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Nei miei ricordi, trascorremmo un milione di serate nell'appartamento di Cassie, solo noi tre. L'inchiesta durò un mesetto soltanto e sono certo che dovettero esserci stati giorni in cui uno di noi era impegnato a fare altro. Però, gradatamente, come una soluzione che si allarga nell'acqua, quelle serate avevano dato colore all'intera stagione. Il tempo volgeva a passo felpato verso un autunno precoce e pungente, il vento si incuneava nel sottotetto, la pioggia filtrava dalle finestre a ghigliottina deformate e gocciolava lungo i vetri. Cassie accendeva il fuoco e noi sparpagliavamo i nostri appunti sul pavimento e sfornavamo teorie su teorie, poi facevamo a turno a preparare la cena: solitamente si trattava di pasta in diverse varianti preparata da Cassie, sandwich di carne fatti da me (non so cucinare praticamente nient'altro, ma con i sandwich di carne sono un maestro) e poi c'erano gli esperimenti esotici di Sam che andavano da tacos stravaganti a una cosa thailandese in salsa di arachidi piccante. Cenavamo con il vino, per passare al whisky sotto varie forme e poi, quando iniziavamo a essere un po' brilli, raccoglievamo le carte, ci toglievamo le scarpe, mettevamo su un po' di musica e parlavamo.

Cassie è figlia unica, come me, ed entrambi eravamo rapiti dalle storie di Sam sulla sua infanzia. Erano quattro fratelli e tre sorelle, accalcati in una vecchia fattoria bianca a Galway, giocavano ai cow-boy e agli indiani su territori vastissimi e scappavano fuori di notte per esplorare il mulino infestato dai fantasmi. Avevano un padre grande e grosso di costituzione e tranquillo di carattere, e una madre che distribuiva in egual misura pane ancora caldo di forno e sferzate col cucchiaio di legno, e che ai pasti contava le teste per accertarsi che nessuno dei figli fosse caduto nel fiume. I genitori di Cassie erano morti in un incidente stradale quando lei aveva cinque anni e lei era stata allevata da anziani zii in una fatiscente casa vittoriana a Wicklow, lontanissima da qualunque cosa. Ricorda che leggeva libri non adatti a lei presi dalla loro biblioteca – come Il Ramo d'oro, Le Metamorfosi di Ovidio, Madame Bovary, che non le erano piaciuti ma che aveva ugualmente finito – rannicchiata sul sedile della finestra del pianerottolo, mentre mangiava mele del giardino, con una pioggerella leggera che scivolava lungo i vetri. Una volta, ci raccontò, era riuscita a intrufolarsi sotto un antico e orrendo guardaroba e vi aveva trovato un piattino di porcellana, un penny con Giorgio VI e due lettere di un soldato della Prima guerra mondiale con un nome che nessuno conosceva e con brani cancellati dai censori. Io non ho molti ricordi di prima dei dodici anni, e anche quelli dopo sono disposti per file: file di letti in dormitori bianco-grigi, file di docce fredde e rimbombanti e con l'odore della candeggina, file di ragazzi in uniformi arcaiche che intonavano inni protestanti in quattro quarti sul dovere e sulla costanza. Per entrambi, l'infanzia di Sam era quella di una favola; ce la immaginavamo in disegni a matita di bambini con le guance rotonde e di cani da pastore che scodinzolavano felici. «Parlaci di quando eri piccolo» diceva Cassie, piazzandosi sul futon e tirandosi la manica del maglione fin sulla mano per tenerci la tazza di whisky caldo.

In un certo senso, però, Sam era quello di troppo in quelle conversazioni, e a una parte di me la cosa faceva piacere. Ci avevamo messo due anni, Cassie e io, a crearci una nostra routine, un nostro ritmo, i nostri codici appena accennati. Dopotutto, Sam era lì grazie a una nostra gentile concessione, e mi pareva giusto che avesse un ruolo non da protagonista: presente, ma non troppo. Non che la situazione sembrasse infastidirlo. Si stendeva sul divano, orientava il bicchiere di whisky, attraversato dal chiarore del fuoco, in modo che lanciasse ombre ambrate sul suo maglione, osservava e sorrideva mentre io e Cassie discutevamo sulla natura del tempo, o di Dylan Thomas, o sulle spiegazioni scientifiche dei fantasmi. Erano sicuramente conversazioni adolescenziali, poco originali, e rese ancor più tali dal fatto che Cassie e io ci comportassimo proprio come bambini (mi diceva: «Mordimi, Ryan» e, strizzando gli occhi, voltava la testa dalla parte opposta del futon. Io allora le afferravo il braccio e le mordevo il polso fino a quando non si metteva a gridare e a chiedere pietà), ma erano chiacchierate mai esistite nella mia adolescenza e le amavo, ne adoravo ogni singolo momento.


Ovviamente sto romanzando, è una mia tendenza cronica. Non fatevi ingannare: le serate erano conviviali, noi ci ritrovavamo attorno a un accogliente caminetto col fuoco acceso, ma le giornate erano delle vere sfacchinate, intense, frustranti. Ufficialmente lavoravamo dalle nove alle cinque, ma arrivavamo in ufficio prima delle otto del mattino e raramente uscivamo prima delle otto di sera, e ci portavamo il lavoro a casa: questionari da mettere in relazione, dichiarazioni da leggere, rapporti da scrivere. Le nostre cene iniziavano alle nove, quando non alle dieci; si faceva mezzanotte prima che smettessimo di parlare di lavoro, ed erano già le due del mattino quando riuscivamo a rilassarci quel tanto che bastava per andare a dormire. Avevamo sviluppato un rapporto intenso e poco sano con la caffeina e avevamo dimenticato com'era non sentirsi esausti. Il primo venerdì sera, mentre andava via, un agente di supporto nuovo di nome Corry salutò tutti dicendo: «A lunedì, ragazzi». Per tutta risposta ottenne solo risate sarcastiche e pacche sulle spalle, oltre a un poco simpatico: «No, Comecavolotichiami, ci vediamo domattina alle otto, e non arrivare tardi» da O'Kelly.

Rosalind Devlin non venne quel primo venerdì. Verso le cinque, irritato per l'attesa e piuttosto preoccupato che potesse esserle accaduto qualcosa, la chiamai al cellulare. Non rispose. Era con la sua famiglia, mi dissi, stava dando una mano nei preparativi del funerale, o si occupava di Jessica, oppure stava piangendo nella sua stanza. Quel disagio, però, non mi lasciò; quella sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, piccolo e fastidioso come un sassolino in una scarpa.

La domenica Cassie, Sam e io andammo al funerale di Katy. Il fatto che gli assassini siano attratti dalle tombe è per lo più una leggenda, ma, ci fosse stata anche la minima possibilità, valeva la pena andare, e in ogni caso O'Kelly ci aveva detto di presenziare, perché era positivo mantenere i contarti. La chiesa era stata costruita negli anni Settanta, quando il cemento veniva accettato come espressione artistica e quando sembrava che di lì a poco Knocknaree sarebbe diventata una grande metropoli. Era immensa, fredda e brutta, con rozze stazioni della Via Crucis semiastratte, gli echi che strisciavano tetramente verso il soffitto. Ce ne stavamo sul fondo, con addosso i nostri abiti scuri meno vistosi, e guardavamo la chiesa che si riempiva. Arrivarono contadini con il cappello in mano, vecchie donne col fazzoletto in testa e ragazzine alla moda che cercavano di apparire disincantate. La piccola bara bianca, terribile nei suoi profili dorati, era di fronte all'altare. Rosalind avanzò barcollando, con le spalle che sussultavano, sostenuta da Margaret da una parte e dalla zia Vera dall'altra. Dietro di loro, Jonathan, con gli occhi sbarrati, condusse Jessica verso la panca in prima fila.

Le candele sgocciolavano incessantemente la loro cera. L'aria odorava di bagnato, di incenso e di fiori che stavano avvizzendo. Mi girava la testa – avevo dimenticato di fare colazione – e mi sembrava di vedere l'intera scena come attraverso una lente di ingrandimento. Mi ci volle un po' per capire che in realtà dipendeva da un buon motivo: ero venuto a messa in quella chiesa ogni domenica per dodici anni, forse avevo anche presenziato a una cerimonia di suffragio per Peter e Jamie, seduto su una di quelle panche di legno. Cassie si soffiò furtivamente nella mani a coppa per scaldarsele.

Il giovane prete, con un'aria molto solenne, ce la stava mettendo tutta per adattarsi all'occasione con il suo misero arsenale di cliché da seminario e con le sue storie piene di significato ma chiaramente non vere («E mentre piangevo e urlavo contro mio padre per avermi tolto l'amato cucciolo che avevo trovato e curato, lui mi mise le braccia attorno alle spalle e mi disse: "Figliolo, non era nostro. Ti era stato dato per amarlo per un po' di tempo, ma hai sempre saputo che un giorno sarebbe dovuto tornare al suo vero proprietario, che lo ama ancora più di te…".»). Un coro di pallide ragazzine in uniforme scolastica – le compagne di scuola di Katy; ne avevo riconosciute alcune – era raggruppato spalla a spalla perché più coriste potessero leggere dallo stesso foglio degli inni. Questi erano stati scelti per dare conforto, ma le voci erano esili e incerte e alcune di loro continuavano a interrompersi. «Non temere, sono sempre davanti a te; tu seguimi…»

Mentre tornava dalla comunione, Simone Cameron incrociò il mio sguardo e mi fece un piccolo gesto con la testa; gli occhi dorati erano iniettati di sangue, mostruosi. I componenti della famiglia uscirono dalla panca a uno a uno per andare a deporre ricordi sulla bara: Margaret vi lasciò un libro, Jessica un peluche a forma di gatto rosso, Jonathan il disegno a matita che era stato appeso sopra il letto di Katy. Ultima, Rosalind si inginocchiò e lasciò sul coperchio un paio di scarpette rosa unite dal loro nastro. Le accarezzò delicatamente, poi piegò la testa sulla bara e pianse, i riccioli scuri che si spandevano sul bianco e sull'oro del feretro. Un debole, inumano gemito si levò dalla prima fila.

Fuori il cielo era di un bianco grigiastro e il vento staccava le foglie dagli alberi nel giardino della chiesa. I giornalisti spingevano dietro le transenne, le macchine fotografiche scattavano a raffica. Trovammo un angolo discreto e tenemmo d'occhio l'area e la folla ma, come c'era da aspettarsi, nessun campanello d'allarme risuonò nella nostra mente. «Quanta gente» constatò Sam a voce bassa. Era l'unico di noi che fosse andato a fare la comunione. «Domani facciamoci dare i rullini di questi ragazzi e vediamo se si è presentato qualcuno che non doveva esserci.»

«Non è qui» disse Cassie. Si infilò le mani nelle tasche della giacca. «A meno che non debba esserci per forza. Il nostro tipo non leggerà neanche i giornali. Cambierà argomento se qualcuno comincia a parlare del caso.»

