27

Dentro la cella frigorifera faceva freddo. Potrebbe sembrare una cosa ovvia, ma l’ovvietà non aiuta a scaldarsi e, dopo lo shock del voltafaccia di Samantha, non avevo smesso di tremare. Faceva freddo, la stanzetta era colma di barattoli di sangue e non c’era via d’uscita, neanche con l’aiuto del mio cacciavite. Avevo tentato di fracassare la finestrella sulla porta, il che dimostra quanto fossi in preda al panico. Il vetro era spesso due centimetri e mezzo e rinforzato con filo metallico; in ogni caso, se anche fossi riuscito a spaccarlo, ci sarebbe passata a malapena una gamba.

Naturalmente, avevo provato a chiamare Deborah al cellulare e, ancor più naturalmente, all’interno di una cella isolata e dalle spesse pareti metalliche non c’era campo. Sapevo che erano spesse perché, dopo aver rinunciato a rompere la finestrella e aver piegato il cacciavite tentando di far leva sulla porta, mi ero messo a battere per qualche minuto contro le pareti, con l’effetto che se mi fossi messo a girare i pollici sarebbe stato uguale. Il cacciavite si era deformato, quelle sterminate file di barattoli sembravano stringersi addosso a me e io cominciai a far fatica a respirare, mentre Samantha se ne stava seduta, e sorrideva.

Mi chiesi come mai se ne stesse lì, tutta soddisfatta, con quel sorriso da Gioconda stampato in faccia. Doveva essere al corrente che presto o tardi, in un futuro non troppo distante, sarebbe diventata il piatto principale della serata. Eppure, quand’ero comparso io, sul cavallo bianco, pronto a salvarla, aveva tirato un calcio alla porta, intrappolandoci entrambi. Era colpa delle droghe di cui senza dubbio l’avevano imbottita? Oppure si era talmente illusa da credere che non le avrebbero mai fatto fare la fine della sua migliore amica, Tyler Spanos?

Man mano che l’impulso di battere contro le pareti cessava insieme al mio tremolio, cominciai a interrogarmi su di lei. Non sembrava badare ai miei febbrili e goffi tentativi di far saltare un’enorme cella d’acciaio con un fragile cacciavite di metallo, che in questo caso avrebbe fatto meglio a chiamarsi di latta. Samantha non smetteva di sorridere, gli occhi semichiusi, anche quando mi arresi e mi sedetti accanto a lei, lasciando che il gelo si impossessasse di me.

Quel sorriso iniziò a infastidirmi. Era la tipica espressione di uno che aveva appena commesso una strage in ufficio e poi si era imbottito di tranquillanti; sembrava così soddisfatta di se stessa, delle sue azioni e dell’idea che si era fatta del mondo che cominciai a desiderare che avessero mangiato lei per prima.

Perciò le sedetti vicino, tremando e alternando orribili pensieri al suo riguardo. Non solo finora si era comportata male, ma non mi aveva neanche offerto un po’ della sua coperta. Cercai di ignorarla. Impresa non facile quando la persona da dimenticare si trova seduta di fianco a te nello stesso gelido locale, ma ci provai.

Osservai i barattoli colmi di sangue. Mi suscitavano una leggera nausea, ma almeno non mi facevano pensare al voltafaccia di Samantha. Quel disgustoso liquido appiccicaticcio… Distolsi lo sguardo, e finalmente individuai un pezzo di parete da fissare, libera dal sangue e da Samantha.

Mi domandai che cosa stesse facendo Deborah. Era egoistico da parte mia, lo ammetto, ma sperai che stesse cominciando a preoccuparsi seriamente per me. Ormai era da troppo tempo che non tornavo. Me la vidi seduta in macchina che digrignava i denti, tamburellava con le dita sul volante e scrutava torva l’orologio, chiedendosi se fosse troppo presto per fare qualcosa e, in caso contrario, cosa. Mi venne da sorridere. Non tanto perché si stesse dando da fare per intervenire, ma per la sua stizza. Le stava bene. Sperai che digrignasse i denti così violentemente da dover ricorrere al dentista. C’era sempre il dottor Lonoff a sua disposizione.

Per la noia e il nervoso, estrassi il cellulare e provai a richiamarla. Era sempre fuori uso.

— Qui dentro non c’è campo — disse lentamente Samantha, allegra.

— Sì, lo so.

— Allora ti conviene smetterla.

Sono ancora un profano in materia di sentimenti, ma ero certo che lei mi ispirava un’irritazione ai confini col disgusto. — È così che hai fatto? — dissi. — Ti sei arresa?

Scosse lentamente il capo, con un sorrisetto grave. — Per niente — rispose. — Non io.

— Allora, dannazione, perché ti comporti in questo modo? Perché mi hai intrappolato qui dentro e mi guardi con quella faccia?

Si voltò verso di me ed ebbi la sensazione che mi stesse mettendo a fuoco per la prima volta. — Come ti chiami? — domandò.

Non c’era nessun motivo per non dirglielo, e nessuno per non prenderla a schiaffi, ma per ora quello poteva aspettare. — Mi chiamo Dexter — risposi. — Dexter Morgan.

— Cavoli. — Le uscì un’altra delle sue fastidiose risatine. — Che nome strano.

— Sì, davvero bizzarro — replicai.

