15

Lo scontro non fu niente male, e si sarebbe concluso molto più tardi se non fosse intervenuto un tipo dell’FDLE chiamato Chambers che conoscevo di fama. Si piazzò letteralmente tra Deborah e l’altro detective, un omone di nome Burris; mise una mano sul petto di Burris e, educatamente, una nel vuoto davanti a Deborah, e disse: — Dateci un taglio.

Burris si zittì all’istante. Debs prese fiato per dire qualcosa, e Chambers la fissò. Lei si trattenne, limitandosi a espirare in silenzio.

Il tipo dell’FDLE mi aveva colpito e mi avvicinai per osservarlo meglio. Aveva il cranio rasato e non era molto alto, ma quando si voltò potei vedere meglio il suo viso e, anche senza bisogno dei suggerimenti del Passeggero, compresi perché aveva lasciato Deborah senza parole. L’uomo aveva lo sguardo da pistolero, come gli sceriffi nelle vecchie immagini del West. Con quegli occhi non si discuteva. Era come guardare in fondo a due canne di pistola color ghiaccio.

— Siamo qui per risolvere la faccenda — fece Chambers. — Non per litigare. — Burris annuì, e Deborah non disse nulla. — Allora lasciate che la Scientifica finisca e identifichi la vittima. Se viene fuori che la ragazza è la sua, Morgan — continuò, rivolto a mia sorella — allora il caso è suo. Altrimenti — e si girò verso Burris — puoi festeggiare. È tutto per te. Ma fino a quel momento — lanciò un’occhiata a Debs che, e questo va a suo merito, la ricambiò senza scomporsi — lei se ne sta buona e lascia lavorare Burris. D’accordo?

— Ho il diritto d’accesso — fece Deborah, torva.

— D’accesso — replicò Chambers. — Ma non di controllo.

Lei guardò Burris, poi alzò le spalle e si voltò. — Okay — disse.

Fu così che la Battaglia delle Everglades si concluse, e tutti furono felici e contenti; eccetto, ovviamente, il Derelitto Dexter, perché Debs interpretò erroneamente il termine “accesso” con il seguirmi senza posa tempestandomi di domande. Avevo quasi finito comunque, ma avere un’ombra non facilitava le cose, specie se si trattava di una come Deborah, pronta ad attaccarmi con uno dei suoi atroci pugni ogni volta che non soddisfacevo i suoi dubbi. Le riferii quello che sapevo e che avevo intuito, mentre spruzzavo il mio Bluestar nei vari punti, in cerca delle ultime tracce di sangue. Lo spray era in grado di rilevare anche minime gocce, e senza alterare il DNA del campione.

— Che cos’è? — chiedeva Deborah. — Che cos’hai trovato?

— Niente — dissi. — Ma stai calpestando un’impronta. — Si spostò di lato, colpevole, mentre estraevo la macchina fotografica dalla borsa. Mi tirai su, arretrai di qualche passo e le andai a sbattere contro. — Debs, per piacere — feci. — Non riesco proprio a lavorare se mi stai così appiccicata.

— Okay — disse, e si spostò sul lato opposto del falò.

Avevo appena scattato un’ultima foto alla macchia di sangue più grossa, quando sentii Deborah chiamare. — Dex. Ehi, vieni qui con lo spray.

Alzai lo sguardo nella sua direzione. Vince Masuoka era inginocchiato a prendere un campione di non so che cosa. Afferrai il Bluestar e li raggiunsi.

— Spruzzalo qui — disse Deborah.

Vince scosse la testa. — Non è sangue — fece. — È del colore sbagliato.

Osservai il punto indicato. C’era un’area appiattita, come se un oggetto pesante fosse stato posato sulla vegetazione. Le foglie erano appassite dal calore e presentavano macchioline marroni, le stesse che si scorgevano ai bordi della depressione. Qualcosa doveva essersi rovesciato da una specie di recipiente che era stato poggiato lì.

— Spruzzalo qui — insistette Deborah.

Guardai Vince, che alzò le spalle. — Ne ho già preso un campione pulito — dichiarò. — Non è sangue.

— Okay — dissi, e spruzzai nell’angolino di un cespuglio.

Quasi subito comparve un debole riflesso azzurrino. — Non è sangue, eh? — fece Deborah, sdegnosa. — E allora che cazzo è?

— Merda — borbottò Vince.

— Non ce n’è molto — osservai. — Il riflesso è troppo debole.

— Ma un po’ ce n’è? — chiese Debs.

— Be’, sì.

— Allora dev’essere dell’altra merda con dentro del sangue.

Guardai Vince. — Be’ — fece lui. — Può essere.

Mia sorella annuì e si guardò intorno. — Dunque abbiamo un festino — disse, e indicò il falò. — Laggiù abbiamo la vittima. E quaggiù, dall’altra parte del fuoco, abbiamo questo. — Scrutò Vince, torva. — Con dentro del sangue. — Si voltò verso di me.

— Che cosa potrà essere?

Me lo dovevo aspettare che quel problema sarebbe diventato presto anche mio, ma mia sorella riuscì lo stesso a sorprendermi.

— Forza, Debs — dissi.

— No, forza te lo dico io — fece. — Mi serve una delle tue soluzioni speciali.

