PROLOGO

La giornata era grigia, gelida. I cani non riuscivano a fiutare la pista. La grande cagna nera aveva accostato il muso alle orme dell’orso un’unica volta, per poi arretrare di nuovo nel branco, tenendo la coda tra le gambe. I segugi si ammassavano tetramente gli uni contro gli altri sulla riva del fiume, mentre il vento li colpiva con aghi di gelo. Anche Chett lo sentiva pungere nonostante gli strati di lana nera e cuoio trattato. Faceva troppo freddo, sia per gli uomini sia per gli animali. Eppure loro erano là fuori. Chett strinse le labbra, gli sembrò di sentire le vesciche che gli coprivano le guance diventare più rosse, più infuocate. “Io dovrei starmene sulla Barriera, al sicuro, a occuparmi dei fottuti corvi e a tenere il fuoco acceso per il vecchio maestro Aemon.” Invece no: Jon Snow il bastardo gli aveva portato via tutto, lui e quel ciccione del suo amico Sam Tarly. Era colpa loro se adesso Chett era qui, a ghiacciarsi le palle assieme a un branco di cani, nelle profondità della foresta Stregata.

«Per i sette inferi!» Diede ai guinzagli un duro strattone, facendo muovere gli animali. «Cercate, maledetti! Quelle lì sono impronte d’orso. La volete vedere un po’ di carne, o no? Trovate qualcosa!» Ma i cani continuarono a raccogliersi in un mucchio addirittura più compatto, uggiolando. Chett fece schioccare la corta frusta su di loro, la cagna nera gli ringhiò contro. «La carne di cane vale quanto quella d’orso» l’avvertì lui, il fiato che si condensava a ogni respiro.

Lark delle Sorelle rimase immobile, braccia incrociate sul petto, mani infilate sotto le ascelle. Indossava guanti di lana nera, ma non faceva altro che lamentarsi di avere le dita gelate. «Dannazione. È troppo freddo per cacciare» disse. «In culo a quell’orso, non vale la pena di congelarsi.»

«Non possiamo tornare a mani vuote, Lark» rumoreggiò Piccolo Paul da dietro la folta barba marrone che gli copriva gran parte della faccia. «Al lord comandante non piacerà.»

C’era del ghiaccio sotto il naso schiacciato di quell’uomo grande e grosso, dove la punta si era congelata. Una delle sue mani enormi, coperta da uno spesso guanto di pelliccia, era serrata attorno all’asta di una picca.

«In culo anche al Vecchio orso» disse Lark, un uomo asciutto dai lineamenti affilati e gli occhi nervosi. «Mormont sarà morto prima dell’alba, ricordi? Chi se ne frega di quello che non gli piace?»

I minuscoli occhi neri di Piccolo Paul ammiccarono. Forse se n’era davvero dimenticato, pensò Chett. Era abbastanza scemo da dimenticare pressoché qualsiasi cosa. «Perché dobbiamo ucciderlo, il Vecchio orso? Perché semplicemente non ce ne andiamo e lo lasciamo stare?»

«Tu pensi che lui lascerebbe stare noi?» disse Lark. «Ci darà la caccia. Vuoi davvero che ti venga data la caccia, gran zucca di montone?»

«No» disse Piccolo Paul. «Non lo voglio questo. Non lo voglio.»

«Quindi lo ucciderai?» chiese Lark.

«Sì» il gigante picchiò l’estremità della picca contro la sponda congelata. «Lo uccido. Non ci deve dare la caccia.»

Lark tolse la mani da sotto le ascelle e si girò verso Chett. «Io dico che dobbiamo uccidere anche gli ufficiali. Tutti.»

«Abbiamo già parlato di questo.» Chett aveva la nausea di sentirglielo ripetere. «Il Vecchio orso muore. E anche Blane della Torre delle ombre. E pure Grubbs e Aethan, peggio per loro se sono di guardia. E poi Dywen e Bannen perché sanno seguire le tracce, e Messer Porcello per i corvi. Tutti. Li uccidiamo facendo piano. Un grido, uno solo, e siamo cibo per vermi.» Le sue vesciche erano rosse per il furore. «Voi fate la vostra parte e vi assicurate che i vostri cugini facciano la loro. E, Paul, ricorda: è al terzo turno di guardia, non al secondo.»

«Terzo turno» ripeté il colosso da sotto la barba e il naso gelato. «Io e Piedemolle, lo ricordo, Chett.»

Quella notte ci sarebbe stata la luna. Avevano fatto in modo che ci fossero otto dei loro di guardia, più altri due a sorvegliare i cavalli. Non avrebbe potuto andare meglio di così. Inoltre, i bruti potevano attaccare da un momento all’altro. Chett voleva trovarsi molto lontano da là quando questo fosse accaduto. Chett voleva vivere.

Trecento confratelli giurati dei Guardiani della notte avevano cavalcato a nord, duecento dal Castello Nero e altri cento dalla Torre delle ombre.

Era la più grande spedizione a memoria d’uomo: quasi un terzo dell’intera forza della Confraternita in nero. Intendevano trovare Benjen Stark, ser Waymar Royce e gli altri ranger dispersi. E volevano capire per quale ragione i bruti stavano abbandonando i loro villaggi. Bene, da quando avevano lasciato la Barriera, di Ben Stark e degli altri non avevano trovato traccia. In compenso, avevano scoperto dov’erano andati ad ammassarsi i bruti: su nelle gelide vette degli impervi Artigli del Gelo. Per quanto riguardava Chett e le sue vesciche, potevano rimanere a fottersi lassù fino alla fine dei tempi.

Invece no. Adesso i bruti stavano calando verso il basso. Lungo il Fiumelatte.

Chett alzò lo sguardo. Eccolo, il Fiumelatte. Rive rocciose assediate dal ghiaccio; pallide acque lattiginose che scorrevano senza fine dagli Artigli del Gelo. E ora, Mance Rayder e i suoi bruti stavano seguendo quella medesima corrente. Thoren Smallwood era tornato tre giorni prima, pieno di affanno. Mentre riferiva al Vecchio orso quello che avevano trovato, il suo uomo Kedge Occhiobianco lo aveva detto al resto dei confratelli.


