JON

«Grossi abbastanza per i tuoi gusti?»

Fiocchi di neve punteggiavano l’ampia faccia di Tormund, sciogliendosi sulla barba e sui capelli.

Avanzando a coppie, i giganti che cavalcavano i mammut ondeggiavano lentamente a ogni passo. Il cavallo di Jon s’impennò, spaventato da quella vista tanto strana, ma era difficile dire se a generare la paura fossero gli immani elefanti pelosi o i loro ugualmente immani cavalieri. Perfino Spettro arretrò d’un passo, mostrando le zanne in un ringhio silenzioso. Il meta-lupo era grosso, certo, ma i mammut erano decisamente più grossi. Ed erano tanti.

Jon controllò il nervosismo del suo destriero e lo fece restare immobile, in modo da contare i giganti che emergevano da turbini di neve e dalle nebbie livide che incombevano lungo il corso del Fiumelatte. Era già ben oltre cinquanta quando Tormund disse qualcosa che gli fece perdere il conto. “Devono essercene centinaia. Non aveva importanza quanti ne sfilassero, sembrava che continuassero ad arrivarne sempre di più.

Nelle storie della vecchia Nan, i giganti erano uomini di dimensioni superiori che vivevano in castelli colossali, combattevano con spade enormi e camminavano con stivali dentro i quali un ragazzo avrebbe potuto nascondersi. Ma questi erano qualcosa di diverso, più simili a orsi che a uomini, e tanto pelosi quanto i mammut che cavalcavano. Vedendoli seduti, era difficile valutare quanto grossi fossero in realtà. “Saranno alti dieci piedi, o anche dodici” ipotizzò Jon. “Forse addirittura quattordici, ma non di più.” La forma del torace era simile a quella degli uomini, ma le braccia arrivavano troppo in basso, e la parte inferiore del torso era larga quanto quella superiore. Avevano le gambe molto più corte delle braccia, ma estremamente massicce. E non indossavano affatto gli stivali, come diceva la vecchia Nan. I loro piedi erano affari larghi e piatti, e anche duri, nodosi, neri. Pressoché privi di collo, avevano teste enormi e pesanti, che si protendevano in avanti emergendo direttamente dalle scapole. Quanto alle facce, erano appiattite e brutali. Gli occhi da ratto, non più grossi di perle di vetro, quasi si perdevano tra le pieghe di carne bitorzoluta, ma i giganti annusavano costantemente: il loro senso dell’olfatto doveva essere primario come la vista.

“Non sono pelli quelle che indossano” capì Jon. “È la loro peluria.” I loro corpi erano coperti di ciuffi arruffati, fitti sotto la cintura, più radi al di sopra. Il puzzo che emanavano toglieva il fiato, ma forse buona parte veniva dai mammut. E Joramun suonò il Corno dell’Inverno, e risvegliò i giganti da sotto terra. Tra le armi che quegli strani esseri impugnavano, Jon cercò le spade lunghe, ma vide solamente bastoni. Certi non erano altro che tronchi biforcuti di alberi morti, alcuni dei quali si trascinavano ancora dietro rami frondosi rimasti attaccati. Solo pochi avevano legato a un’estremità una palla di pietra, in modo da trasformare il bastone in una mazza colossale. “La canzone su Joramun non dice se tornerebbero a dormire con un altro squillo di corno.”

Uno dei giganti appariva più vecchio degli altri. Il suo pelo era grigio, striato di bianco. E anche il mammut che cavalcava, più grande di tutti gli altri, era grigio e bianco. Tormund gli gridò qualcosa mentre passava, parole aspre e dissonanti, in una lingua che Jon non capì. Le labbra del gigante si separarono l’una dall’altra, rivelando una bocca fitta di enormi denti squadrati. Il suono che ne venne fuori fu per metà un rutto e per metà un rombo. A Jon ci volle qualche momento per rendersi conto che si trattava di una risata. Il mammut voltò il cranio massiccio, guardando brevemente Jon e Tormund. Una delle sue titaniche zanne passò minacciosa al di sopra del cranio di Jon, poi la bestia dondolò oltre, lasciando orme immani nel fango soffice e nella neve fresca lungo il fiume. Il gigante urlò qualcosa nel medesimo linguaggio aspro usato da Tormund.

«È il loro re?» chiese Jon.

«I giganti non hanno re, non più di quanto ce li hanno i mammut, o le grandi balene del mare grigio. Quello lì è Mag Mar Tun Doh Weg, oppure Mag il Possente. Se proprio ci tieni, ti puoi inginocchiare davanti a lui, non gli dispiacerà. Lo so che ti prudono le ginocchia, tutto pieno di voglia di inchinarti davanti a un qualche re. Ma sta’ attento che non ti passi di sopra, però. I giganti hanno occhi poco buoni, e Mag può darsi che non lo vede un piccolo corvo nero lì giù per terra in mezzo ai piedi.»

«Che cosa gli hai detto? Parlavi nell’antico linguaggio?»

«Già. Gli ho chiesto se quel coso che cavalca è suo padre, visto che si somigliano tanto. Suo padre però non puzza fetente come lui.»

«E lui che cos’ha risposto?»

Tormund Pugno di tuono fece un sorriso sdentato. «Mi ha chiesto se era mia figlia quella in sella vicino a me, con quelle sue guance lisce e rosa.» Il bruto si scosse la neve dal braccio e fece voltare il cavallo. «Mi sa che non l’ha mai visto un uomo senza barba. Vieni, torniamo. A Mance non gli piace quando non mi trova nel mio solito posto.»

Jon fece voltare il cavallo, seguendo Tormund verso la testa della colonna, con il mantello nuovo che gli pesava sulle spalle. Era fatto di pelli di pecora non lavate, e lo indossava con il pelo rivolto verso l’interno, come suggerivano i bruti. Proteggeva bene dalla neve, e di notte era comodo e caldo. Jon però aveva conservato il suo mantello nero, che ora teneva piegato sotto la sella.

«È proprio vero che hai ucciso un gigante, una volta?» chiese a Tormund mentre continuavano a muoversi. Spettro scivolava silenzioso al suo fianco, lasciando impronte nella neve appena caduta.

