BRAN

La cordigliera s’innalzava dalla terra all’improvviso, una lunga piega di pietra e di roccia a forma di artiglio. Sulle pendici, alle quote inferiori, crescevano pini, biancospini e frassini. Ma più in alto il terreno era spoglio, il crinale una linea netta contro il cielo pieno di nubi.

Lui avvertiva dentro di sé il richiamo dell’alta pietra. Cominciò a salire. Sulle prime con lentezza. Poi sempre più rapido, sempre più in alto, con le gambe poderose che divoravano il pendio. Mentre correva, uccelli eruppero dai rami sopra di lui, in una confusione di ali protese verso il cielo. Poteva udire il vento sussurrare tra le foglie, gli scoiattoli comunicare gli uni con gli altri. Poteva addirittura sentire il suono di una pigna che rotolava sul terriccio nella foresta. Tutto attorno a lui, gli odori erano come un canto, un coro che pareva permeare il buon mondo verde.

La ghiaia gli schizzò via da sotto le zampe mentre lui superava le ultime iarde, raggiungendo la vetta. Il sole, gigantesco e rosso, galleggiava al di sopra dei pini.

Molto più in basso, alle pendici del bosco, qualcosa si mosse tra gli alberi Fu solo un lampo di grigio, appena una fugace visione che un attimo dopo era scomparsa. Ma fu sufficiente per fargli tendere le orecchie. Da qualche parte, là sotto, scivolò accanto a un torrente una seconda forma in movimento. Lupi, lui sapeva che erano loro. I suoi cugini più piccoli, a caccia di una preda. Ora il principe dominatore riusciva a vederne parecchi. Ombre che scivolavano su zampe grigie. Un branco.

Anche lui aveva avuto un branco, molto tempo prima. Cinque erano stati, più un sesto che si teneva in disparte. Dentro di lui, nel profondo, c’era la memoria di quei suoni che gli uomini usavano per distinguerli uno dall’altro. Ma lui non aveva bisogno di nomi per riconoscere i suoi fratelli e le sue sorelle. Ricordava l’odore di ciascuno di loro. Tutti quanti avevano lo stesso odore, l’odore del branco, ma ognuno era diverso.

Suo fratello, quello pieno di rabbia, quello con gli ardenti occhi verdi, era vicino. Erano molte cacce che il principe non lo vedeva, ma poteva comunque percepirlo. Eppure, ogni volta che il sole tornava a tramontare, suo fratello andava sempre più lontano. E di tutti, lui era stato l’ultimo. Gli altri si erano dispersi chissà dove, simili a foglie secche soffiate lontano dal vento.

A volte riusciva a sentirli, però, come se fossero ancora con lui, nascosti da un masso o da una macchia di alberi. Non ne percepiva l’odore, né l’ululato durante la notte, ma sentiva ancora la loro presenza dietro di sé… Di tutti, tranne della sorella che avevano perduto. Nel ricordarla, la sua coda si abbatteva. “In quattro, adesso, non più in cinque. Quattro e un altro ancora, quello bianco che non ha voce.”

Queste foreste appartenevano a loro: i pendii coperti di neve e le colline disseminate di rocce, i grandi pini verdi e le foglie dorate delle querce, i fruscianti corsi d’acqua e i laghi azzurri, circondati dalle bianche dita del gelo. Sua sorella però aveva abbandonato le terre selvagge. Era andata a camminare nei luoghi dell’uomo, dove i cacciatori erano in agguato. E una volta all’interno di quei luoghi, era difficile ritrovare la strada per uscirne. Il principe dei lupi ricordava tutto questo.

Il vento cambiò all’improvviso.

Cervo e paura e sangue. L’odore della preda risvegliò dentro di lui la fame. Il principe annusò l’aria, si voltò e si lanciò di nuovo in corsa, raggiungendo il crinale con le mandibole semiaperte. Il versante opposto delle alture era più ripido di quello che aveva scalato. Senza esitare, lui volò sopra i sassi, le radici, le foglie putrescenti. Calò per la discesa e tra gli alberi, divorando il terreno in lunghe falcate. L’odore della preda continuò a trascinarlo in avanti, ancora più veloce.