«Sono ancora molto in alto, ma stanno arrivando» precisò Kedge, riscaldandosi le mani alle fiamme di un falò. «Harma Testa di cane, la troia butterata, guida l’avanguardia. Goady è strisciato fino al loro accampamento e l’ha vista bene in faccia, vicino a uno dei fuochi. Quell’imbecille di Tumberjon voleva inchiodarla con una freccia, ma Smallwood ha avuto più buonsenso.»

Chett sputò per terra. «Ma quanti sono, sei in grado di dirlo?»

«Tanti e tanti. Venti, trentamila, non siamo rimasti a contarli. Harma ne aveva cinquecento nell’avanguardia, e tutti a cavallo.»

Gli uomini raccolti attorno al fuoco si scambiarono sguardi cupi. Era cosa rara trovare anche solo una dozzina di bruti a cavallo, ma cinquecento…

«Smallwood ha mandato Bannen e me ancora più all’interno per vedere se riuscivamo a individuare il grosso dello schieramento» continuò Kedge. «Sembravano non finire mai. Si muovono con la stessa lentezza di un fiume congelato, quattro, cinque miglia al giorno, ma non sembra per niente che vogliono tornare ai loro villaggi. Più della metà sono donne e bambini, e davanti a loro spingono gli animali: capre, pecore, perfino uri che trascinano slitte. Hanno caricato balle di pellicce e riserve di carne, gabbie di polli, mastelli per il burro e torni da vasaio… Ogni dannata cosa che possiedono. Muli e cavalli sono talmente carichi che uno direbbe gli si sta per spezzare la schiena a ogni passo. E lo stesso vale per le donne.»

«E seguono il Fiumelatte?» chiese Lark delle Sorelle.

«È quello che ho detto, no?»

Il Fiumelatte avrebbe condotto i bruti oltre il Pugno dei Primi Uomini, l’ancestrale fortino nel quale i Guardiani della notte avevano eretto il loro accampamento. Qualsiasi uomo dotato di un minimo di buonsenso avrebbe capito che era tempo di togliere i picchetti e ritirarsi sulla Barriera. Il Vecchio orso aveva fatto fortificare il Pugno con rostri, fossati e trappole di palle d’acciaio chiodate. Ma non sarebbe servito a niente contro un simile esercito. Se loro fossero rimasti là, sarebbero stati accerchiati e spazzati via.

E Thoren Smallwood voleva attaccare. Donnel Hill, detto “il Dolce”, era lo scudiero di ser Mallador Locke, e due notti prima Smallwood era andato nella tenda di Locke. Si sapeva che ser Mallador era dello stesso parere del vecchio ser Ottyn Wythers, rientrare alla Barriera, ma Smallwood voleva convincerlo del contrario.

«Il re oltre la Barriera non ci cercherà mai tanto a nord.» Donnel il Dolce aveva riferito le parole di Thoren. «E quel suo grandioso esercito non è altro che un’orda sgangherata, piena di inutili bocche da sfamare che non sanno nemmeno da che parte s’impugna una spada. Un solo colpo ben assestato gli farà passare la voglia di combattere e li rimanderà ululando nelle loro tane per i prossimi cinquant’anni.»

Trecento contro trentamila. Un rapporto di forze che Chett definiva folle, ma la cosa ancora più folle era che ser Mallador si era lasciato convincere e che adesso lui e Thoren erano sul punto di convincere anche il Vecchio orso.

«Se aspettiamo troppo, l’opportunità ci sfuggirà, per non ripresentarsi mai più» diceva Thoren Smallwood a chiunque lo ascoltasse.

«Noi siamo lo scudo che protegge il reame degli uomini» controbatteva ser Ottyn Wythers. «E non si getta via quello scudo senza una valida ragione.»

«In un duello» riprendeva Thoren «la migliore difesa è un solido colpo di spada che abbatta l’avversario, non rattrappirsi dietro uno scudo.»

Solo che né Smallwood né Wythers erano al comando. Era lord Jeor Mormont l’unico a poter decidere e Mormont continuava ad aspettare gli altri esploratori: Jarman Buckwell e gli uomini che si erano spinti lungo la scalinata del Gigante, Qhorin il Monco e Jon Snow, andati a esplorare il passo Skirling. Ma sia Buckwell sia il Monco tardavano a rientrare. “Morti, molto probabilmente.” Chett s’immaginava la carcassa di Jon Snow, bluastra e congelata, che giaceva su una qualche cima desolata, con la picca di un bruto piantata in quel suo culo di bastardo. Un pensiero che gli portava il sorriso sulle labbra. “Spero che abbiano ammazzato anche quel suo lupo del cazzo.”


«Non c’è nessun orso, qua» decise improvvisamente Chett. «È solo una vecchia orma, tutto lì. Torniamo al Pugno.»

I cani quasi lo trascinarono di peso, ansiosi di andarsene quanto lui. Forse pensavano che qualcuno avrebbe dato loro da mangiare. A Chett venne da ridere. Erano tre giorni che non li nutriva, in modo da farli diventare ancora più feroci. Quella notte, prima di dileguarsi nelle tenebre, dopo che Donnel il Dolce e Karl Piededuro avessero tagliato le briglie, li avrebbe scatenati tra le linee dei cavalli. “Ci saranno cani ringhianti e cavalli terrorizzati in fuga per tutto il Pugno. Le bestie salteranno sui fuochi, oltre gli sbarramenti, calpesteranno le tende.” In mezzo a tutta quella confusione, sarebbero passate ore prima che qualcuno si accorgesse che quattordici confratelli si erano dileguati.

Lark voleva disertare con il doppio degli uomini, ma in fondo che altro ci si poteva aspettare da uno stupido pesce marcio come lui, scappato dai promontori delle Sorelle? “Sussurra anche soltanto una parola nell’orecchio sbagliato e il momento dopo ti ritroverai senza testa.” No, quattordici era un buon numero, abbastanza per riuscire nell’impresa, ma non troppi da non poter mantenere il segreto. Era stato proprio lui, Chett, a reclutarne da solo la maggior parte. Piccolo Paul era uno dei suoi: l’uomo più forte della Barriera, per quanto fosse anche più lento di una lumaca morta. Una volta, aveva spezzato la schiena di un bruto con un unico abbraccio. Avevano dalla loro anche Dirk, famoso per la sua arma preferita, lo stiletto, e anche il piccolo uomo grigio che i confratelli chiamavano Piedemolle. Era uno che in gioventù aveva stuprato almeno cento donne, e che si vantava di come nessuna di loro lo avesse neppure sentito avvicinarsi fino a quando lui non glielo aveva piantato dentro.