«E adesso perché dubiti di un uomo poderoso come me? Era inverno, e io ero ancora un ragazzo, e anche stupido come sono tutti i ragazzi. Sono andato troppo lontano, il cavallo mi è morto sotto le gambe e poi mi è arrivata contro una tempesta. Una vera tempesta, non una spruzzatina come questa qua. Har! Avevo paura che mi congelavo a morte prima che finiva. Così ho trovato una gigantessa che dormiva in letargo, le ho aperto il ventre e mi ci sono infilato bene dentro. Mi ha tenuto al caldo, sì, ma c’è mancato poco che mi ammazzava il tanfo. E il peggio di tutto, quando è venuta la primavera quella s’è svegliata e mi ha preso per il suo pupo. Mi ha allattato per tre intere lune prima che ho potuto scappare via. Har! Ma ci sono delle volte che mi manca proprio, il latte di gigante.»

«Ma se ti ha allattato, vuole dire che non l’hai uccisa.»

«No, certo no. Ma non metterti a dirlo in giro. Tormund Veleno dei giganti è molto meglio di Tormund Pupo dei giganti, e questa è l’onesta verità.»

«Per cui da dove vengono tutti quei tuoi altri nomi?» chiese ancora Jon. «Mance ti ha chiamato Soffiatore di corno, non è così? E anche re della birra di Sala Fangosa, Marito di orse, Padre di eserciti…»

Era la parte riguardante il corno che gli interessava più di tutte le altre, ma non osò chiedere troppo apertamente. E Joramun suonò il Corno dell’Inverno e risvegliò i giganti da sotto terra. Che fosse da quello che provenivano i giganti e i loro mammut? Che Mance Rayder avesse trovato il Corno di Joramun? E che poi lo avesse dato a Tormund Pugno di tuono perché lo suonasse?

«Tutti curiosi come te, i corvi neri?» chiese Tormund. «Bene, eccola qua, una storiella per te. Era un altro inverno, anche più freddo di quello che avevo passato nel ventre di quella gigantessa. Nevicava giorno e notte, fiocchi grossi come la tua testa, non queste robette qua da donnicciole. Nevicava talmente forte che l’intero villaggio era mezzo sepolto. Io stavo da solo a Sala Fangosa, con solo un barile di birra a tenermi compagnia e niente da fare se non berla. Più bevevo, più pensavo a questa donna che viveva lì vicino: una bella donna, forte, con il paio di tette più grosso che s’era visto mai. Aveva un caratterino, aveva, ma sapeva anche essere calda, e nel profondo dell’inverno un uomo ne ha bisogno, di caldo.

«Più bevevo, più pensavo a questa donna. E più pensavo a questa donna, più il cazzo mi veniva duro, fino a quando non ci ho visto più. Scemo com’ero, mi sono coperto con le pellicce dalla testa ai piedi, mi sono avvolto la faccia in uno sciarpone di lana e via che vado a cercarla. La neve veniva giù talmente fitta che mi sono ritrovato girato dalla parte sbagliata una o due volte. Il vento mi tagliava in due, congelandomi fino al midollo delle ossa. Ma alla fine però da lei ci arrivo, tutto intabarrato così.

«Questa donna aveva un caratteraccio terribile e si mette a picchiarmi come una dannata nel momento in cui le metto le mani addosso. Tutto quello che ho potuto fare è stato portarmela a casa e tirarla fuori dalle pellicce. Ma però quando ce l’ho fatta, oh, era più calda di come la ricordavo. E poi ce la siamo spassata alla grande e poi me ne sono andato a dormire. Il mattino dopo, mi sveglio che non nevicava più e il sole splendeva, ma non ero mica in un bello stato per essere contento. Ero tutto graffiato e scavato, con metà del mio pisello staccata via con un morso. E sul pavimento c’era la pelliccia di un’orsa. Così, poco tempo dopo, quelli del popolo libero si sono messi a raccontare la storia di questa strana orsa pelata che se ne andava in giro per i boschi, con dietro un paio di cuccioli con l’aspetto più balordo che s’è mai visto. Har!» Tormund si diede una pacca sulla coscia carnosa. «Mi piacerebbe parecchio ritrovarla, quest’orsa. È stata proprio una bella scopata. E dove la trovi una donna che sa fare una lotta così dura, o che mette al mondo figli così forti?»

«Ma se anche riuscissi a ritrovarla, ormai che cosa potresti fare?» chiese Jon. «Hai detto che ti ha staccato il membro con un morso.»

«Non tutto, solo metà. E metà del mio pisello è ancora lungo il doppio di quello di qualsiasi altro uomo. Har!» Tormund emise una strana risata. «E per quanto ti riguarda… è vero che a voi corvi neri il cazzo ve lo tagliano via quando arrivate sulla Barriera?»

«No» ribatté Jon, oltraggiato.

«Io invece penso che dev’essere vero. Se no perché rifiutare Ygritte? Lei la lotta non la fa per niente, mi sembra. La ragazza ti vuole avere dentro, è abbastanza chiaro.»

“Maledettamente chiaro” rimuginò Jon. “E sembra che di questo si sia accorta l’intera colonna.” Abbassò lo sguardo sulla neve che cadeva, in modo che Tormund non si accorgesse che era arrossito. “Sono un uomo dei Guardiani della notte” ricordò a se stesso. Certo, lo era. Ma allora come mai si sentiva come una femminuccia timida?

Passava quasi ogni giorno in compagnia di Ygritte, e anche quasi tutte le notti. Mance Rayder non aveva ignorato la diffidenza che Rattleshirt provava per il “corvo voltagabbana”. Dopo aver dato a Jon il nuovo mantello di pelli di pecora, gli aveva suggerito di cavalcare assieme a Tormund Veleno dei giganti. Jon era stato ben contento di dichiararsi d’accordo. Così, solo il giorno dopo, anche Ygritte e Ryk Lungapicca si erano staccati dalla banda di Rattleshirt per entrare in quella di Tormund. «Noi del popolo libero cavalchiamo con chi vogliamo» gli aveva detto Ygritte. «E anche a noi di Sacco d’ossa ci viene la nausea.»

Ogni notte, quando si accampavano, Ygritte gettava le proprie pelli per dormire accanto a quelle di Jon, e non aveva importanza quanto vicino o lontano dal fuoco lui si trovasse. Una mattina, se l’era ritrovata addosso, con un braccio premuto sul petto. Per molto tempo, era rimasto ad ascoltare il respiro di Ygritte, cercando d’ignorare la tensione che percepiva in mezzo alle gambe. Spesso i ranger condividevano le medesime pelli per tenersi al caldo, ma Jon immaginava che non fosse solamente calore quello che Ygritte voleva da lui. Dopo quell’episodio, aveva cominciato a servirsi di Spettro per tenere la ragazza a distanza. Tra le storie raccontate dalla vecchia Nan, ce n’erano alcune che parlavano di come i cavalieri e le loro lady che dormivano nello stesso letto collocassero una lama tra loro nel nome dell’onore. Jon non poté fare a meno di pensare che questa doveva essere la prima volta in assoluto che qualcuno usava un meta-lupo al posto di una lama.