Quando arrivò, la preda era a terra, morente, circondata da otto dei suoi grigi cugini più piccoli. I capi del branco avevano già cominciato a nutrirsi, prima il maschio e poi la femmina, facendo a turno nello strappare brani di carne dal ventre rosso della preda. Pazientemente, gli altri aspettavano, tutti tranne l’ultimo nella gerarchia, il quale passeggiava guardingo in cerchio, la coda bassa, ad alcuni passi dagli altri. Sarebbe stato l’ultimo a mangiare, cibandosi di quello che i suoi fratelli gli avrebbero lasciato.

Il principe era sottovento. Loro non lo percepirono fino a quando non spiccò un salto fermandosi su un tronco caduto, a sei passi dalla carcassa. L’ultimo lupo lo vide per primo, emise un penoso guaito e si ritirò. Sentendo quel verso, i suoi fratelli del branco reagirono, snudando i denti e ringhiando, tutti tranne il maschio capo e la femmina.

Il meta-lupo rispose con un basso ringhio di avvertimento, mostrando le zanne. Era più grosso dei suoi cugini, almeno il doppio dell’ultimo della gerarchia e una volta e mezzo i due capi. Spiccò un balzo, atterrando in mezzo al gruppo. Tre di loro ruppero la formazione, svanendo nel bosco. Un quarto gli andò incontro, le mandibole aperte. Lui affrontò l’assalto senza muoversi. All’urto, le sue zanne si serrarono attorno a una delle zampe del rivale, e con un movimento del collo lo scaraventò di lato, uggiolante e zoppicante.

E poi rimase solo il capobranco da fronteggiare, il grande maschio grigio con il muso ancora gocciolante del sangue della preda. Aveva una chiazza bianca sul muso, segno che si trattava di un vecchio lupo. Ma quando aprì la bocca, bava rossa colò dalle zanne.

“Non ha paura” capì il principe. “Non più di me.” Sarebbe stato un bel combattimento. Si avventarono uno contro l’altro.

A lungo lottarono, rotolando su radici, pietre e foglie putrescenti. E sulle viscere della preda sparse al suolo. Lottarono con gli artigli e con i denti, prima avvinghiati e poi, spezzando il contatto, girando uno attorno all’altro, per tornare a colpirsi con ancora più forza. Il principe era più grosso, e molto più forte ma quel cugino aveva il sostegno di un branco dalla sua. La femmina rimase in agguato lì vicino, soffiando e ringhiando, mettendosi in mezzo ogni volta che il maschio si staccava sanguinando. Di quando in quando, anche gli altri lupi si gettavano nello scontro, mordendo una gamba, un orecchio del principe, ogni volta che era girato. Uno di loro lo fece davvero inferocire: fu un’unica, dilagante ondata di furore nero. Il principe si lanciò in avanti e squarciò la gola all’avversario con un folgorante affondo purpureo. Dopo questo, gli altri si tennero a distanza.

Con l’ultima luce rossastra del giorno che filtrava nel verde della foresta, il vecchio lupo sconfitto si distese cautamente sul terreno. Rotolò sul dorso, esponendo la gola e il ventre. Era l’atto di sottomissione.

Il principe lo annusò, leccandogli il sangue dalla pelliccia e dalla carne sbranata. Il vecchio lupo emise un debole guaito e il meta-lupo si allontanò. A quel punto, aveva molta fame. E a quel punto, la preda era sua.

«Hodor.»

Fu un suono improvviso, che lo fece fermare mostrando le zanne. I lupi lo osservavano con occhi verdi e gialli, scintillanti nella luce del giorno morente. Nessuno di loro lo aveva udito. Strano come le uniche orecchie ad averlo percepito fossero state le sue. Affondò le mascelle nel ventre del cervo e strappò vìa un boccone di carne.

«Hodor, Hodor.»

“No” pensò. “No, non voglio.”

Era un pensiero del ragazzo, non del meta-lupo.

Tutto attorno a lui, la foresta divenne più scura, fino a quando rimasero soltanto le ombre degli alberi, e gli occhi lampeggianti dei suoi cugini. E fu in mezzo a quegli occhi, oltre quegli occhi, che lui vide la faccia sogghignante di uomo grande e grosso. Un uomo che aveva alle spalle una volta di pietra, i massi costellati di salnitro. Dal palato del lupo, il ricco gusto del sangue svanì. “No, non voglio, non voglio! Voglio mangiare, voglio…”


«…Hodor, hodor, hodor, hodor, hodor…»

Il gigante dalla mente semplice continuava a cantilenare, scuotendolo piano per una spalla, avanti e indietro, avanti e indietro. Stava cercando di essere gentile, ma Hodor era alto più di sei piedi e molto più forte di quanto lui stesso non si rendesse conto. Le sue mani enormi stavano facendo sbattere senza tregua i denti di Bran.