Anche il piano era di Chett. Era furbo, lui. Era stato l’attendente del vecchio maestro Aemon’per quattro lunghi anni, fino a quando il bastardo Jon Snow non gli aveva portato via il lavoro per darlo a quel grasso maiale del suo amico. Quella notte, nell’uccidere Samwell Tarly, gli avrebbe sussurrato dritto nell’orecchio: “Porta il mio affetto a lord Snow”. Poi gli avrebbe tagliato la gola da un orecchio all’altro, lasciando che il sangue gorgogliasse tra tutti quei rotoli di lardo. Chett conosceva i corvi. Con loro, non avrebbe avuto più problemi che con Tarly. Un solo tocco del coltello e quel vigliacco si sarebbe pisciato nelle brache, mettendosi a implorare. “Che implori pure, non gli servirà a nulla.” Prima gli avrebbe aperto la gola, poi avrebbe aperto le gabbie e fatto scappare gli uccelli, in modo che nessun messaggio potesse arrivare alla Barriera. Piedemolle e Piccolo Paul avrebbero assassinato il Vecchio orso, Dirk avrebbe fatto fuori Blane, Lark e i suoi cugini avrebbero sgozzato Bannen e il vecchio Dywen, impedendo che venissero a fiutare la loro pista. Era da una settimana che raccoglievano cibo, e Donnel il Dolce e Karl Piededuro avrebbero caricato i cavalli. Con Mormont morto, il comando sarebbe passato a ser Ottyn Wythers, un vecchio decrepito dalla salute malandata. “Sarà in fuga per la Barriera anche prima del calar del sole, e di certo non sprecherà uomini per correre dietro a noi.”

I cani continuarono a trascinarlo mentre avanzava tra gli alberi. Più in alto, Chett vide il Pugno che torreggiava al di sopra della vegetazione. Era una giornata talmente scura che il Vecchio orso aveva fatto accendere le torce. Sullo sbarramento fortificato, un grande anello punteggiato dai falò incoronava la sommità del ripido acrocoro di roccia. I tre uomini in nero guadarono un torrente. L’acqua era fredda come il ghiaccio e formazioni congelate galleggiavano sulla superficie.

«Io andrò verso la costa» dichiarò Lark delle Sorelle. «Io e i miei cugini. Ci costruiremo una barca e faremo vela per tornare a casa, ai promontori delle Sorelle.»

“Ma a casa sapranno che siete dei disertori” pensò Chett. “Vi taglieranno le vostre teste da idioti.” Una volta pronunciate le parole del giuramento, non esisteva alcun modo di lasciare i Guardiani della notte. In qualsiasi parte dei Sette Regni uno venisse catturato, sarebbe stato subito messo a morte.

Ollo Lophand invece parlava di tornare alla sua città libera di Tyrosh. Da quelle parti, sosteneva, a nessuno veniva mozzata una mano per un minimo di onesto ladrocinio, e non si veniva mandati a congelarsi l’anima per essere stati colti a letto con la moglie di qualche cavaliere. Chett aveva considerato l’ipotesi di andare con lui, ma non conosceva la tumida parlata da sgualdrinelle di quelle parti. E a Tyrosh che cosa avrebbe potuto fare? Era cresciuto a Campo dell’Arpia e non aveva nessuna particolare abilità. Suo padre aveva passato la sua esistenza sarchiando erbacce da campi altrui e raccogliendo sanguisughe. Si spogliava pressoché nudo, tenendosi addosso solo un corsetto di cuoio grezzo, e si immergeva fino al torace nelle acque torbide. Quando ne usciva, era coperto di quelle viscide cose nere dai capezzoli alle caviglie. Certe volte, aveva obbligato Chett ad aiutarlo a rimuoverle. Una volta, una gli si era attaccata al palmo della mano e lui, pieno di ribrezzo, l’aveva schiacciata contro un muro. Così suo padre lo aveva gonfiato di botte. I maestri pagavano le sanguisughe un soldo alla dozzina.

Che Lark tornasse pure a casa, visto che ci teneva tanto, e anche quel dannato d’un tyroshi, ma Chett ambiva a qualcosa di più. Se anche non avesse mai più rivisto Campo dell’Arpia, tanto meglio così. Come idea, il castello di Craster non gli dispiaceva affatto. Craster ci viveva come un lord, perché non poteva fare lo stesso anche lui? Sarebbe stato davvero divertente. Chett, figlio di un raschia-sanguisughe, che diventa un lord con tanto di castello. Una dozzina di sanguisughe in campo rosa avrebbe potuto essere il suo vessillo. E poi, perché fermarsi a lord? Forse avrebbe dovuto proclamarsi re. “Mance Rayder ha cominciato come corvo nero. Anch’io potrei essere un re come lui, e farmi un po’ di mogli.” Craster di mogli ne aveva diciannove, e questo senza nemmeno contare quelle giovani, le figlie con le quali non aveva ancora dormito. Metà delle mogli erano vecchie e brutte quanto Craster, ma non aveva importanza. Le vecchie, Chett poteva metterle al lavoro in cucina o a fare le pulizie, mandarle a raccogliere carote o a badare ai porci. Mentre le giovani gli tenevano il letto caldo e generavano i suoi figli. Craster non avrebbe obiettato, non dopo che Piccolo Paul gli avesse elargito uno dei suoi abbracci.