Ma nemmeno Spettro bastò a far demordere Ygritte. Due giorni prima, Jon aveva commesso l’errore di dire che non gli sarebbe dispiaciuto avere dell’acqua calda per farsi un bagno. «Meglio fredda, l’acqua,» aveva detto immediatamente Ygritte «se hai qualcuno che dopo ti tiene al caldo. Il fiume è ghiacciato solo un po’: forza, vacci dentro.»

Jon aveva riso. «Mi farai congelare a morte.»

«Tutti i corvi hanno paura della pelle d’oca? Un po’ di ghiaccio non ti ucciderà. Ci salto dentro anch’io con te, giusto per provartelo.»

«E cavalcare tutta la giornata con addosso abiti gelidi e appiccicati alla pelle?» aveva obiettato lui.

«Non sai niente, Jon Snow. Dentro non ci vai con i vestiti.»

«Dentro non ci vado e basta» aveva concluso Jon con fermezza, un attimo prima di sentire Tormund Pugno di tuono che gli gridava di osare. Lui però non aveva osato. E meno male.

I bruti sembravano considerare Ygritte una grande bellezza a causa dei suoi capelli: i capelli rossi erano rari nel popolo libero, e di coloro che li avevano si diceva che fossero baciati dal fuoco, un segno di buona fortuna. Per quanto rari e indice di buon auspicio, i capelli di Ygritte erano anche un tale impervio cespuglio che Jon era stato tentato di chiederle se li spazzolava solo al cambio di stagione.

Alla corte di un qualsiasi nobile, quella ragazza non sarebbe mai stata considerata nulla al di sopra dell’ordinario, Jon ne era consapevole. Aveva un viso rotondo da contadina, il naso schiacciato, denti leggermente storti e occhi troppo distanziati uno dall’altro. Un quadro che Jon aveva notato fin dal primo momento che l’aveva vista, quando le aveva puntato il pugnale alla gola. Di recente, però, aveva notato anche altre cose. Quando lei sorrideva, i denti storti non sembravano poi così appariscenti. E forse i suoi occhi erano davvero troppo distanziati, ma erano anche di un bellissimo colore grigio azzurro, e vividi come mai lui ne aveva visti. A volte, Ygritte cantava con una voce bassa, un poco rauca, che gli faceva venire un brivido lungo la schiena. E altre volte, presso il fuoco, quando Ygritte sedeva con le braccia avvolte attorno alle ginocchia, le fiamme parevano lanciare bagliori purpurei nei suoi capelli; e quando lei lo guardava senza dire niente, sorridendo e basta… ebbene, anche quello gli faceva venire un brivido. Ma non lungo la schiena.

Comunque, lui rimaneva un uomo dei Guardiani della notte, e aveva prestato un solenne giuramento. “Non prenderò moglie, non avrò terre, non genererò figli.” Aveva pronunciato quelle parole di fronte all’albero-diga, al cospetto degli dèi di suo padre. E adesso non poteva far finta di non averle dette… non più di quanto potesse spiegare la ragione della propria riluttanza a Tormund Pugno di tuono, Marito di orse.

«La ragazza non ti piace, forse?» tornò alla carica Tormund mentre superavano altri venti mammut, che questa volta non trasportavano giganti ma alte torri di legno.

«No, ma io…» “Che cosa posso dire che lui possa credere?” «Sono ancora troppo giovane per sposarmi.»

«Sposarti.» Tormund rise. «E chi parla di matrimonio? Cos’è, nel Sud un uomo deve sposare ogni ragazza che porta a letto?»

Jon sentì che stava arrossendo di nuovo. «Ygritte ha parlato in mia difesa quando Rattleshirt stava per uccidermi. Non intendo disonorarla.»

«Ora tu sei un uomo libero, e Ygritte è una donna libera. Dove sta il disonore nel giacere assieme?»

«Potrei darle un bimbo.»

«Già, e io lo spero proprio. Un figlio forte, oppure una vivace ragazzina baciata anche lei dal fuoco. Dov’è il male in ciò?»

Per un momento, Jon si ritrovò senza argomenti. «Il ragazzo… il bambino sarebbe un bastardo.»

«Cioè i bastardi sono più deboli degli altri bambini? O più malaticci, più incapaci?»

«No, ma…»

«Tu stesso sei nato bastardo. E se Ygritte un figlio non lo vuole, se ne va da una qualche strega dei boschi e si beve una coppa di tè della luna. Tu non c’entri più, una volta che il seme è gettato.»

«Io non sarò il padre di un bastardo.»

Tormund scosse il capo e fece ondeggiare la massa arruffata di capelli bianchi. «Che sciocchi siete voialtri che v’inginocchiate. Se non volevi la ragazza, allora perché l’hai rubata?»

«Rubata? Io non ho mai…»

«Sì, invece» disse Tormund. «Hai ucciso i due che erano con lei e l’hai portata via, com’è che lo chiami, questo?»

«L’ho presa prigioniera.»

«L’hai costretta ad arrendersi a te.»

«Sì, ma… Tormund, te lo giuro, non l’ho mai toccata.»

«Sei proprio certo che il cazzo non te l’hanno tagliato?» Tormund scrollò le spalle, quasi a sottolineare la sua incapacità di comprendere una simile follia. «Bene, sei un uomo libero, adesso, ma se la ragazza rifiuti di averla, meglio che ti trovi un’orsa. Se un uomo non usa il pisello, questo diventa sempre più piccolo. E alla fine, un giorno quell’uomo ha voglia di farsi una pisciata e il cazzo non lo trova più.»

A questo, Jon non seppe che cosa rispondere. Non c’era da meravigliarsi se la gente dei Sette Regni pensava che il popolo libero fosse solo parzialmente umano. “Non hanno leggi, né onore, nemmeno la semplice decenza. Si derubano senza fine gli uni con gli altri, si riproducono come animali, preferiscono lo stupro al matrimonio e riempiono il mondo di figli bastardi.” Eppure lui stava cominciando a provare dell’affetto per Tormund Veleno dei giganti, anche se di fatto non era altro che un gran sacco pieno d’aria e di bugie. E anche per Lungapicca. “E anche per Ygritte… no, non posso, non devo pensare a Ygritte.”

