29

Mi trovavo in un luogo lontano, in cui sottili scintille di luce volteggiavano su un mare buio e sconfinato, e Dexter l’attraversava a nuoto, con le gambe pesanti come il piombo, le braccia rigide e una sgradevole sensazione di galleggiamento che mi dava la nausea. Per lungo tempo non percepii altro pensiero o sensazione, a parte di esistere, finché un suono ripetuto mi raggiunse da lontano per concretizzarsi in un’impressione molto forte, espressa da un’unica sillaba cristallina: Ahi! Divenni così consapevole che “Ahi” non era un termine mistico utilizzato per la meditazione, né una terra perduta citata nella Bibbia, ma l’unico mezzo per riassumere con efficacia il Dolore di Dexter, dalle spalle in su. Ahi…

— Forza, Dexter, svegliati — mormorò una voce femminile. Una mano fredda mi si posò sulla fronte. Non avevo idea di chi si trattasse e, a dire il vero, non mi parve così importante come il fatto che la mia testa fosse in preda a un dolore indescrivibile e il collo non si muovesse.

— Dexter, ti prego — insistette la voce. La mano fredda mi diede dei colpetti sulla guancia che, a rigor di termini, erano un po’ troppo forti per essere considerati educati, e a ogni colpetto un’ondata di ahi riecheggiava nella mia testa.

Riacquistai infine il controllo delle braccia e ne utilizzai una per liberarmi dalla mano che mi martellava. — Ahi — mi uscì, e il mio lamento risuonò come il canto lontano di un uccello grosso e stanco.

— Sei vivo — disse la voce, e quella dannata mano riprese ad assestarmi colpetti sulla guancia. — Mi ero davvero preoccupata. — Quella voce dovevo averla già sentita, ma non sapevo dire dove, e in ogni caso non era la mia priorità al momento, visto che la mia testa era una specie di porridge fiammeggiante.

— Ahiii — ripetei, con più forza. Non riuscivo a dire altro, ma poco male, visto che riassumeva con eloquenza ciò che sentivo.

— Avanti — disse la voce. — Apri gli occhi, Dexter. Forza.

Riflettei su quella parola: “occhi”. Ero abbastanza sicuro di conoscerla. Se non sbagliavo, doveva avere a che fare con… uhm… con il vedere? Erano localizzati da qualche parte sulla faccia o giù di lì? Sì, doveva essere giusto; provai un piacere opaco e confuso. Una l’avevo azzeccata. Complimenti.

— Dexter, ti prego — ripetè la voce femminile. — Apri gli occhi, avanti.

Sentii di nuovo muoversi la sua mano, come per darmi un altro colpetto sulla guancia, e, all’idea, il senso di fastidio mi suscitò un ricordo: cioè che potevo aprire gli occhi proprio in quel modo. Ci provai. Il destro si spalancò all’istante, mentre il sinistro esitò un po’ di volte, infine un mondo offuscato mi si materializzò dinanzi. Sbattei le palpebre, finché non misi a fuoco quello che avevo davanti, di cui però non riuscii a comprendere il senso.

A neanche mezzo metro da me scorsi una faccia. Non aveva l’aria cattiva ed ero abbastanza certo di conoscerla. Era una donna, giovane e dall’aria ansiosa, che però, mentre tentavo di ricordarmi chi fosse, mi sorrise.

— Ehi, eccoti qui — disse. — Mi hai fatto tanto preoccupare.

Sbattei di nuovo le palpebre; stavo facendo troppi sforzi, più di quanti ne potessi tollerare. Mettermi pure a pensare era eccessivo, così smisi almeno di sbattere le palpebre. — Samantha — mormorai con voce impastata, e mi sentii subito molto fiero di me. Ecco il nome a cui corrispondeva quella faccia, che tra l’altro era a così poca distanza dalla mia perché avevo la testa sulle sue ginocchia.

— In persona — disse. — Felice di riaverti qui.

I particolari affiorarono lentamente nel mio cervello pulsante: Samantha, i cannibali, la cella frigo, quel pugno spropositato… Mi dovetti impegnare, ma riuscii a connettere i diversi eventi e poco per volta tracciai un quadro dell’accaduto, che si rivelò essere assai più doloroso della mia testa. Chiusi di nuovo gli occhi. — Ahiii — gemetti.