Le uniche donne che Chett aveva conosciuto erano state le puttane di Città della Talpa. Da giovane, bastava che le ragazze del villaggio dessero una sola occhiata alla sua faccia, piena di vesciche e di pustole, per voltarsi dall’altra parte disgustate. La peggiore di tutte era stata quella troia di Bessa. Aveva aperto le gambe per ogni singolo ragazzo di Campo dell’Arpia, così Chett s’era detto: “Perché non provarci?”. Aveva trascorso un’intera mattinata a cogliere fiori di campo: gli avevano detto che a Bessa piacevano. Ma lei gli aveva riso in faccia: piuttosto che infilarsi in un letto con lui, avrebbe preferito farlo con una delle sanguisughe di suo padre. Ma aveva smesso di ridere quando Chett le aveva piantato il coltello nel ventre L’espressione sulla faccia di lei gli aveva procurato un forte godimento. Chett aveva estratto la lama e gliel’aveva piantata dentro di nuovo. Dopo che l’ebbero catturato, dalle parti di Settecorrenti, il vecchio lord Walder Frey non si era nemmeno preso il disturbo di andare di persona a comminare il giudizio. Aveva mandato uno dei suoi bastardi, quel Walder Rivers. In meno di un battito di ciglia, Chett si era ritrovato a marciare verso la Barriera al seguito di quel diavolo nero puzzolente chiamato Yoren. Gliel’avevano fatta pagare per quell’unico attimo di godimento, portandogli via l’intera vita.

Ma adesso lui intendeva riprendersela, la vita, con l’aggiunta delle donne di Craster. “Quel vecchio matto d’un bruto ha capito giusto: se vuoi una donna che ti faccia da moglie te la prendi, e senza offrirle nessun fiore di campo perché faccia finta di non notare le pustole che hai in faccia.” Quell’errore, Chett non lo avrebbe commesso di nuovo.

“Funzionerà” se lo ripeté per la centesima volta. “Basta che la fuga riesca.” Ser Ottyn si sarebbe diretto a sud, verso la Torre delle ombre, era la strada più breve per tornare alla Barriera. “Non perderà tempo con noi, non Wythers, non penserà ad altro che a tornare tutto intero.” Thoren Smallwood sarebbe stato comunque dell’idea di attaccare l’orda di Mance Rayder, ma la prudenza di ser Ottyn era troppo radicata, ed era lui il più anziano. “Non avrà nessuna importanza. Una volta che saremo scappati, che Smallwood attacchi pure chi gli pare. Che cosa ce ne frega? Se nessuno di loro farà ritorno alla Barriera, nessuno verrà a cercare noi, penseranno che siamo morti assieme agli altri.” Un’idea nuova dalla quale, per un momento, Chett fu tentato. Solo che per dare il comando a Smallwood, oltre al Vecchio orso avrebbero dovuto uccidere anche ser Ottyn e ser Mallador Locke, e tutti e due erano ben protetti giorno e notte… No, troppo rischioso.

«Chett» disse Piccolo Paul mentre arrancavano lungo una pista pietrosa che si snodava tra alberi-sentinella e pini-soldato. «Che ne facciamo dell’uccello?»

«Di quale fottuto uccello parli?» L’ultima cosa di cui Chett aveva bisogno in quel momento era una qualche testa di caprone che si mettesse a grugnire in merito a un uccello.

«Il corvo del Vecchio orso» rispose Piccolo Paul. «Se ammazziamo lui, chi è che gli darà da mangiare?»

«Che cazzo vuoi che me ne freghi? Ammazza anche l’uccello, se ci tieni.»

«Io non gli voglio fare del male, a nessun uccello» rispose il gigante. «Ma quello lì è un uccello che parla. Che succede se va a raccontare quello che abbiamo fatto?»

Lark delle Sorelle sghignazzò. «Piccolo Paul, duro di comprendonio come il muro d’un castello.»

«Tieni la bocca chiusa» minacciò Piccolo Paul.

«Paul» Chett intervenne prima che il bestione se la prendesse troppo. «Quando troveranno il vecchio in una pozza di sangue con la gola tagliata, non avranno bisogno di nessun uccello per sapere che è stato ucciso.»

Piccolo Paul ci rimuginò sopra per un momento. «Questo qua è vero» concordò. «Allora me lo posso tenere io, l’uccello? A me piace quell’uccello.»

«D’accordo, è tuo» disse Chett per farlo stare zitto.

«Se ci viene fame» aggiunse Lark «possiamo sempre mangiarcelo.»

«È meglio che il mio uccello non te lo mangi.» Piccolo Paul si rabbuiò nuovamente. «Meglio di no.»

«Tenete chiuse quelle fottute bocche, tutti e due.» Chett poteva udire le loro voci dilatarsi tra gli alberi. «Abbiamo quasi raggiunto il Pugno.»

Emersero dal versante occidentale del Pugno, aggirandolo poi da sud, dove la salita era meno ardua. Ai margini dalla foresta, una dozzina di uomini veniva addestrata al tiro con l’arco. Avevano tracciato delle sagome nella corteccia degli alberi e le colpivano con le frecce.

«Guarda» disse lark «un maiale che fa l’arciere.»

Nemmeno a dirlo, il confratello nero più vicino era Messer Porcello, il grassone che aveva rubato a Chett il posto di attendente del maestro Aemon. Gli bastò vederlo per riempirsi di furore. Fare l’attendente per Aemon era stata l’occasione migliore che Chett avesse mai avuto in vita sua. L’anziano sapiente cieco chiedeva ben poco, e in ogni caso era Clydas a occuparsi pressoché di tutto. I compiti di Chett erano semplici: tenere pulita l’uccelliera, accendere qualche fuoco, portare un po’ di roba da mangiare… E maestro Aemon non lo aveva mai colpito, nemmeno una volta. “Quel sacco di lardo si crede di poter arrivare e sbattermi fuori, solo perché viene da una famiglia nobile e sa leggere e scrivere. Magari gli chiedo di leggermi il coltello prima di aprirgli la gola.”

«Voi andate avanti» disse Chett agli altri due. «Io voglio fermarmi un po’ qui.»

I cani tiravano i guinzagli, ansiosi di continuare, ansiosi di arrivare al cibo che credevano li aspettasse sulla cima. Con la punta dello stivale, Chett diede un calcio alla cagna nera, e questo bastò per calmare anche gli altri.