Ma assieme ai Tormund e ai Lungapicca cavalcava anche ogni risma di bruti: uomini come Rattleshirt, come il Piagnone, uomini pronti a tagliare gole da un orecchio all’altro con la stessa rapidità con cui si sputa. C’era Harma Testa di cane, un barile di donna dalle guance grosse come bistecche, la quale odiava i cani e ne uccideva uno una sera sì e una no, giusto per sistemare un teschio fresco sul suo grottesco stendardo. C’era Styr, maknar di Thenn, il guerriero senza orecchie, la cui gente lo riteneva più un dio che un capo. C’era Varamyr Seipelli, un piccoletto dalla ghigna di ratto, il cui cucciolotto era un orso bianco che raggiungeva i tredici piedi quando stava eretto sulle zampe posteriori. Dovunque andassero Varamyr e il suo orso, li seguivano tre lupi e una pantera-ombra. Jon si era trovato in sua presenza soltanto una volta, e quell’unica volta era stata già troppo. La semplice vista di quell’individuo bastava a fargli rizzare i capelli sulla nuca. Tanto quanto la vista dell’enorme orso e del lungo felino predatore striato bianco avevano fatto rizzare la pelliccia sul collo di Spettro.

Ed esistevano personaggi addirittura più selvaggi di Varamyr. Esseri provenienti dalle regioni più settentrionali della foresta Stregata, dalle valli nascoste degli Artigli del Gelo, e perfino da luoghi ancora più strani e impervi, come gli uomini della Costa Congelata, che si spostavano su carri fatti d’ossa di tricheco trainati da mute di cani selvatici; i terribili clan del fiume di ghiaccio, che si diceva banchettassero con carne umana; gli abitanti delle caverne, con le facce dipinte di verde, di blu, di viola. Con i suoi stessi occhi Jon aveva visto gli uomini dal Piede di corno avanzare incolonnati a piedi nudi: piedi le cui piante erano più dure di cuoio trattato. Non aveva visto né elfi né folletti, ma per quanto poteva saperne, forse proprio in quel momento Tormund ne stava mangiando uno ingozzandosi per cena.

La maggior parte dei bruti che componevano l’esercito di Mance Rayder avevano vissuto la loro intera esistenza senza avere mai nemmeno dato un’occhiata alla Barriera, valutò Jon, e ben pochi di loro erano in grado di pronunciare anche solo poche parole nella lingua comune dei Sette Regni. Ma questo non aveva importanza. Mance sapeva parlare l’antico linguaggio, sapeva addirittura cantare nell’antico linguaggio, e strimpellava il suo liuto riempiendo le notti di musica inquietante e selvaggia.

Mance aveva passato interi anni mettendo assieme la sua grande e composita armata. Aveva scelto a una a una quelle strane matrone capoclan o i suoi fidi maknar, conquistando un villaggio con parole suadenti, seducendone un altro con una canzone, prendendone un altro ancora con il filo della spada. Aveva portato la pace tra Harma Testa di cane e il lord delle Ossa, tra i Piedi di corno e i Corridori della notte, tra gli uomini tricheco della Costa Congelata e i clan cannibali delle grandi caverne di ghiaccio. Aveva fuso a colpi di martello cento daghe diverse in un’unica, titanica lancia puntata dritta al cuore stesso dei Sette Regni. Non aveva né corona né scettro, non aveva tuniche di seta o di velluto, ma per Jon era chiaro come la luce del giorno che Mance Rayder era un re ben al di là della semplice parola.

Jon si era unito ai bruti su ordine di Qhorin il Monco. “Cavalca con loro, mangia con loro, combatti con loro” gli aveva detto il leggendario ranger la notte prima di morire “e osserva.” Ma pur con tutto il suo osservare, Jon Snow aveva imparato ben poco. Il Monco aveva sospettato che i bruti si fossero spinti nelle aspre desolazioni degli Artigli del Gelo alla ricerca di una qualche arma, un qualche potere, una qualche stregoneria con cui spezzare la Barriera… Ma se anche avevano trovato questa arcana entità, nessuno se n’era vantato apertamente con Jon, né gliel’aveva mostrata. Così come Mance Rayder non gli aveva confidato nessuno dei suoi piani e delle sue strategie. Dopo la notte del loro incontro, Jon aveva visto il re oltre la Barriera pochissime volte, e sempre da lontano.

“Lo ucciderò se ci sarò costretto.” Una prospettiva che non dava a Jon alcuna gioia. Non ci sarebbe stato nulla di onorevole in quell’uccisione, la quale avrebbe anche significato la sua morte. Al tempo stesso non poteva permettere che i bruti facessero breccia nella Barriera, che minacciassero Grande Inverno e tutto il Nord, la Terra delle tombe e le Rills, Porto Bianco e la Costa Pietrosa, perfino l’Incollatura. Per ottomila anni gli uomini della Casa Stark erano vissuti ed erano morti per proteggere la loro gente contro simili barbari, simili devastatori e… nato bastardo o no, il loro stesso sangue scorreva nelle sue vene.

“Bran e Rickon sono ancora a Grande Inverno. E maestro Luwin, ser Rodrik, la vecchia Nan, Farlen il mastro dei cani, Mikken alla sua forgia, Gage il cuoco ai suoi forni… tutti quelli che conosco da sempre, tutti quelli a cui voglio bene.” Se il prezzo da pagare per salvarli dall’insidia di Rattleshirt, di Harma Testa di cane e del maknar di Thenn era uccidere l’uomo che lui, almeno in parte, ammirava e rispettava, allora era questo che stava scritto nel fato di Jon Snow.

Eppure, pregava gli antichi dèi di suo padre perché quel tetro compito gli venisse risparmiato. L’esercito continuava a muoversi, ma con lentezza, carico com’era delle greggi, dei bambini e di tutti i malefici tesori dei bruti. Le nevi avevano rallentato la loro avanzata ancora di più. Il grosso della colonna si era ormai lasciato le alture alle spalle, calando goccia a goccia lungo la sponda occidentale del Fiumelatte, lento come miele in una gelida mattina d’inverno, e ora si apprestava a seguire il corso del fiume verso il cuore della foresta Stregata.

