ARYA

Vuoto. Aiya Stark aveva questa sensazione ogni mattina, a ogni risveglio. Non era fame, sebbene a volte ci fosse anche quella. Era una cavità, un vuoto, là dove un tempo c’era il suo cuore, dove un tempo dimoravano i suoi fratelli, i suoi genitori. Le doleva anche la testa. Non forte come all’inizio, ma abbastanza. A questo però Arya si era abituata, e il bitorzolo almeno si stava riducendo. Invece il vuoto dentro di lei era sempre uguale. “Non andrà mai via. Mai più…” ripeteva a se stessa ogni volta che andava a dormire.

C’erano mattine in cui non voleva nemmeno svegliarsi. Si raggomitolava sotto il mantello, con gli occhi chiusi, cercando di imporsi di continuare a dormire. Se solo il Mastino l’avesse lasciata in pace, avrebbe dormito tutto il giorno e poi tutta la notte.

E avrebbe sognato. Quella era la cosa più bella. Sognava quasi ogni notte. Un branco di lupi, guidato da lei. In quelle visioni notturne, Arya era più grande di tutti loro, più forte, più veloce, più insidiosa. Poteva correre più rapida dei cavalli e combattere con più ferocia dei leoni. Quando snudava le zanne perfino gli uomini fuggivano. La sua pancia non rimaneva mai vuota troppo a lungo, e la sua pelliccia, la teneva al caldo anche quando soffiava il vento gelido. E insieme a lei c’erano i suoi fratelli e le sue sorelle, tantissimi, feroci, terribili e suoi. Non l’avrebbero mai abbandonata.

Ma anche se le sue notti erano piene di lupi, i suoi giorni appartenevano al cane. Che Arya lo volesse o no, ogni mattina Sandor Clegane la costringeva ad alzarsi. La minacciava con la sua voce raschiante, oppure la trascinava in piedi, scuotendola bruscamente. Una volta arrivò addirittura a rovesciarle sulla testa un elmo pieno di acqua gelata. Lei era schizzata in piedi sputacchiando, tremando. Aveva cercato di dargli un calcio, cui il Mastino aveva risposto con una risata. «Asciugati e da’ da mangiare a quei fottuti cavalli» le aveva ordinato. E lei aveva obbedito.

Adesso ne avevano due di cavalli. Straniero, l’ostile destriero del Mastino, più una scalcagnata palafrena che Arya aveva battezzato Codarda, perché Sandor aveva detto che anche lei, come loro, stava probabilmente scappando dalle Torri Gemelle. L’avevano trovata il giorno dopo il bagno di sangue, che vagava priva di cavaliere in un campo fradicio di pioggia. Come cavalcatura non era male, in fondo, ma Arya non poteva voler bene a una codarda. “Straniero avrebbe combattuto.” Comunque, si occupava della palafrena meglio che poteva. Era pur sempre meglio che non dividere la sella con il Mastino. Codarda sarà anche stata codarda, ma era comunque giovane e in forze. Arya riteneva che, se necessario, sarebbe stata addirittura in grado di correre più veloce di Straniero.

Il Mastino non la sorvegliava più strettamente come prima. Certe volte, non sembrava neppure importargli se Arya fosse con lui oppure no e, di notte, non la legava più dentro il mantello. “Una notte” Arya ripeteva a se stessa “lo ucciderò nel sonno.” Ma non aveva mai tentato di farlo. “Una notte” aveva pensato “scapperò via in sella a Codarda, e lui non riuscirà a prendermi.” Ma non aveva mai tentato di fare nemmeno questo.

Fuggire? Per andare dove? Grande Inverno non esisteva più. Ser Brynden Tully, il Pesce Nero, fratello di suo nonno lord Hoster, era a Delta delle Acque. Ma lui non la conosceva, così come lei non conosceva lui. Forse lady Smallwood l’avrebbe accolta a Sala delle Ghiande, o forse invece no. Inoltre, Arya non era neppure sicura di sapere ritrovare Sala delle Ghiande. Aveva anche pensato di tornare alla locanda di Sharna, sempre che le inondazioni dei fiumi non l’avessero spazzata via. Avrebbe potuto stare con Frittella, e poi magari lord Beric Dondarrion l’avrebbe trovata là. Anguy, l’infallibile arciere di Dorne, avrebbe potuto insegnarle a tirare con l’arco, e lei poi avrebbe cavalcato con Gendry, diventando una fuorilegge come Wenda il Daino bianco, celebrata dai cantastorie.

