Seguii il suggerimento di Rita e l’indomani mattina dormii fino a tardi. Mi svegliai con i rumori di una casa vuota: il gocciolio lontano della doccia, il ronzio del condizionatore e il ticchettio della lavastoviglie proveniente dalla cucina. Restai sdraiato qualche minuto a inebriarmi di quella relativa quiete e della sensazione di intontimento che mi pervadeva. Il giorno precedente non era stato niente male e, alla fin fine, ero lieto di essere sopravvissuto. Avevo il collo ancora un po’ rigido, ma il mal di testa se n’era andato e mi sentivo meglio del dovuto… Finché non ripensai a Samantha.
Restai sdraiato ancora per un po’, domandandomi se ci fosse un modo per convincerla a non parlare. Farla ragionare sarebbe stato praticamente impossibile. C’ero riuscito una volta, nella cella frigorifera del club Zanne, toccando punte di retorica mai raggiunte prima. Avrei potuto ripetermi e avrebbe funzionato una seconda volta? Ne dubitavo. Mentre rimuginavo sulle mie opportunità, mi saltò alla mente quella vecchia battuta sulla “lingua degli uomini e degli angeli”. Non ricordavo come andasse a finire, ma non bene, credo. Mi pentii di aver letto Shakespeare.
Sentii aprirsi la porta e Rita si precipitò fragorosamente in casa, dopo aver portato a scuola i bambini. Entrò in salotto e poi in cucina con tutto il trambusto di chi cerca di non far rumore. La udii parlare sotto voce rivolta a Lily Anne, mentre la cambiava, e un istante dopo era di nuovo in cucina, e la macchinetta avvisava tossicchiando che il caffè era quasi pronto.
Presto il profumo raggiunse la camera da letto e cominciai a sentirmi un po’ meglio. Ero a casa, con Lily Anne, e tutto andava bene, almeno momentaneamente. Non era una sensazione razionale, ma avevo imparato che i sentimenti non lo sono mai, e ti conviene godere di quelli positivi finché puoi. Purtroppo, non erano molti e duravano poco.
Mi sedetti sulla sponda del letto, ruotando leggermente il collo per scacciare le ultime fitte di dolore. Non servì, ma non sentii troppo male. Mi alzai, e questo fu un po’ più arduo del dovuto. Avevo le gambe intorpidite e doloranti e mi diressi barcollando verso il bagno. Dopo dieci lunghi e voluttuosi minuti di doccia bollente, un nuovo e quasi normale Dexter comparve in cucina, dove un misto di suoni e profumi paradisiaci mi dissero che Rita si era messa duramente al lavoro.
— Oh, Dexter — disse, abbassando la spatola e schioccandomi un bacio sulla guancia. — Ho sentito che eri nella doccia, così ho pensato: che ne dici di qualche frittella ai mirtilli? Ho dovuto usare quelli congelati, che non sono proprio come… Ma tu come ti senti? Perché non sono… se vuoi invece posso farti le uova e surgelare le frittelle per… Oh, tesoro, siediti; devi essere a pezzi.
Con l’aiuto di Rita mi sedetti e dissi: — Le frittelle saranno splendide — e così fu. Ne mangiai persino troppe, ripetendomi che la mia scelta era stata vantaggiosa, e cercando di scacciare la vocina perversa che mi sussurrava: Se non ti sbarazzi di Samantha, questa potrebbe essere l’ultima volta.
Dopo colazione mi sedetti e bevvi qualche tazza di caffè, nella vana speranza che mantenesse le promesse e mi riempisse di energie. Era squisito, ma non bastò a liberarmi dalla stanchezza, così mi misi a ciondolare per casa. Mi sedetti per un po’ e presi in braccio Lily Anne, che mi vomitò addosso, anche se, stranamente, la cosa non mi infastidì. Poi si addormentò tra le mie braccia e restai con lei per qualche tempo, a godere della sua presenza.
Infine il mio senso del dovere cominciò a tormentarmi. Rimisi dunque Lily Anne nel suo cestino, baciai Rita e uscii.