E, da qualche parte avanti a loro, molto vicino, il Pugno dei Primi Uomini torreggiava al di sopra degli alberi. Il Pugno dei Primi Uomini: dove trecento confratelli in nero, armati e a cavallo, erano in attesa, in agguato. Oltre al Monco, il Vecchio orso aveva mandato anche altri esploratori in avanscoperta. Di sicuro, Jarman Buckwell o Thoren Smallwood dovevano aver fatto ritorno al Pugno, informando il lord comandante di che cosa stava venendo giù dagli Artigli del Gelo.

“Mormont non fuggirà” pensò Jon. “È troppo vecchio e ha troppo osato. Verrà all’attacco, e all’inferno la disparità numerica.” Un giorno, presto, lui avrebbe udito il suono dei corni da guerra, avrebbe visto una colonna di guerrieri arrivare loro addosso, mantelli neri al vento e freddo acciaio in pugno. Trecento uomini non potevano certo credere di riuscire a ucciderne cento volte di più, era chiaro, ma Jon non riteneva che sarebbe stato necessario farlo. “Basterà che Mormont riesca a ucciderne uno: Mance Rayder. Svanito lui, tutto il resto andrà in pezzi.”

Il re oltre la Barriera stava facendo tutto quello che poteva, ma i bruti rimanevano inesorabilmente, inevitabilmente privi di qualsiasi disciplina. Il che li rendeva vulnerabili. In questo punto o in quell’altro del colossale serpente lungo intere leghe che costituiva la loro linea di marcia c’erano guerrieri duri e puri quanto i migliori uomini della Confraternita. Solo che almeno un terzo di loro era ammassato a un’estremità della colonna: nell’avanguardia di Harma Testa di cane o nella selvaggia retroguardia, con i giganti, gli uri e le catapulte sputafuoco. Un altro terzo cavalcava con Mance, al centro della colonna, di guardia ai carri, alle slitte e ai carretti che trasportavano il grosso delle provviste e della logistica dell’esercito, tutto quello che rimaneva dell’ultimo raccolto dell’estate. Gli altri, suddivisi in piccole bande al comando di soggetti quali Rattleshirt, Jarl, Tormund Veleno dei giganti e il Piagnone, fungevano da esploratori, razziatori e fruste. Galoppavano senza sosta su e giù per la colonna, costringendola ad avanzare in modo più o meno ordinato.

Ma l’aspetto più significativo era che solamente un bruto su cento poteva disporre di un cavallo. “Il Vecchio orso li squarcerà come un coltello nel budino.” E quando questo fosse accaduto, Mance sarebbe stato costretto a lanciarsi all’inseguimento insieme al blocco centrale del suo schieramento, per vincere la minaccia dei Guardiani della notte. Se Mance Rayder fosse caduto nel combattimento, allora la Barriera sarebbe stata al sicuro per altri cento anni, valutò Jon. “Se invece no…”

Contrasse le dita bruciate della mano attorno all’elsa della spada. Portava Lungo artiglio legata alla sella con corregge. Il pomello dell’elsa, scolpito in pietra a forma di testa di lupo, e l’impugnatura di morbido cuoio erano molto facili da raggiungere.

Nevicava fitto quando, parecchie ore più tardi, si ricongiunsero con la banda di Tormund. Lungo la strada, Spettro si era staccato dal gruppo, svanendo nella foresta dietro la traccia di una qualche preda. Una volta che si fossero accampati per la notte, il meta-lupo sarebbe tornato, o al più tardi all’alba successiva. Non importava quanto lontano si spingesse, Spettro tornava sempre… e lo stesso valeva, così sembrava, per Ygritte.

«Quindi» gridò la ragazza nel momento in cui lo vide «ci credi adesso, Jon Snow? Li hai visti i giganti e i mammut?»

«Har!» gridò Tormund, prima che Jon potesse rispondere. «Il corvo è innamorato. Vuole sposarsene una!»

«Di gigantesse?» fece Ryk Lungapicca con una risata.

«No, di mammut!» tuonò Tormund. «Har!»

Ygritte si affiancò a Jon mentre lui rallentava il proprio destriero al passo. Era più bassa di lui di tutta la testa, ma dichiarava di avere tre anni di più. In ogni caso, a dispetto dell’età, quella ragazza mostrava una tempra fuori del comune. Quando l’avevano catturata sul passo Skirling, Stonesnake l’aveva definita una moglie di lancia. Ygritte non era sposata, e la sua arma da combattimento non era una lancia ma un corto arco ricurvo di corno e legno d’albero-diga, ma l’espressione “moglie di lancia” le si attagliava alla perfezione. A Jon faceva venire in mente la sua sorellina Arya, anche se Arya era più giovane e probabilmente più magra. Ma con tutte le pelli e le pellicce che indossava, era difficile dire quanta carne Ygritte avesse realmente attaccata alle ossa.

«La conosci L’ultimo dei giganti?» Senza aspettare una risposta, Ygritte continuò: «Ci vuole una voce più profonda della mia per cantarla bene». Poi intonò: «Ooooh, sono l’ultimo dei giganti, il mio popolo non è più su questo mondo».

Tormund Veleno dei giganti udì le parole e sogghignò. «L’ultimo dei grandi giganti delle montagne, che alla mia nascita dominavano tutto il mondo» ruggì nella neve che continuava a cadere.

Ryk Lungapicca si unì al coro: «Ooooh, il piccolo popolo ha rubato le mie foreste, mi ha rubato le colline e i fiumi d’argento».

«E hanno costruito una grande muraglia attraverso le mie valli, e pescato tutti i pesci dai torrenti.» Ygritte e Tormund risposero a turno, facendo la voce profonda da gigante.

Toregg e Dormund, figli di Tormund, si aggiunsero con i loro toni bassi, poi la figlia Munda e anche tutti gli altri. Altri ancora batterono con le picche contro gli scudi rivestiti di cuoio, mantenendo un ritmo approssimativo. E poi l’intera banda da guerra stava cantando, continuando a cavalcare.


In sale di pietra bruciano i loro grandi fuochi,

in sale di pietra forgiano le loro acuminate lance.

Mentre solo io cammino nelle montagne,

con la sola compagnia delle mie lacrime.


Con i cani mi danno la caccia nella luce del giorno,

con le torce mi danno la caccia nel buio della notte.

Perché questi uomini sono piccoli e mai potranno ergersi,

mentre i giganti ancora camminano nella luce.


Ooooh, io sono l’ultimo dei giganti.

Perciò imparate bene le parole del mio canto.

Perché quando io sarò andato, anche il canto svanirà,

e a lungo, molto a lungo il silenzio durerà.


Quando la canzone si concluse, lacrime brillavano sul viso di Ygritte.