No, erano tutti progetti senza senso. Frittella e Gendry l’avevano abbandonata alla prima occasione. Quanto a lord Beric e ai suoi fuorilegge, a loro importava solo ottenere un riscatto, proprio come al Mastino. In realtà, nessuno di loro voleva averla attorno. “Non sono mai stati il mio branco, nemmeno Frittella e Gendry. Sono stata stupida anche solo a pensarlo. Una stupida ragazzina, che non ha niente a che vedere con i lupi.”

Così Arya Stark rimase con il Mastino. Cavalcavano tutto il giorno, senza mai dormire due volte nello stesso posto, evitando per quanto possibile città, villaggi e castelli. Un giorno, Arya chiese a Sandor Clegane dove stessero andando.

«Lontano» rispose lui. «E non ti serve sapere altro. Per me, tu adesso vali meno di uno sputo. Non ho voglia di stare a sentire il tuo berciare. Avrei dovuto lasciarti correre dentro quel fottuto castello.»

«Sì, sarebbe stato meglio» concordò lei, pensando alla lady sua madre.

«Se lo avessi fatto saresti morta. Dovresti ringraziarmi. Dovresti cantarmi una bella canzoncina, come fece tua sorella.»

«Quindi hai colpito anche lei con un’ascia?»

«Ti ho colpito con il piatto dell’ascia, stupida cagnetta. Se ti avessi davvero colpito con quell’ascia, a quest’ora i pezzi del tuo cranio starebbero ancora galleggiando sulla Forca Verde. Quindi chiudi quella maledetta bocca. Se avessi un po’ di buonsenso ti darei alle Sorelle del silenzio, tagliano la lingua alle ragazzine che parlano troppo.»

Era ingiusto che lui dicesse questo. A parte quell’unica volta, Arya non apriva quasi mai bocca. Passavano intere giornate senza che nessuno dei due proferisse parola. Lei era troppo vuota dentro, e il Mastino era troppo inferocito. Arya poteva percepire la furia che lo divorava. Glielo leggeva in faccia, nel modo in cui la sua bocca maciullata si distorceva, negli sguardi che le lanciava. Ogni volta che impugnava l’ascia per tagliare legna da ardere, il furore nero s’impossessava di lui. Andava selvaggiamente all’assalto di un albero, di un tronco caduto, di rami spezzati fino a quando non si ritrovavano con legna sufficiente per accendere almeno venti fuochi. C’erano volte in cui Sandor usciva così dolorante e stremato da quegli accessi di ferocia che si addormentava senza nemmeno attizzare le fiamme. Arya odiava quei momenti. E odiava anche lui. Erano le notti in cui rimaneva a fissare l’ascia, piena di bramosia. “Sembra dannatamente pesante, ma scommetto che riuscirei a maneggiarla.” E il Mastino non lo avrebbe di certo colpito con il piatto della lama.

Certi giorni, nel loro vagabondare, videro anche delle persone: contadini nei campi, guardiani di porci al pascolo con gli animali, una donna che mungeva una vacca, uno scudiero intento a portare un messaggio lungo una strada scavata dai solchi delle ruote dei carri. Ma Arya non aveva avuto voglia di parlare a nessuno di loro. Per lei era come se fossero gli abitanti di una terra lontana, che si esprimevano in una lingua sconosciuta. Non avevano nulla a che fare con lei, né lei con loro.

E poi, farsi vedere non era sicuro. Spesso, lungo le contorte strade di campagna passavano drappelli di cavalieri, preceduti dal vessillo con i due torrioni dei Frey. «Vanno a caccia di uomini del Nord sbandati» l’aveva avvertita il Mastino. «Ogni volta che senti rumore di zoccoli, abbassa in fretta la testa. Difficile che si tratti di amici.»


Trovarono l’uomo morente nella buca lasciata dalle radici di una quercia caduta.

Era un altro superstite delle Torri Gemelle. L’emblema sul pettorale della sua tunica mostrava una fanciulla che danzava tra sete rosa svolazzanti. Il sopravvissuto, un arciere che aveva perduto l’arco, disse loro di essere un uomo di ser Marq Piper. La sua spalla sinistra, nel punto in cui si innestava l’omero, era tutta gonfia, contorta. Il colpo di una mazza ferrata, spiegò l’arciere, gli aveva fratturato la spalla e la maglia di ferro era affondata nella carne.