Nascosto dietro gli alberi, rimase a osservare il ragazzo grasso, il faccione di luna piena rosso dallo sforzo, che ce la metteva tutta per tendere un arco alto quasi quanto lui. C’erano tre frecce conficcate nel terreno. Tarly incoccò, tese l’arco e rimase in posizione per un lungo momento cercando di mirare. Alla fine, lanciò. La freccia si perse tra la vegetazione. Chett rise, forse un grugnito di disgustato compiacimento.

«Quella non la ritroviamo più, e la colpa la daranno a me» annunciò Edd Tollett, il cupo scudiero dai capelli grigi che tutti chiamavano Edd l’Addolorato. «Da quando ho perso il cavallo, ogni volta che manca qualcosa è con me che se la prendono. Come se avessi potuto fare diversamente… Il cavallo era bianco e stava nevicando, che cosa si aspettavano?»

«Se l’è presa il vento, quella freccia» intervenne Grenn, un altro degli amici di lord Snow. «Cerca di tenere fermo l’arco, Sam.»

«È pesante» si lamentò il ragazzo, ma incoccò ugualmente la seconda freccia, che questa volta volò troppo alta, sibilando tra i rami almeno dieci piedi al di sopra del bersaglio.

«Direi che hai portato via qualche foglia» disse Edd l’Addolorato. «L’autunno avanza abbastanza in fretta, non c’è bisogno di aiutarlo.» Sospirò. «E lo sappiamo tutti che cosa viene dopo l’autunno. Per gli dèi, m’è venuto freddo! Lancia quell’ultima freccia, Samwell, che mi si sta gelando la lingua contro il palato.»

Messer Porcello abbassò l’arco. «È troppo difficile.» Chett pensò che si sarebbe messo a frignare.

«Incocca, tendi, lancia» lo incoraggiò Grenn. «Forza.»

Diligentemente, il ragazzo estrasse la terza freccia dal suolo, la incoccò nell’arco lungo, tese, lanciò. Lo fece con rapidità, senza strizzare prima un occhio e poi l’altro, come aveva fatto le due volte precedenti. Il dardo centrò la sagoma tracciata con il carboncino nella zona del basso torace e rimase conficcata nel legno, vibrando.

«L’ho colpito!» Messer Porcello sembrava stupefatto. «Grenn, ma hai visto? Edd, guarda, l’ho colpito!»

«Dritto nelle costole, mi pare» rilevò Grenn.

«L’ho ucciso?» volle sapere il ragazzo.

«Gli avresti perforato un polmone.» Tollett scrollò le spalle. «Se lo avesse, un polmone. La maggior parte degli alberi non ce li ha, di regola.» Tolse l’arco di mano a Sam. «Ho visto tiri peggiori. Be’, e ne ho fatti anch’io, di peggiori.»

Messer Porcello era raggiante. A guardarlo, c’era da pensare che avesse davvero compiuto una qualche eroica impresa. Ma nel momento in cui vide Chett e i cani, il suo sorriso s’incrinò e morì con un gemito.

«È un albero che hai colpito» disse Chett. «Vedremo come lancerai contro i guerrieri di Mance. Perché loro non staranno li fermi a braccia aperte e con le foglie che stormiscono, oh, no. Ti verranno dritti contro, urlandoti in faccia, e io ci scommetto che ti piscerai nelle brache. Uno di loro verrà a piantarti l’ascia proprio in mezzo a quei tuoi occhi da scrofa. E l’ultima cosa che sentirai sarà il tonfo del ferro che ti spacca il cranio.»

Il ragazzo grasso stava tremando. «Fratello» Edd l’Addolorato pose una mano sulla spalla di Chett «solo perché è successo a te, non significa che debba succedere anche a Samwell.»

«Ma di che stai parlando, Tollett?»

«Dell’ascia che ha spaccato il tuo, di cranio. È vero che metà del tuo buonsenso è colato per terra e che poi se lo sono mangiato i cani?»

Grenn, quell’idiota grande e grosso, si mise a ridere. Perfino Samwell Tarly riuscì a tirare fuori un debole sorriso. Chett assestò un calcio al cane più vicino, diede uno strattone ai guinzagli e riprese a salire la collina. “Sorridi, Messer Porcello, sorridi pure quanto vuoi. Lo vedremo questa notte chi riderà.” Quanto avrebbe voluto avere il tempo per sgozzare anche Tollett. “Tetro idiota dal muso di cavallo che non sei altro.”


La salita era ripida, perfino da quel lato del Pugno, che pure era il versante meno impervio. Circa a metà del percorso, i cani, sempre con l’idea del cibo, si misero ad abbaiare e a strattonare. Di nuovo, Chett fece gustare loro la punta dello stivale, colpendo con una frustata quello grosso e brutto che gli aveva ringhiato in faccia. Dopo averli messi alla catena, andò a fare rapporto.

«Le impronte erano là dove aveva detto Gigante» riferì a Mormont, davanti alla sua grande tenda nera. «Giù sulla riva del fiume, ma forse erano impronte vecchie.»

«Peccato.» Jeor Mormont, lord comandante dei Guardiani della notte, aveva il cranio calvo e una lunga, ispida barba grigia. La sua voce era stanca quanto la sua faccia. «A tutti noi, avrebbe fatto un gran bene un po’ di carne fresca.»

Il corvo appollaiato sulla sua spalla mosse la testa su e giù. «Carne, carne, carne» fece eco.

“Potremmo sempre mangiarci quei cani fottuti.” Invece di proporlo, Chett tenne la bocca chiusa fino a quando il Vecchio orso non lo congedò. “E questa è l’ultima volta che m’inchino per te” rimuginò tra sé con soddisfazione.

Gli parve che stesse facendo addirittura più freddo, anche se era pronto a giurare che non fosse possibile, in natura, sentire ancora più freddo di così. I cani erano rannicchiati gli uni contro gli altri nel duro fango congelato, e Chett resistette alla tentazione di andare a rannicchiarsi assieme a loro. Invece, si avvolse la sciarpa di lana nera intorno al collo e al viso, lasciando solo una fessura per la bocca. Scoprì che sentiva più caldo se continuava a muoversi, così camminò lentamente lungo il perimetro difensivo. Portò con sé una manciata di foglie amare, e ne diede alcune da masticare a un paio dei confratelli neri che montavano la guardia, fermandosi ad ascoltare quello che avevano da dire. Nessuno degli uomini del turno di giorno faceva parte del suo piano, ma non era male avere comunque un’idea di che cosa pensavano.

