11

Trascorsi una notte agitata, con brevi momenti di sonno alternati a lunghi e insidiosi periodi di veglia tormentata. Un terrore senza nome mi assaliva, come se una tremenda creatura mi spiasse istigata da una sorda inquietudine del Passeggero, che stavolta, disorientato com’ero, mi appariva del tutto indecifrabile. Avrei potuto rinchiudere tale creatura nella sua gabbia e godermi qualche ora di felice incoscienza… ma poi ci si metteva Lily Anne.

La cara, dolce, preziosa e insostituibile Lily Anne, cuore e anima del nuovo essere umano Dexter, possedeva un altro, meraviglioso talento che andava ben al di là del suo fascino più ovvio. Era dotata di un paio di polmoni incredibilmente potenti e intendeva renderci partecipi di questo suo dono, ogni venti minuti, per tutta la notte. Inoltre, per via di chissà quale capriccio di madre natura, ogni volta che riuscivo a scivolare in un raro episodio di sonno, esso coincideva esattamente con le grida di Lily Anne.

Rita non sembrava per nulla infastidita dal rumore, ma non per questo suscitava il mio apprezzamento. Infatti, quando la bambina gridava, diceva: “Portamela qui, Dexter” apparentemente senza svegliarsi, poi cadevano entrambe addormentate finché Rita, sempre senza aprire gli occhi, diceva: “Rimettila a posto”. Così io barcollavo verso la culla e risistemavo con cura Lily Anne sotto le coperte, supplicandola in silenzio di dormire almeno per un’ora.

Ma quando tornavo a letto, anche al buio e in un momento di relativa calma, non riuscivo a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo, proprio come da disprezzato cliché, senza che nessuna posizione mi desse conforto. E nei rari periodi in cui mi assopivo, non so perché sognavo, ma non si trattava mai di sogni allegri. In genere non mi succede mai; credo infatti che l’atto del sogno sia legato al possesso dell’anima e, essendo abbastanza certo di non esserne dotato, quando dormo è come se fossi felicemente decerebrato, privo delle interferenze del subconscio.

Eppure, nelle umide profondità notturne, Dexter sognò. Le immagini erano contorte e attorcigliate come le lenzuola: Lily Anne stringeva un coltello nel pugnetto, Brian precipitava in una piscina di sangue, mentre Rita allattava Dexter, Cody e Astor e intanto nuotava nella stessa, orribile, piscina rossa. L’essere privi di senso era tipico di questi sogni surreali, eppure non fecero altro che inquietarmi interiormente, e quando l’indomani finalmente mi alzai dal letto, ero tutt’altro che riposato.

Mi trascinai in cucina. Rita mi sbatté davanti il caffè, senza un’ombra della cura dimostrata nel porgere la tazza a Brian. Tuttavia parve intercettare il mio molesto pensiero, neanche mi leggesse nella mente.

— Brian sembra una persona così in gamba — disse.

— Già — feci, e pensai che sembrare non vuol affatto dire essere.

— Ai ragazzi piace molto — continuò, incrementando il vago senso di sconforto che la mia coscienza ancora sonnolenta non aveva fatto nulla per scacciare.

— Sì, uhm… — Trangugiai una sorsata di caffè, sperando silenziosamente che la bevanda facesse il suo dovere e mi risintonizzasse il cervello. — In realtà, non ha mai avuto a che fare con bambini, e…

— Be’, quindi sarà molto positivo per tutti — disse Rita, allegra. — Si è mai sposato?

— Non credo — risposi.

— Non lo sai? — fece lei, indignata. — Insomma, Dexter, siamo seri… è tuo fratello.

Sarà stata la mia nuova umanità a farmi esplodere, ma alla fine la rabbia si aprì un varco nella mia nebbia mattutina. — Rita — replicai irato — lo so benissimo che è mio fratello. È inutile che continui a ripetermelo.

— Avresti dovuto dirmelo.