— Sì, l’hai già detto — fece Samantha. — Non ho nessuna aspirina o roba simile, ma se ti può servire… tieni. — La sentii piegarsi leggermente in basso e aprii gli occhi. Stringeva una grossa bottiglia di plastica; svitò il tappo. — Bevine un sorso — disse. — Piano. Non troppo, che ti fa male.

Obbedii. L’acqua era fresca e dal retrogusto indefinibile. Mentre la buttavo giù, mi accorsi di quanto avessi la gola secca e irritata. — Ancora — dissi.

— Poco alla volta — rispose Samantha, e me ne lasciò bere un altro piccolo sorso.

— Bene — feci. — Avevo sete.

— Wow — commentò lei. — Tre parole di fila. Ti sei proprio ripreso. — Bevve anche lei, e rimise a terra la bottiglia.

— Posso averne ancora un po’? — chiesi, e aggiunsi: — Sono cinque parole.

— Sicuro — rispose Samantha. Sembrava lieta della nuova abilità che avevo acquisito. Mi avvicinò la bottiglia alle labbra e ne bevvi un altro sorso. Sentii sollievo alla gola e al mio mal di testa, e insieme provai la crescente consapevolezza che le cose non stavano andando esattamente per il meglio.

Mi voltai per guardarmi intorno e ottenni in cambio una scarica di dolore dal collo fino alla cima della testa. Riuscii però a vedere anche qualcosa in più oltre al viso di Samantha e alla sua camicetta, il che non fu incoraggiante. Sopra le nostre teste, un neon fluorescente illuminava una parete verdastra. Nel posto in cui sarebbe stato logico trovare una finestra c’era una lastra di compensato grezzo. Altro non si vedeva, a patto di non muovere ulteriormente il capo, cosa che non mi sognai di fare, visto il dolore lancinante appena sperimentato.

Posizionai lentamente la testa nella posizione di prima e tentai di riflettere. Non riconobbi l’ambiente che mi circondava, ma almeno non mi trovavo più nella cella frigorifera. Percepii uno sferragliare meccanico e, come ogni abitante della Florida che si rispetti, riconobbi il suono del condizionatore. Ma né quello né il compensato mi fornirono indizi rilevanti.

— Dove siamo? — domandai.

Samantha deglutì una sorsata d’acqua. — In una roulotte — fece. — Da qualche parte nelle Everglades, non so. Uno di quelli del sabba possiede una cinquantina di ettari di terreno e ci tiene queste roulotte, per andare a caccia. Ci hanno portati qui così siamo del tutto isolati. Quaggiù non ci troverà nessuno. — La cosa sembrava rallegrarla, ma poi si ricordò che doveva sentirsi almeno un po’ in colpa e cercò di mascherare la gioia con un’altra sorsata.

— Come? — Avevo di nuovo la gola impastata, e allungai la mano in cerca della bottiglia. Stavolta bevvi parecchio. — Come hanno fatto a portarci fuori dal club, senza che nessuno ci vedesse? — feci.

Agitò la mano, facendomi sobbalzare la testa. Il movimento era leggero, ma il dolore inimmaginabile. — Ci hanno infilato dentro a dei tappeti — spiegò. — Poi sono arrivati due tipi in tuta da lavoro, hanno trasportato fuori i tappeti, li hanno gettati su un furgone e ci hanno condotti via. “Pulizia Tappeti Gonzalez”, c’era scritto. Semplice. — Sorrise, strinse le spalle e trangugiò un’altra sorsata.

Ragionai. Se Deborah fosse rimasta appostata, si sarebbe di certo insospettita nel veder uscire due grossi fagotti. E in questo caso, conoscendola, sarebbe saltata giù dalla macchina con la pistola spianata e li avrebbe bloccati. Dunque voleva dire che se n’era andata. Ma com’era possibile? Davvero avrebbe abbandonato il suo diletto fratello, lasciandolo in balia di un destino peggiore della morte, ma non esente da essa? Non credo che l’avrebbe fatto, almeno non volontariamente. Bevvi un altro sorso e tentai di riflettere. Debs non mi avrebbe mai abbandonato volontariamente. D’altro canto, non sarebbe stata neanche in grado di chiamare rinforzi: il suo socio era morto, e il suo comportamento stava andando lievemente tanto contro le regole del dipartimento, quanto contro il codice penale della Florida. Che cos’avrebbe fatto?