«È stato un uomo del Nord» aggiunse. «Il suo simbolo era un uomo insanguinato. Lui ha visto il mio emblema e ha fatto una battuta, tipo che forse l’uomo insanguinato e la ragazza che balla avrebbero dovuto mettersi assieme. Io ho bevuto alla salute del suo lord Bolton, lui ha bevuto alla salute di ser Marq, e tutti e due abbiamo bevuto alla salute di lord Edmure e di lady Roslin e del re del Nord. E poi mi ha ucciso.»

Nel raccontare questo i suoi occhi erano accesi dalla febbre, ma Arya capì che era tutto vero. La sua spalla era gonfia in modo spaventoso, sangue e pus gli infradiciavano tutto il fianco sinistro. L’arciere senza arco puzzava. “Come puzzerebbe un cadavere. …” Li implorò di dargli un po’ di vino.

«Se avessi del vino, me lo sarei già bevuto tutto» rispose il Mastino. «Posso darti dell’acqua. E il dono della misericordia.»

L’arciere lo guardò a lungo. «Tu sei il cane di Joffrey» disse alla fine.

«Cane sciolto, adesso. La vuoi l’acqua?»

«Aye.» L’uomo deglutì. «E anche la misericordia. Per favore.»

Avevano appena superato un piccolo stagno. Sandor diede ad Arya il suo elmo e le disse di andare a riempirlo. Lei arrancò fino allo specchio d’acqua. Il fango le scivolava sulla punta degli stivali. Come secchio, usò la testa di cane di metallo. Acqua colò fuori dalle feritoie per gli occhi, ma sul fondo dell’elmo ne rimase ancora parecchia.

Quando Arya tornò alla buca nel terreno, l’arciere sollevò il viso e lei gli versò l’acqua in bocca. Lui la mandò giù con la stessa rapidità con cui lei la versava. Il resto gli ruscellò lungo le guance, mescolandosi con il sangue rappreso che gli incrostava i baffi finché lacrime rosso pallido non rimasero appese alla sua barba. Quando l’acqua finì, l’uomo morente afferrò l’elmo e leccò l’acciaio.

«Buona» disse «peccato che non fosse vino. Volevo vino.»

«Anch’io» approvò il Mastino.

Quasi con tenerezza, mise la punta del suo pugnale contro il torace dell’uomo e vi si appoggiò con tutto il peso del corpo. Premette. La lama si aprì la strada nella tunica dell’uomo morente, perforando la maglia di ferro e l’imbottitura sotto. Sandor estrasse il pugnale dal corpo immobile.

«Quella è la posizione del cuore, ragazzina» disse guardando Arya. «È in questo modo che si uccide un uomo.»

“Questo è uno dei modi.” «Lo seppelliamo?» gli chiese.

«Perché?» disse Sandor. «A lui non importa più, e non abbiamo una vanga. Lasciamolo ai lupi e ai cani selvaggi. I tuoi fratelli e i miei.» Le lanciò un’occhiata dura. «Prima però lo rapiniamo.»

C’erano due cervi d’argento nella borsa dell’arciere senza arco, e quasi trenta monete di rame. Sull’impugnatura del suo pugnale era incastonata una bella pietra. Il Mastino fece volteggiare la daga, poi la gettò ad Arya. Lei la prese al volo per l’elsa, se la fece scivolare nella cintura e si sentì meglio. Non era Ago, ma era comunque acciaio. Il morto aveva anche una faretra piena di frecce, ma senza arco le frecce non servivano a niente, per cui le abbandonarono. Gli stivali erano troppo grandi per Arya e troppo piccoli per il Mastino. Abbandonarono anche quelli. Arya prese l’elmo a calotta, che però le scendeva fino al naso, costringendola a spingerlo sulla nuca per riuscire a vedere.

«Deve avere avuto anche un cavallo, altrimenti non sarebbe riuscito a fuggire» Sandor scrutò l’orizzonte «ma a questo punto chissà dove è andato a fottersi. Impossibile dire quanto tempo è rimasto in questa buca.»


Alla fine, le piogge cessarono. Quando accadde, Arya e il Mastino avevano raggiunto i primi contrafforti delle montagne della Luna. Osservando il sole, la luna e le stelle, Arya ebbe l’impressione che stessero dirigendosi verso est.