Non c’era molto traffico e mi diressi a mente leggera verso la Dixie Highway. Poi, quando imboccai la Palmetto Expressway, un senso di disagio mi colse, come se le cose non stessero andando come dovevano. Riportai dunque in carreggiata il potente cervello di Dexter, e riflettei. La soluzione arrivò molto rapidamente, non per merito della mia logica, ma del mio olfatto che intercettò uno strano odore proveniente dal sedile posteriore. Si trattava di un puzzo terribile, di qualcosa di vecchio, innominabile e in avanzato stato di putrefazione che fermentava e si decomponeva alla velocità della luce. Non sapevo di che cosa si trattasse, sapevo solo che era orribile e inarrestabile.
Alle mie spalle non vedevo nulla, neanche inclinando lo specchietto. Mentre mi dirigevo a nord, verso il lavoro, cercai di riflettere, finché uno scuolabus non mi tagliò la strada, costringendomi a concentrarmi sulla guida. Anche quando c’è poco traffico non bisogna distrarsi, non a Miami, così abbassai il finestrino e mi impegnai ad arrivare vivo al dipartimento.
Non appena entrai nel parcheggio e rallentai per infilare la macchina al mio posto, il puzzo si ripresentò. Ragionai. L’ultima volta che avevo guidato la mia auto era stato prima del salvataggio di Samantha al club, e prima di…
Chapin.
Avevo preso la macchina per giocare con Victor Chapin e, quando tutto era finito, avevo fatto sparire i suoi resti dentro alcuni sacchi dell’immondizia. Possibile che alcuni pezzetti fossero caduti fuori e si trovassero ancora qui, a marcire lentamente nel calore di una macchina chiusa tutto il giorno e a emanare quest’odore disgustoso? Impensabile, per una persona precisa come me. Ma che cos’altro poteva essere? L’odore non solo era spaventoso, ma peggiorava sempre più, e il mio panico ne amplificava le esalazioni. Inchiodai, guardai alle mie spalle e vidi…
Un sacco dell’immondizia. Non so come, ma dovevo averne dimenticato uno… Eppure era impossibile, non ero mai stato così stupido e distratto…
A meno che quella sera non mi fossi fatto sopraffare dalla fretta di sbrigarmi e andare a dormire. Così per colpa della mia pigrizia, della mia stupida ignavia e del mio egoismo, adesso mi trovavo qui, alla centrale di polizia, con un sacco pieno di resti umani dentro la macchina. Parcheggiai e uscii. Mentre aprivo la portiera posteriore ero talmente nel panico che il sudore mi gelava la schiena e mi colava lungo il viso. Mi chinai a guardare.
Sì, era proprio un sacco dell’immondizia. Ma come aveva fatto ad arrivare lì, mentre gli altri erano stati attentamente chiusi nel portabagagli, e poi…?
E poi un’auto parcheggiò nel posto accanto al mio. Un’altra fitta di panico e tentai di calmarmi, traendo un profondo sospiro. Non c’era nessun problema, non per me almeno. Chiunque fosse stato, gli avrei rivolto un cordiale saluto, lui sarebbe scomparso nel palazzo e io mi sarei allontanato in macchina, liberandomi dei resti di Chapin. Non era il caso di drammatizzare, ero sempre il buon vecchio Dexter, l’analista della Scientifica, e nessuno al dipartimento avrebbe avuto motivo di pensarla diversamente.
A parte l’uomo che uscì dall’auto e prese a scrutarmi, torvo. O, a essere precisi, i due terzi di uomo. Le mani e i piedi se n’erano andati, e lo stesso aveva fatto la lingua; infatti girava con un piccolo notebook portatile che l’aiutava a parlare. Mentre lo fissavo senza fiato, lui l’aprì e, senza staccarmi gli occhi di dosso, si mise a schiacciare i tasti per formulare una frase elettronica.
“Che-cosa-c’è-dentro-il-sacco?” chiese il sergente Doakes per mezzo del computer.