— Ma non l’ho fatto — constatai, e anche se poteva apparire un po’ bizzarro, stando ai fatti era vero. — E adesso possiamo cambiare ritornello?

Sembrava che Rita avesse molto altro da dire in materia, ma, saggiamente, si morse la lingua. Lasciò però crude le mie uova fritte e fu con un vero e proprio senso di liberazione che presi Cody e Astor e uscii dalla porta. E ovviamente, visto che la vita è fatta per soffrire, i bambini erano sintonizzati sullo stesso canale della madre.

— Perché non ci hai mai parlato di zio Brian, Dexter? — domandò Astor, mentre mettevo in moto.

— Pensavo che fosse morto — risposi, tentando di dare un tono conclusivo alla mia voce.

— Perché noi non abbiamo nessun altro zio — continuò. — Tutti ce l’hanno, eccetto noi. Melissa ne ha cinque.

— Melissa dev’essere una bambina speciale. — Scartai di lato per evitare un grosso SUV fermo senza motivo in mezzo alla strada.

— Quindi siamo contenti di avere uno zio — disse Astor. — E siamo contenti che sia zio Brian.

— È forte — aggiunse Cody.

Ovviamente, avrei dovuto rallegrarmi del successo di mio fratello, invece non fu affatto così. Semplicemente contribuì ad acuire quel meschino senso di tensione che si era sviluppato in me dalla prima volta in cui l’avevo visto. Brian aveva in mente qualcosa, ne ero certo, com’ero certo di chiamarmi Dexter, e finché non avessi scoperto di che cosa si trattava, quel costante senso di minaccia mi avrebbe perseguitato. Infatti, quando portai i ragazzi a scuola e mi recai al lavoro, ancora non se n’era andato.

Per una volta, lungo le strade di Miami, non era ancora comparso nessun cadavere tagliato a pezzi a spaventare i turisti. Quasi a sottolineare tale inusuale evento, Vince Masuoka aveva portato le ciambelle. Considerate le episodiche aggressioni subite nella mia vita domestica, furono da me molto gradite e stabilii che necessitavano di un rinforzo positivo. — Ave, o ciambelle, Dexter vi saluta! — esclamai, mentre Vince avanzava con il cartone colmo di dolci.

— Ave, Dexterus Maximus — disse. — Reco tributi da parte dei Galli.

— Ciambelle francesi? — dissi. — Non avranno il prezzemolo, vero?

Vince aprì il coperchio, rivelando file di lustre ciambelle. — Niente prezzemolo e niente ripieno alle lumache — fece. — Ma sono farcite di crema bavarese.

— Annuncerò al Senato di decretare il trionfo in tuo onore — dissi, e ne afferrai rapidamente una. In un mondo fondato sui principi dell’amore, della saggezza e della compassione, ciò avrebbe modificato in positivo lo spiacevole corso che stava prendendo la mia giornata. Purtroppo, invece, un mondo simile non ci appartiene, così la ciambella riuscì a malapena ad assestarsi nel mio stomaco, quando il telefono sulla scrivania cominciò a reclamare le mie attenzioni. Non so perché, ma dal modo in cui suonava, avrei scommesso che si trattava di Deborah.

— Che cosa stai facendo? — domandò, senza neanche dirmi ciao.

— Sto digerendo una ciambella — risposi.

— Vieni a farlo su nel mio ufficio — replicò, e riattaccò.

Non è facile discutere con qualcuno che ha appena staccato la linea, e di sicuro lo sapeva anche Deborah, così, piuttosto di compiere l’improbo sforzo di digitare il suo numero, mi diressi verso la sua postazione alla sezione Omicidi. A essere corretti, non si trattava tanto di un ufficio, quanto di un open space con pareti divisorie. Non mi parve comunque dell’umore giusto perché mi mettessi a cavillare, perciò lasciai correre.

Deborah era seduta alla scrivania e stringeva una specie di verbale. Il suo nuovo socio, Deke, se ne stava accanto alla finestra con un’espressione di vacuo e divertito distacco stampata sul viso belloccio.