«No!» gridò rabbiosamente Bran. «Hodor, lasciami andare. Sono qui… Sono qui

Hodor si fermò, l’espressione rattristata. «Hodor?»

La foresta, i lupi… Tutto svanito. Bran era tornato, era di nuovo nella cripta umida di una qualche antica torre di guardia, probabilmente abbandonata migliaia di anni prima. Non ne restava granché. Le pietre crollate erano coperte di cespugli e di muschio al punto che era pressoché impossibile vederle fino a quando non ci si arrivava proprio sopra.

“Torre del crollo”, così Bran aveva chiamato quelle rovine. Ma a trovare l’accesso alla cripta era stata Meera.

«Sei stato sotto troppo a lungo» disse Jojen Reed.

Aveva tredici anni, appena quattro più di Bran. Non era molto più alto di lui, cinque, forse mezza spanna in tutto, ma parlava sempre in un certo modo solenne che lo faceva sembrare più vecchio e più saggio di quanto non fosse in realtà. A Grande Inverno, quando ancora Grande Inverno esisteva, la vecchia Nan lo aveva soprannominato Jojen “il piccolo nonno”.

Bran corrugò la fronte. «Volevo mangiare.»

«Meera tornerà presto con qualcosa per cena.»

«Non ne posso più di rane.»

Meera, la sorella maggiore di Jojen, era una mangia-ranocchie dell’Incollatura. Bran sapeva di non potere realmente biasimarla per prendere sempre tante rane, ma nonostante questo…

«Era del cervo che volevo mangiare» aggiunse. Per un momento, gli tornò alla mente il gusto del sangue, dell’umida carne ancora pulsante di vita. E gli tornò l’acquolina in bocca. “Ho vinto io la lotta per quella preda. Ho vinto io.”

«Hai marcato gli alberi?»

Bran arrossì. Jojen gli diceva sempre di fare una cosa o un’altra quando lui apriva il terzo occhio, e indossava la pelle di Estate, il suo meta-lupo. Artigliare la corteccia di un albero, prendere un coniglio e riportarlo da loro senza averlo divorato, spingere delle pietre a formare una linea. “Cose stupide.”

«Mi sono dimenticato» disse.

«Tu ti dimentichi sempre.»

Era vero. Lui voleva fare le cose che Jojen gli chiedeva di fare, ma nel momento in cui diventava lupo, non apparivano più molto importanti. C’erano sempre altre cose da vedere e da annusare, e un intero vasto mondo verde in cui cacciare. E poi, da lupo, lui poteva finalmente correre! Non c’era niente di più bello di correre, solo correre libero dietro a una preda.

«Ero un principe, Jojen» disse Bran al ragazzo più grande. «Il principe della foresta.»

«Tu sei un principe» sottolineò Jojen a bassa voce. «Questo lo ricordi, non è vero? Dimmi chi sei.»

«Lo sai chi sono.» Jojen era suo amico e suo maestro, ma certe volte a Bran veniva voglia di prenderlo a pugni.

«Voglio che tu pronunci le parole. Dimmi chi sei.»

«Bran» rispose lui cupamente. “Bran lo Spezzato.” «Brandon Stark.» “Il ragazzo storpio.” «Principe di Grande Inverno.»

Di una Grande Inverno bruciata e distrutta; le sue genti disperse, massacrate. Le serre ridotte a pezzi, l’acqua bollente del sottosuolo che sgorgava dalle mura sventrate, emanando vapore nella luce del sole. “Come si può essere il principe di un luogo che potrei non rivedere mai più?”

«E chi è Estate?» insistette Jojen.

«Il mio meta-lupo:» Bran sorrise. «Principe dei boschi.»

«Bran il ragazzo ed Estate il lupo. Tu sei due esseri, quindi?»

«Due» sospirò lui. «E uno solo.» Odiava Jojen quando faceva lo stupido a quel modo. “A Grande Inverno voleva che facessi i sogni del lupo. E adesso che ho imparato a sognarli, non fa altro che riportarmi indietro.”