Trangugiai un’altra sorsata. Ora la bottiglia era mezzo vuota, ma il mio mal di testa sembrava essersi calmato un pochino. Non che il dolore se ne fosse andato, per carità, ma non potevo comunque lamentarmi. Avere dolore voleva dire essere vivi e… “Quando c’è vita c’è speranza”… chi era che lo diceva? Forse Samantha se ne ricordava. Stavo per domandarglielo, quando lei mi prese la bottiglia di mano per bere. Mi ricordai allora che stavo cercando di ricostruire che cos’avesse fatto mia sorella e perché io fossi finito lì.

Mi rimpossessai della bottiglia e bevvi ancora un po’. Deborah non mi avrebbe abbandonato. Sicuro. Deborah mi amava. Una consapevolezza si fece strada dentro di me: l’amavo anch’io. Buttai giù un’altra sorsata. L’amore è strano. Certo, accorgersene alla mia età suonava piuttosto buffo, ma ero stato circondato da così tanto amore… A partire dai miei genitori adottivi, Harry e Doris: visto che non ero il loro vero figlio, non erano tenuti ad amarmi, ma l’avevano fatto lo stesso. E così tanti altri, da allora fino ad adesso: Debs… e Rita, Cody, Astor e Lily Anne. Magnifica, adorata, magica Lily Anne, ultima portatrice d’amore. Ma anche tutti gli altri mi amavano, sebbene a modo loro…

Samantha prese la bottiglia e, mentre beveva, ebbi un’intuizione terribile: persino lei aveva dimostrato di amarmi. Aveva rischiato di perdere ciò a cui teneva di più, e che aveva sempre sognato, soltanto per darmi la possibilità di scappare! Non era forse questo un atto di puro amore?

Mandai giù un’altra sorsata. Mi sentivo attorniato da splendide persone, persone che mi amavano nonostante avessi combinato cose davvero brutte. Ma, diamine, ora avevo smesso, non vi pare? Non avevo forse il diritto di condurre una vita virtuosa e responsabile, in un mondo che all’improvviso si era illuminato di gioia e di meraviglia?

Samantha afferrò la bottiglia e bevve una gran sorsata. Me la restituì e io la finii, avidamente. Era deliziosa, la migliore che avessi mai bevuto. O forse stavo solo cominciando ad apprezzare di più le cose. Sicuro. Dopo tutto, il mondo era un luogo davvero straordinario e io mi ci stavo ambientando alla perfezione. E pure Samantha. Che persona splendida. Anche senza averne l’obbligo, si era persino presa cura di me. E continuava a farlo, anche adesso! I suoi colpetti al mio viso e le sue attenzioni erano dettate soltanto dall’amore: che ragazza meravigliosa! E se desiderava essere mangiata quel continuo toccarmi non era altro che una manifestazione del suo desiderio… wow. Il cibo è amore… dunque voler essere mangiati era un altro modo di condividere l’amore! E Samantha doveva aver scelto proprio questa via perché era così colma d’amore da non riuscire a esprimerlo in nessun’altra forma! Incredibile!

La rivalutai. Avevo davanti una persona splendida e generosa. E, anche se il collo mi faceva male, dovevo dimostrarle di aver compreso il suo gesto e che l’apprezzavo davvero. Così alzai la mano e l’avvicinai al suo viso. La sua pelle era morbida, tiepida, vitale. Le accarezzai delicatamente la guancia, per qualche istante. Mi guardò e sorrise, ricambiando la carezza.