— Sacco? — feci. Delle mie uscite ammetto che non fu tra le migliori.
Doakes mi guardava irritato, non so se fosse soltanto perché mi odiava e aveva intuito la mia natura o perché mi vedeva accovacciato a terra a palpare un sacco pieno di resti. In ogni caso, un terrificante bagliore gli attraversò lo sguardo e prima che potessi fare qualcosa, oltre a fissarlo a bocca aperta, Doakes balzò in avanti, calò rapidamente l’uncino metallico e tirò fuori il sacco dalla macchina.
Lo scrutai terrorizzato e sempre più consapevole della mia fine imminente, mentre poggiava il notebook sul tettuccio, apriva il sacco e vi frugava all’interno, digrignando i denti trionfante, per estrarre un putrido, schifoso e puzzolente pannolino.
Osservai il volto di Doakes assumere tutta la gamma di espressioni dalla vittoria fino al totale disgusto, e allora ricordai. Quando ero uscito di casa per dedicarmi al mio improvvisato passatempo con Chapin, Rita mi aveva messo in mano il sacco con i pannolini sporchi. Nella fretta, mi ero riservato di gettarlo più tardi. Poi si erano susseguiti la morte di Deke, il mio rapimento, la terribile esperienza con Samantha, e tutto ciò aveva contribuito a farmi passare di mente quell’insignificante sacco colmo di pannolini. Però, man mano che il ricordo si faceva più chiaro, una crescente felicità mi invadeva, resa ancora più grande dalla consapevolezza che Lily Anne, quella splendida e magica bimba, la regina dei pannolini, la paladina della popò, la mia dolce Lily Anne con i suoi pannolini sporchi mi aveva salvato. E, come se non bastasse, aveva persino umiliato Doakes.
La vita era bella, e la paternità si dimostrava ancora una volta una splendida avventura.
Mi alzai e guardai Doakes, con un sorriso allegro. — Lo so, è roba tossica — dissi. — E forse viola anche un bel po’ di ordinanze comunali. — Tesi la mano per riprendere il sacco. — Ma la prego, sergente, non mi arresti. Prometto che la getterò via nel luogo idoneo.
Doakes staccò gli occhi dall’immondizia e me li puntò addosso. Mi fissò con un’espressione di disgusto mista a rabbia così intensa che per un attimo parve sopraffare il lezzo dei pannolini. Poi disse: — Brrrt strrnzz — e aprì l’uncino che reggeva il sacco, il quale cadde a terra. Un istante dopo anche il pannolino che stringeva nell’altro uncino fece la stessa fine.
— “Brrrt strrnzz”? — ripetei candidamente. — Che lingua è, tedesco?
Ma Doakes si limitò ad afferrare il notebook argentato dal tettuccio, voltare le spalle a me e ai pannolini sporchi e allontanarsi con passo pesante sui suoi due piedi artificiali.
Mentre se ne andava, provai un senso di sollievo totale e quando scomparve alla mia vista trassi un profondo respiro. Il che si rivelò un errore imperdonabile, visto ciò che giaceva ai miei piedi. Tossicchiando e sbattendo le palpebre per scacciare le lacrime, mi chinai, rimisi il pannolino nel sacco, lo richiusi e lo gettai nel cassonetto.
Quando finalmente arrivai in ufficio era l’una e mezzo. Mi dedicai ad alcuni esiti di laboratorio, eseguii un test di routine allo spettrometro, ingoiai un orrendo caffè, finché non si fecero le quattro e mezzo. Mi stavo appena rallegrando per aver passato indenne il primo giorno dopo la mia cattura, quando entrò Deborah con una faccia spaventosa. Subito non afferrai, ma capii che qualcosa era andato terribilmente storto e che la stava prendendo sul personale. Visto che la conoscevo da una vita e sapevo come funzionava la sua testa, intuii che per Dexter erano in arrivo nuove complicazioni.