Mentre scendeva lentamente la scalinata della chiesa, con un fazzoletto premuto sulla bocca, Rosalind sollevò la testa e ci vide. Si divincolò dalle braccia che la sostenevano e attraversò il prato di corsa, il lungo abito nero che fluttuava nel vento. «Detective Ryan…» Mi prese la mano tra le sue e sollevò il viso bagnato di lacrime verso di me. «Io non ce la faccio a sopportarlo. Lei deve prendere l'uomo che ha fatto questo a mia sorella.»

«Rosalind!» Il richiamo, giunto da qualche parte, era quello della voce roca di Jonathan, ma lei non spostò lo sguardo. Le sue mani avevano lunghe dita, erano morbide e molto fredde. «Faremo tutto il possibile» le assicurai. «Verrai da me domani?»

«Ci proverò. Mi dispiace per venerdì ma non ce l'ho fatta…» Lanciò una rapida occhiata da sopra la spalla. «Non sono riuscita a venire via. La prego, lo trovi, detective Ryan, la prego…»

Più che udirli, me li sentii addosso i flash delle macchine fotografiche. Una di quelle foto, il profilo rivolto verso l'alto e addolorato di Rosalind e un'immagine poco lusinghiera di me con la bocca aperta, comparve sulla prima pagina di un tabloid il giorno dopo, con LA PREGO, FACCIA GIUSTIZIA PER MIA SORELLA scritto sotto a lettere cubitali. Quigley ne approfittò per darmi il tormento per giorni.


In quelle prime settimane facemmo tutto ciò che era concepibile, ma proprio tutto. Fra noi, gli agenti di supporto e la polizia locale, parlammo con chiunque abitasse entro un raggio di quasi sette chilometri da Knocknaree e con tutti quelli che avessero mai conosciuto Katy. C'era una persona, in zona, con una diagnosi di schizofrenia, ma non aveva mai fatto del male a nessuno in vita sua, anche da quando non prendeva più le medicine, cioè da tre anni. Controllammo tutti i mittenti dei bigliettini con l'annuncio di messe in ricordo di Katy che i Devlin ricevettero, rintracciammo ogni singola persona che aveva contribuito alle tasse di Katy e istituimmo un servizio di sorveglianza per scoprire chi portava fiori alla pietra sacrificale.

Interrogammo le migliori amiche di Katy, Christina Murphy, Elisabeth McGinnis, Marianne Casey. Erano ragazzine coraggiose, un po' scosse e con gli occhi rossi, ma coraggiose. Purtroppo, non aggiunsero elementi utili. Le trovai comunque sconcertanti. Non sopporto le persone che si lamentano per come crescono in fretta i loro figli al giorno d'oggi: i miei nonni, dopotutto, lavoravano già a sedici anni e questo di certo ti fa entrare nell'età adulta molto prima di tutti i piercing di questo mondo. Le amiche di Katy, però, avevano un che di saggio, una tranquilla consapevolezza del mondo esterno che strideva con l'animalesca spensieratezza di cui ricordavo di aver goduto a quell'età. «Ci siamo domandate se Jessica non avesse per caso delle difficoltà d'apprendimento» disse Christina con il tono di una trentenne, «ma non volevamo chiederlo. Era… voglio dire, è stato un pedofilo a uccidere Katy?»

La risposta sembrava orientata al no. Nonostante il sospetto di Cassie che non si trattasse di un vero crimine a sfondo sessuale, controllammo tutti quelli che erano stati condannati per quel genere di reati nella zona sud di Dublino, oltre a molti altri che non eravamo mai riusciti a incastrare. Trascorremmo ore con le persone che avevano l'ingrato compito di individuare e intrappolare i pedofili online. La persona con la quale parlammo di più si chiamava Carl. Era un giovane magro, grande esperto di Internet e con un viso bianco e rugoso. Ci disse che dopo otto mesi di quel lavoro stava già pensando di mollare: aveva due figli sotto i sette anni e non riusciva più a guardarli nello stesso modo, si sentiva troppo sporco quando li abbracciava per dare loro la buona notte dopo una giornata passata a fare quello che faceva.

La rete, come la chiamava Carl, ronzava di speculazioni e strane frenesie su Katy Devlin, e ve ne risparmio i dettagli. Leggemmo centinaia di pagine di trascrizioni di chat, messaggi da un mondo alieno, oscuro e aggrovigliato, ma ne uscimmo a mani vuote. Un tipo sembrava simpatizzare un po' troppo con l'assassino di Katy: "Secondo me, lui LA AMAVA TROPPO ma lei non lo ha capito e lo ha fatto ARRABBIARE". Ma era on-line e stava enumerando i relativi meriti fisici delle bambine asiatiche rispetto a quelle europee quando Katy era morta. Cassie e io ci andammo giù pesanti col bere, quella sera.

Il gruppo di Sophie si recò a casa dei Devlin, per condurvi un'analisi approfondita, ufficialmente per raccogliere fibre e altro, a scopo eliminatorio, ma al ritorno riferirono di non aver trovato macchie di sangue e niente che somigliasse alla descrizione che ci aveva dato Cooper dell'oggetto usato per lo stupro. Io mi occupai della documentazione finanziaria: i Devlin vivevano modestamente (si erano permessi una vacanza di famiglia, a Creta, quattro anni prima con un prestito della Credit Union; c'erano le lezioni di danza di Katy e quelle di violino per Rosalind; possedevano una Toyota del '99) e non avevano praticamente risparmi, ma neppure debiti, il mutuo era quasi estinto e non c'erano mai stati arretrati con la bolletta del telefono. Non risultavano attività strane sul loro conto corrente, né esisteva un'assicurazione sulla vita di Katy. Nulla di nulla.

La linea telefonica per le informazioni alla polizia ricevette un numero record di chiamate, un'incredibile percentuale delle quali assolutamente inutile: persone con vicini di casa strani che rifiutavano di entrare nell'Associazione dei Residenti, gente che aveva visto loschi individui aggirarsi dall'altra parte del paese; i soliti pazzi assortiti che avevano avuto visioni dell'omicidio; un'altra porzione di matti che spiegavano in modo prolisso che questo era il giudizio di Dio sulla nostra peccaminosa società. Cassie e io trascorremmo un'intera mattinata su un tipo che aveva chiamato per dirci che il Padreterno aveva punito Katy per la sua sfacciataggine nel presentarsi in body a migliaia di lettori dell'"Irish Times". Avevamo riposto grandi speranze in lui: si rifiutò di parlare con Cassie, asserendo che le donne non dovrebbero lavorare e che persino i suoi jeans erano sfacciati. Lo standard di decoro femminile, mi informò con veemenza, era Nostra Signora di Fatima, ma il suo alibi era di ferro: aveva trascorso la serata del lunedì nel minuscolo distretto a luci rosse vicino a Baggot Street, ubriaco fradicio, gridando fuoco e fiamme alle prostitute e annotandosi i numeri di targa dei loro clienti. Era stato poi allontanato a forza dai magnaccia per ricominciare tutto da capo, fino a quando, verso le quattro del mattino, i poliziotti non lo avevano caricato in macchina e messo in cella a smaltire la sbornia. E la cosa pare accadesse almeno una volta al mese; tutti quelli che erano stati coinvolti nella cosa non ebbero difficoltà a confermarlo, aggiungendovi qualche pungente commento sulle sue probabili tendenze sessuali.

Furono settimane strane e assai disarticolate, difficili da spiegare anche dopo tutto questo tempo. In parte perché erano piene di piccole cose che in quel momento sembravano insignificanti e scollegate come il guazzabuglio di oggetti in un bizzarro gioco di società: visi, frasi, salotti e telefonate, il tutto in una visione sfuocata da luce stroboscopica: una telefonata urgente e senza fine, una stanza buia e archetipica con facce tremolanti che pronunciavano parole cruciali e tuttavia indistinguibili. Solo molto tempo dopo, alla fredda luce del senno di poi, le piccole cose avrebbero ripreso il loro posto in uno schema che avremmo dovuto vedere fin dall'inizio.

E in parte, immagino, perché trovo difficile descrivere quelle prime, strazianti settimane dell'Operazione Vestale. Anche se ci rifiutavamo di ammetterlo, il caso non stava andando da nessuna parte. Tutte le piste, dopo un po', ci portavano in un vicolo cieco e O'Kelly continuava a farci fervorini, gesticolando in maniera concitata – non potevamo permetterci di sbagliare su quel caso… quando il gioco diventava duro, i duri iniziavano a giocare -come un allenatore alla squadra che si trova sotto di due a zero alla fine del primo tempo. I giornali invocavano giustizia e stampavano immagini di come Peter e Jamie sarebbero stati in quel momento se avessero avuto le orribili pettinature in voga in quel periodo. Ero più teso di quanto non fossi mai stato in tutta la mia vita.

Ma forse il vero motivo per cui mi è così difficile parlare di quelle settimane è che, nonostante tutto, nonostante sappia che è un compiacimento che non posso permettermi, mi mancano ancora.


Le piccole cose. Recuperammo la cartella clinica di Katy, ovviamente. Lei e Jessica erano nate premature di un paio di settimane, ma Katy se l'era cavata bene, e fino agli otto anni e mezzo aveva avuto solo le malattie tipiche dell'infanzia. Poi, di punto in bianco, aveva cominciato ad ammalarsi. Crampi allo stomaco, vomito, diarrea per giorni e giorni; in un mese era finita tre volte al pronto soccorso. Un anno prima, dopo un attacco particolarmente acuto, i medici le avevano praticato una laparotomia esplorativa: l'intervento che Cooper aveva visto, quello che l'aveva tenuta lontana dalla scuola di danza. Le avevano diagnosticato un "disturbo dell'intestino pseudo-ostruttivo idiopatico con mancanza di distensione atipica"; leggendo fra le righe, mi feci l'idea che avessero già scartato tutto e che non sapessero cosa avesse quella bambina.

«Sindrome di Münchhausen per procura?» chiesi a Cassie, che stava leggendo da sopra la mia spalla, con le braccia appoggiate allo schienale della sedia sulla quale ero seduto. Io, lei e Sam ci eravamo appropriati di un angolo della sala operativa, il più lontano possibile dal telefono delle informazioni alla polizia, dove potevamo avere un minimo di privacy se parlavamo a voce bassa.

Si strinse nelle spalle e fece una smorfia. «Potrebbe essere. Ma c'è qualcosa che non torna. La maggior parte delle madri con la sindrome di Münchhausen ha avuto esperienze pregresse che in qualche modo le ha messe a contatto con i farmaci. Lavorare come collaboratrice sanitaria, per esempio, o roba del genere.» Margaret, sulla base dei controlli sul suo passato, aveva lasciato la scuola a quindici anni e aveva lavorato nell'azienda di biscotti Jacobs fino a quando si era sposata. «E guarda i documenti di ricovero… Metà delle volte, Margaret non è nemmeno quella che ha accompagnato Katy in ospedale; sono stati Jonathan, Rosalind, Vera, una volta un insegnante… Per le madri con la sindrome di Münchhausen per procura, il punto è proprio l'attenzione e la comprensione da parte di medici e infermiere. Non avrebbe lasciato qualcun altro al centro di tutta quell'attenzione.»

