19

Quando arrivai al laboratorio, Vince Masuoka era già in fibrillazione. — Ehi — disse. — Ho sottoposto il mio test per l’ecstasy a quei campioni delle Everglades.

— Splendido — feci. — Stavo per proportelo.

— Sono risultati positivi — continuò. — Ma lì dentro c’è dell’altro, e in gran quantità. — Alzò le spalle con un gesto d’impotenza. — È roba organica, ma non è venuto fuori nulla di più.

— Insisti. Prima o poi lo scopriremo, mon frère.

— Ancora con quel francese? Quand’è che la finirai?

— Quando arriveranno le ciambelle — feci speranzoso.

— Be’, alours sta’zitto, visto che non arriveranno — replicò Vince, senza accorgersi che le sue parole non avevano senso in nessuna lingua, figuriamoci in francese.

Ma non ero responsabile della sua istruzione, così lasciai correre e ci concentrammo sul campione prelevato dalla coppa del party cannibale.

Entro mezzogiorno nel nostro piccolo laboratorio avevamo sperimentato quasi ogni test possibile e scoperto un paio di cose inutili. Primo, che l’ingrediente base della brodaglia era una popolare bevanda energetica ad alto numero di ottani. Vi era stato aggiunto sangue umano e, nonostante il campione fosse piccolo e piuttosto degradato, ero ragionevolmente certo che provenisse da fonti diverse. Ma l’ultimo ingrediente, quello organico, continuava a restare sconosciuto.

— Va bene — dichiarai infine. — Proviamo ad arrivarci in un modo diverso.

— E come? — fece Vince. — Con una tavoletta Ouija?

— Quasi — dissi. — Che ne dici se utilizziamo la logica induttiva?

— Okay, Sherlock. Sarà di sicuro più divertente della solita gascromatografia.

— Mangiare i tuoi amici umani non è naturale — esordii, cercando di immedesimarmi in uno dei presenti al festino, ma Vince interruppe la mia lenta discesa in trance.

— Che cosa dici… stai scherzando? — replicò. — Ma ti sei documentato? Il cannibalismo è la pratica più naturale del mondo.

— Non nel ventunesimo secolo a Miami — obiettai. — L“‘Enquirer” la pensi come vuole.

— Eppure è solo una questione culturale.

— Per l’appunto — dissi. — Il nostro tabù al riguardo è così forte che bisogna trovare un modo per infrangerlo.

— Be’, quelli bevevano il sangue, quindi il passo successivo non era poi tanto strano.

— Abbiamo una folla — dissi, tentando di zittire Vince e immaginarmi il quadro. — Gente che si carica con le bevande energetiche, si lascia eccitare dall’ecstasy ed è tutta presa psicologicamente dalla scena… forse si sente anche suonare una specie di musica ipnotica… — Non appena mi resi conto di quel che stavo dicendo mi bloccai.

— Come? — fece Vince.

— Ipnotica — ripetei. — Quel che manca è un qualcosa che predisponga la folla in uno stato mentale recettivo. Qualcosa che agisca insieme alla musica e a tutto il resto rendendo la gente suggestionabile.

— Marijuana — suggerì Vince. — Mi fa sempre venire un certo languorino.

— Merda — feci, mentre un debole ricordo si faceva strada nella mia mente.

— No, la merda non funziona — intervenne Vince. — E poi è cattiva.

— Come tu abbia scoperto che gusto ha, non lo voglio sapere — dissi. — Dov’è quel librone con i bollettini della Squadra Narcotici?

Lo trovai. Si trattava di un grosso raccoglitore a tre anelli in cui conservavamo i rapporti più interessanti che ci inviava la Narcotici. Mi bastò sfogliarlo per qualche minuto e individuai la pagina che ricordavo. — Ecco — indicai. — È questo.

Vince lesse. — Salvia divinorum… ne sei sicuro?

— Da un punto di vista puramente logico induttivo, sì.

Annuì lentamente. — “Elementare, Vince”, ecco che cosa dovresti dire.