— Buon pomeriggio — la salutai allegro, pensando che il mio sorriso avrebbe neutralizzato il problema, qualunque fosse. Ovviamente, ciò non accadde.
— Samantha Aldovar — disse mia sorella, puntandomi lo sguardo addosso.
Tutte le ansie della sera precedente mi si rovesciarono addosso: lo sapevo, Samantha aveva parlato con Deborah e lei era venuta per arrestarmi. La mia irritazione nei confronti della ragazza crebbe in modo spropositato, non mi aveva nemmeno lasciato il tempo di elaborare una scusa decente. Neanche avesse avuto la lingua attaccata a una molla, che si era messa in funzione dal primo istante del suo salvataggio. Doveva aver cominciato a calunniarmi ancor prima che si chiudesse la porta di casa sua, e ora per me non c’era più niente da fare. Ero distrutto, finito, fottuto, stavolta nel senso letterale del termine. Ero colmo di ansia, apprensione, amarezza. Dov’era finita la buona, vecchia discrezione?
Comunque ormai era fatta e a Dexter non restava altro che stare a guardare. Trassi dunque un profondo sospiro, fissai Debs dritto negli occhi e dichiarai: — Non è stata colpa mia — mentre il mio ingegno si aguzzava per trovare argomenti per la Prima Fase della Difesa di Dexter.
Deborah sbatté le palpebre e un lampo di perplessità le attraversò il viso imbronciato. — Che cazzo dici, che non è colpa tua? — fece. — Chi ti ha detto niente… perché dovresti essere stato tu?
Ancora una volta, ebbi la sensazione che tutti gli altri stessero recitando battute imparate a memoria, mentre a me sarebbe toccato improvvisare. — Volevo solo dire… niente — mi interruppi, sperando di ricevere qualche indizio su quel che avrei dovuto rispondere.
— Cristo santo — fece. — Perché dovresti esserci sempre di mezzo tu?
Avrei potuto spiegarle: “Perché in qualche modo finisco sempre per essere coinvolto, di solito contro la mia volontà, e di solito per causa tua”, ma la razionalità prevalse. — Mi dispiace, Debs — dissi. — Che è successo?
Mi fissò per qualche istante, poi scosse il capo e si lasciò cadere sulla sedia di fianco alla mia scrivania. — Samantha Aldovar — ripetè. — È di nuovo scomparsa.
A volte penso che avere alle spalle anni di allenamento nel mostrare solo reazioni controllate sia un’ottima cosa. In questo caso infatti il mio primo impulso fu di mettermi a gridare: “Wow! Grandioso!” e intonare un’allegra canzoncina. Invece mi mostrai preoccupato e sconvolto, esibendomi in una delle migliori prove attoriali dei nostri tempi. — Stai scherzando — dissi, mentre dentro di me speravo vivamente di no.
— Oggi non è andata a scuola, per riposarsi — spiegò Deborah. — Visto tutto quello che ha passato. — Mia sorella non si era minimamente preoccupata che io avessi passato ben di peggio, ma nessuno è perfetto. — Così intorno alle due la madre è andata al supermercato — continuò. — E al suo ritorno, poco dopo, Samantha se n’era andata. — Deborah scosse il capo. — Ha lasciato un biglietto: “Non cercatemi; non ho intenzione di tornare”. È scappata, Dex. Ha preso ed è scappata.
Ero così felice che riuscii persino a controllare l’impulso di rinfacciarle: “Te l’avevo detto”. Dopo tutto, quando le avevo spiegato che la prima volta Samantha si era fatta catturare volontariamente dai cannibali, Debs si era rifiutata di credermi. Visto che invece avevo ragione, aveva perfettamente senso che la ragazza approfittasse della prima occasione per tagliare la corda. Non era un pensiero molto nobile, lo ammetto, ma mi augurai che trovasse un buon posto dove nascondersi.
Deborah sospirò e scosse di nuovo la testa. — Mai sentito di un attacco così forte di sindrome di Stoccolma da spingere la vittima ad andare in cerca dei suoi carcerieri.