«Ricorda, Bran. Ricordati di te stesso, altrimenti sarà il lupo a consumarti. Quando tu e lui diventate uno, correre e cacciare e ululare nella pelle di Estate non basta.»

“Basta a me” pensò Bran. E la pelle di Estate gli piaceva molto di più della sua, di pelle. “A che serve essere un metamorfo se non puoi prendere la forma che più ti piace?”

«Riuscirai a ricordare?» insistette Jojen. «La prossima volta, marca un albero. Qualsiasi albero, non ha importanza, basta che tu lo faccia.»

«Lo farò Me ne ricorderò. Potrei tornare indietro e farlo anche adesso, se vuoi. Non dimenticherò, questa volta.» “Prima però, mi mangio il mio cervo, e lotterò un altro po’ con quei piccoli lupi.”

«No.» Jojen scosse il capo. «È meglio che tu rimanga. E che mangi qualcosa. Usando la tua bocca. Un metamorfo non è in grado di sopravvivere con quello che consuma la sua belva.»

“E tu come lo sai?” C’era del risentimento nel pensiero di Bran. “Tu non sei mai stato un metamorfo. Non hai idea di che cosa significhi.”

Di colpo, Hodor schizzò in piedi. Per poco non picchiò la testa contro il soffitto. «hodor!» gridò, precipitandosi alla porta. Meera l’aprì un attimo prima di lui, entrando nel loro rifugio. «Hodor, hodor.» Il colossale ragazzo di stalla la salutò con un sorriso a tutta dentatura.

Meera Reed aveva sedici anni, una donna fatta, ma non più alta di suo fratello minore. Tutti i crannogmen, il popolo delle paludi dell’Incollatura, erano piccoli di statura. Era questo che Meera aveva risposto a Bran quando lui le aveva domandato come mai non fosse più alta. Capelli castani, occhi verdi e piatta come un ragazzo, si muoveva con una grazia fluida che Bran poteva soltanto invidiare. Meera portava una daga lunga e affilata, ma la sua tenuta da combattimento preferita era impugnare una leggera lancia a tre punte da rane in una mano e una rete intrecciata nell’altra.

«Chi ha fame?» chiese, mostrando le prede della giornata: due piccole trote argentate e sei grasse rane verdi.

«Io» rispose Bran. “Ma non di rane.” A Grande Inverno, prima che tutte quelle cose funeste accadessero, i due ragazzini chiamati entrambi Walder Frey erano soliti dire che mangiare rane in continuazione faceva diventare verdi i denti e crescere muschio sotto le ascelle. Bran si chiese se i Walder fossero morti. Non aveva visto i loro cadaveri a Grande Inverno… Ma c’erano mucchi di cadaveri da tutte le parti. E dentro gli edifici, loro non avevano guardato.

«E allora, sarà meglio preparare qualcosa. Vuoi aiutarmi a pulire le prede, Bran?»

Lui annuì. Era difficile riuscire a tenere il muso con Meera. Era molto più allegra di suo fratello, e sembrava sapere sempre come strappare a Bran un sorriso. Non c’era nulla che la spaventasse o che la facesse arrabbiare. “Be’, eccetto Jojen, certe volte…” Jojen Reed era in grado di spaventare pressoché chiunque. Vestiva sempre di verde, i suoi occhi erano verde cupo come il muschio e la sua mente faceva i sogni dell’oltre. Quello che Jojen Reed sognava diventava realtà. “Eccetto che ha visto me morto, mentre non lo sono.” Ma per certi versi, lui era morto.

Mentre Bran e Meera ripulivano i pesci e le rane, Jojen mandò fuori Hodor a raccogliere della legna per accendere un piccolo fuoco. Come pentola, usarono l’elmo a calotta di Meera. Tagliarono le prede a dadini e li fecero bollire nell’acqua, aggiungendo delle cipolle selvatiche che aveva trovato Hodor. Il risultato fu uno stufato dal colore opaco. Non era buono come la carne di cervo, decise Bran mentre lo mangiava, ma nemmeno era cattivo.

«Grazie, Meera» le disse. «Mia signora.»

«Moltissimi prego, maestà.»

«Con domani» annunciò Jojen «faremo meglio a rimetterci in marcia.»

Bran notò che Meera s’irrigidiva. «Hai fatto un sogno dell’oltre?»

«No» ammise Jojen.