«Perché piangi?» le chiese Jon, «È soltanto una canzone. Ci sono giganti a centinaia, li ho appena visti.»

«Oh, centinaia» rispose lei, piena di rabbia. «Non sai niente, Jon Snow. Non… JON!»

Un improvviso battito d’ali. Jon si voltò e i suoi occhi si riempirono di penne grigie e blu. Artigli micidiali affondarono nella sua faccia. Dolore, dolore rosso, accecante gli riempì il cranio di colpo; simile a chiodi conficcati dritti nelle ossa. Vide il becco a rostro, ma non ebbe il tempo di sollevare la mano, né di afferrare un’arma. Jon si abbassò sulla sella, un piede gli sfuggì dalla staffa, il suo destriero sussultò di terrore. E lui perse l’equilibrio. L’aquila continuò a dilaniargli la faccia, gli artigli squarciavano, il becco calava, le ali sbattevano tra grida stridule e feroci. Il mondo andò alla rovescia in un caos di piume e carne di cavallo e sangue. Zolle di terreno si alzarono e lo colpirono in pieno.


Giaceva a faccia in giù, con in bocca il sapore del fango e del sangue. Furono le prime cose di cui si rese conto. Ygritte era in ginocchio accanto a lui, chinata a fargli scudo, daga d’osso in pugno. Jon poteva ancora udire il battito delle ali, ma l’aquila non era più in vista. Metà del suo mondo era immerso nell’oscurità.

«Il mio occhio…» disse, con un panico improvviso, portandosi la mano alla faccia.

«È solamente sangue, Jon Snow. L’occhio l’ha mancato, ma ha strappato via un po’ di pelle.»

Jon sentiva la faccia che pulsava. Tormund torreggiava su di loro, furibondo. Lo vide con l’occhio destro, mentre cercava di ripulirsi dal sangue il sinistro. Poi ci fu un rumore di zoccoli e altre grida. E il suono di vecchie ossa secche che sbattevano le une contro le altre.

«Sacco d’ossa» ruggì Tormund. «Richiamalo, quel tuo corvo dell’inferno!»

«Eccolo lì, il corvo dell’inferno!» Rattleshirt indicò Jon. «Che sanguina nel fango come un cane senza fede!» L’aquila planò verso il basso, andando ad appollaiarsi sul teschio spezzato di gigante che gli faceva da elmo. «Sono qua per lui.»

«Allora vieni a prenderlo» rimandò Tormund. «Ma meglio che ci vieni con la spada in pugno, perché è qui che ci trovi la mia. Magari faccio bollire le tue, di ossa. E mi faccio una pisciata nel tuo teschio. Har!»

«Nel momento che ti faccio un buco e lascio scappare fuori l’arla, diventi più piccolo di quella ragazzina lì.» Il lord delle Ossa non era impressionato. «Fatti da parte, se no a Mance glielo racconto.»

«Che cosa?» Ygritte si alzò. «È Mance che lo vuole?»

«Ho detto così, o no? Rimettilo su quei suoi piedi neri.»

La fronte corrugata, Tormund abbassò lo sguardo su Jon. «Meglio che vai, se è Mance che ti vuole.»

Ygritte lo aiutò ad alzarsi. «Sanguina come un cinghiale macellato. Guarda che cosa gli ha fatto Orell alla sua bella faccia.»

“È capace di odiare, un uccello?” Orell era il bruto che Jon aveva ucciso sul passo Skirling, ma qualche parte dell’uomo si era trasferita nell’aquila. Gli occhi dorati del rapace lo stavano osservando, pieni di gelida malevolenza.

«Verrò» disse. Il sangue continuava a colargli nell’occhio sinistro, la guancia era un incubo di sofferenza. La tastò e gli rimasero chiazze rosse sul guanto nero. «Lasciate che riprenda il mio cavallo.»

Ma non era tanto il cavallo che voleva: era Spettro. Eppure il meta-lupo albino non si vedeva da nessuna parte. “Potrebbe essere a intere leghe da qui, intento a squarciare la gola a un alce.” E forse era meglio così.

Quando Jon gli si accostò, il suo cavallo si ritrasse, chiaramente spaventato dal sangue che gli copriva la faccia. Jon lo calmò con poche, quiete parole e riuscì ad avvicinarsi abbastanza da afferrare le redini. Nel tornare in sella, sentì la testa che vorticava. “Devo farmi medicare” pensò. “Ma non adesso. Che il re oltre la Barriera veda che cosa mi ha fatto la sua aquila.” Aprì e richiuse la mano destra, quella ustionata, quella della spada. Prima di fare voltare il destriero e di dirigersi verso il punto in cui il lord delle Ossa e la sua banda lo stavano aspettando, staccò Lungo artiglio dalla sella e la sistemò di traverso sulla schiena.

Anche Ygritte lo stava aspettando, in sella al proprio cavallo, con in volto un’espressione di fiera determinazione. «Ci vengo pure io.»

«Vattene, invece» le ossa appese al pettorale di Rattleshirt picchiarono leggermente le une con le altre. «Sono stato mandato qua per il corvo voltagabbana e per nessun altro.»

«Una donna libera cavalca dove vuole lei» dichiarò Ygritte.

Jon sentì il vento che gli soffiava la neve negli occhi e il sangue che gli si congelava sulla faccia. «Parliamo o ci muoviamo?»

«Ci muoviamo» disse il lord delle Ossa.


Fu una tetra galoppata. Ripercorsero per circa tre miglia la colonna di marcia dei bruti, avanzando nella neve incessante. Quindi attraversarono l’intricato groviglio di carri e masserizie, guadando il Fiumelatte in prossimità di una grande ansa che si allargava verso est. Una sottile crosta di ghiaccio copriva le pozze scavate dal fiume vicino alla riva. Gli zoccoli dei cavalli la sfondarono a ogni passo fino a quando non raggiunsero acque più profonde, al centro della corrente. Sulla sponda orientale, la neve sembrava cadere più fitta, e anche i cumuli erano più spessi. “Perfino il vento è più freddo.” E stava anche calando la notte.

Ma a dispetto delle cortine di neve, fu impossibile non vedere la massa della grande altura bianca che incombeva sulla foresta. “Il Pugno dei Primi Uomini…” Nel cielo, Jon udì il grido dell’aquila. Appollaiato al ramo di un pino-soldato, un corvo gracchiò mentre lui passava oltre. “Che il Vecchio orso abbia davvero attaccato?” Ma invece del clangore dell’acciaio e del sibilo delle frecce in volo, tutto quello che Jon udì fu il molle scricchiolare del manto nevoso sotto gli zoccoli del suo cavallo.