— Sei così bella — mormorai. — Anche se la parola “bella” ti descrive solo in superficie, perché si riferisce a qualcosa di esteriore e non esprime esattamente quel che io intendo per bellezza… specie nel tuo caso, perché credo di aver capito che cosa rappresenta per te questa faccenda di farti mangiare… Cioè, sei bella anche fuori, ovvio; non volevo diminuire il tuo fascino, so quanto conta l’aspetto esteriore per una ragazzina. Anzi, una donna. Hai diciotto anni; sei una donna, lo so, perché hai fatto una scelta da adulta, una scelta da cui non si può tornare indietro, e in questo senso ti sei comportata da grande, perché sono certo che ti rendi conto delle conseguenze. E non c’è una definizione migliore di adulto: prendere una decisione estrema da cui sai di non poter tornare indietro. Hai la mia massima ammirazione per questo. E anche perché sei veramente, ma veramente bella.

Samantha mi accarezzò il viso, poi la sua mano scivolò lungo il colletto della camicia e sul petto. Mi faceva sentire bene. — So bene che cosa intendi dire, e sei la prima persona che capisce davvero che cosa significa per me tutto questo… — Mi tolse la mano dal petto e l’agitò in aria, per indicare quello che avevamo intorno, ma io la presi e gliela rimisi dov’era prima, perché mi piaceva troppo e mi era venuta voglia di toccarla. Lei sorrise e tornò ad accarezzarmi. — Lo so che non è facile da capire, ed ecco perché non ne ho mai parlato con nessuno, ed è per questo che ho passato gran parte della mia vita in solitudine, anzi, tutta la vita… perché chi è che avrebbe mai capito una cosa simile? Cioè, se avessi detto a qualcuno “Voglio essere mangiata”, se ne sarebbe saltato su con un: “Oddio, devi andare da uno strizzacervelli”, e nessuno mi avrebbe mai più considerato una persona normale, mentre a me non sembra che ci sia niente di strano, il mio è un modo totalmente normale di esprimere…

— Amore — feci.

— Tu che mi capisci! — Fece scivolare la mano più in basso, sul mio stomaco, poi tornò a posarla sul petto. — Oh mio Dio, lo sapevo che ci saresti arrivato, perché anche quand’eravamo nella cella frigo sentivo che eri diverso da tutti gli altri che avevo incontrato nella mia vita e mi ero detta: chissà se per una volta potrò mai parlare con una persona che mi capisce davvero e non mi guarda come se fossi una freak mostruosa e deviata!

— No, no, tu sei così bella — feci. — Nessuno potrà mai pensare di te una cosa simile, anche soltanto il tuo viso è stupendo…

— No, ma io non…

— Lo so, non è quello che intendevi — dissi. — Ma il tuo viso è un aspetto di te che rispecchia tutto il resto: cioè, se uno non è del tutto idiota non può non guardare il tuo viso e non pensare: “Wow, questa è una persona incredibile”, e poi accorgersi che quel che hai dentro è ancora più sorprendente. — Infine, visto che le semplici parole non bastavano a esprimere ciò che sentivo, e ci tenevo davvero che lei lo capisse, avvicinai il suo viso al mio e la baciai. — Sei bella dentro e fuori — le mormorai.

Mi rivolse un sorriso così caldo e colmo di gratitudine che ebbi l’impressione che tutto sarebbe andato per il meglio. — Anche tu — disse, poi si abbassò e mi baciò di nuovo. Stavolta il bacio durò di più. Mi accorsi di provare una sensazione nuova e che anche lei la provava, ma nessuno dei due si interruppe, anzi, lei si sdraiò sul pavimento accanto a me e continuammo a lungo, finché Samantha non si fermò per un istante e disse: — Forse ci hanno messo qualcosa nell’acqua.

— Non ha importanza — feci. — Perché quel che abbiamo capito non dipende da una sostanza sciolta nell’acqua, ma da qualcosa dentro di noi, dal nostro autentico sé, ed è qualcosa di vero, e so che anche tu lo senti. — La baciai e lei rispose per un minuto al mio bacio, poi si interruppe e mi avvicinò entrambe le mani alle guance.

— In ogni caso — disse — anche se c’era qualcosa nell’acqua, non conta niente, perché ho sempre pensato che tutto ciò fosse importante: l’amore, voglio dire. E non quello che uno sente, ma quello che uno fa, perciò credo che… cioè, ho diciotto anni; dovrei farlo almeno una volta prima di andarmene, non trovi?

— Almeno una — concordai.

Lei sorrise, chiuse gli occhi, avvicinò il viso al mio, e lo facemmo.

Più di una volta.

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