— Debs — esordii, e stavolta non potei proprio farne a meno — te l’avevo detto. La sindrome di Stoccolma non c’entra. Samantha vuole essere mangiata. È una sua fantasia.
— Stronzate — disse con rabbia. — Nessuno vuole una cosa simile.
— Allora perché è scappata, secondo te? — domandai.
Lei scosse la testa e abbassò lo sguardo. — Non ne ho idea — disse. Fissava le mani abbandonate sulle ginocchia, neanche la risposta fosse scritta sulle nocche, poi alzò gli occhi. — Non importa — fece infine. — Quello che importa è dove è finita. — Mi guardò. — Dove può essere andata, Dex?
A essere sincero, dove Samantha fosse andata non mi interessava molto, l’importante era che ci rimanesse. Eppure, qualcosa lo dovevo dire. — E Bobby Acosta? — chiesi. — L’avete poi trovato?
— No — rispose irritata, e strinse le spalle. — Ma non può nascondersi per sempre — disse. — Abbiamo sollevato un bel polverone. Senza contare — e mise avanti le mani — che i suoi sono ricchi e potenti, e sono convinti che con il loro aiuto lui la spunterà.
— Pensi che ce la faranno?
Deborah si guardò le nocche. — Forse — disse. — Cazzo. Forse sì. Abbiamo testimoni che possono metterlo in relazione con l’auto di Tyler Spanos, ma un buon avvocato è capace di incastrare quei due haitiani in un paio di secondi. C’è poi il fatto che Acosta è scappato di fronte a me, ma non è molto. Il resto sono tutte congetture e dicerie, e… merda, immagino che tornerà in circolazione. — Annuì, e riprese a guardarsi le mani. — Sì, certo, Bobby Acosta tornerà in circolazione — ripetè sottovoce. — Di nuovo. E nessuno finirà dentro per tutto questo… — Si contemplò ancora le nocche, poi mi scrutò con un’espressione che non le avevo mai visto.
— Che ti prende? — feci.
Deborah si morse le labbra. — Forse — disse. Distolse lo sguardo. — Non so. — Tornò a fissarmi e trasse un profondo respiro.
— Forse tu… tu potresti fare qualcosa.
Sbattei ripetutamente le palpebre, a stento smisi di fissare il pavimento chiedendomi se esisteva ancora sotto i nostri piedi. Per come la vedeva Debs, io avrei potuto fare soltanto due cose, e in questo caso non si riferiva al farmi utilizzare le mie capacità oratorie per incastrare Bobby Acosta.
Deborah era l’unica persona sulla terra al corrente del mio hobby.
Avevo sempre pensato che se ne fosse fatta una ragione, seppur con riluttanza, ma ora mi proponeva addirittura di praticarlo su qualcuno, travalicando i limiti della sua approvazione. Ne rimasi scioccato. — Deborah — dissi, e dal mio tono si capiva che ero sconvolto.
Ma lei si protese il più avanti che poteva senza rovesciare la sedia e abbassò la voce. — Bobby Acosta è un assassino — disse brutalmente. — E tornerà in circolazione, di nuovo, solo perché è ricco e potente. Non è giusto, e tu lo sai… sono queste le cose di cui papà voleva che tu ti occupassi.
— Ascolta — dissi, ma non aveva ancora finito.
— Dannazione, Dexter — saltò su. — Ho fatto una fatica boia per cercare di capirti, e di capire quel che papà voleva fare di te, e finalmente ci sono arrivata… ci sono, okay? Ho capito esattamente quello che papà aveva in mente. Perché sono un poliziotto come lui e ogni poliziotto, prima o poi, si trova davanti uno come Bobby Acosta, qualcuno che può uccidere e continua a circolare, anche se tu agisci secondo le regole. E tu non riesci a chiudere occhio e a farti passare la rabbia, e ti viene da urlare e strozzare qualcuno, ma mangiare merda e buttarla giù fa parte del tuo lavoro e non ci puoi fare nulla. — Finalmente si alzò, sbatté il pugno sulla mia scrivania e piazzò il viso a una quindicina di centimetri dal mio. — Finché… — continuò — finché papà non ha escogitato un modo per risolvere questo fottuto casino. — Mi premette il pugno contro il petto. — Grazie a te — aggiunse. — E ora, Dexter, ho bisogno che tu segua gli insegnamenti di papà. Ho bisogno che tu ti occupi di Bobby Acosta.