«Dove stiamo andando?» chiese di nuovo.

Questa volta, il Mastino le diede una risposta. «Tu hai una zia a Nido dell’Aquila, lady Lysa. Forse lei vorrà pagare un riscatto per quel tuo culetto scarno, anche se lo sanno gli dèi perché dovrebbe farlo. Quando troveremo la strada alta, potremo seguirla fino alla Porta insanguinata.»

“Lady Lysa: zia Lysa.” Quel pensiero le fece sentire di nuovo il vuoto dentro. Era sua madre che voleva, non la sorella di sua madre. Inoltre, non conosceva la sorella di sua madre così come non conosceva lo zio di sua madre, ser Brynden il Pesce Nero. “Avremmo dovuto entrare nel castello dei Frey.” In realtà, non sapevano per certo che la lady sua madre fosse morta. Lo stesso valeva per Robb. Non li avevano visti morire. Forse lord Walder li aveva solamente presi prigionieri. Forse adesso erano incatenati in una segreta, o forse i Frey li stavano portando ad Approdo del Re, perché Joffrey potesse tagliare loro la testa. No, non sapevano.

«Dobbiamo tornare indietro» decise improvvisamente Arya. «Dobbiamo tornare alle Torri Gemelle, a prendere mia madre. Non può essere morta. Dobbiamo andare ad aiutarla.»

«E io che pensavo fosse tua sorella quella con la testa piena di guittate da cantastorie» ringhiò il Mastino. «Frey potrebbe avere tenuto tua madre in vita per avere un riscatto, è vero. Ma non c’è nemmeno una possibilità, per tutti e sette gli inferi, che io possa tirarla fuori da quella fottuta fortezza da solo.»

«Non da solo. Ci sarò anch’io con te.»

Sandor emise un verso che forse era una risata. «Allora sì che quel vecchio si piscerà sotto dal terrore.»

«Tu hai solo paura di morire!» sbottò Arya con disperazione.

Questa volta Sandor Clegane rise davvero. «La morte non mi spaventa. Soltanto il fuoco mi spaventa. Adesso stai zitta, altrimenti ti taglio la lingua e risparmio il disturbo alle Sorelle del silenzio. Noi andiamo alla valle di Arryn.»

Arya non pensava che Sandor le avrebbe davvero tagliato la lingua, lo diceva e basta, così come Occhio Moscio, il capo dei servi di Harrenhal che aveva sostituito Weese, diceva che l’avrebbe picchiata a sangue. Comunque fosse, Arya non aveva alcuna intenzione di fare verifiche. Il Mastino non era Occhio Moscio. Occhio Moscio non tagliava la gente in due con la spada, né li colpiva in testa con l’ascia. Nemmeno con il piatto dell’ascia.

Quella notte, Arya andò a dormire pensando a sua madre, domandandosi se uccidere il Mastino nel sonno e cercare di salvare lady Catelyn da sola. Chiuse gli occhi. Nell’interno delle palpebre vide il viso di sua madre. “Così vicina da poter quasi sentire il suo odore…”

…e poi lo sentì davvero.

Era mescolato ad altri odori, muschio e fango e acqua, più il tanfo di vegetazione putrefatta. E di uomini putrefatti.

Avanzò lentamente sul terreno molle lungo la riva del fiume, tirò fuori la lingua e bevve, poi sollevò la testa, fiutando il vento. Il cielo era grigio, carico di nubi pesanti. Sul fiume dalle acque verdi galleggiavano cose. Uomini morti arenati in qualche area stagnante, altri si muovevano ancora sotto la spinta della corrente, altri finiti sulle sponde. I suoi fratelli e le sue sorelle si avventarono su di loro, strappando brandelli di carne grassa e gocciolante.

C’erano anche i corvi. Gracchiavano contro i lupi, riempiendo l’aria di piume nere. Il loro sangue era più caldo di quello dei corpi sul fiume. Mentre un corvo stava per spiccare il volo, una delle sue sorelle gli si avventò contro, addentandogli un’ala. Questo spinse anche lei a volere prendere un corvo, a desiderare il gusto del sangue, lo scricchiolare delle ossa e il ventre pieno di carne calda invece che fredda. Era affamata e attorno a lei c’era carne. Eppure sapeva di non poter mangiare.