— Guarda qui — disse Deborah, agitando violentemente i fogli. — Ci credi a queste stronzate?

— No — risposi. — Perché a questa distanza non riesco a leggerle.

— Mister Fossetta sul Mento ha interrogato la famiglia Spanos — disse, indicando Deke.

— Oh… ehi — fece lui.

— E ha individuato un sospetto.

— Una persona di interesse per le indagini — precisò Deke, serio, in poliziottese. — Non esattamente un sospetto.

— È l’unica fottuta pista che abbiamo, e tu ci sei stato sopra tutta la notte — ringhiò mia sorella. — L’ho scoperto la mattina dopo alle nove e mezzo, leggendo quel cazzo di verbale.

— Dovevo batterlo al computer — protestò lui, leggermente seccato.

— Con due ragazze scomparse, il capitano che mi sta al culo e la stampa che spera in uno scandalo tipo Three Mile Island, tu ti metti a battere al computer senza dirmi niente?

— Ehi, va bene, e che cazzo. — Deke strinse le spalle.

Deborah digrignò i denti. Dico sul serio; l’ho sempre letto nei romanzi, specie in quelli di fantasia, ma non ho mai creduto che succedesse davvero, invece ecco qua. La osservai affascinato mentre digrignava i denti. Stava per dire qualcosa di molto forte, invece gettò il verbale sulla scrivania. — Va’ a prendere il caffè, Deke — fece infine.

Deke si alzò, le puntò il dito addosso con uno schiocco secco e disse: — Latte e due cucchiaini di zucchero — poi si incamminò disinvolto verso la macchinetta nel corridoio.

— Credevo che il caffè ti piacesse nero — osservai, quando Deke se ne fu andato.

Deborah si alzò. — Se questa fosse l’ultima delle sue cazzate, sarei la donna più felice del mondo — disse. — Vieni.

Stava già camminando in corridoio, dalla parte opposta di Deke, e ancora una volta ogni mia protesta sarebbe stata irrilevante. La seguii dunque con un sospiro, chiedendomi dove avesse imparato questo suo modo di fare, forse sul Manuale di management per aspiranti bulldozer.

La raggiunsi davanti all’ascensore. — Chiedere dove stiamo andando è troppo, vero? — feci.

— Da Tiffany Spanos — disse, pigiando due o tre volte il pulsante di discesa. — La sorella maggiore di Tyler.

Mi ci volle un momento, ma quando le porte dell’ascensore si aprirono, me ne ricordai. — Tyler Spanos — dissi, seguendola nella cabina. — La ragazza scomparsa insieme a… uhm… Samantha Aldovar.

— Già. — Le porte si chiusero e cominciò la discesa. — Il Ritardato ha parlato con Tiffany della sorella. — Immaginai che con il termine “Ritardato” si riferisse a Deke, e annuii. — Gli ha detto che per un po’ Tyler si era fissata con il gotico e a una festa ha incontrato questo tipo, un gotico integralista.

Ho sempre condotto una vita morigerata, ma so che il gotico è una specie di movimento in voga tra adolescenti complessate e fastidiosamente depresse. A quanto mi risulta, consiste nell’andare in giro pallidi e vestiti di nero, e forse ascoltare musica techno-pop europea, sbavando davanti ai DVD di Twilight. Non mi sembrava che c’entrasse molto con gli integralisti. Ma la fantasia di Deborah non aveva confini.

— Posso chiederti che cosa intendi per “gotico integralista”? — domandai umilmente.

Deborah mi lanciò un’occhiata. — Quel tipo è un vampiro — disse.

— Sul serio? — feci, e ammetto che la cosa mi sorprese. — Di questi tempi? Qui a Miami?

— Già — fece, e le porte dell’ascensore si aprirono. — Ha pure i canini appuntiti — aggiunse, uscendo.

Mi affrettai a seguirla. — Allora stiamo andando a trovare questo tipo? — chiesi. — Come si chiama?