Debs mi fissò severa per qualche secondo, mentre mi arrampicavo sui vetri per trovare una risposta. Nonostante fossi noto per avere la battuta pronta e la lingua sciolta, non riuscii a spiccicare neanche una parola. Voglio dire, dopo tutto quel che avevo fatto per cambiare e vivere una vita normale, in nome della quale ero stato drogato, costretto alla promiscuità, picchiato e deriso dai cannibali, ecco che mia sorella, agente di polizia e paladina della legge, oltre che strenua oppositrice dei miei deviati diletti, mi chiedeva di ammazzare qualcuno. Mi domandai se per caso non fossi sdraiato da qualche parte, legato e drogato, in preda a un’allucinazione. L’idea mi rilassò parecchio, ma lo stomaco mi borbottava e il petto mi doleva nel punto in cui Debs mi aveva assestato il pugno, così maturai la consapevolezza che forse era tutto vero e che ero obbligato a farci i conti.
— Deborah — dissi cauto — ti vedo un po’ agitata…
— Cazzo se sono agitata — replicò. — Mi spacco il culo per ritrovare Samantha, e lei scappa di nuovo… Ci scommetto che sarà da Bobby Acosta e che il bastardo la farà franca un’altra volta.
Per amor di precisione, Debs avrebbe dovuto dire che era stata lei a spaccarmi il culo perché ritrovassi Samantha, ma non era il momento di correggerla, e in ogni caso sospettai che su Bobby Acosta avesse ragione. Era colpa sua se la ragazza era stata coinvolta in quella faccenda ed era una delle ultime persone rimaste in grado di appagare il suo sogno. Quantomeno la questione mi offrì un diversivo per cavarmi da quell’imbarazzante momento, sempre se fossi riuscito a incentrare la conversazione su dove si trovasse Acosta, e non su quello che avrei dovuto fargli.
— Credo tu abbia ragione — dissi. — È stato Acosta a iniziare Samantha a tutto questo. E ora lei vorrà andare da lui.
Deborah continuava a restare in piedi, e a fissarmi con le guance paonazze e gli occhi di fuoco. — D’accordo — fece. — Scoverò quel piccolo bastardo. E poi…
A volte si può solo sperare in una tregua e in un cambio d’argomento, ed era quello che stava accadendo. Dovevo augurarmi che, nel cercare Acosta, Deborah si calmasse un pochettino e decidesse che gettare il suo criminale in pasto a Dexter non fosse la scelta più saggia. Magari avrebbe potuto sparargli di persona. In ogni caso, ero fuori dai guai, almeno per un po’.
— Okay — dissi. — Come hai intenzione di trovarlo?
Deborah si drizzò, gesticolando nel vuoto. — Parlerò con il suo vecchio — fece. — Deve capire che la cosa migliore che può fare suo figlio è presentarsi qui con un avvocato.
Il che poteva essere vero. Ma Joe Acosta era un uomo ricco e potente e mia sorella una tipa dura e cocciuta: un incontro tra due persone simili avrebbe avuto senso solo se una delle due fosse stata dotata di almeno un briciolo di tatto. Deborah non ne aveva mai avuto; forse non sapeva neanche che cosa fosse. Invece, a giudicare dalla sua reputazione, Joe Acosta doveva essere uno di quelli disposti a comprarne al momento del bisogno. E poi c’ero io.
Mi alzai. — Vengo con te — dissi.
Debs mi scrutò per un istante; pensai quasi che mi dicesse di no, per pura crudeltà, invece annuì. — Okay — fece, e uscì.