— È una cosa relativamente nuova — spiegai a Deborah. Eravamo seduti nella sala operativa della squadra insieme a Vince, con Deke in piedi alle sue spalle. Indicai la pagina sul libro della Narcotici. — Nella contea di Miami la salvia è stata dichiarata illegale un paio d’anni fa.

— La conosco quella fottuta salvia — intervenne Debs, secca. — E non ho mai sentito che avesse altri effetti, se non istupidire la gente per qualche minuto.

Annuii. — Certo — dissi. — Ma non sappiamo che cosa può fare in dosi massicce, specialmente associata con quest’altra roba.

— Per quel che ne sappiamo — aggiunse Vince — potrebbe anche non fare assolutamente nulla. Ma qualcuno ha pensato che mescolarla con il resto fosse fico.

Deborah lo scrutò a lungo. — Hai idea di quanto questa spiegazione faccia fottutamente acqua?

— Un tipo a Syracuse se n’era fumata un po’ — disse Deke. — E poi aveva cercato di buttarsi. — Ci guardò e alzò le spalle. — Giù nel cesso, intendo.

— Se vivessi a Syracuse, nel cesso mi ci butterei anch’io — replicò Deborah.

Deke fece un gesto spazientito.

— Ehm — dissi, sforzandomi coraggiosamente di non divagare. — In questo caso quel che conta non è perché l’hanno usata, ma che sia stato fatto. Considerata la quantità di gente, ne avranno utilizzata parecchia. E se ne serve così tanta…

— Ehi, potremmo risalire facilmente allo spacciatore — disse Deke.

— A fare due più due ci arrivo ancora — saltò su Deborah.

— Deke, corri alla Narcotici. Chiedi al sergente Fine un elenco dei più grossi trafficanti di salvia della zona.

— Sarà fatto. — Deke mi strizzò l’occhio. — Ci vuole un po’ d’iniziativa, no? — Fece il gesto di puntarmi addosso una pistola e abbassò il pollice di scatto. — Bum — esclamò con un sorriso, mentre si allontanava. Appena uscito dalla porta per poco non sbatté addosso a Hood, che gli diede uno spintone e raggiunse il nostro gruppetto, sfoggiando un sorriso largo e per nulla attraente.

— Sei in compagnia dell’intellighenzia, vedo — disse a Debs.

— Sono in compagnia di due nerds e di un coglione — rispose lei.

— Ehi — obiettò Vince. — Noi non siamo nerds. Siamo geeks.

— Aspetta e vedrai — annunciò Hood.

— Che cosa dovrei vedere, Richard? — fece mia sorella, acida.

— Ho trovato quei due haitiani — disse. — Vedrai che ne varrà dannatamente la pena, garantito.

— Lo spero bene, Richard, perché ne ho dannatamente bisogno — rispose Debs. — Dove sono?

Hood aprì la porta e fece cenno a qualcuno in corridoio. — Dentro — disse, e due individui gli sfilarono accanto.

Erano molto magri e di colore. Avevano le manette ed erano stati spinti dentro da un poliziotto in divisa. Il primo prigioniero era leggermente claudicante, il secondo sfoggiava un occhio gonfio e un po’ chiuso. Vennero sospinti gentilmente al cospetto di Deborah, mentre Hood tornava ad affacciarsi in corridoio, guardando da entrambe le parti come se cercasse qualcuno. — Ehi, Nick! Per di qua! — esclamò infine, e una terza persona ci raggiunse.

— Mi chiamo Nichole — disse, rivolta a Hood. — Non Nick. — Hood le lanciò un sorrisetto e lei scosse il capo, facendo svolazzare una lucente massa di ricci scuri. — Senza contare che per te sarei la signorina Rickman. — Lo guardò dritto negli occhi, ma Hood non abbandonava il suo sorrisetto, così la donna rinunciò e si avvicinò al tavolo. Era alta, vestita alla moda e portava con sé un grosso album per gli schizzi e parecchie matite. Era l’artista forense della Scientifica.

