo tornati e lui rispose: «Con calma, eh? Eccheccazzo! Cosa avete fatto, vi siete fermati per una sveltina?» e ci intimò di precipitarci nel suo ufficio.

Da lui c'è solo una sedia, a parte quella su cui sta seduto, una di quelle cose ergonomiche in finta pelle. Il sottinteso è che non gli devi occupare troppo tempo o troppo spazio. Sedetti io sulla sedia e Cassie si appollaiò su un tavolo dietro di me. O'Kelly le lanciò un'occhiata irritata.

«Diamoci una mossa» esordì. «Devo essere da un'altra parte alle otto.» Sua moglie lo aveva lasciato l'anno prima e da allora il tam-tam delle chiacchiere aveva riportato tutta una serie di goffi tentativi di creare delle relazioni, incluso un fiasco spettacolare legato a un appuntamento al buio con una donna che si era rivelata una ex prostituta che lui stesso aveva arrestato quando era alla Buoncostume.

«Katharine Devlin, anni dodici» cominciai.

«L'identificazione è certa, allora?»

«Al novantanove per cento» dissi. «Quando avranno finito di richiuderla, all'obitorio, faremo venire uno dei genitori per il riconoscimento ufficiale, ma Katy Devlin aveva una gemella identica e la sopravvissuta è uguale alla nostra vittima.»

«Piste? Sospetti?» scattò. Si era messo una cravatta quasi bella, era pronto per il suo appuntamento e si era rovesciato addosso fin troppa acqua di colonia; non riuscivo a capire quale, ma sembrava una di quelle costose. «Domani mi tocca la stramaledetta conferenza stampa. Ditemi che avete qualcosa.»

«L'hanno colpita alla testa e soffocata, forse stuprata» lo accontentò Cassie. L'illuminazione al neon le faceva sembrare grigia tutta la parte sotto gli occhi. Aveva un aspetto troppo stanco e troppo giovane per pronunciare quelle parole con tanta calma. «Non avremo nulla di definitivo fino al referto dell'autopsia, domattina.»

«Fino a domani, cazzo?» berciò O'Kelly. «Dite a quella merda di Cooper di dare la priorità a questo caso.»

«Già fatto, signore» disse Cassie. «Doveva essere in tribunale oggi pomeriggio. Ha detto che domattina è quanto più presto possa fare.» (Cooper e O'Kelly si odiano. Ciò che Cooper aveva detto in realtà era stato: «Spiegate gentilmente al signor O'Kelly che i suoi casi non sono gli unici al mondo».) «Abbiamo individuato quattro filoni di indagine e…»

«Ottimo, perfetto» la interruppe O'Kelly, prendendo un pezzo di carta e rovistando per una penna.

«Primo, la famiglia» continuò Cassie. «Conosce le statistiche, signore: la maggior parte dei bambini assassinati sono stati uccisi dai loro genitori.»

«E in questa famiglia c'è qualcosa di strano, signore» aggiunsi. Era la mia linea, quella che dovevamo far passare nel caso in cui avessimo avuto bisogno di un po' di margine d'azione nell'indagare sui Devlin. Se fosse stata Cassie a dirlo, O'Kelly si sarebbe lanciato in una lunga, noiosa e sprezzante filippica sull'intuito femminile. Ormai eravamo diventati bravi a trattare con lui. Il nostro contrappunto è stato limato fino alla scioltezza di un'armonia dei Beach Boys; percepiamo esattamente quando invertire i ruoli di uomo di punta e di spalla, di poliziotto buono e di poliziotto cattivo, quando il mio freddo distacco deve equilibrare con una nota di austerità la brillante disinvoltura di Cassie. «Non metterei la mano sul fuoco, ma c'è qualcosa che non va in quella casa.»

«Mai ignorare un'intuizione» disse O'Kelly. «Pericoloso.» Cassie, che faceva oscillare una gamba, allungò l'oscillazione e mi assestò un colpetto alla schiena.

«Secondo» proseguì poi, «dovremo controllare la possibilità che c'entri qualche setta.»

