7

Raccogliere informazioni su quella che ora si era tramutata in una doppia scomparsa sarebbe stato decisamente difficile per noi, da una parte per effetto della legislazione a cui ogni scuola può appellarsi per proteggere la privacy dei suoi studenti e dall’altra per via del potere di cui si sentivano investiti genitori e allievi di un istituto quotato come la Ransom Everglades. La scuola scelse però di prendere il toro per le corna e utilizzò la crisi come occasione per dar prova di attivismo. Ci fecero di nuovo sedere nell’ufficio dalle pareti ingombre, mentre la signora Stein si aggirava febbrilmente, allertando amministratori e docenti.

Mi guardai intorno e notai che il numero di sedie era sempre lo stesso. Il mio appoggio contro il muro non mi parve più così invitante. Ora però che ben due studentesse erano scomparse, decisi che la nostra rilevanza nell’ordine delle cose era salita di parecchi punti. Per farla breve, adesso ero troppo importante per starmene appoggiato al muro. Senza contare che, dopo tutto, c’era un’altra comodissima sedia in quella stanza.

Mi ero appena seduto al posto della signora Stein che il mio cellulare squillò. Sul display comparve il nome di Rita. Risposi. — Pronto?

— Ciao, Dexter, sono io — disse.

— L’avevo capito.

— Come? Oh. Va bene, senti. — Non c’era bisogno di dirlo che avrei sentito. — Il dottore ha detto che sono pronta per tornare a casa. Ci puoi venire a prendere?

— Che cosa sei? — domandai, stupito. In fondo, Lily Anne era nata soltanto il giorno prima.

— Pronta — ripeté lei, pazientemente. — Pronta per tornare a casa.

— È troppo presto — obiettai.

— Il dottore dice di no — fece Rita. — Dexter, non è la prima volta che mi succede.

— Ma Lily Anne… potrebbe prendersi qualcosa, oppure il sedile della macchina… — Ero così spaventato al pensiero che Lily Anne lasciasse un posto sicuro come l’ospedale che mi ero messo a parlare come Rita.

— Lei sta bene, Dexter, e io pure — continuò. — E vogliamo tornare a casa. Quindi, per piacere, ci puoi venire a prendere?

— Ma Rita…

— Ti aspettiamo. Ciao. — Riattaccò prima che riuscissi a tirar fuori un valido motivo per cui non avrebbe ancora dovuto lasciare l’ospedale. Fissai il telefono per un istante, poi il pensiero di Lily Anne fuori, alla mercé di un mondo pieno di germi e di terroristi, mi stimolò all’azione. Sbattei il cellulare nella custodia e balzai in piedi. — Devo andare — dissi a mia sorella.

— Già, l’avevo capito — fece lei. Mi lanciò le chiavi della macchina. — Torna qui più in fretta che puoi.

Guidai verso sud in perfetto stile Miami, cioè rapido, muovendomi agilmente dentro e fuori dal traffico come se le corsie non esistessero. Di solito non guidavo in modo così ostentato; avevo sempre pensato che, contrariamente allo spirito delle nostre strade, arrivare a destinazione fosse importante almeno quanto dare un’immagine energica durante il tragitto. Ma ora i movimenti mi venivano naturali… dopo tutto ero cresciuto in questa città e la situazione contingente sembrava richiedere tutta la rapidità e la virile fermezza di cui ero capace. Che cos’era passato per la testa a Rita? E ancora, come aveva fatto a convincere i medici a darle ragione? Non era possibile: Lily Anne era piccola, delicata, incredibilmente vulnerabile. Mandarla allo sbaraglio nella cruda e pericolosa esistenza mi parve una completa e inumana follia.

Feci un salto a casa solo per prendere il nuovo seggiolino. Mi ero allenato per settimane, per saperlo usare perfettamente quando fosse arrivato il momento… ma era arrivato troppo presto. Tentai di incastrarlo sul sedile della macchina insieme alla cintura di sicurezza, ma le mie dita, in genere molto agili, erano rigide e grossolane. Non riuscivo a nessun costo a infilarlo nella scanalatura. Spinsi, tirai, finché non mi ferii un dito con la plastica e, mentre me lo succhiavo, il seggiolino finì a terra.