«Quindi eliminiamo Margaret?»

Cassie sospirò. «Non corrisponde al profilo, ma non possiamo escluderla definitivamente; potrebbe essere l'eccezione. Mi piacerebbe dare un'occhiata alle cartelle cliniche delle altre ragazze. Le madri affette da questa sindrome di solito non si focalizzano su un figlio e lasciano stare gli altri. Passano da uno all'altro per evitare sospetti, oppure iniziano con il più grande e poi proseguono con il successivo quando il primo diventa grande abbastanza da protestare. Se è Margaret, ci sarà qualcosa di strano anche nei documenti delle altre due, come ad esempio questa primavera, quando ha smesso di stare male Katy e ha cominciato Jessica… chiediamo ai genitori se possiamo vedere le cartelle delle altre.»

«No.» Sembrava che tutti gli agenti di supporto si fossero messi a parlare nello stesso momento e il rumore era come una nebbia pesante che mi avvolgeva il cervello. Non riuscivo a concentrarmi. «I Devlin non sanno di essere sospettati. Preferirei che rimanesse così, almeno finché non avremo qualcosa di concreto. Se andassimo a chiedere le cartelle di Rosalind e Jessica, potrebbero subodorare qualcosa.»

«Qualcosa di concreto» ripeté Cassie. Guardò il tavolo ingombro di carte (suddivisioni computerizzate di argomenti, appunti a mano, fotocopie macchiate d'inchiostro), poi la lavagna bianca che era già tutto un fiorire multicolore di nomi, numeri di telefono, frecce, punti interrogativi e sottolineature.

«Sì» dissi, «lo so.»


Anche le pagelle scolastiche delle figlie dei Devlin avevano un che di ambiguo e beffardo. Katy era brava ma non eccezionale, prendeva dei "buono" e qualche "discreto" in Irlandese e "ottimo" in educazione fisica; nessun problema di condotta al di là della tendenza a chiacchierare in classe, nessuna bandierina rossa a parte le tante assenze. Rosalind sembrava essere più intelligente, ma anche più irregolare: fiumi di "ottimo", interrotti da folti gruppi di "discreto" o "sufficiente" e commenti di insegnanti frustrate dalla mancanza di impegno e dal fatto che saltasse le lezioni. Ovviamente, il fascicolo su Jessica era quello più voluminoso. Era stata inserita nella classe "morbida" fin da quando lei e Katy avevano nove anni, ma Jonathan aveva apparentemente messo in croce quelli della sanità e della scuola a tal punto che l'avevano sottoposta a una lunga serie di test: il suo quoziente di intelligenza era fra 90 e 105 e non c'erano problemi neurologici. Nella cartella si leggeva: "Difficoltà d'apprendimento non specifiche con tratti autistici".

«Cosa ne pensi?» chiesi a Cassie.

«Penso che questa famiglia diventa sempre più strana. Secondo quello che è scritto qui, se c'è una di loro che ha subito abusi quella è sicuramente Jessica. Bambina assolutamente normale fino all'età di sette anni; poi, all'improvviso, bum, andamento scolastico e socialità cominciano a precipitare. È decisamente troppo tardi perché si tratti di autismo, ma è una reazione da manuale a qualche tipo di abuso continuato. E Rosalind? Tutti quegli alti e bassi potrebbero essere normali se si tiene conto dei mutamenti di umore degli adolescenti, ma potrebbero anche essere una sua risposta a qualcosa di poco chiaro che sta accadendo in casa. L'unica che sembra star bene… be', psicologicamente… è Katy.»

Colsi qualcosa di scuro con la coda dell'occhio e mi girai di scatto, facendo volare la penna sul pavimento. «Ehi» fece Sam, stupito. «Sono io.»

«Cristo!» esclamai. Il cuore mi batteva all'impazzata. Gli occhi di Cassie, dall'altra parte del tavolo, non lasciarono trasparire nulla. Recuperai la penna. «Non mi ero accorto che eri lì. Che cos'hai?»

«I tabulati telefonici dei Devlin» rispose Sam, mostrando i fogli che aveva in entrambe le mani. «In uscita e in entrata.» Li depositò sul tavolo, in due mucchi, e li mise a posto con cura. Aveva contrassegnato le pagine con numeri dai colori diversi e aveva effettuato delle sottolineature con l'evidenziatore.

«Che periodo?» domandò Cassie curvandosi sul tavolo per guardare le pagine messe a rovescio.

«Da marzo.»

«Tutto lì? Sei mesi di telefonate?»

Era stata la prima cosa che avevo notato anch'io: quanto fossero sottili quelle pile di fogli. In una famiglia di cinque persone, con tre ragazze adolescenti, di certo il telefono doveva essere stato sempre occupato, con qualcuno che urlava di continuo a qualcun altro di riattaccare. Pensai al silenzio da fondale marino che avevo notato in quella casa il giorno in cui era stato rinvenuto il corpo di Katy, con la zia Vera che si aggirava nell'ingresso. «Sì, lo so» disse Sam. «Forse usano i cellulari.»

«Forse.» Ma anche Cassie, come me, non sembrava convinta. Quasi sempre, quando una famiglia si taglia fuori dal resto del mondo, è perché c'è qualcosa che non va. «Ma costano molto. E ci sono due telefoni in quella casa, uno al pianterreno, vicino al guardaroba, e uno sul pianerottolo al piano superiore, con il filo lungo per portarlo in tutte le camere da letto. Non c'è bisogno di un cellulare per avere un po' di privacy.»

Avevamo già controllato i tabulati telefonici del cellulare di Katy. Le davano una paghetta apposta, dieci euro di traffico ogni due domeniche. L'aveva usato quasi tutto per inviare SMS alle sue amiche e avevamo ricostruito le lunghe conversazioni criptate e piene di abbreviazioni su compiti, pettegolezzi della classe, trasmissioni televisive; nessun numero non identificato, nessuna bandierina rossa.

«Che cosa hai evidenziato?» chiesi.

«Ho creato rimandi con i numeri conosciuti e ho tentato di dividere le chiamate per membro della famiglia. Sembra che Katy fosse quella che usava di più il telefono: i numeri in giallo sono quelli delle sue amiche.» Scorsi i fogli. L'evidenziatore giallo aveva lavorato su almeno la metà di ogni pagina. «Il blu è per le sorelle di Margaret, una sta a Kilkenny e l'altra, Vera, qui, dalla parte opposta dell'abitato. Il verde è per la sorella di Jonathan, ad Athlone, la casa di ricovero in cui stava la loro madre, e per i membri del comitato "Spostiamo l'autostrada". Il viola è per l'amica di Rosalind, Karen Daly, quella da cui era andata quando era scappata di casa. Dopo quell'episodio, le loro telefonate si sono ridotte di numero. Penso che a Karen non abbia fatto molto piacere essere messa in mezzo a un casino di famiglia, anche se per alcune settimane ha continuato a chiamare Rosalind. È Rosalind a non richiamare.»

«Forse non le era permesso» suggerii. Magari era per lo spavento che mi aveva procurato Sam, ma il cuore mi stava ancora battendo troppo forte e sentivo in bocca il sapore del pericolo.

Sam annuì. «Magari i genitori pensavano che Karen potesse avere una cattiva influenza su di lei. Comunque, le chiamate sono tutte qui, oltre a quelle di una compagnia telefonica che tentava di convincerli a cambiare gestore… e queste tre.» Sparse i fogli delle chiamate in arrivo: tre righe rosa. «Le date, gli orari e la durata corrispondono a quelli che ci ha fornito Devlin. Sono tutte da telefoni pubblici.»

«Merda» disse Cassie.

«Dove?» chiesi.

«In centro. Il primo è sulle banchine, vicino al complesso dei servizi finanziari; il secondo è in O'Connell Street; il terzo si trova fra i primi due, anche questo lungo le banchine.»

«In altre parole» dissi, «il tipo che fa le telefonate non è uno di quelli incazzati per il valore delle case.»

«Direi di no. Visti gli orari, chiama mentre torna a casa dal pub. Immagino che anche uno di Knocknaree potrebbe andare a bere in città, ma non mi sembra plausibile, almeno non in modo regolare. Chiederò un controllo, per essere sicuri, ma per ora immagino che sia qualcuno il cui interesse per l'autostrada sia esclusivamente lavorativo, non personale. E se fossi uno che scommette, direi che vive lungo le banchine.»

«Il nostro assassino è quasi sicuramente del posto» disse Cassie.

Sam annuì. «Però potrebbe anche aver chiesto a uno del posto di compiere l'omicidio. È quello che avrei fatto io.» Cassie colse la mia occhiata e mi guardò negli occhi: il pensiero di Sam che seguiva la pista dell'esecutore prezzolato era irresistibile. «Quando scoprirò chi possiede il terreno, vedrò anche di scoprire se ha parlato con qualcuno di Knocknaree.»

«A che punto sei?» chiesi.

«Oh, ma certo…» Fece allegramente Sam. «Ci sto lavorando.»

«Un momento» saltò su all'improvviso Cassie. «A chi telefona Jessica?»

«A nessuno, per quello che posso dire.» Sam assemblò con cura i fogli e se li portò via.


Rosalind Devlin venne quel martedì, all'ora di pranzo. Nessuna telefonata, nessun appuntamento, solo Bernadette che mi informava con un vago atteggiamento di disapprovazione che c'era una ragazza che voleva vedermi. Io sapevo però che era lei, e il fatto che fosse spuntata così, di punto in bianco, sapeva in qualche modo di disperazione, di un'urgenza clandestina. Mollai quello che stavo facendo e scesi al piano di sotto, ignorando le occhiate interrogative di Cassie e Sam.

Rosalind stava aspettando alla reception. Aveva una pashmina color verde smeraldo attorno alle spalle. Il volto, girato a guardare fuori dalla finestra, era malinconico e distante. Era troppo giovane per saperlo, ma si trattava di un'immagine molto bella: la cascata di riccioli castani e la macchia verde stagliate contro i mattoni e le pietre del cortile illuminato dal sole… Tralasciando l'aspetto estremamente funzionale dell'atrio, la scena avrebbe potuto figurare direttamente su un biglietto di auguri preraffaellita.

«Rosalind» l'accolsi.

Si girò, una mano sul petto. «Oh, detective Ryan! Mi ha spaventata… Grazie per avermi ricevuta.»

«Nessun problema» le dissi. «Vieni su, così possiamo parlare.»

«Ne è sicuro? Non voglio causarle disturbo. Se è troppo impegnato, me lo dica che me ne vado.»

«Assolutamente no. Posso offrirti una tazza di tè? Caffè?»