Deborah la salutò con un cenno. — Nichole. Tutto bene?

— Sergente Morgan — rispose. — Fa sempre piacere disegnare qualcuno che non è morto. — Inarcò il sopracciglio. — Perché non lo è, vero?

— Spero proprio di no — rispose Deborah. — Visto che è la mia migliore possibilità per salvare quella ragazza.

— Okay — disse Nichole — proviamoci. — Posò l’album con le matite sul tavolo, si sedette e si preparò a disegnare.

Intanto Deborah osservava i tizi condotti da Hood. — Che cosa è capitato a questi due? — chiese al detective.

Lui alzò le spalle con una faccia da santarellino. — In che senso?

Debs lo fissò ancora per un po’, ma l’uomo si appoggiò alla parete, facendo l’indifferente. Si rivolse allora ai prigionieri. — Bonjour — disse.

Nessuna risposta. Se ne stavano entrambi con gli occhi bassi, poi Hood tossicchiò. Allora quello con l’occhio gonfio alzò di scatto la testa e guardò il detective, nervoso. Hood indicò Deborah e l’uomo si mise a parlare velocemente in creolo.

Per non so quale inutile idealismo, mia sorella al liceo aveva studiato francese e, per qualche secondo, credette che le fosse d’aiuto per capire quel che le veniva detto. Guardò l’interlocutore tentando di districarsi tra le frasi, infine scosse il capo. — Je nais comprend… Dannazione, non mi ricordo più come si dice. Dexter, cerca qualcuno che possa tradurre.

L’altro uomo, quello claudicante, alzò la testa. — Non ce n’è bisogno — disse. Aveva un accento marcato, ma alla fine si capiva molto meglio di mia sorella che tentava di parlare in francese.

— Bene — fece Deborah. — E il tuo amico? — Indicò l’altro tipo.

Lo Zoppo alzò le spalle. — Parlerò per mio cugino — rispose.

— Okay — disse Debs. — Ti chiediamo di descriverci l’uomo che vi ha venduto quella Porsche… perché si trattava di un uomo, vero?

Alzò di nuovo le spalle. — Di un ragazzo.

— Okay, un ragazzo. E com’era fatto?

— Era un blanc — rispose. — Giovane e…

— Quanto giovane? — l’interruppe Deborah.

— Non saprei. Vecchio abbastanza da portare la barba, perché non se l’era fatta… da tre o quattro giorni.

— Va bene — fece Deborah, perplessa.

— Mi permette di partecipare, sergente? — intervenne Nichole.

Deborah la guardò, poi annuì. — D’accordo — disse. — Fai pure.

Nichole sorrise ai due haitiani. — Complimenti per l’inglese — disse. — Vi farò solo qualche semplice domanda, okay?

Lo Zoppo la scrutò sospettoso, ma visto che lei non smetteva di sorridere, si calmò. — Okay — fece.

Nichole si avventurò in una serie di domande che trovai decisamente vaghe, ma a cui assistetti con interesse; dicevano infatti che era molto brava nel suo mestiere. In principio, pensai l’avessero sopravvalutata, perché chiedeva cose tipo “Che cosa ti ricordi di quell’uomo?”, e quando lo Zoppo rispondeva, si limitava ad annuire e a scribacchiare sul taccuino con un “Ah-ah, okay”. Comunque ottenne un’accurata descrizione dell’individuo che si era presentato al garage con la Porsche di Tyler, di quello che si erano detti e di un mucchio di insulsi particolari. Mi chiedevo come facesse, partendo da lì, a risalire all’identikit di una persona, viva o morta che fosse, ed era chiaro che Debs stava pensando la stessa cosa. In effetti si mise quasi subito a friggere e a schiarirsi la gola, e ogni volta gli haitiani alzavano gli occhi e la guardavano nervosi.

Ma Nichole la ignorò e continuò con quelle sue domande terribilmente generiche, finché, molto lentamente, mi accorsi che stava ricavando una descrizione niente male. Solo a quel punto scese in dettagli più specifici, tipo: — Com’era la forma esterna del viso?