«E allora perché andarsene?» chiese la sorella. «La Torre del crollo è un buon posto per noi. Niente villaggi nelle vicinanze, la foresta piena di selvaggina, torrenti e laghi che abbondano di pesci e di rane… chi mai riuscirà a trovarci quassù?»

«Non è questo il posto in cui siamo destinati a restare.»

«È un posto sicuro, però.»

«È un posto che sembra sicuro, lo so» disse Jojen. «Ma per quanto tempo? C’è stata una battaglia a Grande Inverno, abbiamo visto i morti. Le battaglie vogliono dire guerra. Se un qualche esercito dovesse prenderci di sorpresa…»

«Potrebbe essere l’esercito di Robb» suggerì Bran. «Presto Robb tornerà dal Sud. Io so che lo farà. Tornerà con i suoi cavalieri e scaccerà gli uomini di ferro.»

«In punto di morte, il tuo maestro non ha detto una sola parola di Robb» gli ricordò Jojen. «“Gli uomini di ferro sono sulla Costa Pietrosa” ha detto. E a est, il Bastardo di Bolton. Moat Cailin e Deepwood Motte cadute, l’erede dei Cerwyn morto, e anche il castellano di Piazza di Torrhen. “Guerra dovunque” ha detto “ogni uomo contro il suo vicino.”»

«Lo abbiamo già arato, questo campo» disse Meera. «Tu vuoi andare alla Barriera, dal tuo corvo con tre occhi. Il che sarà anche una buona idea, ma la Barriera è molto lontana e Bran non ha gambe all’infuori di quelle di Hodor. Se avessimo dei cavalli…»

«Se fossimo delle aquile potremmo volare» ribatté Jojen in tono sferzante. «Ma non abbiamo ali. Non abbiamo né ali né cavalli.»

«Cavalli possiamo trovarne» insistette Meera. «Perfino nel folto della foresta del Lupo abitano boscaioli, contadini, cacciatori. Alcuni di loro possiedono certamente dei cavalli.»

«Qual è l’idea, rubarli? Siamo ladri, adesso? L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che qualcuno ci dia la caccia.»

«Potremmo comprarli» disse la ragazza. «O barattarli.»

«Ma guardaci, Meera. Un ragazzo storpio con un meta-lupo, uno stalliere gigante e due crannogmen mille miglia lontano dall’Incollatura. Ci riconosceranno. E la notizia si spargerà. Fino a quando Bran viene creduto morto, sarà al sicuro. Da vivo, diverrà preda di quelli che lo vogliono morto davvero e a tutti i costi.» Jojen si accostò al fuoco e attizzò le braci con un bastone. «Da qualche parte a nord, il corvo con tre occhi ci sta aspettando. A Bran serve un maestro più saggio di me.»

«Ma come ci arriveremo, Jojen?» chiese Meera. «Come?»

«A piedi» rispose lui. «Un passo alla volta.»

«La strada tra le Acque Grigie e Grande Inverno sembrava non finire mai, e noi eravamo a cavallo. Adesso tu vuoi che percorriamo a piedi una strada addirittura più lunga, senza nemmeno sapere dove finisce. Oltre la Barriera, tu dici. Io là non ci sono mai stata. E neanche tu. Ma quello che so, Jojen, è che Oltre la Barriera è un posto molto grande. E quanti ce ne sono di corvi con tre occhi, uno solo o di più? Come faremo a trovarlo?»

«Forse sarà lui a trovare noi.»

Un istante prima che Meera potesse rispondesse udirono il rumore. Il remoto ululato di un lupo che fluttuava nella notte.

Jojen rimase in ascolto. «Estate?» chiese.

«No.» Bran conosceva la voce del suo meta-lupo.

«Ne sei certo?» insistette “il piccolo nonno”.

«Certo.»

Quel giorno, Estate si era spinto molto lontano, e non avrebbe fatto ritorno prima dell’alba. “Jojen sognerà anche l’oltre, ma non è in grado di distinguere un lupo da un meta-lupo.” Bran si domandò come mai tutti quanti dessero sempre retta a Jojen. Non era un principe come lui, non era grande e forte come Hodor, non era un cacciatore bravo come Meera, eppure, per chissà quale ragione, era sempre Jojen a dire a tutti loro che cosa dovessero fare.