In silenzio, aggirarono il versante sud, dove la salita era più agevole. Fu in fondo al sentiero che Jon vide il cavallo morto, una forma scomposta ai piedi della collina, parzialmente coperta di neve. Dal ventre squarciato dell’animale, le interiora erano fuoruscite, simili a serpenti congelati. Una delle zampe non c’era più. “Lupi” fu il pruno pensiero di Jon, ma era il pensiero sbagliato. I lupi divorano le loro prede.

C’erano cadaveri di altri cavalli disseminati sul pendio, le zampe contorte in modo grottesco, gli occhi ciechi rimasti sbarrati. I bruti si ammassavano come mosche sulle carcasse, razziando selle, briglie, zaini e armature e facendo a pezzi i corpi con le asce di pietra.

«Su.» Rattleshirt disse a Jon. «Mance sta in cima.»

Smontarono sull’anello difensivo perimetrale, in modo da riuscire a infilarsi in una breccia tra le pietre. La carogna di un cavallo marrone spelacchiato era impalata sui rostri acuminati che il Vecchio orso aveva fatto collocare su tutti gli accessi. “Questo stava cercando di uscire, non di entrare.” Del cavaliere, nessuna traccia.

La carneficina continuava anche all’interno dell’anello di pietra. E diventava addirittura peggiore. Jon non aveva mai visto neve rossa prima di quel momento. Il vento gli sibilava addosso, premendo contro il pesante mantello di pelli di pecora. Corvi passavano da un cavallo morto all’altro. “Corvi selvatici… o corvi nostri?” Jon non fu in grado di dirlo. Si chiese dove fosse in quel momento il povero Samwell Tarly. E si chiese come fosse.

Una crosta di sangue congelato si schiantò sotto i tacchi dei suoi stivali. I bruti continuavano a togliere ogni pezzo di cuoio e di metallo dai corpi dei cavalli. Arrivarono addirittura a strappare i ferri degli zoccoli. Alcuni rovistarono nei pochi zaini rimasti, cercando armi e cibo. Jon superò uno dei cani di Chett, o almeno quel che ne restava, immobile in una pozza di sangue solidificato.

Poche tende erano rimaste in piedi nella sezione più lontana dell’accampamento devastato. Fu là che trovarono Mance Rayder. Sotto il suo mantello nero rattoppato di vecchia seta rossa, indossava una maglia di ferro e logore brache di pelliccia. In testa, portava un grande elmo di bronzo e ferro con ali di corvo alle tempie. Con lui c’erano il giovane Jarl e Harma Testa di cane. C’erano anche Styr maknar di Thenn e Varamyr Seipelli, assieme ai suoi lupi e alla sua pantera-ombra.

Lo sguardo che il re oltre la Barriera allungò a Jon era cupo e freddo. «Che t’è successo alla faccia?»

«Orell ha cercato di strappargli fuori un occhio» rispose Ygritte.

«È a lui che l’ho chiesto. Ha perso la lingua? Forse sarebbe bene, così ci risparmieremmo altre menzogne.»

Styr il maknar sfoderò un lungo coltello. «Il ragazzo magari vedrebbe più chiaro con un occhio solo, invece di due.»

«E allora, Jon, te lo vuoi tenere, il tuo occhio?» chiese il re oltre la Barriera. «In tal caso, dimmi quanti erano. E cerca di dire la verità questa volta, bastardo di Grande Inverno.»

La bocca di Jon era arida. «Mio signore… che cosa…»

«Non sono il tuo signore» tagliò corto Mance. «E il che cosa è abbastanza chiaro. I tuoi confratelli sono morti. La domanda è: quanti

Jon sentiva la faccia pulsare, la neve continuava a cadere. Pensare era arduo. “Non dovrai esitare, qualsiasi cosa ti verrà chiesta” gli aveva detto Qhorin. Le parole gli s’impigliarono il gola, ma Jon costrinse se stesso a dire: «C’erano trecento di noi».

«Di noi?» rimarcò Mance in tono sferzante.

«Di loro» si corresse Jon. «Trecento di loro.» “Qualsiasi cosa ti verrà chiesta, ha detto il Monco. E allora perché mi sento così vile?” «Duecento dal Castello Nero, altri cento dalla Torre delle ombre.»

«Canzone molto più veritiera di quella che hai cantato nella mia tenda.» Mance guardò Harma Testa di cane. «Quanti cavalli abbiamo trovato?»

«Più di cento» rispose l’enorme donna. «Meno di duecento. Ci sono altri morti a est, sotto la neve, difficile capire quanti.» Dietro di lei c’era il suo alfiere. Reggeva un palo con in cima una testa di cane ancora fresca abbastanza da gocciolare sangue.

«Non avresti mai dovuto mentirmi, Jon Snow» disse Mance Rayder.

«Io… sono consapevole di questo.» “Che altro potrei dire?”

Il re dei bruti scrutò la sua faccia. «Chi aveva il comando qui? Voglio la verità. Era Rykker? Smallwood? Non Wythers, è troppo debole. Di chi era questa tenda?»

“Ho detto fin troppo.” «Non avete trovato il suo corpo?»

Harma fremette e il disprezzo le si condensò fuori dalle narici. «Che idioti che sono questi corvi neri qua.»

«La prossima volta che rispondi a una mia domanda con una domanda, ti do al mio lord delle Ossa» Mance Rayder promise a Jon. Fece un passo verso di lui. «Chi comandava qui?»

“Fa’ un altro passo, Mance.” Jon sostenne il suo sguardo. “Forza. Solo un altro passo…” La sua mano scivolò sull’impugnatura di Lungo artiglio. “Se mi mordo la lingua…”

«Tu prova a tirarla fuori, la tua spada da bastardo, e io ti stacco quel tuo cranio da bastardo anche prima che la lama esca dal fodero» avvertì Mance. «E sto perdendo la pazienza in fretta con te, corvo.»

«Dillo» esortò Ygritte. «Tanto è morto. Chiunque era, adesso è morto.»

Jon corrugò la fronte. La contrazione gli incrinò il sangue congelato sulla guancia. “Arduo, troppo arduo” fu il suo pensiero disperato. “Come posso fare finta di essere un voltagabbana, senza diventarlo veramente?” Questo, Qhorin non glielo aveva detto. Ma il secondo passo è sempre più facile del primo.