Il prigioniero la scrutò, assente. — Esterna? — ripeté.

— Rispondi — gli ingiunse Hood.

— Non lo so — disse l’uomo.

Nichole guardò il detective, che fece un altro dei suoi sorrisetti e tornò ad appoggiarsi alla parete. — Ti faccio vedere alcune forme — continuò la donna, rivolta all’haitiano. Estrasse un grosso foglio con gli schizzi di diversi ovali. — Ce n’è uno che ti ricorda la forma di quella faccia? — chiese.

Il prigioniero si protese in avanti a esaminarli. Dopo un po’, li guardò anche il cugino dall’occhio gonfio e disse qualcosa a bassa voce. Il primo annuì: — Quello lassù, in cima.

— Questo? — fece Nichole, indicandone uno con la matita.

— Sì. Quello.

Lei annuì e si mise a disegnare, con tratto rapido e sicuro, interrompendosi soltanto per rivolgere altre domande e mostrare altre immagini. Com’era la bocca? E le orecchie? A quali somigliavano? E così via… Finché una vera faccia cominciò a prendere forma sul foglio. Deborah tacque e lasciò che Nichole guidasse i due haitiani nel colloquio. A ogni domanda i cugini si consultavano sottovoce in creolo, infine quello che sapeva l’inglese rispondeva, mentre l’altro annuiva.

Nel complesso lo spettacolo non poté che affascinarmi, tra i due tipi ammanettati che chiacchieravano in creolo e il viso che poco per volta spuntava magicamente dalla pagina, così che mi rammaricai di vederlo finire.

Eppure finì. Nichole alzò l’album per mostrarlo ai due haitiani. Occhio Gonfio, che non parlava inglese, lo fissò con attenzione, poi annuì. — Oui.

— È lui — fece l’altro, sorridendo improvvisamente a Nichole. — Come per magia. — In realtà aveva detto “masgia”, ma si capiva lo stesso.

Deborah, che prima era rimasta seduta a osservare Nichole al lavoro, si alzò e le si avvicinò per vedere il disegno. — Figlio di puttana — disse. Guardò Hood, che era sempre appoggiato alla porta con quel sorrisetto morboso dipinto sulle labbra. — Porta qui quel fascicolo — gli disse. — Quello con le foto.

Hood si diresse all’altro capo del tavolo, dove giaceva una pila traballante di dossier, accanto al telefono. Ne sfogliò cinque o sei mentre Deborah friggeva, impaziente. — Sbrigati, dannazione — lo incitò. Hood annuì, prese un fascicolo e glielo porse.

Debs sparpagliò sul tavolo un mucchio di fotografie, le visionò rapida e ne estrasse una, mostrandola a Nichole. — Niente male — disse, mentre la disegnatrice annuiva e l’avvicinava al suo schizzo.

— Già, davvero niente male — ripeté Nichole, poi guardò mia sorella, radiosa. — Cavoli se sono brava. — Le restituì la foto che Debs mostrò ai due haitiani.

— È questo l’uomo che vi ha venduto la Porsche? — chiese.

Occhio Gonfio stava già facendo sì con la testa. — Oui — rispose. Nell’esaminare la foto, lo Zoppo fece un po’ di scena: si piegò a osservarla attentamente, e infine dichiarò con autorevolezza: — Sì. Non c’è dubbio. È lui.

Deborah li scrutò. — Ne siete convinti? — chiese. — Tutti e due?

Entrambi annuirono energicamente.

Bon — fece Debs. — Très beaucoup bon. — Gli haitiani sorrisero e Occhio Gonfio disse qualcosa in creolo.

Deborah guardò il cugino per la traduzione.

— Dice se per favore puoi parlare in inglese, così ti può capire — spiegò lo Zoppo con un sorriso ancora più largo.

Vince e Hood ridacchiarono. Ma Deborah era troppo felice per la storia della foto. Niente la poteva turbare. — È Bobby Acosta — disse, e mi guardò. — Quel piccolo bastardo è nostro.

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