L’altro odore adesso era più forte. Tese le orecchie, rimase ad ascoltare il ringhiare del branco, il gracchiare dei corvi inferociti, il battere delle loro ali, il fruscio dell’acqua in movimento. Da qualche parte, molto lontano, poté udire anche un trapestio di zoccoli e voci di uomini ancora vivi. Ma questo non aveva importanza. Solamente l’altro odore aveva importanza. Fiutò nuovamente l’aria. Ecco, finalmente lo vide, l’oggetto pallido e bianco che scivolava sul fiume, ruotando nello sfiorare un ostacolo. Al suo passaggio, le erbe acquatiche s’inchinarono.

Lei entrò nel fiume, sollevando fontane di spruzzi, avanzando fino a dove l’acqua era più profonda, con le gambe che battevano. La corrente era forte, ma lei era ancora più forte. Continuò a nuotare, seguendo il proprio intuito. Gli odori del fiume erano intensi, bagnati, ma non erano loro a guidarla. Si trovò a seguire l’acuto sussurro rosso del sangue ormai freddo e il dolce, suadente sentore della morte. Diede loro la caccia nello stesso modo in cui spesso dava la caccia ai cervi rossi nella foresta. Alla fine, li raggiungeva, li abbatteva e le sue fauci si…

… chiusero attorno a un braccio dalla carne livida. Lo scosse, cercando di farlo muovere, ma in bocca non sentì altro che morte e sangue. A quel punto cominciò a stancarsi. Tutto quello che poté fare fu trascinare il corpo fino alla riva. Nel momento in cui arretrò sul fango, uno dei suoi fratelli si avvicinò, famelico, la lingua che penzolava tra i denti. Lei fu costretta a ringhiare di minaccia, altrimenti l’altro lupo del branco si sarebbe nutrito con la cosa livida che aveva tirato fuori dal fiume. Solo allora fece una pausa, scuotendosi l’acqua dalla pelliccia. Il corpo livido giaceva nel fango a pancia in giù, la carne morta pallida e grinzosa, il sangue freddo che colava dalla gola.

“Alzati e corri con il nostro branco…” pensò lei.

Il rumore dei cavalli le fece voltare la testa. Uomini. Arrivavano sottovento, per cui lei non aveva sentito il loro odore, ma adesso erano molto, troppo vicini. Uomini a cavallo, con svolazzanti ali nere, gialle e rosa, che impugnavano lunghi artigli argentei. Alcuni dei suoi fratelli più giovani snudarono le zanne per difendere il cibo che avevano trovato, lei fece schioccare le mascelle con furia fino a quando il branco non si disperse. Era la regola delle terre selvagge. Cervi, lepri e corvi fuggivano davanti ai lupi, ma i lupi fuggivano davanti agli uomini. Abbandonò il suo livido trofeo nel fango in cui lo aveva trascinato e anche lei corse con il branco. Corse via senza provare vergogna.


Arrivò la luce del giorno. Ma questa volta il Mastino non ebbe bisogno di gridare o di scuotere Arya perché si svegliasse. Quel giorno si era svegliata per prima e aveva addirittura già abbeverato i cavalli. Fecero colazione in silenzio. Alla fine, Sandor lo spezzò. «Quella faccenda di tua madre…»

«Non ha più importanza.» La voce di Arya era atona. «So che è morta. L’ho visto in sogno.»

Il Mastino rimase a guardarla per un lungo momento, poi annuì. Non dissero altro su lady Catelyn.

Cavalcarono verso le montagne della Luna e basta.


Il piccolo villaggio sorgeva sui contrafforti. Un posto isolato, circondato da alberi-sentinella grigioverdi e da alti pini-soldato che apparivano quasi blu. Clegane decise di rischiare.

«Ci serve cibo» disse «e un tetto sopra la testa. Difficilmente sanno che cosa è successo alle Torri Gemelle e, con un po’ di fortuna, non sanno nemmeno chi sono io.»

Gli abitanti del villaggio stavano costruendo una palizzata di legno attorno alle loro case. Per cui, quando videro l’ascia di traverso sulle spalle del Mastino, offrirono loro cibo, ricovero e anche del conio se lo avesse fatto lui quel lavoro.

«Se c’è anche del vino» ringhiò Sandor «è affare fatto.»