Più che altro, pensavano che facesse un freddo maledetto.

Il vento soffiava più forte e le ombre si allungavano. Fischiando sui bordi aspri dell’anello di pietra che circondava la sommità del Pugno dei Primi Uomini, produceva un sibilo lamentoso. «Quanto lo odio, questo rumore» disse il piccolo confratello chiamato Gigante. «Sembra un bambino in fasce che piange per avere il latte.»

Completato il giro e tornato presso i cani, Chett trovò Lark ad aspettarlo. «Gli ufficiali sono nuovamente riuniti nella tenda del Vecchio orso, tutti parlano fitto fitto.»

«È quello che fanno sempre» commentò Chett. «Sono tutti nobili, tranne Blane, e si ubriacano di parole invece che di vino.»

Lark gli si accostò. «Zucca di montone continua a menarla con l’uccello che parla» avvertì, gettandosi intorno occhiate guardinghe, per vedere se vi fosse qualcuno troppo vicino. «Adesso chiede se abbiamo messo da parte del grano, per quel maledetto coso.»

«È un corvo» rispose Chett. «Mangia le carcasse.»

«La sua?» sogghignò Lark. «Per davvero?»

“O magari la tua.” Chett era dell’idea che avessero molto più bisogno del gigante che di Lark. «Falla finita di rincretinirti con Piccolo Paul. Tu fa’ la tua parte, lui farà la sua.»


Il crepuscolo stava avanzando nella foresta quando Chett finalmente riuscì a togliersi Lark dai piedi e poté sedersi ad affilare la spada. Era un lavoro dannatamente difficile da fare con i guanti, ma non era proprio il caso di toglierli. Con il freddo che faceva, l’idiota che avesse toccato il metallo a mani nude avrebbe perso intere strisce di pelle.

Quando il sole scomparve sotto l’orizzonte, i cani uggiolarono. Chett diede loro una ciotola d’acqua e una caterva d’insulti. «Ancora qualche ora, e sarà il vostro turno di banchettare.» A quel punto, gli arrivò l’odore della cena.

Attorno al fuoco del rancio, Dywen teneva banco. Da Hake, il cuoco, Chett ottenne la sua razione di zuppa di fagioli e pancetta affumicata, accompagnate da pane duro.

«C’è troppo silenzio nella foresta» disse l’anziano esploratore. «Niente rane presso il fiume, niente gufi tra gli alberi. Non ho mai sentito una foresta più morta di questa.»

«Ma pensa ai denti che hai in bocca: sono quelli i più morti di tutti» commentò Hake.

Dywen fece schioccare la sua doppia chiostra di legno. «E nemmeno lupi. Ce n’era, ma adesso non ce n’è più. Dov’è che se ne sono andati? direte.»

«In qualche posto al caldo» propose Chett.

Della dozzina o giù di lì di confratelli attorno al fuoco, quattro erano dei suoi. Mentre mangiavano, Chett lanciò a ciascuno di essi uno sguardo penetrante, cercando d’individuare segni di cedimento. Dirk appariva calmo quanto bastava, quietamente seduto ad affilare la lama del suo stiletto, come faceva ogni notte. E Donnel Hill il Dolce era tutto battute scherzose. Aveva denti bianchi, labbra rosse e carnose e capelli ricci che gli scendevano sulle spalle in lunghi boccoli d’oro. Sosteneva di essere il bastardo di un qualche Lannister. E forse era anche vero. A Chett, comunque, non servivano né bambocci né bastardi, e Donnell il Dolce sembrava in grado di tenere duro.

Era meno sicuro del ranger che i confratelli chiamavano Segalegno, più per il modo in cui russava che non per la sua abilità nell’abbattere alberi. In quel momento, aveva l’aria talmente agitata che forse non avrebbe russato mai più. E Maslyn era addirittura peggio. A dispetto del vento gelido, Chett notò che il sudore gli colava lungo la faccia. Le gocce umide scintillavano alla luce delle fiamme, simili a minuscoli diamanti. Maslyn non mangiava, si limitava a fissare la sua zuppa come se il semplice odore avesse il potere di fargli rivoltare lo stomaco. “Quello lì farò meglio a tenerlo d’occhio” pensò Chett.

«Adunata!» Il grido arrivò all’improvviso, emesso da una dozzina di gole. In breve, si sparse a raggiungere ogni angolo dell’accampamento. «Uomini dei Guardiani della notte! Adunata attorno al grande fuoco al centro!»

La fronte aggrottata, Chett finì la zuppa e si accodò agli altri.

Il Vecchio orso era in piedi presso il fuoco; Smallwood, Locke, Wythers e Blane stavano allineati dietro di lui. Mormont indossava una cappa di spessa pelliccia nera, appollaiato sulla spalla c’era il suo corvo, il piumaggio eretto. “Non buono. Proprio non buono.” Chett s’infilò tra Bernarr il Marrone e alcuni uomini della Torre delle ombre. Una volta che tutti quanti furono radunati, escluse le sentinelle nella foresta e le guardie sul muro perimetrale, Mormont si schiarì la voce e sputò. La saliva si congelò ancora prima di arrivare a terra.

«Fratelli» chiamò. «Uomini dei Guardiani della notte.»

«Uomini!» urlò il corvo. «Uomini! Uomini!»

«I bruti sono in marcia. Stanno scendendo dalle montagne seguendo il corso del Fiumelatte. Thoren ritiene che la loro avanguardia ci sarà addosso da qui a dieci giorni. In quell’avanguardia, assieme a Harma Testa di cane, ci saranno i guerrieri più esperti. Molto probabilmente, gli altri combattenti formeranno la retroguardia, o saranno vicino a Mance Rayder. Qualcuno sarà sparso sulla colonna a difesa della gente in marcia. Hanno buoi, muli, cavalli… Ma non molti. La maggioranza è a piedi, ed è gente male armata, poco addestrata. Quasi certamente, le armi che portano sono fatte di pietra e d’osso, non d’acciaio. Inoltre avranno l’intralcio di donne, bambini, greggi di pecore e di capre, più tutto quello che possiedono a questo mondo. In breve, sono numerosi, è vero, ma sono anche vulnerabili… E soprattutto non sanno che noi siamo qui. O almeno, è questo per cui dobbiamo pregare.»