— Vlad. Un nome d’effetto, eh?

— Vlad e poi?

— Non lo so.

— Ma sai almeno dove vive? — domandai speranzoso.

— Lo troveremo — dichiarò, e si diresse verso l’uscita.

Decisi che quand’è troppo è troppo. La presi per un braccio e lei si voltò a fissarmi. — Deborah — le dissi — si può sapere che cosa diavolo stiamo per fare?

— Ancora un minuto in compagnia di quel decerebrato tutto muscoli e mi sarebbe passato di mente — rispose. — Devo uscire di qui. — Si divincolò dalla mia stretta, ma io la trattenni.

— Anch’io come tutti gli altri non vedo l’ora di fuggire terrorizzato dal tuo socio — dissi. — Ma dobbiamo trovare qualcuno di cui non sappiamo né il cognome né dove vive. Dove andiamo quindi?

Deborah tentò di nuovo di liberarsi e stavolta ci riuscì. — In un Internet café — dichiarò. — Non sono stupida. — A prima vista per stupido passavo io, che la seguivo nel parcheggio come uno schiavetto.

— Il caffè lo offri tu — dissi a voce piuttosto bassa, mentre le correvo dietro.

C’era un Internet café a pochi isolati di distanza, così in un batter d’occhio mi ritrovai seduto di fronte a una tastiera con una tazza di buon caffè in mano e un’impaziente Deborah che si agitava al mio fianco. Mia sorella è una tiratrice scelta, e senza dubbio sarà dotata di molte altre qualità, ma metterla davanti a un computer è come chiedere a un asino di ballare la polka. Infatti, molto saggiamente, lasciò a me il controllo delle ricerche su Google.

— Okay — feci. — Posso cercare il nome “Vlad”, ma…

— Odontoiatria cosmetica — disse seccamente. — Non fare il coglione.

Annuii; in effetti era la mossa più furba, ma dopo tutto l’investigatrice capo era lei. Dopo qualche istante, avevo una lista con dozzine di nominativi di dentisti di Miami, tutti che praticavano odontoiatria cosmetica. — Devo stamparla? — chiesi a Debs.

Mia sorella la guardò e si morse il labbro così forte da farmi credere che presto anche lei avrebbe avuto bisogno di un dentista. — No — rispose, afferrando il cellulare. — Mi è venuta un’idea.

L’idea doveva essere davvero top secret, perché non me la disse, ma chiamò un numero che aveva memorizzato nella rubrica veloce e dopo pochi secondi sentii: — Parla Morgan. Dammi il numero di quel dentista della Scientifica.

Scarabocchiò nel vuoto, per farmi capire che le serviva una penna. Ce n’era una vicino alla tastiera e gliela passai, insieme a un pezzetto di carta raccattato dal cestino.

— Okay — disse. — Dottor Gutmann, si chiama. Ah-hah. — Scrisse il numero e chiuse la comunicazione.

Lo chiamò subito. Parlò per un minuto con una centralinista, poi notai che batteva il tempo con il dito e dedussi che dovevano averla messa in attesa con una musichetta. Infine il dentista prese la linea.

— Dottor Gutmann — fece Deborah. — Qui parla il sergente Morgan. Mi serve il nome di un dentista della zona che possa aver affilato i canini a un tipo perché somigli a un vampiro. — Gutmann disse qualcosa che la sorprese. Debs scarabocchiava sul pezzo di carta e intanto diceva: — Ah-hah. Ho capito, grazie. — Poi richiuse il cellulare. — Ha detto che ci può essere un solo dentista in città così cretino da fare una cosa simile. Il dottor Lonoff di South Beach.

Lo individuai rapidamente nella lista. — Sta proprio dietro Lincoln Road — osservai.

Deborah si era già alzata e mi aspettava fuori dalla porta. — Avanti — disse, e ancora una volta il Diligente Dexter si mise in marcia e la seguì.

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