E quest’affare dovrebbe essere sicuro? Come può proteggere Lily Anne se mi attacca in modo così aggressivo? E se anche funzionasse come dovrebbe, cosa che dubito, come potrei comunque proteggerla da un mondo simile? Soprattutto adesso che è appena nata… è una pazzia mandarla a casa ora, che ha solo un giorno. È la classica arroganza e indifferenza dei medici: si credono intelligenti, solo perché hanno passato chimica organica. Ma non sanno nulla… non capiscono quel che prova un cuore di padre, come il mio. È troppo presto per scaraventare Lily Anne in questo mondo spietato e crudele, soltanto per far risparmiare qualche dollaro alla compagnia di assicurazioni. Questa storia non può andare a finire bene.

Riuscii infine a sistemare il seggiolino e mi precipitai all’ospedale. Al mio arrivo, contrariamente ai miei logici e ragionevoli timori, non trovai Rita davanti alla porta impegnata a scansare proiettili, né Lily Anne che giocava con siringhe usate in mezzo ai rifiuti.

Rita era invece nell’atrio, su una sedia a rotelle, con un fagottino tra le braccia. Non appena entrai, mi rivolse un ampio sorriso:

— Ciao, Dexter, sei stato velocissimo.

— Oh — esclamai, cercando di convincermi che tutto era okay.

— Be’, a dire la verità, ero nei paraggi.

— Non ti metterai a guidare così veloce ora che torniamo a casa, vero? — disse.

Stavo per spiegare che non avrei mai guidato così veloce con Lily Anne a bordo e che in ogni caso avrebbero dovuto tenerla ancora un po’ in ospedale, quando un giovanotto capellone e dall’aria gioviale si precipitò in mezzo a noi e afferrò la carrozzella di Rita per le maniglie.

— Ehi, ecco il papà — disse. — Siete pronti a partire, gente?

— Sì, lui è… Grazie — fece Rita.

Il giovanotto sbatté le palpebre. — Benissimo! — esclamò. Premette con forza il piede per rilasciare il freno e spinse Rita verso la porta.

A quel punto mi rassegnai anch’io a cooperare con l’inevitabile. Trassi un profondo respiro e li seguii.

Arrivati alla macchina presi Lily Anne dalle braccia di Rita e la piazzai con cura sull’aggressivo seggiolino. Per motivi ignoti, la tecnica che avevo sperimentato con la vecchia bambola Cabbage Patch di Astor si rivelò inutile, finché Rita non mi diede una mano a sistemare al meglio Lily Anne. Fu così un incapace e maldestro Dexter colui che si sedette infine al volante e avviò il motore. Dopo ripetute occhiate allo specchietto retrovisore per assicurarmi che il sedile posteriore non andasse in fiamme, uscii dal parcheggio e fui in strada.

— Non andare troppo veloce — disse Rita.

— Sì, cara.

Guidai lentamente verso casa… non così piano da rischiare una rappresaglia armata da parte dei miei concittadini, ma mantenendomi a uno sputo dai limiti di velocità. Ogni strombazzare di clacson, ogni autoradio ad alto volume mi apparivano insoliti e minacciosi e, quando mi fermai al rosso, mi scoprii a scrutare ansiosamente le macchine per il timore di avere un’automatica puntata contro. Eppure arrivammo stranamente a destinazione senza che ci accadesse nulla.

Slacciare le cinghie del sedile di Lily Anne non era così complicato come allacciarle, e dopo poco lei e Rita si ritrovarono in casa, comodamente sprofondate sul divano.

Le osservai, e tutto, all’improvviso, mi parve diverso, perché per la prima volta eravamo a casa tutti insieme e vedere la mia piccola nei vecchi posti mi ricordava la nuova, meravigliosa e delicata vita che mi si prospettava.

Mi crogiolavo in quel pensiero senza vergogna, imbevendomi di gioia infinita e assaporandola intensamente. Toccai i piedini di Lily Anne e le accarezzai le guance; non avevo mai conosciuto nulla di più morbido. Mi parve persino di sentire il suo profumo rosa confetto sui miei polpastrelli. Rita l’abbracciò e scivolò sorridendo in uno stato di dormiveglia, mentre io continuavo a osservarla, annusarla e accarezzarla. Poi diedi uno sguardo all’orologio, mi accorsi di quanto tempo era passato e mi ricordai che ero giunto lì con una macchina presa in prestito, la cui proprietaria era nota per aver fatto fuori verbalmente tanta gente per molto meno.