«Un caffè andrà benissimo. Ma dobbiamo proprio…? È una giornata così bella e io sono un po' claustrofobica… non mi piace dirlo in giro, ma… non potremmo andare fuori?»

Non era la procedura standard ma, del resto, pensai, non era una sospettata e nemmeno una testimone. «Certo» le risposi, «solo un secondo» e corsi su a prendere il caffè. Avevo dimenticato di chiederle come lo voleva, così aggiunsi un po' di latte e mi misi due bustine di zucchero in tasca, per essere sicuro.

«Tieni» le dissi, porgendoglielo, quando ridiscesi. «Ci troviamo un posto in giardino?»

Bevve un sorso di caffè e provò a nascondere una piccola smorfia di ripugnanza. «Lo so che fa schifo» le dissi.

«No, no, va bene, è solo che… be', non ci metto il latte di solito, ma…»

«Ops» mi scusai. «Mi dispiace. Vuoi che te ne prenda un altro?»

«Oh, no! Va benissimo così, detective Ryan, davvero. In realtà non avevo bisogno di un caffè. Lo prenda lei, questo. Non voglio causarle problemi; è fantastico che mi abbia potuto ricevere, non deve preoccuparsi troppo…» Stava parlando troppo in fretta e a voce troppo alta, come sono soliti fare i logorroici; faceva svolazzare le mani e sosteneva il mio sguardo troppo a lungo senza battere ciglio, come se fosse ipnotizzata. Era decisamente molto nervosa, e stava cercando di mascherarlo.

«Non c'è nessun problema» la rassicurai. «Facciamo così: ci troviamo un posto carino per sederci e ti porto un'altra tazza di caffè. Farà ancora schifo, ma almeno sarà nero. Cosa ne dici?» Rosalind mi sorrise con gratitudine, e per un momento ebbi la strana sensazione che quel piccolo gesto di premura l'avesse quasi commossa.

Scesi in giardino, trovammo una panchina al sole; gli uccelli sfrecciavano stridendo dalle siepi per avventarsi sulle briciole dei sandwich. Lasciai Rosalind e tornai indietro a prendere un altro caffè. Ci misi un po' di tempo, di proposito, per darle la possibilità di tranquillizzarsi. Quando ritornai però era ancora seduta sul bordo della panchina, si mordeva un labbro e stava strappando i petali di una margherita.

«Grazie» mi disse. Prese il caffè e provò a sorridere. Mi sedetti accanto a lei. «Detective Ryan, ha… ha scoperto chi ha ucciso mia sorella?»

«Non ancora» risposi. «Ma è presto. Ti prometto che faremo del nostro meglio.»

«So che lo prenderete, detective Ryan. L'ho capito nel momento in cui l'ho vista. Riesco a capire un sacco di cose sulle persone dalla prima impressione… a volte mi spaventa constatare che ho ragione così spesso… e ho intuito immediatamente che lei era la persona di cui avevamo bisogno.»

Mi stava guardando con una fede pura e incontaminata negli occhi. Mi sentii lusingato, ovviamente. Trovatemi voi un uomo a cui non piaccia essere l'eroe di una bella ragazza. Allo stesso tempo, però, quella fiducia mi faceva sentire a disagio. Era così sicura, e così disperatamente vulnerabile. Benché cercassi di non pensarci, sapevo bene che c'era la possibilità che il caso non venisse mai risolto e quale sarebbe stato l'effetto che avrebbe prodotto su di lei.

«Io l'ho sognata, detective» proseguì Rosalind, e abbassò gli occhi, imbarazzata. «La notte dopo il funerale di Katy. Non avevo dormito più di un'ora per notte da quando era scomparsa, sa. Ero… oh, ero fuori di me. Ma vedere lei, quel giorno… mi ha ricordato che non devo arrendermi. Quella notte ho sognato che lei bussava alla nostra porta e mi diceva che aveva preso il colpevole. Era nell'auto della polizia, alle sue spalle, e lei mi diceva che non avrebbe più fatto del male a nessuno.»

«Rosalind» cominciai. Quello proprio non riuscivo a sopportarlo. «Stiamo facendo del nostro meglio e non ci arrenderemo. Ma ti devi preparare alla possibilità che potrebbe volerci del tempo.»

Scosse la testa. «Lo troverà» si limitò a ripetere.

Lasciai perdere. «Mi hai detto che c'era una cosa che volevi chiedermi. Di che si tratta?»

«Sì.» Inspirò profondamente. «Che cosa è successo a mia sorella, detective Ryan? Esattamente?»

I suoi occhi erano grandi e risoluti, e non ero sicuro di come affrontare l'argomento: se glielo avessi detto, sarebbe crollata, ne sarebbe uscita distrutta, si sarebbe messa a urlare? I giardini erano pieni di impiegati che chiacchieravano durante la pausa pranzo. «Penso che dovrebbero essere i tuoi genitori a dirtelo» risposi.

«Ho diciotto anni, sa. Non ha bisogno del loro permesso per parlare con me.»

«Non importa.»

Rosalind si morse il labbro inferiore. «L'ho chiesto. Lui… loro… loro mi hanno detto di stare zitta.»

Qualcosa mi sfrecciò dentro: rabbia, allarme, pietà, non ne sono certo. «Rosalind» cominciai, con molto tatto, «a casa è tutto a posto?»

Sollevò di scatto la testa, la bocca dischiusa a formare una piccola O. «Sì» rispose con voce bassa e incerta. «Certamente.»

«Ne sei sicura?»

«Lei è molto gentile» disse con voce tremante. «È così buono con me. È… è tutto a posto.»

«Ti sentiresti più a tuo agio a parlarne con la mia collega?»

«No» si affrettò a replicare, con quello che mi parve un tono di disapprovazione nella voce. «Volevo parlare con lei perché…» Si rigirò la tazza in grembo. «Mi pareva che a lei interessasse, detective Ryan. Di Katy intendo. Alla sua collega no, ma lei… lei è diverso.»

«Ma certo che interessa anche a lei» le spiegai. Avrei voluto metterle un braccio intorno alle spalle per rassicurarla, o una mano sulle sue, o qualcosa del genere, ma non sono mai stato un granché in quelle cose.

«Oh, lo so, lo so. Ma la sua collega…» Mi fece un sorrisino di autocritica. «Credo che mi spaventi un po'. È così aggressiva.»

«La mia collega?» chiesi, sorpreso. «Il detective Maddox?» Cassie è sempre stata quella con la reputazione della più brava con le famiglie. Sono io quello che si irrigidisce e che non sa cosa dire. Cassie sembra sapere sempre qual è la cosa giusta da dire e il modo più gentile per farlo. Alcune famiglie le mandano ancora biglietti di Natale pieni di gratitudine.

Rosalind fece con le mani un piccolo gesto d'impotenza. «Oh, detective Ryan, non intendevo in senso cattivo. Essere aggressivi è una cosa positiva, specialmente nel vostro lavoro, no? E io probabilmente sono troppo sensibile. È stato il modo con cui si è rivolta ai miei genitori: so che doveva fare tutte quelle domande, ma è stato il modo in cui le ha fatte, così freddo… Jessica era veramente turbata. E la sua collega mi sorrideva come se fosse tutto… la morte di Katy non è stato un gioco, detective Ryan.»

«Per niente» le dissi. Stavo ripercorrendo mentalmente il momento di quel terribile incontro nel soggiorno dei Devlin per cercare di capire cosa diavolo avesse fatto Cassie per sconvolgere così la ragazza. L'unica cosa che mi venne in mente fu che Cassie aveva rivolto un sorriso incoraggiante a Rosalind quando l'aveva fatta sedere sul divano; a posteriori, immagino che potesse essere stato un po' inappropriato, ma non abbastanza da causare quel tipo di reazione. Lo shock e il dolore spesso fanno reagire le persone in modo strano e illogico, eppure, tanto nervosismo non faceva che rafforzare il mio sospetto che in quella casa ci fosse qualcosa che non andava. «Mi dispiace se abbiamo dato l'impressione…»

«No, no, non lei… lei è stato fantastico. E so che il detective Maddox non voleva essere così… così dura. Davvero. La maggior parte delle persone aggressive cerca solo di essere forte, non è vero? Non vogliono apparire insicuri, o dare la sensazione di dipendere da qualcun altro, o cose del genere. Non sono davvero crudeli, dentro.»

«No» confermai, «probabilmente no.» Mi era difficile pensare a Cassie come a una persona dipendente, e d'altro canto il suo modo di fare non mi era mai parso aggressivo. Ma poi, improvvisamente turbato, mi resi conto che non sapevo come Cassie potesse apparire agli occhi degli altri. Era come cercare di capire se tua sorella è carina. Non potevo essere obiettivo su di lei, non più di quanto potessi esserlo su me stesso.

«L'ho offesa?» Rosalind mi guardò nervosamente, giocando con un ricciolo dei suoi capelli. «L'ho offesa. Mi dispiace, mi dispiace, parlo sempre a sproposito. Apro questa sciocca bocca e viene fuori di tutto, non imparo mai…»

«No» la fermai, «va tutto bene. Non sono per niente offeso.»

«Invece sì, si vede.» Si strinse ancora di più nella pashmina e liberò i capelli che erano finiti sotto. Il suo volto teso si stava chiudendo a qualsiasi forma di comunicazione.

Sapevo che se l'avessi persa adesso probabilmente non avrei avuto un'altra possibilità. «Davvero» insistetti, «non sono offeso, per niente. Stavo solo pensando a quello che hai detto. È molto acuto.»

Giocava con le frange della pashmina e non mi guardava negli occhi. «Ma non è la sua ragazza?»

«Il detective Maddox? No, no, no» mi affrettai a negare. «Niente del genere.»

«Ma dal modo in cui lei… pensavo…» Si mise una mano sulla bocca. «Oh, ecco, l'hai fatto di nuovo! Basta, Rosalind!»

Risi. Non riuscii a evitarlo. Ce la stavamo mettendo tutta entrambi. «Avanti» dissi. «Un bel respiro e ricominciamo da capo.»

Lentamente, si rilassò sulla panchina. «Grazie, detective Ryan. Ma, per favore… cosa è successo esattamente a Katy? Continuo a immaginare… Devo sapere cosa è successo realmente. Non posso sopportare di non saperlo.»

Cosa avrei potuto rispondere a quella richiesta? Così glielo dissi. Non svenne, non le venne una crisi isterica e non scoppiò nemmeno in lacrime. Mi ascoltò in silenzio, fissandomi con quei suoi occhi del colore dei jeans sbiaditi e dalle iridi cerchiate di nero. Quando ebbi finito, si portò le dita alle labbra e guardò verso il sole, verso il profilo accuratamente disegnato delle siepi, verso gli impiegati con i loro contenitori di plastica e le chiacchiere vuote. Le diedi un colpetto sulla spalla in modo maldestro. Al tatto sentii che la pashmina era di stoffa da poco, un materiale pungente e sintetico, ma fu il suo coraggio infantile e patetico a toccarmi il cuore. Avrei voluto dirle qualcosa di saggio e profondo su quanto poco potesse competere il dolore di chi ci lascia con l'agonia di chi rimane; qualcosa che lei avesse potuto ricordare quando si fosse trovata sola, senza riuscire a dormire, e a capire, nella sua stanza. Ma non riuscii a trovare le parole adatte.