Alla fine gli andò bene anche la birra al malto, e ogni notte bevve fino a cadere addormentato.

Il suo sogno di vendere Arya a lady Lysa Arryn morì là, tra quelle colline. «C’è ghiaccio appena sopra di noi e i passi alti, sono pieni di neve» disse il vecchio del villaggio. «Se non morite di freddo o di fame, saranno le pantere-ombra a farvi fuori, oppure gli orsi delle caverne. E ci sono anche i clan delle montagne con cui fare i conti. Gli Uomini Bruciati sono senza paura da quando Timett Occhio solo è tornato dalla guerra. Circa sei mesi fa, Gunthor figlio di Gurn ha guidato i Corvi di Pietra giù a un villaggio, a nemmeno otto miglia da qui. Si sono portati via tutte le donne e tutto il grano, fino all’ultimo chicco, e hanno ammazzato metà degli uomini. Sono armati di acciaio, adesso. Buone spade e maglie di ferro, e controllano la strada alta: Corvi di Pietra, Serpenti di Latte, Figli della nebbia, tutti quanti. Può essere che ne tiri giù un po’, ma alla fine ti ammazzano e si prendono anche tua figlia.»

“Non sono sua figlia!” avrebbe voluto gridare Arya, ma era troppo stanca perfino per quello. Non era più la figlia di nessuno, adesso. Non era più nessuno. Non Arya, né Donnola, né Nan o Arry o Lite o Bernoccolo. Era solo una ragazzina che di giorno correva con un cane e di notte sognava i lupi.

Era tranquilla la vita in quel villaggio. Ebbero letti di paglia e nemmeno troppi pidocchi. Il cibo era semplice ma nutriente, e l’aria odorava di pino. Niente di tutto questo ebbe importanza: ben presto Arya decise che odiava stare là. I paesani erano dei vili. Nessuno di loro osava guardare il Mastino in faccia, e quando lo facevano non durava comunque a lungo. Alcune donne cercarono di farle indossare un vestito da ragazza e di insegnarle a lavorare all’uncinetto. Ma non erano certo lady Smallwood e Arya non ne volle proprio sapere. E poi c’era quella ragazzina, la figlia maggiore dell’anziano del villaggio, che cominciò a seguirla dappertutto. Aveva la stessa età di Arya, ma era solo una bambina. Non appena si sbucciava un ginocchio piagnucolava, e ovunque andasse si tirava sempre dietro una stupida bambola di stracci. La bambola doveva sembrare un uomo d’arme, che la ragazzina chiamava “ser Soldato” e dava a intendere che la teneva al sicuro. «Vai via» Arya glielo ripeté cento volte. «Lasciami in pace.» Ma la ragazzina non la lasciava in pace. Alla fine, Arya le strappò la bambola di pezza dalle mani, la squarciò e con un dito tirò fuori lo straccio che le riempiva la pancia. «Ecco fatto» urlò in faccia alla ragazzina. «Adesso sembra davvero un soldato!» Poi gettò il giocattolo sventrato in un torrente. Dopo quell’episodio, la ragazzina smise di andarle dietro.

Arya continuò a passare le giornate occupandosi di Straniero e di Codarda e camminando nei boschi. Certe volte cercava di fare pratica di uncinetto, con in mano un ramo sottile. Ma poi le tornava in mente quello che era accaduto alle Torri Gemelle, e allora iniziava a sbattere il rametto contro un tronco fino a spezzarlo.

«Potremmo rimanere qui per un po’» le disse il Mastino dopo una settimana. Era ubriaco di birra al malto, ma più cupo che assonnato. «Non arriveremo mai a Nido dell’Aquila. E nelle terre dei fiumi i Frey staranno ancora dando la caccia ai superstiti. Sembra che quassù abbiano bisogno di spade, specie con questi guitti dei clan che fanno incursioni. Possiamo riposarci, magari inviare una lettera a tua zia Lysa.»

All’udire queste parole, l’espressione di Arya si rabbuiò. Non voleva restare là, ma non aveva un altro posto dove andare. Il mattino dopo, quando il Mastino uscì per abbattere altri alberi e trascinare altri tronchi, lei tornò a rintanarsi a letto.

Ma quando il lavoro fu fatto e la palizzata completata, l’anziano del villaggio fece capire chiaramente che quello non era posto per loro. «Quando viene l’inverno, avremo bisogno di nutrire la nostra gente» spiegò a Clegane. «E tu… un uomo come te si porta dietro una scia di sangue.»