“Lo sanno” rimuginò Chett. “Maledetto vecchio sacco di pus che non sei altro, lo sanno che siamo qui, sicuro come la luce del giorno. Qhorin il Monco non è tornato, giusto? E nemmeno Jarman Buckwell è tornato. Se uno di loro è stato preso, lo sai benissimo che i bruti saranno riusciti a fargli cantare una bella canzoncina.”

Smallwood si fece avanti. «Mance Rayder vuole spezzare la Barriera e portare la sua guerra sanguinosa fino ai Sette Regni. Bene, anche noi possiamo giocare allo stesso gioco. Domattina, noi porteremo la guerra fino da lui.»

Un mormorio percorse i confratelli in nero.

«Cavalcheremo all’alba con la nostra forza al completo» riprese il Vecchio orso. «Cavalcheremo a nord, facendo poi un ampio giro a ovest. Quando invertiremo la direzione, l’avanguardia di Harma sarà molto oltre il Pugno dei Primi Uomini. Le pendici più basse degli Artigli del Gelo sono piene di strette valli contorte, luogo ideale per le imboscate. La loro linea di marcia sarà dilatata per intere miglia. Caleremo loro addosso in molti punti simultaneamente. E loro giureranno di aver visto tremila corvi neri, non trecento.»

«Colpiremo duro e ci dilegueremo prima che i loro guerrieri a cavallo possano arrivare ad affrontarci» disse Thoren Smallwood. «Dovessero inseguirci, gli faremo venire il fiato grosso. Poi torneremo indietro e colpiremo di nuovo in un diverso punto della colonna. Incendieremo i loro carri, disperderemo le loro greggi e uccideremo tutti quelli che riusciremo a uccidere. Anche Mance Rayder, se si fa vedere. Se faranno ritorno alle loro tane, avremo vinto. Se continueranno ad avanzare, gli staremo addosso per tutta la strada fino alla Barriera, in modo che si lascino alle spalle una scia di cadaveri.»

«Ma sono migliaia!» gridò una voce alle spalle di Chett.

«Sarà la morte per tutti noi!» Questa era la voce di Maslyn, incrinata dal terrore.

«Morte!» urlò il corvo di Mormont, sbattendo le ali nere. «Morte, morte, morte.»

«Per molti di noi» disse il Vecchio orso. «Forse per tutti noi. Ma come un altro lord comandante ebbe a dire migliaia di anni fa, è per questo che ci vestono di nero. Ricordate le parole del vostro giuramento, fratelli. Noi siamo le spade delle tenebre, siamo le sentinelle che vegliano sul muro…»

«Siamo il fuoco che arde contro il freddo.» Ser Mallador Locke estrasse la sua spada lunga.

«La luce che porta l’alba» altri risposero. E altre spade sibilarono fuori dai foderi.

E poi tutti, tutti gli uomini in nero, ebbero l’acciaio in pugno. Trecento spade furono levate al cielo scuro. Trecento voci gridarono: «Siamo il corno che risveglia i dormienti! Lo scudo che protegge i regni degli uomini!».

Chett non ebbe altra scelta se non unirsi a sua volta al coro. L’aria era resa opaca dal loro respiro. La luce delle fiamme si rifletteva sull’acciaio. Fu compiaciuto dal vedere Lark e Piedemolle e Donnel Hill il Dolce fare anche loro parte del coro, come se fossero dei poveri idioti pari a tutti gli altri. Buona cosa. Non aveva senso attirare l’attenzione, soprattutto quando erano così prossimi alla fuga.

Quando le grida tornarono a scemare, fu di nuovo il vento a far sentire la propria voce tra le pietre dell’anello perimetrale. Le fiamme ondeggiarono e tremolarono, come se anch’esse avessero freddo. Nell’improvvisa quiete, il corvo del Vecchio orso lanciò un ultimo, solitario grido.

«Morte!»

“Uccello furbo” pensò Chett mentre gli ufficiali davano ordine di rompere le righe, dicendo a tutti di consumare un pasto abbondante e di avere una notte di profondo riposo. Chett andò a infilarsi sotto le sue pellicce, accanto ai cani, la testa invasa da pensieri su tutto quello che poteva andare storto. E se quel fottuto giuramento avesse fatto cambiare idea a qualcuno dei suoi? E se Piccolo Paul si fosse dimenticato del piano, cercando di assassinare Mormont al secondo turno di guardia invece che al terzo? E se Maslyn avesse perso coraggio, se qualcuno avesse fatto la spia, se…

Si scoprì ad ascoltare la notte. Il rumore causato dal vento sembrava davvero il lamento di un bambino. Di quando in quando, gli giungevano voci di uomini, il nitrito di un cavallo, il rumore di un ceppo che scricchiolava tra le fiamme. Ma nient’altro. “Così tanta quiete.”

Nella sua mente, venne a fluttuare il viso di Bessa. “Non era un coltello che volevo metterti dentro” voleva dirle. “Avevo colto dei fiori per te, rose di campo e gigli e campanule. Ci avevo messo tutta la mattina.” Sentiva il cuore che martellava come un tamburo, talmente forte da svegliare l’intero accampamento. Tutto attorno alla bocca, la barba gli si era incrostata di ghiaccio. “Cosa mi sta succedendo? Perché mi vengono questi pensieri?” Prima di quel momento, ogni volta che aveva pensato a Bessa non era riuscito a ricordare altro se non l’espressione di lei mentre moriva. Ma adesso che cosa gli stava prendendo? Riusciva a respirare a stento. Si era forse addormentato? Si mise in ginocchio. Qualcosa di umido, di freddo gli sfiorò il naso. Chett alzò lo sguardo.

Neve. Cadeva la neve.