«Dovremmo rubare dei cavalli» riprese Bran. «Proprio come dice Meera. E andarcene dagli Umber a Ultimo Focolare.» Ci pensò su qualche altro momento. «Oppure potremmo rubare una barca e discendere il Coltello Bianco fino alla città di Porto Bianco. È quel grasso lord Manderly che la governa, ed è stato gentile con noi alla festa del raccolto. So che voleva costruire delle navi. Forse ne ha già pronta qualcuna. Da là, potremmo fare vela per Delta delle Acque e riportare Robb a casa con il suo esercito. Così non avrebbe più importanza che si sappia che io sono vivo. Robb non permetterebbe a nessuno di farci del male.»

«Hodor!» esclamò Hodor. «Hodor! Hodor!»

Ma l’unico a cui piacesse quel piano d’azione era lui. Meera si limitò a rivolgere a Bran un sorriso, e Jojen a corrugare la fronte. Bran era non solo uno Stark ma anche un principe, e i Reed dell’Incollatura erano alfieri degli Stark, eppure… mai che loro ascoltassero quello che lui proponeva.

«Hoooodor» disse Hodor, ondeggiando avanti e indietro. «Hoooodor, hoooooooodor, hodorrrr, hodorrrr, hodorrrr.» Certe volte gli piaceva fare così, dire in continuazione il suo nome in modi diversi. Altre volte, rimaneva talmente quieto che ci si dimenticava di lui. Con Hodor, non si poteva mai dire. «Hodor! Hodor! Hodor!» gridò.

“Non la pianterà più, adesso” temette Bran. «Hodor» gli disse. «Perché non vai fuori ad addestrarti con la spada?»

Il gigantesco stalliere aveva dimenticato di avere una spada, ma ora se ne ricordò. «Hodor!» esultò. Poi afferrò la sua lama. Avevano con loro tre spade funerarie prese dalla cripta di Grande Inverno, dove Bran e suo fratello Rickon erano andati a nascondersi per sfuggire agli uomini di ferro di Theon Greyjoy. Bran aveva preso la lama di suo zio Brandon e Meera quella che aveva trovato di traverso sulle ginocchia della statua di pietra di lord Rickard Stark, nonno di Bran. La lama di Hodor invece era molto più vecchia, un enorme pezzo di ferro vaiolato dalla ruggine, spuntata e senza più affilatura dopo secoli di abbandono. Hodor andava avanti a farla mulinare per intere ore. C’era un albero marcio presso le pietre crollate della torre che lui aveva già fatto a pezzi per metà.

Perfino dopo che fu uscito, poterono udire la sua voce tonante attraverso le pareti: «Hodor!», mentre continuava a demolire il tronco. Per fortuna, la foresta del Lupo era immensa, e ben difficilmente qualcun altro lo avrebbe udito.

«Jojen, che cosa volevi dire quando hai parlato di un altro maestro?» chiese Bran. «Sei tu il mio maestro. È vero, non ho ancora marcato l’albero, ma la prossima volta lo farò. Il mio terzo occhio è aperto, proprio come volevi tu…»

«È talmente aperto, infatti, che ho paura tu possa finire col caderci dentro… che tu possa passare il resto dei tuoi giorni da lupo nella foresta.»

«Non succederà, te lo prometto.»

«È il ragazzo a promettere. Ma il lupo? Sarà in grado di ricordare? Tu corri con Estate, vai a caccia con lui, uccidi con lui… ma pieghi anche la tua volontà alla sua più di quanto lui faccia con te.»

«Me ne dimentico» si lamentò Bran. «Ho solamente nove anni. Quando sarò più grande farò meglio. All’età di nove anni, nemmeno Florian il Giullare e il principe Aemon, il Cavaliere del drago, erano grandi guerrieri.»

«È vero» disse Jojen. «E quella che hai detto sarebbe una cosa saggia… se le giornate continuassero ad allungarsi. Ma non è così. Tu sei un figlio dell’estate, lo so. Dimmi il motto della Casa Stark.»

«L’inverno sta arrivando.»

Anche soltanto a pronunciarlo, Bran si sentì percorrere da un tremito.

Jojen annuì con solennità. «Ho sognato un lupo alato, legato e intrappolato alla terra da catene di pietra. Sono venuto a Grande Inverno per liberarlo. Ora tu hai perduto le catene, ma ancora non voli.»