La mascella di Sandor si serrò. «Quindi sai chi sono.»

«Aye. Non arrivano viaggiatori qui, ma noi andiamo per i mercati, per le fiere. Conosciamo il cane da guardia di re Joffrey.»

«Quando i Corvi di Pietra verranno a farvi visita, un cane da guardia potrebbe far comodo anche a voi.»

«Può darsi.» L’uomo esitò, poi trovò il coraggio. «Ma dicono che dopo la battaglia delle Acque Nere non hai più il fegato per combattere. Dicono…»

«So quello che dicono.» La voce di Sandor Clegane sembrava lo stridere di due seghe arrugginite l’una contro l’altra. «Allora pagami, così ce ne possiamo andare da qui.»

Quando se ne andarono, il Mastino aveva una borsa piena di monete di rame, un otre di birra e una spada nuova. Era una spada molto vecchia, in verità, ma per lui era nuova. L’aveva scambiata con l’ascia che avevano preso alle Torri Gemelle, quella che aveva procurato il bernoccolo in testa ad Arya. In meno di un giorno la birra svanì, in compenso il Mastino affilava la spada ogni notte, maledicendo l’uomo con cui aveva fatto lo scambio per ogni piccola chiazza di ruggine sull’acciaio. “Ma se davvero non ha più il fegato per combattere, che cosa gl’importa se la spada è affilata oppure no?” Non era una domanda che Arya fosse troppo ansiosa di fargli, ma che comunque continuò a frullarle per la testa. Era forse per questo che era scappato dalle Torri Gemelle portandosela dietro?

Tornarono nelle terre dei fiumi. Scoprirono che le piogge erano cessate e che le acque si stavano ritirando. Il Mastino si diresse a sud, di nuovo verso il Tridente.

«Andiamo a Delta delle Acque» disse ad Arya mentre arrostivano una lepre che lui aveva ucciso. «Forse questo Pesce Nero vuole comprarsi una ragazzina-lupo.»

«Il Pesce Nero non mi conosce. Non saprà neanche se sono davvero io.» Arya era stufa di dirigersi verso Delta delle Acque. Le pareva fossero anni che si dirigeva verso Delta delle Acque, senza però mai riuscire ad arrivarci. Ogni volta finiva in qualche altro posto molto peggiore. «Non ti pagherà nessun riscatto. Probabilmente t’impiccherà.»

«È libero di provarci.» Sandor si girò a sputare.

“Non parla certo come uno che non ha più il fegato per combattere.” «So io dove potremmo andare» disse Arya. Le rimaneva ancora un fratello. “Jon mi vorrà, anche se nessun altro mi vuole. Mi chiamerà “sorellina” e mi arrufferà i capelli.” La strada però era lunga e lei non sapeva se da sola ce l’avrebbe fatta. Non era riuscita nemmeno ad arrivare a Delta delle Acque. «Potremmo andare alla Barriera.»

La risata di Sandor fu per metà un ringhio. «Così adesso la lupacchiotta vuole entrare nei Guardiani della notte, è così?»

«C’è mio fratello Jon Snow sulla Barriera» rispose lei, ostinata.

La bocca del Mastino si contorse. «È a migliaia di leghe da qui, la Barriera. Saremmo costretti ad aprirci la strada combattendo contro i fottuti Frey solo per raggiungere l’Incollatura. In quelle paludi ci sono lucertole-leone che i lupi se li mangiano a colazione tutti i giorni. E se anche riuscissimo ad arrivare nel Nord con la pelle ancora attaccata alle ossa, metà dei castelli sono in pugno agli uomini di ferro, senza contare migliaia di fetenti uomini del Nord del cazzo.»

«Hai paura di loro?» osò lei. «Non hai più il fegato per combattere?»

Per un momento, Arya fu certa che Sandor l’avrebbe colpita. Ma la lepre era cotta, la pelle croccante, il grasso colava sfrigolando sulle fiamme del bivacco. Sandor la tolse dallo spiedo, la strappò in due con le sue grandi mani, ne gettò metà in grembo ad Arya.

«Il mio fegato non ha nessun problema» dichiarò il Mastino, strappando una coscia. «Ma non me ne frega un cazzo né di te né di tuo fratello. Ce l’ho anch’io, un fratello.»

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