«Oddio, Maddox. Cos'è? "Cosmopolitan" ha pubblicato un articolo sul satanismo, questo mese?» Il disprezzo di O'Kelly per i cliché è così travolgente da avere quasi uno stile proprio. Lo trovo divertente, irritante o mediamente consolatorio, in base all'umore, ma almeno ci facilita enormemente le cose quando dobbiamo preparare una sceneggiatura in anticipo.

«Anch'io penso che siano stupidaggini, signore» mi intromisi, «ma ci ritroviamo con una ragazzina assassinata su un altare sacrificale. I giornalisti hanno già cominciato a fare domande. Dovremo escludere la possibilità.» Ovviamente è difficile provare che qualcosa non esiste e dirlo senza solide basi fa la felicità dei teorici della cospirazione, quindi applichiamo una tattica diversa. Avremmo impiegato un certo numero di ore a trovare gli aspetti che non corrispondevano al modus operandi putativo di un ipotetico gruppo (nessuno spargimento di sangue, nessun abito sacrificale, niente simboli occulti e bla bla bla) e poi O'Kelly, che per fortuna non ha assolutamente il senso dell'assurdo, avrebbe spiegato la faccenda davanti alle telecamere.

«È una perdita di tempo» disse O'Kelly. «Ma sì, sì, fatelo. Parlate con la sezione Crimini sessuali, parlate con il prete della parrocchia, con chi vi pare, basta che la togliate dalle scatole. Terzo punto?»

«Terzo» riprese Cassie, «è un crimine sessuale fatto e finito, un pedofilo la uccide perché non parli o perché ucciderla fa parte del gioco. Se questa fosse la direzione, dovremo dare un'occhiata anche ai due bambini spariti a Knocknaree nel 1984. Stessa età, stesso posto e proprio accanto al corpo della nostra vittima abbiamo trovato del sangue vecchio, che il laboratorio sta confrontando con i campioni dell'84, e una molletta per capelli che corrisponde alla descrizione di quella che portava la bambina scomparsa allora. Non possiamo escludere il collegamento.» E questa era decisamente la linea di Cassie. Come ho già detto, sono piuttosto bravo come bugiardo ma sentirle dire quelle parole mi fece aumentare in modo irritante il battito cardiaco. E per certi versi O'Kelly è molto più sensibile di quanto non finga di essere.

«Cosa? Un serial killer sessuale? Dopo vent'anni? E come fate a sapere di questa molletta?»

«Ce l'ha detto lei di prendere dimestichezza con i casi irrisolti, signore» disse Cassie, con fare virtuoso. Era vero, l'aveva detto lui, magari dopo averlo sentito a un seminario, o guardando CSI, ma ci diceva sempre un sacco di cose, e comunque nessuno aveva mai tempo di farlo. «Può essere stato all'estero, nel frattempo, o in prigione, oppure uccide solo quando è sotto forte stress…»

«Siamo tutti sotto un forte stress» disse O'Kelly. «Un serial killer. Proprio quello di cui abbiamo bisogno. E poi, cos'altro?»

«Quarto, la faccenda potrebbe farsi rischiosa, signore» continuò Cassie. «Jonathan Devlin, il padre, è a capo della campagna "Spostiamo l'autostrada", a Knocknaree. A quanto pare, questo ha rotto i coglioni a qualcuno. Dice di avere ricevuto tre telefonate anonime negli ultimi due mesi, con minacce alla sua famiglia se non si fosse fatto da parte. Dobbiamo scoprire chi ha grossi interessi nell'autostrada che deve attraversare Knocknaree.»

«Il che significa rompere le palle alle società immobiliari e ai consigli comunali» disse O'Kelly. «Cristo.»

«Avremo bisogno di tutti gli agenti di supporto possibili, signore» rincarai, «e di qualcun altro della Omicidi.»

«Ne avrete bisogno eccome. Prendete Costello. Lasciategli un biglietto, arriva sempre presto la mattina.»