Le lacrime gli si congelarono sulle guance. “Non è giusto” avrebbe voluto urlare. La neve avrebbe rovinato tutto, tutti i suoi elaborati piani. Era una nevicata fitta, spessi fiocchi bianchi tutto attorno a lui. Come avrebbero fatto a ritrovare le scorte di cibo sotto la neve? O quella pista lasciata dalla selvaggina che puntava verso est? “Non gli serviranno Dywen o Bannen per darci la caccia, non se ce ne andiamo in mezzo alla neve fresca.” Inoltre la neve celava le fattezze del terreno, specialmente di notte. Uno dei cavalli poteva inciampare in una radice sporgente, o spezzarsi una zampa contro una pietra. “È finita” si rese conto. “Finita ancora prima di cominciare. Siamo perduti.” Non ci sarebbe stata nessuna vita da lord per il figlio di un raccoglitore di sanguisughe. Non ci sarebbero stati nessun castello, nessuna moglie, nessuna corona. Solo la lama di un bruto nelle viscere, e poi una fossa senza nome. “La neve mi ha portato via tutto… Maledetta neve… “ Neve: Snow.

Jon Snow gli aveva portato via tutto una seconda volta. Jon Snow e il suo amichetto Porcello.

Chett si mise in piedi. Aveva le gambe rigide. I fiocchi vorticanti tramutavano i punti luminosi delle torce in vacui aloni rossastri. Aveva come l’impressione di trovarsi sotto l’assalto di uno sciame di pallidi insetti gelidi. Gli calavano sulle spalle, sulla testa. Gli entravano nel naso e negli occhi. Imprecando, Chett spazzò via i fiocchi. “Samwell Tarly” si ricordò. “Posso ancora chiudere i conti con Messer Porcello.” Si avvolse la sciarpa attorno alla faccia, sollevò il cappuccio della cappa e si avviò nell’accampamento, verso il punto in cui dormiva il grasso codardo.

La neve cadeva talmente fitta che per poco Chett non finì con il perdersi tra le tende. Finalmente, individuò il rifugio che il ragazzo si era allestito tra una roccia e le gabbie dei corvi. Tarly era sepolto sotto una collina di coperte di lana nera e di pellicce malridotte. La neve continuava ad accumularsi, ricoprendolo. Tarly sembrava una specie di soffice montagna tondeggiante. Chett estrasse la daga dal fodero, l’acciaio strisciò contro il cuoio con un sibilo esile quanto la speranza. Uno dei corvi gracchiò. «Snow» disse un altro, occhi neri che scrutavano tra le sbarre della gabbia. Anche il primo aggiunse a sua volta uno «Snow». Chett superò cautamente le gabbie dei volatili, prestando attenzione a ogni singolo passo. Avrebbe premuto la mano sinistra sulla bocca del ragazzo grasso, in modo da soffocarne le grida, e poi…»

Uuuuuuuuhoooooooo.

Chett si fermò a metà del passo successivo, inghiottendo una bestemmia. Il suono del corno continuò a dilagare sull’accampamento. Un suono debole, lontano, eppure del tutto riconoscibile. “Non adesso, maledetti siano gli dèi! Non adesso!” Il Vecchio orso aveva disseminato osservatori sugli alberi, collocando un ampio cerchio di occhi tutto attorno al Pugno dei Primi Uomini, in modo da essere messo in allarme qualsiasi cosa si stesse avvicinando. “Buckwell che torna dalla scalinata del Gigante” ipotizzò Chett. “O Qhorin il Monco dal passo Skirling.” Un solo suono di corno significava confratelli che rientravano. E se si trattava del Monco, forse con lui poteva esserci anche Jon Snow, vivo.

Sam Tarly si mise seduto, i suoi occhi gonfi fissarono la neve, pieni di confusione. I corvi si erano messi a gracchiare forte. Chett udì anche l’abbaiare dei suoi cani. “Metà del fottuto accampamento è sveglio.” Rimanendo in attesa che tutti quei rumori svanissero, contrasse le mani guantate attorno all’elsa dello stiletto. Ma pressoché nello stesso istante in cui tornò il silenzio, il richiamo del corno si ripeté, più alto, più prolungato.

Uuuuiiuuuuuuuhoooooooooooo.

«Per gli dèi…» Era il belato di Sam Tarly, Chett lo udì con chiarezza. Messer Porcello schizzò in ginocchio, i piedi impigliati nelle coperte e nelle pellicce. Se ne sbarazzò a calci, allungando una mano verso la maglia di ferro che aveva appeso a una delle rocce vicino a lui. Nell’infilare la testa nel varco di quell’immenso tendaggio metallico, notò Chett in piedi a breve distanza. «Erano due?» chiese. «Ho sognato di aver udito due richiami di corno…»

«Nessun sogno» rispose Chett. «Due suoni di corno sono la chiamata alle armi per la Confraternita. Due suoni di corno significano nemico in arrivo. E là fuori, sacco di lardo, c’è un’ascia nemica con su scritto “Porcello”. Due suoni di corno significano bruti.» La paura sul faccione di luna piena di Sam gli fece venir voglia di ridere. «Che si fottano nei sette inferi tutti quanti. Che si fotta Harma. Che si fotta Mance Rayder. Che si fotta anche Smallwood, che diceva non ci sarebbero stati addosso prima di…»

Uuuuuuuiiuuuuuuuuuuhoooooooooaooooooo.

L’urlo del corno continuò e continuò, come se non dovesse mai avere fine. I corvi si agitarono, sbattendo le ali, svolazzando dentro la gabbia e picchiando contro le sbarre. Dovunque nell’accampamento, i confratelli dei Guardiani della notte si stavano alzando, si infilavano le armature, si affibbiavano i cinturoni delle spade e afferravano archi e asce da combattimento.

Samwell Tarly rimase lì a tremare, la sua faccia era dello stesso colore della neve che vorticava tutto attorno a loro. «Tre» balbettò a Chett. «Sono tre, ne ho sentiti tre. Non ne suonano mai tre. Non sono stati lanciati tre richiami di corno da centinaia, da migliaia di anni. Tre richiami vogliono dire…»

«…Gli Estranei.»

Chett emise un suono a metà strada tra una risata e un singhiozzo. Di colpo, le sue mutande furono bagnate. Sentì il piscio colargli giù lungo la gamba. Vide il vapore che si levava livido dal davanti delle sue brache.

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