«E allora insegnami tu a volare.» Bran aveva ancora paura del corvo con tre occhi che a volte veniva a turbare i suoi sogni, beccandogli senza fine la pelle della fronte e dicendogli di volare. «Tu sei in grado di vedere l’oltre.»

«No, Bran.» Jojen scosse il capo. «Io sono solo un ragazzo che sogna, a volte. Coloro che potevano vedere l’oltre erano molto più importanti. Erano anche loro dei metamorfi, come te, e il più grande di loro poteva assumere la forma di qualsiasi bestia che vola, striscia o nuota. Poteva osservare attraverso gli occhi scolpiti negli alberi-diga. E sapeva leggere la verità che giace sotto al mondo.

«Gli dèi concedono agli uomini molti doni, Bran. Mia sorella è una cacciarrice. A lei è stato concesso di correre veloce, di rimanere immobile, così pietrificata al punto che quasi svanisce. Ha orecchie sensibilissime, occhi acuti, e mano ferma con la rete e con la lancia. È in grado di respirare fango e di spostarsi tra gli alberi come se volasse. Io non riesco a muovermi così, non più di quanto ci riesca tu. A me, gli dèi hanno dato i sogni dell’oltre, e a te hanno dato… tu potresti essere molto più di me, Bran. Tu sei il lupo alato, ed è impossibile dire quanto in alto potresti volare… se avessi qualcuno capace d’insegnartelo. Come posso io aiutarti a diventare padrone di un dono che neppure comprendo? Noi ricordiamo i Primi Uomini dell’Incollatura, e i Figli della foresta che erano loro amici… ma così tanto è stato dimenticato, e sono moltissime le cose che non sapremo mai.»

Meera prese Bran per mano. «Se rimaniamo qui, senza dare fastidio a nessuno, tu sarai al sicuro fino alla fine della guerra. Però non imparerai, eccetto quello che mio fratello potrà insegnarti. E hai udito le sue parole. Se invece lasciamo questo posto e cerchiamo rifugio a Ultimo Focolare, oppure oltre la Barriera, corriamo il rischio di venire catturati. Tu sei solo un ragazzo, me ne rendo conto, ma sei anche il nostro principe, sei il figlio del nostro lord e il vero erede del nostro re. Noi ti abbiamo giurato la nostra fedeltà sulla terra e sull’acqua, sul bronzo e sul ferro, sul ghiaccio e sul fuoco. Tuo è il rischio, Bran, e tuo è il dono. Quindi tua dovrebbe essere anche la scelta, io penso. Noi siamo i servi al tuo comando.» Meera sogghignò. «Per lo meno in quest’occasione.»

«Vuoi dire che farete quello che io vi dirò? Veramente?» chiese Bran.

«Veramente, mio principe» confermò la ragazza. «Per cui, pensa bene.»

Bran cercò di pensarci molto bene, nel modo in cui suo padre avrebbe fatto. Hother Veleno delle puttane e Mors Cibo di corvo, zii di Jon Umber il Grande, erano uomini fieri, e lui era certo che fossero leali. E anche i Karstark. Karhold era un castello forte, diceva sempre il lord suo padre. “Con gli Umber e i Karstark dovremmo essere al sicuro.”

Oppure avrebbero potuto dirigersi a sud, andando dal grasso lord Manderly. A Grande Inverno quell’uomo aveva riso molto, e a Bran non era parso che il signore di Porto Bianco lo guardasse nello stesso modo pietoso degli altri lord. Castel Cerwyn era vicino a Porto Bianco, ma maestro Luwin aveva detto che Cley Cerwyn era morto. “Anche gli Umber e i Karstark e i Manderly potrebbero essere morti” si rese conto Bran. La stessa fine che avrebbe fatto lui se fosse stato catturato dagli uomini di ferro o dal Bastardo di Bolton.

Se fossero rimasti lì, nascosti sotto la Torre del crollo, nessuno li avrebbe trovati. E lui sarebbe rimasto vivo. “E storpio.”

Bran si accorse di stare piangendo. “Stupido bamboccio” disse a se stesso. Non aveva nessuna importanza dove sarebbero andati: Karhold, Porto Bianco o la Torre delle Acque Grigie, sarebbe rimasto uno storpio comunque. Serrò le mani a pugno.

«Voglio volare» disse a Jojen e a Meera. «Vi prego. Portatemi dal corvo con tre occhi.»

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