— Stai bene? — chiesi a Rita.

Lei aprì gli occhi e schiuse le labbra in quell’antico sorriso che Leonardo aveva ritratto così bene, quello della madre verso il figlio. — Non è la prima volta, Dexter — disse. — Mi riprenderò.

— Sei sicura? — feci, con una sensibilità che non conoscevo.

— Sicura — ripeté.

Allora, molto controvoglia, me ne andai.

Quando tornai al campus della Ransom Everglades con la macchina di Debs, scoprii che le era stata assegnata una stanza in un vecchio edificio in legno con vista sulla baia, adibita provvisoriamente agli interrogatori. La Pagoda, questo era il nome dell’edificio, si ergeva su una scogliera, sopra la pista di atletica. La costruzione era così pericolante che non sembrava in grado di sopravvivere neanche a un temporale estivo, eppure era rimasta in piedi per lungo tempo fino a trasformarsi in un luogo di interesse storico.

Al mio arrivo, Deborah, che stava parlando con un giovanotto estremamente ammodo, si limitò a lanciarmi un’occhiata e ad annuire, per non interromperlo. Mi sedetti accanto a lei.

Per il resto della giornata, studenti e docenti si presentarono uno alla volta all’interno dell’edificio pericolante per raccontarci quel che sapevano su Samantha Aldovar e Tyler Spanos. I ragazzi che incontrammo erano tutti belli, intelligenti ed educati, gli insegnanti scrupolosi e zelanti: cominciai ad apprezzare i benefici dell’educazione fornita dalle scuole private. Se solo avessi avuto la possibilità di frequentare un posto simile, chissà come sarei diventato. Forse, al posto di un analista della Scientifica che di notte diventa un killer privo di coscienza, sarei potuto diventare un medico, un fisico o anche un senatore che di notte diventa un killer privo di coscienza. Il pensiero di tutto il mio potenziale andato sprecato mi rattristò terribilmente.

In ogni caso, le scuole private sono costose e Harry, con i suoi mezzi, non avrebbe potuto permettersele… e anche se avesse potuto, dubito che gli sarebbero piaciute. Aveva sempre diffidato dell’élitarismo e aveva una buona opinione delle istituzioni pubbliche. Credeva nella scuola pubblica… o forse ancora di più in quella da cui avevamo imparato una serie di stratagemmi di sopravvivenza dei quali sapeva che avremmo avuto bisogno.

E che le due ragazze scomparse avrebbero dovuto conoscere.

Quando io e Debs terminammo i colloqui, intorno alle cinque e mezzo, avevamo appreso molte cose interessanti sul loro conto, ma anche che, abituate a risolvere ogni problema con la carta di credito e l’iPhone, non sarebbero mai riuscite a cavarsela nei selvaggi dintorni di Miami.

Samantha Aldovar continuava a restare un po’ un mistero, anche per quelli che credevano di conoscerla bene. I compagni sapevano che aveva ricevuto aiuti finanziari, ma la cosa non sembrava importasse. Dissero tutti che era una ragazza amabile, tranquilla, brava in matematica, e che non era fidanzata. Nessuno riuscì a trovare un buon motivo per cui avrebbe dovuto inscenare la propria scomparsa. Nessuno l’aveva mai vista frequentare persone poco raccomandabili, a parte Tyler Spanos.

Tyler veniva descritta come una vera e propria scapestrata e, vista a posteriori, l’amicizia tra le due ragazze sembrava decisamente improbabile. Mentre Samantha veniva a scuola accompagnata dalla madre su una Hyundai di quattro anni, Tyler guidava una macchina tutta sua… una Porsche. Samantha era timida e silenziosa, al contrario di Tyler, più leggera e disinibita, e desiderosa soltanto di far festa. Non aveva un fidanzato soltanto perché non le piaceva limitarsi a un ragazzo alla volta.