«Il Vecchio orso era in comando.»

«Quel vecchio?» Harma sembrava non crederci. «È venuto lui? E allora chi è che comanda al Castello Nero?»

«Bowen Marsh.» Questa volta Jon rispose immediatamente. “Non dovrai esitare, qualsiasi cosa ti verrà chiesta.”

Mance rise. «Se è così, allora la nostra guerra è già vinta. Bowen le spade le sa contare molto meglio di come le usa.»

«C’era il Vecchio orso in comando» disse Jon. «Questo posto era forte, e facilmente difendibile. E lui lo aveva reso ancora più forte. Ha fatto scavare fossati e ha piantato rostri, aveva preparato cibo e acqua. Era pronto per…»

«…per me?» concluse Mance Rayder. «Sì, lo era. Se io fossi stato stupido al punto da prendere d’assalto questa collina, avrei perduto cinque uomini per ogni corvo abbattuto, a definirmi ancora fortunato.» La sua bocca assunse una piega amara. «Ma quando i morti camminano, mura e rostri e spade non servono più, non si può combattere contro i morti, Jon Snow. E questo, nessun uomo lo sa meglio di me.» Alzò lo sguardo al cielo che diventava sempre più scuro. «I corvi neri potrebbero averci aiutato più di quanto non immagini. Mi chiedevo perché non eravamo stati attaccati. Ma ci sono ancora cento leghe da percorrere, e il freddo si fa più duro. Varamyr: manda i tuoi lupi ad annusare la pista dei morti viventi. Mio lord delle Ossa: fa’ raddoppiare tutte le pattuglie, e che ogni uomo sia dotato di torcia e di pietra focaia. Non voglio che le ombre che camminano ci prendano di sorpresa. Styr, Jarl: voi cavalcherete alle prime luci dell’alba.»

«Mance» disse Rattleshirt. «Io voglio per me un po’ d’ossa di corvo nero.»

Ygritte si frappose tra lui e Jon. «Non puoi uccidere un uomo perché mentiva quando cercava di proteggere i suoi confratelli.»

«Lo sono ancora, i suoi confratelli» dichiarò Styr, il maknar di Thenn.

«No che non lo sono» insistette Ygritte. «Me non mi ha uccisa, come loro gli avevano detto. E ha abbattuto il Monco, lo abbiamo visto tutti.»

Il respiro di Jon si dilatava in nubi opache. “Se mento di nuovo, lui lo saprà.” Guardò Mance Rayder negli occhi, aprendo e chiudendo la mano ustionata. «Porto il mantello che tu mi hai dato, Mance.»

«Un mantello di pelle di pecora!» esclamò Ygritte. «E sotto quello lì, per tante notti abbiamo danzato!»

Jarl rise, perfino Harma Testa di cane si concesse una specie di sogghigno.

«Quindi, così stanno le cose, Jon Snow?» chiese Mance Rayder pacatamente. «Lei e te?»

Era facile perdere la direzione oltre la Barriera. E Jon Snow non era più in grado di distinguere l’onore dall’oltraggio, il giusto dallo sbagliato. “Padre… perdonami.”

«Sì» disse.

Mance annuì. «Bene. Allora, domattina voi due, tutti e due, cavalcherete assieme a Jarl e Styr. Lungi da me separare due cuori che battono come uno solo.»

«Per andare dove?» chiese Jon.

«Al di là della Barriera. È da fin troppo tempo che devi darmi una prova della tua fede che sia qualcosa di più di parole, Jon Snow.»

Il maknar di Thenn non era contento. «Che cosa me ne faccio di un corvo traditore?»

«Snow conosce la Confraternita e conosce la Barriera» rispose Mance. «E conosce il Castello Nero meglio di chiunque altro. Tu lo troverai di qualche utilità, Styr. Diversamente, sei uno stolto.»

Styr s’incupì. «Il suo cuore può essere ancora nero.»

«E allora strappaglielo.» Mance si rivolse a Rattleshirt. «Mio lord delle Ossa, continua a fare muovere la colonna. A ogni costo. Se riusciamo a raggiungere il Castello Nero prima di Mormont, abbiamo vinto.»

«Li farò muovere.» La voce di Rattleshirt era tetra, piena d’ira.

Mance annuì e se ne andò, seguito da Harma e da Seipelli. I lupi e la pantera-ombra di Varamyr tennero loro dietro. Jon e Ygritte furono lasciati con Jarl, Rattleshirt e il maknar. I due bruti più anziani scrutarono Jon con odio evidente.

«Avete sentito, no?» disse il giovane Jarl. «Cavalchiamo alle prime luci. Portatevi dietro tutto il cibo che potete, non c’è tempo per cacciare. E tu fatti sistemare quella faccia, corvo. Sei una poltiglia di sangue.»

«Lo farò» rispose Jon.

«E te fai bene a non mentire, ragazza» disse Rattleshirt a Ygritte, con uno sguardo minaccioso dietro le orbite vuote del teschio di gigante.

«Stai ben lontano da noi, mucchio d’ossa.» Jon estrasse Lungo artiglio. «Se non vuoi fare la stessa fine di Qhorin.»

«Qua non c’hai nessun lupo che ti aiuta, corvo.» Anche Rattleshirt mise mano alla spada.

«Sei sicuro, sei?» Ygritte gli rise in faccia.

Spettro era accucciato sulla sommità dell’anello di pietre, la pelliccia bianca ritta sulla schiena. Il meta-lupo non emise alcun suono, ma nei suoi scuri occhi rossi brillava la sete di altro sangue. Lentamente, il lord delle Ossa allontanò la mano dall’elsa della spada, fece un passo indietro e andò via imprecando.

Spettro rimase al fianco dei loro cavalli mentre Jon e Ygritte discesero dal Pugno dei Primi Uomini. Solo quando si trovarono ben lontani dagli altri, quasi a metà strada dal Fiumelatte, Jon si sentì sicuro abbastanza da pronunciare la frase cruciale: «Non ti ho mai chiesto di mentire per me».

«Non ho mai mentito» rispose Ygritte. «Ho solo lasciato fuori un pezzo, tutto lì.»

«Tu hai detto…»

«…che abbiamo scopato sotto il tuo mantello per molte notti. Non ho mai detto quando abbiamo cominciato, però.» Il sorriso che lei gli rivolse era quasi timido. «Questa notte, trova a Spettro un altro posto per dormire, Jon Snow. E come dice Mance: le azioni parlano più chiaro delle parole.»

Загрузка...