«Veramente, signore» provai, «vorrei O'Neill.» Non ho nulla contro Costello, ma decisamente non ce lo volevo su quel caso. A parte il fatto che era un tipo cupo di carattere, e quel caso era già abbastanza deprimente anche senza di lui, era anche un ostinato e avrebbe passato al setaccio il fascicolo del vecchio caso per poi cominciare a cercare Adam Ryan.

«Non metto tre pivelli su un caso ad alto profilo. Voi due ci siete solo perché passate le pause a navigare in rete a cercare porno, o cos'altro facevate, invece di prendere una boccata d'aria fresca come gli altri.»

«O'Neill non è un pivello, signore. È alla Omicidi da sette anni.»

«E lo sappiamo tutti perché» disse O'Kelly, con cattiveria. Sam era arrivato alla squadra a ventisette anni; suo zio è un politico di medio livello, Redmond O'Neill, che di tanto in tanto fa il viceministro della Giustizia o dell'Ambiente o quello che è. Sam ci convive bene: che dipenda dalla sua natura o da una strategia, è placido, gioviale, affidabile, la spalla preferita da tutti e questo smonta la maggior parte dei commenti negativi. Ogni tanto si becca lo stesso qualche battuta stronzetta, ma di solito sono riflessive, come quella di O'Kelly, e non maliziose.

«È proprio per questo che abbiamo bisogno di lui, signore» affondai. «Se dobbiamo cacciare il naso negli affari del consiglio comunale e compagnia bella senza sollevare troppa polvere, abbiamo bisogno di qualcuno che abbia contatti in quel giro.»

O'Kelly diede un'occhiata all'orologio, accennò a darsi una pettinata, poi ci ripensò. Mancavano venti minuti alle otto. Cassie incrociò nuovamente le gambe e si accomodò meglio sul tavolo. «Immagino che ci siano i pro e i contro» disse. «Magari dovremmo discuterne…»

«Va bene, va bene, prendetevi O'Neill» concesse O'Kelly, irritato. «Basta che andiate avanti con il vostro lavoro e lui non faccia incazzare nessuno. Voglio un rapporto sulla mia scrivania tutte le mattine.» Si alzò e cominciò a riordinare dei fogli in tante pile. Potevamo andare.

Così dal nulla, provai un'improvvisa e dolce ondata di gioia, trascinante e distillata come la scossa che immagino sentano gli eroinomani quando la dose arriva in vena. Fu per la mia collega che si issava sulle mani e con una mossa fluida scendeva dal tavolo, fu per il movimento esperto della mia mano che chiudeva il blocco degli appunti, fu per il sovrintendente che si contorceva per infilarsi la giacca del completo e di nascosto si guardava le spalle per controllare se c'era forfora, fu per l'ufficio illuminato e la pila sbilenca di fascicoli segnati con l'evidenziatore che giaceva in un angolo, e per la sera che grattava contro la finestra. Fu per il fatto di rendermi conto, ancora una volta, che era tutto vero e che era la mia vita. Forse anche Katy Devlin, se ci fosse arrivata, si sarebbe sentita così per le vesciche ai piedi, per l'odore pungente di sudore e di cera per pavimenti nelle sale dove si esercitava a danzare, per la campanella mattutina della colazione che echeggiava nei corridoi. Forse anche lei, come me, avrebbe amato i minimi dettagli e le scomodità più delle meraviglie, perché quelle sono le cose che provano che appartieni.

Ricordo quei momenti perché, se devo essere sincero, mi capitano di rado. Non sono bravo a notare che sono felice se non quando ci ripenso. Il mio dono, o difetto fatale, è per la nostalgia. Il mio palato è calibrato sull'agrodolce, sull'evanescente e sulla bellezza perduta. Qualche volta sono stato accusato di pretendere la perfezione, di respingere i desideri del cuore non appena mi avvicino quel tanto che basta a fargli perdere quella loro patina misteriosa, ma la verità è meno semplice. So molto bene che la perfezione è fatta di mondanità futili e sfrangiate. Immagino che di me si potrebbe dire che la mia vera debolezza risieda in una specie di lungimiranza: di solito è solo a una certa distanza, e decisamente troppo tardi, che scorgo il disegno.

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