Nonostante ciò, nell’ultimo anno le due erano diventate molto amiche, si vedevano spesso a pranzo, dopo la scuola e nei weekend. Non solo il fatto era molto strano, ma aveva preoccupato Deborah sopra ogni altra cosa. Aveva infatti condotto tranquillamente i colloqui, segnalato alle pattuglie di ritrovare la Porsche di Tyler e inviato, non senza una certa rassegnazione, il socio Deke a parlare con la famiglia di Tyler: niente di tutto ciò aveva turbato minimamente la calma oceanica rispecchiata nel suo viso. Invece la strana amicizia tra le due ragazze l’aveva trasformata in un cocker che sbava per la sua bistecca.

— Non ha nessun senso, cazzo — osservò.

— Sono adolescenti — le ricordai. — A quell’età niente ha un senso.

— Ti sbagli — fece Deborah. — Ci sono cose che hanno sempre un senso, specie per gli adolescenti. I nerds girano con i nerds, gli sportivi e le cheerleader con gli sportivi e le cheerleader. È sempre stato così.

— Forse hanno un interesse misterioso in comune — suggerii. Lanciai un’occhiata distratta all’orologio. Era quasi ora di tornare a casa.

— Ne sono certa — fece Debs. — Come sono certa che quando lo scopriremo, scopriremo anche dove sono finite.

— Nessuno qui sembra avere idea di che cosa si tratti — dissi, alla ricerca di una degna battuta con cui congedarmi.

— Che diavolo ti prende? — fece Deborah, brusca.

— Pardon?

— Continui a dimenarti neanche dovessi fare pipì.

— Oh… uhm… veramente… per me è quasi ora di andare. Entro le sei devo passare a prendere Cody e Astor.

Mia sorella mi scrutò per un istante che mi parve eterno. — Non ci avrei mai creduto — disse.

— Creduto a che cosa?

— Che ti saresti sposato, con bambini eccetera. Che saresti diventato un padre di famiglia, dopo tutto quel che c’è di mezzo.

Avevo capito che si riferiva al mio lato oscuro, al mio precedente ruolo di Dexter il Vendicatore, la lama solitaria che colpisce al plenilunio. Deborah era venuta a conoscenza del mio alter ego e, apparentemente, sembrava essersi riconciliata con esso… proprio mentre io stavo per abbandonare quel travestimento. — Be’ — dissi — non ci avrei mai creduto neanch’io, suppongo. Invece… — Alzai le spalle. — Invece adesso ho famiglia.

— Già — osservò Debs distogliendo lo sguardo. — E prima di me. — Cercò di ricomporsi e tornare a sfoggiare il suo cipiglio severo, ma nel tentativo apparve spaventosamente vulnerabile. — Sei innamorato? — chiese all’improvviso, dondolandosi verso di me per guardarmi in faccia.

La fissai sorpreso. Una domanda così diretta e personale non era nello stile di Deborah, ed era anche uno dei motivi per cui andavamo così d’accordo.

— Sei innamorato di Rita? — ripeté, senza lasciarmi via di fuga.

— Io… non lo so — risposi con prudenza. — Ci… ci sono abituato.

Deborah mi scrutò, e scosse la testa. — Abituato — disse. — Come a una poltrona comoda o roba simile.

— Non così comoda — feci, nel tentativo di sdrammatizzare una conversazione che mi stava mettendo decisamente a disagio.

— Hai già provato amore per qualcuno? — chiese. — Ci sei mai riuscito?

Mi venne in mente Lily Anne. — Sì. Penso di sì.

Deborah mi fissò per un lungo istante poi, visto che non c’era proprio niente da vedere, si voltò e guardò oltre la vecchia finestra di legno che dava sulla baia. — Merda — disse. — Vattene a casa. Va’ a prendere i tuoi bambini e a far compagnia alla tua comoda moglie-poltrona.

Nonostante la mia trasformazione in essere umano fosse piuttosto recente, sentivo che nel Reame di Deborah c’era qualcosa che non andava e lasciarla così mi dispiaceva. — Debs — feci. — C’è qualcosa che non va?

Le si tesero i tendini del collo, ma continuò a guardar fuori, verso il mare. — Tutte queste stronzate familiari — saltò su. — Con queste due ragazze e le loro fottute famiglie. E la tua famiglia che ha fottuto te. Non va mai come dovrebbe, è sempre un casino, ma tutti ce l’hanno e io no. — Trasse un sospiro e scosse il capo. — Io che invece la voglio davvero. — Mi si scagliò addosso, feroce. — E risparmiati le battute sull’orologio biologico, chiaro?