— Comunque, Dexter — continuò — non c’è niente nella tua vita che desideri da morire?

— Vorrei uscire di qui.

Scosse il capo. — Intendevo qualcosa di… cioè, qualcosa del tutto, aah… del tutto proibito. Qualcosa di totalmente sbagliato. Ma tu lo desideri a tutti i costi, così tanto che… cioè, non lo puoi dire a nessuno, ma ci pensi di continuo…

Mi venne in mente il Passeggero Oscuro. Lo sentii agitarsi leggermente dentro di me, come per ricordarmi che se gli avessi dato retta nulla di tutto questo sarebbe successo. — No, per me non c’è niente di simile — risposi.

Mi scrutò per un lungo istante, schiudendo le labbra, ma senza smettere di sorridere. — Okay — fece, come se sapesse che stavo mentendo ma non le importasse. — Per me sì, invece. Per me esiste.

— È molto bello avere un sogno — replicai. — Ma non pensi che potrebbe avverarsi più facilmente se usciamo di qui?

Samantha scosse il capo. — Mmmh… no — disse. — Il punto è proprio questo. Che devo stare qui. Altrimenti, cioè… non potrò… — Si morse le labbra, senza smettere di agitare la testa.

— Che cosa? — chiesi. La sua ritrosia mi stava facendo venire sempre più voglia di spaccarle i denti. — Che cosa non potrai?

— Non è facile dirlo, persino adesso — disse. — È una specie di… — Si incupì, il che non mi dispiacque affatto. — Non hai anche tu un segreto che… non puoi farci niente, ma insomma… cioè, di cui ti vergogni?

— Certo — risposi. — Ho visto tutte le puntate di X-Factor.

— Quelle le hanno viste tutti — disse sdegnosa, poi mi rivolse una smorfia acida. — Ma proprio tutti. Io intendevo qualcosa che… sai, la gente fa di tutto per inserirsi, per essere considerata come gli altri. E se hai qualcosa dentro che ti fa sentire… Lo sai che è del tutto sbagliato, e bizzarro; non sarai mai come gli altri… ma desideri tanto diventarlo. E ci stai male, e forse per te sentirti inserito conta ancora di più. Che alla nostra età ha una grande importanza.

La guardai, leggermente sorpreso. Mi ero dimenticato di aver a che fare con una diciottenne che, a quanto avevo sentito dire, doveva essere una tipa sveglia. Forse l’effetto delle droghe che le avevano somministrato stava svanendo, e nel frattempo era contenta di avere qualcuno con cui parlare. In ogni caso, finalmente mostrava un minimo di spessore, alleggerendomi il peso di quell’orribile prigionia.

— Non solo alla tua età — feci. — È importante sempre.

— Ma alla mia ci stai più male — replicò. — Quando sai che stanno organizzando una festa, e nessuno ti invita. — Distolse lo sguardo, non verso il sangue, ma verso la nuda parete d’acciaio.

— Certo. Ti capisco molto bene — dissi. Mi fissò con aria incoraggiante. — Alla tua età, anch’io ero diverso. Ho dovuto impegnarmi molto per far finta di essere come gli altri.

— Lo dici tanto per dire.

— No — replicai. — È vero. Mi toccava imitare i bambini più tosti, ho dovuto imparare a fingermi un duro, persino imparare a ridere.

— Come — fece lei con un altro dei suoi sorrisetti — non sei capace di ridere?

— Adesso sì.

— Vediamo.

Mi esibii in una delle mie facce perfettamente allegre e in una delle mie risatine da bravo ragazzo.

— Ehi, ma ti è venuto benissimo — disse.

— Anni di pratica — replicai con modestia. — All’inizio invece mi veniva malissimo.

— Ah-hah, bene. Io invece sto continuando a farne, di pratica. Ed è molto più difficile che imparare a sorridere.

— Perché voi adolescenti siete egocentrici — le dissi. — Pensate che le cose che vi capitano siano le più dure. Ma il fatto è che diventare essere umani è duro per tutti e lo è sempre stato. Specie per chi non lo è.

— Io penso di esserlo — mormorò Samantha. — Solo di una specie diversa dagli altri.

— D’accordo. — Ammetto che la cosa stava cominciando a intrigarmi. Mi domandai che tipo di persona fosse veramente. — Comunque non c’è niente di negativo. E, se hai un po’ di pazienza, vedrai che si trasformerà in qualcosa di positivo.

— Okay — disse.

— Ma se non esci di qui, non puoi fare nulla… Restare in questo posto è una soluzione permanente a un problema temporaneo.

— Bella questa.

Aveva ripreso a fare l’impertinente, e la mia nuova sensibilità umana ne risentiva. Aveva cominciato a mostrarsi interessante e io mi ero aperto, avevo iniziato ad apprezzarla e a provare reale empatia nei suoi confronti. E ora eccola nascondersi di nuovo dietro a quella maschera da adolescente distaccata e strafottente. La cosa mi irritò non poco e provai il forte desiderio di prenderla a schiaffi. — Dannazione — saltai su. — Possibile che tu non capisca perché ti trovi qui? Questa gente ti vuole fare arrosto e poi mangiare!

Samantha distolse un’altra volta lo sguardo. — Sì, lo so — disse. — Perché è questo che voglio. — Tornò a fissarmi, con occhi grandi e umidi. — È il mio grande segreto.

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