«Mi dispiace tanto» le dissi, soltanto.

«Allora non è stata violentata?»

C'era una nota piatta e vuota nella sua voce. «Bevi il caffè» le dissi. Mi tornò in mente una cosa che ci insegnarono durante l'addestramento: le bevande calde fanno bene quando si è sotto shock.

«No, no…» Scosse la mano con fare distratto. «Me lo dica. Non è stata violentata?»

«Non precisamente, no. Ed era già morta, sai? Non ha sentito nulla.»

«Non ha sofferto molto?»

«Praticamente niente. Ha perso i sensi quasi subito.»

D'un tratto, Rosalind piegò la testa sulla tazza di caffè e vidi che le tremavano le labbra. «Mi sento malissimo per quello che è successo, detective Ryan. Sento che avrei dovuto proteggerla di più.»

«Non sapevi.»

«Ma avrei dovuto. Avrei dovuto essere là, non a divertirmi con le mie cugine. Sono una sorella terribile, vero?»

«Non sei responsabile della morte di Katy» ripetei con tono sicuro. «A me pare che tu sia stata un'ottima sorella. Non c'è niente che avresti potuto fare.»

«Ma…» Si fermò, scuotendo la testa.

«Ma cosa?»

«Oh… avrei dovuto saperlo, ecco. Non importa.» Un sorriso incerto si fece strada in mezzo alla trama dei capelli. «Grazie per avermelo detto.»

«È il mio turno ora» dissi. «Posso chiederti un paio di cose?»

Sembrava preoccupata, ma respirò profondamente e annuì.

«Tuo padre ha detto che Katy non era ancora interessata ai ragazzi» cominciai. «È vero?»

La sua bocca si aprì, poi si richiuse. «Non lo so» rispose a voce bassa.

«Rosalind, lo so che non è facile per te. Ma se è così, dobbiamo saperlo.»

«Katy era mia sorella, detective Ryan. Non voglio… sparlare di lei.»

«Lo so» le dissi, in tono gentile. «Lo so. Ma la cosa migliore che puoi fare ora per lei è rivelarmi qualunque cosa possa aiutarmi a trovare chi l'ha uccisa.»

Alla fine fece un piccolo e tremulo sospiro. «Sì» rispose. «Le piacevano i ragazzi. Non so chi precisamente, ma ho sentito lei e le sue amiche che si prendevano in giro… sui ragazzi, sa, e su chi avevano baciato…»

Il pensiero di una dodicenne che baciava un ragazzo mi sorprese, ma mi ricordai di quelle ragazzine sveglie, sconcertanti. Forse Peter, Jamie e io eravamo un po' ritardati. «Ne sei sicura? Tuo padre sembrava abbastanza categorico.»

«Mio padre…» Si formò una piccola ruga tra le sopracciglia di Rosalind. «Mio padre adorava Katy. E lei… certe volte se ne approfittava. Non gli diceva la verità. Questo mi rendeva molto triste.»

«Okay» dissi, «okay. Capisco. Hai fatto la cosa giusta a dirmelo.» Annuì con un cenno. «Devo chiederti un'altra cosa. A maggio sei scappata di casa, vero?»

Si accigliò. «Non sono proprio scappata, detective Ryan. Non sono una bambina. Ho trascorso un weekend con un'amica.»

«Con chi?»

«Karen Daly. Glielo può chiedere, se vuole. Le do il suo numero.»

«Non ce n'è bisogno» le dissi ambiguamente. Avevamo già parlato con Karen, una ragazza timida e pallida, certamente non il tipo di amica che mi sarei aspettato da Rosalind. Aveva confermato che Rosalind era stata con lei tutto il weekend. Io però ho un buon fiuto per i sotterfugi ed ero piuttosto certo che ci fosse qualcosa che Karen non mi avesse detto. «Tua cugina pensa che tu abbia trascorso il weekend con un ragazzo.»

La bocca di Rosalind ebbe una piccola smorfia di disgusto. «Valerie pensa solo a quello. So che molte ragazze fanno cose del genere, ma io non sono come loro.»

«No, non lo sei. Ma i tuoi genitori non sapevano dov'eri?»

«No. Non lo sapevano.»

«E perché?»

«Perché non mi andava di dirglielo» rispose, tagliente. Poi sollevò lo sguardo verso di me, sospirò e il suo viso si ammorbidì. «Oh, detective, non sente mai che… che ha bisogno di andare via? Da tutto? Che è tutto troppo?»

«Sì» risposi, «certo. Quindi il weekend fuori casa non era perché era successo qualcosa di brutto in casa? Ci hanno detto che avevi litigato con tuo padre…»

Rosalind si rannuvolò, distolse lo sguardo. Attesi. Dopo un momento, scosse la testa. «No. Io… niente del genere.»

I miei allarmi stavano suonando di nuovo, ma Rosalind si era irrigidita e io non volevo insistere, non ancora. Ora mi chiedo se avrei dovuto farlo, anche se credo che, alla lunga, non avrebbe fatto molta differenza.

«So che è un momento duro per te» ripresi, «ma non scappare di nuovo, okay? Se ti sembra di non farcela, o se hai voglia di parlare, chiama il servizio di Sostegno Psicologico, oppure me, hai il mio numero di cellulare, no? Farò tutto quello che posso per aiutarti.»

Rosalind annuì. «Grazie, detective Ryan. Me lo ricorderò.» Ma il suo viso era chiuso, poco animato, ed ebbi la sensazione che, in qualche modo, dovevo averla delusa.


In ufficio, Cassie stava fotocopiando delle dichiarazioni. «Chi era?»

«Rosalind Devlin.»

«Ah» commentò. «Cosa ti ha detto?»

Per una strana ragione, non mi andava di fornirle i dettagli. «Niente di particolare. Solo che, nonostante quello che ne pensa Jonathan, Katy era interessata ai ragazzi. Rosalind non conosce i nomi e quindi dovremo parlare di nuovo con le amiche di Katy e vedere se ci possono dire di più. Ha anche detto che Katy diceva bugie. In realtà, la maggior parte dei bambini lo fa.»

«Nient'altro?»

«Non molto.»

Cassie si girò dalla fotocopiatrice con un foglio in mano e mi lanciò una lunga occhiata che non riuscii a decifrare. Poi mi disse: «Almeno con te parla. Cerca di restare in contatto, potrebbe aprirsi di più con il tempo».

«Le ho chiesto se c'era qualcosa che non andava in casa» proseguii, in tono un po' colpevole. «Ha risposto di no, ma non le credo.»

«Mmm» mormorò Cassie, e si rimise a fare fotocopie.


Quando però parlammo di nuovo con Christina, Marianne e Beth, nessuna di loro cambiò versione: Katy non aveva avuto ragazzi e nessuna cotta in particolare. «La prendevamo in giro, a volte» disse Beth, «ma non sul serio, sa? Scherzavamo.» Era una bambina dall'aria allegra, con i capelli rossi, che stava già iniziando a sviluppare le prime curve e, quando le si riempirono gli occhi di lacrime, ne parve sconcertata, come se piangere fosse ancora una cosa sconosciuta. Cercò nella manica del golf ed estrasse un fazzoletto malconcio.

«Potrebbe non avercelo detto, però» intervenne Marianne. Era la più silenziosa del gruppo, una graziosa e pallida bambina che si perdeva nei suoi eccentrici abiti da preadolescente. «Katy è… era molto riservata su certe cose. Come la prima volta che ha fatto l'audizione per la scuola di danza. Non l'abbiamo saputo fino a quando non fu accettata, ve lo ricordate?»

«Be', ca… spiterina, non è la stessa cosa» disse Christina, ma anche lei aveva pianto e gran parte dell'autorità che poteva avere la sua voce era smorzata dal naso tappato. «Non possiamo non avere notato che avesse un ragazzo.»

Gli agenti di supporto avrebbero interrogato nuovamente tutti i ragazzi del quartiere e i compagni di classe di Katy, ovviamente, tanto per essere sicuri. Intuivo però che, in qualche modo, era esattamente quello che mi ero aspettato. Quel caso era come il gioco delle tre carte e mi faceva andare fuori di testa: sapevo che il premio era lì da qualche parte, proprio sotto i miei occhi, ma il gioco era truccato e il tipo che manovrava le carte troppo veloce per me; ogni volta che ne giravo una, certo che fosse quella giusta, constatavo con amarezza che era quella sbagliata.


Sophie mi chiamò mentre ce ne stavamo andando da Knocknaree per dirmi che erano arrivati i risultati degli esami di laboratorio. Era in strada anche lei perché sentivo che la voce andava e veniva con il sobbalzare del cellulare e sentivo anche il picchiettare veloce e deciso delle sue scarpe.

«Ho i risultati sulla piccola Devlin» disse. «Il laboratorio ha un arretrato di sei settimane, e sai come sono, ma ho fatto in modo che dessero la precedenza a questo caso. Ho quasi dovuto andare a letto con il responsabile per convincerlo.»

Sentii aumentare il battito cardiaco. «Che Dio ti benedica, Sophie» le dissi. «Ti siamo di nuovo debitori.» Cassie, alla guida, mi lanciò un'occhiata. «I risultati» le bisbigliai.

«L'esame tossicologico è negativo. Non era drogata, né ubriaca, e non prendeva nessuna medicina. Era coperta di tracce, per la maggior parte esterne: terra, polline… le solite cose. Ma c'è una cosa positiva: tutto, compreso ciò che abbiamo rinvenuto sui vestiti e mischiato al sangue, è compatibile con la composizione del terreno intorno a Knocknaree. Quindi stiamo parlando di cose che non le si sono attaccate addosso nel luogo dove è stata lasciata. Dal laboratorio fanno sapere che c'è una pianta molto rara in quel bosco che non cresce in nessun altro posto qui vicino, e l'esperto si è tutto gasato per la faccenda. Dice che il polline non si sposta per più di un chilometro, un chilometro e mezzo, quindi è probabile che sia sempre stata a Knocknaree.»

«Questo combacia con quello che abbiamo» la incalzai. «Arriva alla parte positiva.»

Sophie sbuffò. «Era questa. Le impronte sono un vicolo cieco: metà corrispondono a quelle degli archeologi e le altre sono troppo poco chiare per esserci d'aiuto. Praticamente tutte le fibre sono compatibili con ciò che abbiamo prelevato in casa. Alcune non sono state identificate, ma niente di particolare. Un capello sulla maglietta corrisponde a quello dell'idiota che l'ha trovata, due, uno sui pantaloni e uno su una calza, a quelli della madre, che probabilmente è quella che si occupa del bucato, quindi questo non ci aiuta.»