A essere del tutto onesto, come lo sono sempre, il comportamento di Deborah mi scioccò talmente che proprio non mi veniva nessuna battuta, né relativa agli orologi né ad altro. In ogni caso, battute o no, qualcosa dovevo pur dire, così mentre ragionavo in cerca di una frase appropriata, mi venne in mente di domandarle di Kyle Chutsky, il suo storico compagno e convivente. L’avevo visto fare in una fiction, qualche anno prima. Ero solito studiarle per imparare come comportarmi in situazioni quotidiane, e questa era l’occasione di mettere in atto ciò che avevo appreso. — Con Kyle va tutto bene? — domandai.

Deborah sbuffò, poi il suo viso si addolcì. — Quell’idiota di Chutsky. Dice di essere troppo vecchio e malridotto per una come me. Continua a ripetermi che potrei avere di meglio. E se gli rispondo che forse non mi interessa avere di meglio, lui scuote il capo e si deprime.

Era davvero interessante… una panoramica affascinante nella vita di qualcuno che era un essere umano da molto più tempo di me. Non avevo però testa per formulare commenti costruttivi e sentivo sempre di più la pressione dell’orologio, non quello biologico, ma quello che tenevo al polso. Così, dibattuto tra la ricerca di una frase adeguata e rassicurante e il mio urgente bisogno di accomiatarmi, me ne uscii alla fine con un: — Be’, sono sicuro che ci tiene.

Deborah non smetteva di fissarmi, cominciando a farmi dubitare di aver detto la cosa giusta. Infine trasse un profondo sospiro e tornò a guardare la finestra. — Già — fece. — Ne sono sicura anch’io. — Poi scrutò la baia, senza dire nulla, ma, cosa ancora peggiore, sospirò un’altra volta.

Ecco un lato di mia sorella che non conoscevo, e con cui non avrei voluto avere a che fare troppo spesso. Ero abituato a una Deborah chiassosa e collerica, che mi prendeva a pugni sul braccio. Vederla così tenera, indifesa e vittimista mi metteva estremamente a disagio. Immaginavo di doverla in qualche modo consolare, ma non sapevo proprio da dove cominciare. Così restai lì, imbarazzato, finché il mio bisogno di andarmene prevalse sul mio senso del dovere.

— Mi dispiace, Debs — dissi, e stranamente era vero. — Devo andare a prendere i ragazzi.

— Già — fece lei, senza voltarsi. — Valli a prendere.

— Mi serve… uhm… un passaggio fino alla mia macchina.

Deborah si staccò lentamente dalla finestra e guardò verso la porta, dove si aggirava la signora Stein. Annuì con il capo e si alzò. — Okay — disse. — Qui abbiamo finito. — Mi passò davanti, fermandosi soltanto per salutare la signora Stein in tono formale ed educato, e uscì in silenzio.

Il silenzio durò finché non arrivammo alla mia macchina e non fu molto piacevole. Sentivo di dover dire qualcosa per alzarle il morale, ma, dopo un paio di tentativi falliti miseramente, rinunciai. Debs entrò nel parcheggio della centrale e si arrestò davanti alla mia auto. Fissava oltre il parabrezza con lo stesso sguardo depresso che aveva esibito durante il viaggio. La guardai, ma non ricambiò.

— Okay — dissi infine. — A domani.

— Come ci si sente? — domandò, bloccandomi con la portiera semiaperta.

— Come ci si sente cosa?

— A tenere per la prima volta il proprio figlio tra le braccia — fece.

Stavolta non impiegai molto a risponderle. — È stupendo. Assolutamente magnifico. Più di ogni altra cosa al mondo.

Deborah mi guardò. Non si capiva se le fosse venuta voglia di abbracciarmi oppure di picchiarmi, comunque si limitò a scuotere lentamente il capo. — Va’ a prendere i tuoi ragazzi — disse.

Attesi un istante, nel caso avesse detto qualcos’altro, ma non lo fece. Uscii dall’auto e restai a osservare mia sorella mentre si allontanava piano, cercando di capire che cosa le passasse per la testa. Sfortunatamente erano questioni troppo complicate per un umano nuovo di zecca come me, così alzai le spalle, saltai in macchina e andai a prendere Cody e Astor.

Загрузка...