«Niente DNA? O impronte digitali, o altro?»

«Ah!» fece Sophie. Stava mangiando qualcosa di croccante, popcorn o, più probabilmente, patatine: lei vive quasi solo di cibo spazzatura. «Alcuni parziali ematici, ma sono venuti via da un guanto di gomma, chi l'avrebbe mai detto, eh? Quindi nessun tessuto epiteliale. Niente sperma o saliva e niente sangue tranne quello della bambina.»

«Fantastico» commentai, con il morale a terra. Ci ero cascato di nuovo, avevo sperato e ora mi sentivo fregato, uno stupido.

«A eccezione di quella piccola vecchia macchia che aveva trovato Helen. Hanno preso il gruppo sanguigno: è A positivo. Quello della vittima è 0 negativo.»

Si bloccò per masticare un po' di patatine, mentre il mio stomaco eseguiva un complicato movimento. «Che c'è?» mi chiese, visto che non dicevo nulla. «È quello che volevi sentire, no? Come nel vecchio caso.»

«Sì» assentii. Sentivo che Cassie stava ascoltando. Le voltai le spalle. «È fantastico. Grazie, Sophie.»

«Abbiamo mandato i tamponi e quelle scarpe per un test del DNA» continuò Sophie, «ma fossi in te non ci conterei troppo. Scommetto che si è degradato, che è marcio. Chi è il genio che tiene prove ematiche in una cantina?»


Come per un tacito accordo, Cassie stava seguendo il vecchio caso mentre io mi concentravo sui Devlin. McCabe era morto diversi anni prima, di attacco cardiaco, così andò a trovare Kiernan. Era in pensione e viveva a Laytown, un piccolo paese di pendolari lungo la costa. Aveva superato i settanta, con un viso rubizzo e cordiale e il fisico di un giocatore di rugby fuori forma, ma portò Cassie a fare una lunga passeggiata sulla spiaggia deserta dove, tra grida di chiurli e gabbiani, le disse quello che ricordava del caso di Knocknaree. Sembrava felice, riferì Cassie quella sera, mentre lei accendeva il fuoco, io spalmavo senape su un pane tipo ciabatta e Sam versava il vino. Si era messo a lavorare il legno – c'era segatura sui suoi morbidi pantaloni consumati – e la moglie gli aveva avvolto una sciarpa intorno al collo e lo aveva baciato su una guancia quando era uscito.

Ricordava il caso, però: ne ricordava ogni singolo dettaglio. In tutta la breve e disorganizzata storia dell'Irlanda come nazione, erano scomparsi, e non erano mai stati ritrovati, meno di una mezza dozzina di bambini, e Kiernan non era mai riuscito a dimenticare che due di loro erano stati affidati alle sue mani. La ricerca era stata massiccia (Cassie ci disse che lo aveva sentito un po' sulla difensiva, come se quella fosse stata una conversazione che gli era frullata molte volte nella testa), erano stati impiegati cani, elicotteri, sommozzatori; poliziotti e volontari avevano passato al setaccio migliaia di ettari di bosco e collina e campi in ogni direzione, iniziando all'alba di ogni mattina per settimane e continuando fino al tramonto di quella tarda estate. Avevano seguito piste a Belfast, a Kerry e anche a Birmingham, e per tutto il tempo Kiernan aveva avvertito la fastidiosa e insistente sensazione che stavano andando nella direzione sbagliata, che la risposta era sempre rimasta davanti a loro.

«Qual è la sua teoria?» chiese Sam.

Infilai l'ultima bistecca nei sandwich e distribuii i piatti. «Dopo» rispose Cassie. «Prima mangiati il tuo sandwich. Quante volte capita che Ryan faccia qualcosa di decente?»

«Stai parlando a due uomini di talento» le dissi. «Riusciamo a mangiare e ad ascoltare nello stesso tempo.» Ovvio che sarebbe stato meglio per me ascoltare quella storia in privato, ma quando Cassie era tornata da Laytown era già troppo tardi per quello. Il pensiero mi aveva già tolto l'appetito e quindi la cosa in sé non avrebbe fatto molta differenza. Fra l'altro, parlavamo sempre del caso durante la cena e quel giorno non avrebbe rappresentato l'eccezione, se non potevo evitarlo. Sam pare sempre soavemente inconsapevole dei sottintesi e delle correnti emotive che si agitano sotto la superficie, ma a volte mi chiedo se in realtà non colga molto più di quanto non dia a vedere.

«Sono sbalordita» disse Cassie. «D'accordo.» I suoi occhi mi cercarono per un istante. Io distolsi i miei. «La teoria di Kiernan è che non abbiano mai lasciato Knocknaree. Non so se lo ricordate, ma c'era un terzo bambino…» Si sporse da un lato per dare un'occhiata al taccuino aperto sul bracciolo del divano. «Adam Ryan. Era con gli altri due quel pomeriggio e lo trovarono nel bosco, un paio d'ore dopo l'inizio delle ricerche: nessuna ferita, ma aveva sangue sulle scarpe, era sotto shock e non ricordava niente. Kiernan immaginò che, qualunque cosa fosse accaduta, doveva essere successa nel bosco o molto vicino, altrimenti come avrebbe fatto Adam a tornare indietro? Pensò che qualcuno, qualcuno del posto, li avesse osservati per un po', li avesse avvicinati nel bosco, portandoseli magari a casa, e li avesse poi aggrediti. Forse senza l'intenzione di ucciderli. Forse li aveva molestati e qualcosa era andato storto. A un certo punto, durante l'aggressione, Adam era scappato nel bosco, il che probabilmente significa che anche loro erano nel bosco, o in una delle case nei dintorni, o in una delle fattorie lì vicino… altrimenti se ne sarebbe tornato a casa, giusto? Kiernan pensa che il tipo sia stato preso dal panico e abbia ucciso gli altri due bambini, nascondendone magari i corpi in casa sua fino a quando non ha avuto la possibilità di gettarli nel fiume, o di seppellirli nel proprio giardino o, più probabilmente, basandosi sul fatto che non ci sono state denunce di scavi inspiegabili nelle settimane seguenti, nel fitto del bosco.»

Addentai il mio sandwich. Il sapore pungente della carne al sangue mi fece quasi vomitare. Lo mandai giù a forza, senza masticarlo, con un sorso di vino.

«Dov'è il giovane Adam, adesso?» chiese Sam.

Cassie si strinse nelle spalle. «Dubito che riuscirebbe a dirci qualcosa. Kiernan e McCabe andarono a trovarlo per anni senza ottenerne alcuna informazione utile. Alla fine si arresero, ipotizzando che lo shock avesse cancellato per sempre ogni ricordo dell'accaduto. La famiglia si trasferì lontano da qui. A Knocknaree le voci dicono che emigrarono in Canada.» Il che era tutto vero, più o meno. Era più difficile e nello stesso tempo ridicolo di quanto mi fossi aspettato. Sembravamo spie, comunicavamo cercando di non far capire nulla a Sam, con un codice artificioso, inventato al momento.

«Devono aver dato fuori di matto» disse Sam. «Un testimone oculare e non…» Scosse la testa e addentò il sandwich.

«Sì, Kiernan dice che fu davvero frustrante» confermò Cassie, «ma il bambino faceva del suo meglio. Partecipò anche a una ricostruzione, con due ragazzini del posto. Speravano che ricordasse quello che avevano fatto lui e i suoi amici quel pomeriggio, ma Adam si immobilizzò non appena mise piede nel bosco.» Lo stomaco mi si rivoltò. Questo non me lo ricordavo. Rimisi giù il panino e avvertii l'improvviso e irresistibile desiderio di una sigaretta.

«Povera piccola anima» mormorò Sam.

«Anche McCabe la pensava così?» chiesi.

«No.» Cassie si leccò la senape dal pollice. «McCabe pensava che si trattasse di un assassino di passaggio, qualcuno che era lì solo per qualche giorno, forse uno che veniva dall'Inghilterra, magari per lavoro. Non riuscirono a trovare un solo sospettato. Interrogarono quasi mille persone, condussero centinaia di interviste, eliminarono tutti i pervertiti e i tipi strani conosciuti nella zona sud di Dublino, controllarono i movimenti di tutti gli uomini del posto minuto per minuto… sapete come funziona: quasi sempre trovi un sospettato, anche se non hai abbastanza prove per incriminarlo. Be', non trovarono nessuno. Ogni volta che avevano una pista finivano in un vicolo cieco.»

«Mi suona familiare» dissi cupamente.

«Kiernan pensa che qualcuno abbia fornito un finto alibi al nostro uomo perché non entrasse nei loro radar, ma McCabe riteneva che non lo avessero trovato perché non era di lì. La sua teoria era che i bambini, giocando in riva al fiume, lo avessero seguito fino al punto in cui esce dal bosco, dall'altra parte. È una lunga camminata, ma lo avevano già fatto prima. C'è una stradina secondaria che passa proprio accanto a quel tratto di fiume. McCabe era convinto che qualcuno fosse passato in auto su quella strada, avesse visto i bambini e li avesse trascinati, o attirati, nella sua macchina. Adam aveva lottato, era scappato ed era corso nel bosco, e il tipo se ne era andato, chissà dove, con gli altri due. Aveva parlato con l'Interpol e con la polizia britannica, ma non era approdato a nulla di utile.»

«Allora sia Kiernan sia McCabe pensavano che i bambini fossero stati uccisi» osservai.

«McCabe non ne sembrava del tutto certo. Pensava che ci fosse la possibilità che qualcuno li avesse rapiti, magari un malato di mente, un disperato che voleva avere dei bambini, o forse… Be', all'inizio pensavano tutti e due che potessero essere semplicemente scappati. Ma dove sarebbero potuti andare due dodicenni senza soldi? Li avrebbero trovati in pochi giorni.»

«Katy non è stata uccisa da un killer di passaggio» intervenne Sam. «Le ha dato appuntamento, ha dovuto tenerla da qualche parte durante il giorno…»

«In realtà» dissi, impressionato dal tono piacevole e tranquillo della mia stessa voce, «non riesco a percepire neanche il vecchio caso come un rapimento fatto da un killer di passaggio. Per quello che ricordo, le scarpe al bambino furono rimesse solo quando il sangue aveva iniziato a coagularsi. In altre parole, il rapitore trascorse un po' di tempo con tutti e tre i bambini, in zona, prima che uno se ne andasse. Questo mi spinge a puntare il dito su uno del luogo.»

«Knocknaree è un posto piccolo» obiettò Sam. «Quante probabilità ci sono che ci vivano ben due assassini?»

Cassie mise in equilibrio il piatto sulle gambe incrociate, unì le mani dietro al collo e si inarcò per alleviare l'indolenzimento. Aveva ombre scure sotto gli occhi e capii all'improvviso che il pomeriggio con Kiernan l'aveva colpita duramente e che la sua riluttanza a raccontare la storia poteva non essere dovuta solo a me. Quando si tratteneva dal dire qualcosa una smorfia le alterava impercettibilmente le labbra. Mi chiesi che cosa non ci stava dicendo di quanto aveva saputo da Kiernan.

«Esaminarono anche gli alberi, sapete?» disse. «Dopo alcune settimane, un agente di supporto piuttosto sveglio si ricordò del vecchio caso di un bambino che si era arrampicato su un albero cavo ed era caduto all'interno del tronco. Era stato ritrovato solo quarant'anni dopo. Kiernan e McCabe fecero verificare ogni albero, controllarono con le torce in ogni buco…»

La sua voce si spense e restammo in silenzio. Sam mangiò con placido apprezzamento e senza fretta il suo sandwich, appoggiò il piatto e sospirò soddisfatto. Anche Cassie alla fine si scosse e allungò una mano nella mia direzione. Le passai il suo pacchetto di sigarette. «Kiernan se lo sogna ancora, sapete» disse piano, pescandone una. «Non più come una volta, ha detto, solo ogni tanto e da quando è andato in pensione. Sogna che sta cercando i due bambini nel bosco, di notte, li chiama e qualcuno salta fuori dai cespugli e gli salta addosso. Lui sa che è la persona che li ha presi, vede il suo viso, "proprio come vedo te", mi ha detto, ma quando si sveglia non riesce a ricordarlo.»

Il fuoco nel caminetto scoppiettava allegramente. Con la coda dell'occhio mi parve di cogliere qualcosa che da lì balzava verso la stanza e mi girai di scatto. Una cosa piccola, nera e con gli artigli, magari un uccellino finito giù per il camino? Ma non c'era niente. Quando mi rigirai, Sam mi stava guardando con i suoi occhi grigi e calmi, amichevoli. Si limitò a sorridere e a sporgersi sul tavolo per riempirmi il bicchiere.


Facevo fatica a addormentarmi anche quando ne avevo l'opportunità. Mi capita spesso, come ho detto, ma in quella situazione era diverso: durante quelle settimane continuavo a scoprirmi intrappolato in una zona confusa fra il sonno e la veglia, incapace dell'uno o dell'altra. "Attento!" mi urlavano all'improvviso delle voci nell'orecchio. Oppure: "Non riesco a sentirti. Cosa? Cosa?". Sognavo di intrusi che si aggiravano furtivamente per casa, scorrevano i miei appunti di lavoro, maneggiavano le mie camicie nell'armadio. Sapevo che non potevano essere reali, ma mi ci voleva un eterno momento di panico per svegliarmi e combatterli o vederli svanire. Una volta mi ritrovai addossato alla parete accanto alla porta della camera da letto, che brancolavo selvaggiamente nel buio alla ricerca dell'interruttore della luce, le gambe a malapena in grado di sorreggermi. Mi girava la testa e udivo un gemito attutito che proveniva da qualche parte. Ci misi un bel po' a capire che si trattava della mia voce. Accesi la luce e arrancai di nuovo verso il letto, dove rimasi, troppo scosso per riaddormentarmi, fino al suono della sveglia.

In quel limbo, continuavo anche a sentire voci di bambini. Non erano quelle di Peter e Jamie: erano bambini molto lontani che cantavano filastrocche che non ricordavo di sapere. Le loro voci erano allegre, spensierate e troppo pure per essere umane, accompagnate dall'animato ritmo di un complesso battimani. Say say my playmate, come out and play with me, climb up my apple tree… See my king all dressed in red, bet you five shillings that he'll kill you dead…* A volte quei deboli ritornelli mi rimanevano in testa per tutto il giorno, ineludibile musica di sottofondo a tutto quello che facevo. Vivevo nel terrore che O'Kelly mi sentisse canticchiarli. Rosalind mi chiamò sul cellulare il giorno seguente. Ero in sala operativa, Cassie era andata a parlare con quelli della sezione Persone scomparse. Dietro di me, O'Gorman stava sbraitando perché un tizio non lo aveva trattato con il dovuto rispetto durante il porta-a-porta. Dovetti premere il telefono contro l'orecchio per sentire quello che diceva. «Detective Ryan, sono Rosalind… mi dispiace disturbarla, ma pensa di avere un po' di tempo per venire a parlare con Jessica?»

Rumori di città in sottofondo: automobili, conversazioni a voce alta, il bip frenetico di un segnale pedonale. «Certamente» risposi. «Dove siete?»

«Siamo a Dublino. Possiamo incontrarci al bar del Central Hotel fra, diciamo, dieci minuti? Jessica ha qualcosa da dirle.»

Cercai il fascicolo principale e iniziai a scorrerlo velocemente per controllare la data di nascita di Rosalind: se dovevo parlare con Jessica, avevo bisogno che fosse presente un "adulto competente". «I vostri genitori sono con voi?»

«No, io… no. Penso che Jessica si sentirebbe più a suo agio a parlare senza di loro, se per lei va bene.»

Mi si drizzarono le antenne. Avevo trovato la pagina con i dati della famiglia: Rosalind aveva diciotto anni, quindi per quanto mi riguardava era "competente". «Nessun problema» dissi. «Ci vediamo là.»

«Grazie, detective Ryan, sapevo di potere contare su di lei. Mi dispiace farle fretta, ma noi… noi dobbiamo tornare a casa prima…» Un bip e la comunicazione cessò: aveva esaurito la batteria o il credito. Lasciai un biglietto per Cassie, "Torno presto", e uscii.


Rosalind aveva gusto. Il bar del Central si ostinava a mantenere un'atmosfera vecchio stile: le modanature del soffitto, le ampie e comode poltrone che occupavano, e sprecavano, un sacco di spazio, gli scaffali con strani vecchi libri dalla rilegatura elegante: tutto esibiva un soddisfacente contrasto con la confusione incredibile della strada su cui si affacciava. A volte ci andavo, il sabato, bevevo un bicchierino di brandy e mi gustavo un sigaro, prima che fosse introdotto il divieto di fumare, e trascorrevo il pomeriggio a leggere l'"Almanacco dell'Agricoltore" del 1938 o poesie vittoriane di terz'ordine.

Rosalind e Jessica sedevano a un tavolo vicino alla finestra. Rosalind, con i morbidi riccioli raccolti, era vestita di bianco, con una gonna lunga e una camicetta di garza dall'aria stropicciata, intonata all'ambiente. Sembrava appena arrivata da un party in giardino dell'epoca di re Edoardo. Era china a sussurrare qualcosa all'orecchio di Jessica e con una mano, lentamente, le accarezzava i capelli.

Jessica stava seduta in poltrona con le gambe piegate sotto di sé. Mi colpì di nuovo quasi come la prima volta. Il sole che entrava dai grandi vetri la comprendeva in una colonna di luce trasformandola in un'altra, radiosa visione, una visione vivida, appassionata e perduta. La bella V formata dalle sue sopracciglia, l'inclinazione del naso, la curva piena e infantile delle labbra: l'ultima volta che avevo guardato quel viso, era spento e ricoperto di sangue, e giaceva sul tavolo di acciaio di Cooper. Ora la vedevo come una sospensione, una Euridice restituita dall'oscurità a Orfeo per un breve, prezioso momento. Con un'intensità da togliermi il fiato, avrei voluto posare una mano sulla sua testa morbida, stringerla forte a me e sentirla piccola, calda e viva; proteggerla, come se così facendo avessi potuto in qualche modo cambiare il tempo e proteggere anche Katy.

«Rosalind, Jessica» le salutai.

Quest'ultima si tirò indietro e sgranò gli occhi. L'illusione sparì. Stringeva qualcosa, una bustina di zucchero presa dal contenitore in mezzo al tavolo. Si portò l'angolo alla bocca e iniziò a succhiarlo.

Il viso di Rosalind si illuminò. «Detective Ryan! Che piacere vederla. So di averglielo chiesto con poco anticipo, ma… oh, si sieda, si sieda…» Avvicinai un'altra poltrona. «Jessica ha visto qualcosa che penso lei debba sapere. Vero, cucciola?»

Jessica si strinse nelle spalle con una strana contorsione.

«Ciao, Jessica» dissi con la voce più bassa e più calma che mi fu possibile. La mia mente stava andando in molte direzioni, contemporaneamente: se questo aveva qualcosa a che fare con i genitori allora avrei dovuto trovare un posto per le ragazze, e per Jessica sarebbe stato terribile sul banco dei testimoni. «Mi fa piacere che abbiate deciso di dirmelo. Che cosa hai visto?»

Le sue labbra si schiusero. Si dondolò un po' nella poltrona. Poi scosse la testa.

«Oh, santo cielo… immaginavo che sarebbe potuto accadere.» Rosalind sospirò. «Bene. Mi ha detto che ha visto Katy…»

«Grazie, Rosalind» la interruppi, «ma devo assolutamente sentirlo da Jessica. Una dichiarazione "per sentito dire" non è ammessa in tribunale.»

Colta alla sprovvista, Rosalind mi lanciò uno sguardo assente. Alla fine annuì. «Be'» disse, «se questo è ciò di cui ha bisogno, spero… spero soltanto…» Si chinò su Jessica e, sorridendole, cercò di attirare il suo sguardo. Le mise i capelli dietro l'orecchio. «Jessica? Piccola? Devi dire al detective Ryan quello di cui abbiamo parlato, tesoro. È importante.»

Jessica spostò la testa. «Non ricordo» sussurrò.

Il sorriso di Rosalind si spense. «Avanti, Jessica. Te lo ricordavi bene prima di venire fin qua e di distogliere il detective Ryan dal suo lavoro, no?»

Jessica scosse di nuovo la testa e mordicchiò la bustina di zucchero. Le tremava il labbro.

«Va tutto bene» dissi. Avrei voluto scuoterla. «È solo un po' nervosa. Ha passato dei momenti difficili. Vero, Jessica?»

«Entrambe abbiamo passato dei momenti difficili» precisò Rosalind, tagliente, «ma una di noi deve comportarsi da adulta e non da bambina stupida.» Jessica divenne ancora più piccola nel suo maglione già troppo grande.

«Lo so» dissi, in quello che speravo fosse un tono conciliatorio. «Lo so. Capisco quanto sia difficile…»

«No, in realtà, detective Ryan, non lo sa.» Il ginocchio accavallato di Rosalind si muoveva con rabbia. «Nessuno può capire come ci si sente. Non so perché siamo venute qui. Jessica non riesce a dirle cosa ha visto e ovviamente lei non ritiene che sia importante. Possiamo anche andarcene.»

Non potevo perderle. «Rosalind» le dissi con tono pressante, sporgendomi sul tavolo, «sto prendendo tutta questa storia molto seriamente. E vi capisco. Davvero, vi capisco.»

Rosalind rise, amara, cercando la sua borsa sotto il tavolo. «Oh, ne sono certa. Mettilo giù, Jessica. Andiamo a casa.»

«Rosalind, io capisco. Quando avevo circa l'età di Jessica, due miei amici scomparvero. So cosa state passando.»

Sollevò la testa e mi guardò.

«So che non è come perdere una sorella…»

«No, infatti.»

«… ma so come è difficile per chi rimane. Mi impegnerò a fondo perché riceviate delle risposte, okay?»

Rosalind continuò a guardarmi per un altro lungo momento. Poi lasciò cadere la borsa e rise, di sollievo, fino a rimanere senza fiato. «Oh… oh, detective Ryan!» Senza rendersene conto si era allungata sul tavolo e mi aveva preso la mano. «Lo sapevo che c'era un motivo per cui pensavo che fosse la persona giusta per questo caso!»

Non l'avevo mai vista così e quella constatazione mi faceva star bene. «Spero che tu abbia ragione» le dissi.

Le strinsi la mano, doveva essere un gesto rassicurante, ma improvvisamente lei capì quello che aveva fatto e la ritirò, imbarazzata. «Oh, non intendevo…»

«Sai cosa?» proposi. «Possiamo parlare un po', tu e io, fino a quando Jessica non si sentirà pronta a dirmi quello che ha visto. Che ne dici?»

«Jessica? Cucciola?» Rosalind le toccò il braccio e lei ebbe un sussulto. Aveva gli occhi sbarrati. «Ti va di rimanere qui un po'?»

Jessica ci pensò, guardando Rosalind in faccia. Rosalind le sorrise. Alla fine annuì.

Andai a prendere due caffè, per me e Rosalind, e una 7-Up che Jessica tenne con entrambe le mani, rimanendo a fissare come ipnotizzata le bollicine che salivano verso l'alto nel bicchiere mentre io e Rosalind parlavamo.

Se devo essere sincero, non mi ero aspettato di godermi la conversazione con una teenager, ma Rosalind era una ragazza particolare. Lo shock iniziale per la morte di Katy si era dissolto e per la prima volta ebbi la possibilità di vedere com'era veramente: estroversa, vivace, frizzante, incredibilmente brillante. Mi chiesi dove fossero le ragazze così quando avevo diciott'anni. Era ingenua, ma lo sapeva; faceva battute su se stessa («… è venuto direttamente da me e mi ha detto: "Dammi i soldi!" e io ero così sorpresa che gli ho risposto: "Oh, non ho molti soldi, ma le va un po' di cioccolata?". E lui è rimasto così sorpreso che ha detto: "Grazie, cara", ha preso la cioccolata e se ne è andato…») con un tale entusiasmo e un'espressione così furba che – nonostante il contesto, la mia preoccupazione che tutta quell'ingenuità un giorno avrebbe potuta metterla in pericolo, Jessica che se ne stava lì e guardava le particelle invisibili come un gatto – risi di gusto.

«Cosa vuoi fare dopo la scuola?» le chiesi. Ero davvero curioso, non riuscivo a immaginare una ragazza così chiusa in un ufficio tutto il giorno.

Rosalind sorrise, ma un'ombra appena accennata di tristezza le attraversò il volto. «Mi piacerebbe studiare musica. Suono il violino da quando avevo nove anni e compongo un po'. Il mio insegnante dice che sono… be', dice che non dovrei avere problemi a entrare in una buona scuola. Ma…» Sospirò. «Costa molto e i miei… i miei genitori non sono proprio d'accordo. Vogliono che segua un corso di segretaria.»

Però avevano sempre sostenuto le ambizioni di Katy di entrare alla Royal Ballet School. A Violenza domestica m'erano capitati casi come quello, dove i genitori sceglievano il figlio prediletto o il capro espiatorio (Jonathan, infatti, aveva detto, il primo giorno: «Era la mia piccolina») e per gli altri fratelli e sorelle era come crescere in una famiglia diversa. Pochi di loro finivano bene.

«Troverai il modo» dissi. L'idea che facesse la segretaria era ridicola. Ma come ragionava Devlin? «Una borsa di studio o qualcosa del genere. A quanto pare sei brava.»

Abbassò la testa, con modestia. «Be', l'anno scorso l'Orchestra giovanile nazionale ha eseguito una sonata che ho scritto io.»

Ovviamente non le credetti. La bugia era chiara: un evento di quella portata, qualcuno l'avrebbe menzionato durante il porta-a-porta. Ma mi arrivò dritto al cuore, come nessuna sonata avrebbe mai potuto, perché la riconobbi come tale. "Questo è il mio fratello gemello, si chiama Peter, ha sette minuti più di me…" I bambini, e Rosalind era poco più di una bambina, non dicono bugie senza senso, a meno che la realtà non sia troppo pesante da sopportare.

Fui lì lì per lasciarmelo sfuggire. "Rosalind, so che c'è qualcosa che non va a casa, dimmi, lascia che ti aiuti…" Ma era troppo presto. Avrebbe eretto nuovamente tutte le sue difese, avrebbe distrutto quello che ero riuscito a fare. «Bene» dissi. «È proprio una gran bel risultato.»

Rise, un po' imbarazzata, e mi guardò da sotto in su.

«I suoi amici» mi chiese timidamente. «Quelli che sono spariti. Cosa è successo?»

«È una storia lunga» dissi. Mi ci ero ficcato da solo in quella situazione e non avevo idea di come uscirne. Gli occhi di Rosalind cominciavano a diventare sospettosi. Di certo non avrei iniziato a raccontare tutta la storia di Knocknaree, ma l'ultima cosa che volevo era perdere la sua fiducia dopo tutta quella fatica.

Fu Jessica, di tutte le persone, a salvarmi: si mosse un po' sulla poltrona, allungò un dito verso il braccio di Rosalind.

Rosalind sembrò non notarlo. «Jessica?» dissi.

«Oh, cosa c'è, cara?» Rosalind si sporse verso di lei. «Sei pronta a raccontare al detective Ryan di quell'uomo?»

Jessica annuì rigidamente. «Ho visto un uomo» disse, tenendo lo sguardo su Rosalind e non su di me. «Ha parlato a Katy.»

Il mio battito cardiaco cominciò ad aumentare. Se fossi stato religioso, avrei acceso candele a tutti i santi del calendario: finalmente una pista solida. «Brava, Jessica. Dove è stato?»

«Sulla strada. Quando stavamo tornando dal negozio.»

«Solo tu e Katy?»

«Sì. Possiamo andarci.»

«Non ho dubbi che sia così. Cosa ha detto?»

«Ha detto…» Jessica respirò profondamente. «Ha detto: "Sei una ballerina molto brava" e Katy ha risposto: "Grazie". Le piace quando le persone le dicono che è una brava ballerina.»

Guardò ansiosamente verso Rosalind. «Stai andando benissimo, cucciola» la incoraggiò la sorella, accarezzandole i capelli. «Continua.»

Jessica annuì. Rosalind toccò il bicchiere e, ubbidiente, Jessica bevve un sorso della 7-Up. «Poi» continuò, «poi ha detto: "E sei una ragazza molto carina" e Katy ha detto: "Grazie". Anche questo le piace. E poi lui ha detto… ha detto… ha detto… "Anche alla mia bambina piace ballare, ma si è rotta una gamba. Vuoi venire a vederla? Sarebbe molto contenta." E Katy ha detto: "Non ora. Dobbiamo andare a casa". Così siamo tornate a casa.»

"Sei una ragazza carina…" Di questi tempi, pochi uomini direbbero una cosa del genere a una dodicenne. «Sai chi era l'uomo?» le chiesi. «Lo avevi mai visto prima?»

Scosse la testa.

«Che aspetto aveva?»

Silenzio, un respiro. «Grande.»

«Grande come me? Alto?»

«Sì… ehm… sì. Ma anche grande così.» Allungò le braccia in fuori e il bicchiere barcollò pericolosamente.

«Un uomo grasso?»

Jessica rise e fu un suono tagliente, nervoso. «Sì.»

«Che cosa indossava?»

«Una… una tuta. Di colore blu scuro.» Guardò Rosalind la quale annuì, incoraggiante.

"Merda" pensai. Il cuore mi batteva all'impazzata. «Come aveva i capelli?»

«Niente… non ce li aveva.»

Chiesi mentalmente scusa a Damien: evidentemente non ci aveva detto solo quello che volevamo sentire, dopotutto. «Era vecchio? Giovane?»

«Come te.»

«Quando è successo?»

Le labbra di Jessica si aprirono, si mossero senza suono. «Eh?»

«Quando avete incontrato quest'uomo, tu e Katy? Solo alcuni giorni prima che Katy andasse via? O alcune settimane? O molto tempo fa?»

Stavo cercando di essere sensibile, ma lei ebbe un sussulto. «Katy non è andata via» disse. «Katy è stata uccisa.» I suoi occhi cominciavano a perdere lucentezza. Rosalind mi lanciò uno sguardo di rimprovero.

«Sì» dissi, nel modo più gentile possibile, «è vero. Quindi è molto importante che tu provi a ricordare quando hai visto quest'uomo, così possiamo scoprire se è stato lui che l'ha uccisa. Riesci a farlo?»

La bocca di Jessica accennò ad aprirsi. I suoi occhi erano irraggiungibili, perduti.

«Mi ha detto» aggiunse piano Rosalind, sopra la sua testa, «che è successo una settimana o due prima…» Deglutì. «Non è sicura del giorno esatto.»

Annuii. «Grazie, Jessica. Sei stata molto coraggiosa. Pensi che riusciresti a riconoscere quest'uomo se lo rivedessi?»

Niente, neppure un minimo accenno. La bustina di zucchero pendeva dalle sue dita contratte. «Penso che sia meglio se ce ne andiamo» concluse Rosalind, con lo sguardo preoccupato che passava da Jessica all'orologio.

Le guardai dalla finestra mentre camminavano lungo la strada: i piccoli passi decisi di Rosalind e i movimenti delicati del suo bacino, Jessica tirata per la mano. Osservai la testa piegata e i capelli setosi di Jessica e pensai a quelle vecchie storie del gemello che sta male e l'altro, lontano, che sente lo stesso dolore. Mi chiesi se c'era stato un momento simile, durante la divertente serata di ragazze dalla zia Vera, se Jessica avesse emesso un qualche lamento che non era stato notato. Mi chiesi se tutte le risposte che volevamo fossero chiuse, cifrate in un codice misterioso, negli strani e oscuri percorsi della sua mente.

"La persona giusta per questo caso" mi aveva detto Rosalind, e le parole mi risuonavano ancora in testa mentre la guardavo andare via. Ancora oggi mi chiedo se gli eventi che seguirono dimostrarono che aveva ragione o torto e quali criteri si potrebbero adottare per distinguere la differenza.


* Filastrocca rimata in inglese: "Ehi, amico mio, vieni a giocare, sali sul mio melo… il mio re è vestito di rosso e scommetto cinque scellini che ti ammazzerà". [N.d.T.]

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