— Se te ne torni in centrale, una soluzione speciale la trovi sicuro — fece Vince. — Si chiama Ivan.

— Zitto, senza palle — gli intimò Deborah. — Forza, Dexter.

In apparenza non mi veniva in mente nulla, allora chiusi gli occhi, respirai a fondo e mi misi in ascolto…

E quasi subito il Passeggero mi diede una risposta alquanto divertente. — È una coppa da punch — dichiarai, spalancando gli occhi di scatto.

— Che cosa? — chiese Deborah.

— Una coppa per servire il punch — ripetei. — Per il festino.

— Piena di sangue umano? — continuò lei.

— Il punch? — fece Vince. — Cristo santo, Dex, sei proprio malato.

— Ehi, calma — replicai innocentemente — non sono stato mica io a berlo.

— Tu ti sei bevuto il cervello — intervenne Deborah, gentilmente.

— Debs, ascolta — dissi. — Si trova lontano dal fuoco e c’è questo avvallamento nel terreno. — Mi inginocchiai accanto a Vince e indicai la depressione. — Un oggetto pesante, da cui usciva fuori della sostanza, tante impronte intorno… non siete obbligati a chiamarlo punch, se vi dà fastidio. Ma si tratta comunque di una bevanda.

Deborah scrutò il punto che avevo indicato, tornò a fissare il falò e poi di nuovo la terra vicino ai suoi piedi. Scosse lentamente la testa, mi si accovacciò accanto e disse: — Una coppa per il punch. Cazzo.

— Sei proprio malato — ripeté Vince.

— Già — fece Deborah. — Ma penso che abbia ragione. — Si alzò. — Scommetto una dozzina di ciambelle che ci troverete dentro anche della droga — dichiarò con evidente soddisfazione.

— Ci guarderò — disse Vince. — Dispongo di un ottimo test per l’ecstasy. — Le lanciò una delle sue tremende occhiatine ammiccanti e aggiunse: — Ti piacerebbe sperimentarlo con me?

— No, grazie — rispose mia sorella. — Hai la matita troppo corta. — Si allontanò prima che Vince se ne uscisse con una delle sue pessime risposte, e io la seguii. Mi bastarono tre passi per accorgermi che in lei c’era qualcosa di decisamente strano, così mi bloccai di colpo e lei si voltò.

La fissai sorpreso. — Debs — dissi. — Ma tu stai sorridendo.

— Già. Perché abbiamo appena dimostrato che questo caso è mio.

— In che senso?

Mi lanciò un pugno dolorosissimo. Per lei poteva essere una manifestazione di gioia, ma a me fece male lo stesso. — Non essere stupido — disse. — Chi è che beve sangue?

— Ahia! — esclamai. — Bela Lugosi?

— Lui e tutti gli altri vampiri. Te lo devo sillabare?

— E quindi… oh.

— Esatto, proprio così: oh — disse. — Prima avevamo per le mani un aspirante vampiro, Bobby Acosta. E ora un intero, fottutissimo party, sempre di vampiri. Pensi che sia una coincidenza?

Pensavo di sì, ma il braccio mi faceva troppo male per dirlo. — Vedremo — risposi.

Quando facemmo ritorno alla civiltà era obiettivamente ora di pranzo, ma Debs non parve cogliere nessuno dei velati riferimenti che le lanciai e guidò dritto alla centrale senza fermarsi, nonostante la Route 41 sboccasse in Calle Ocho, dove erano situati eccellenti ristoranti cubani. Il solo pensiero mi fece brontolare lo stomaco, dinanzi alla visione dei plàtanos che sfrigolavano in padella. Ma, dal momento in cui Deborah si era sentita chiamata in causa, gli ingranaggi della giustizia si erano già messi in moto, stridendo, per produrre un verdetto di colpevolezza e dare vita a un mondo più sicuro, il che apparentemente voleva dire che, per il bene della società, Dexter poteva rinunciare benissimo al pranzo.

E così fu che un affamatissimo Dexter si trascinò stancamente al laboratorio analisi, incalzato a ogni passo dalle pressanti richieste della sorella perché identificasse in fretta la vittima delle Everglades. Tolsi i campioni dalla borsa e mi gettai sulla sedia, in preda a uno scottante interrogativo. Mi conveniva tornare in macchina in Calle Ocho? Oppure dirigermi semplicemente al Café Relampago che era più vicino e faceva ottimi panini?

Come le più importanti questioni della vita, anche questa non aveva una risposta facile, e riflettei a lungo sulle implicazioni che comportava. Era preferibile mangiare veloce, oppure bene? Se avessi scelto il piacere immediato, forse ciò mi avrebbe reso più debole? E perché proprio oggi mi andava di mangiare cubano? Perché, per esempio, non mi era venuta in mente la carne alla griglia?

Nell’istante in cui ebbi quel pensiero, cominciai a perdere l’appetito. La ragazza delle Everglades l’avevano fatta alla griglia, e per motivi che mi impensierivano parecchio. Non riuscivo a togliermi quelle immagini dalla mente: la poverina immobilizzata, che sanguinava lentamente, mentre le fiamme si facevano sempre più alte, la folla si eccitava e il cuoco la guarniva di salsa barbecue. Mi parve quasi di sentire l’odore della carne che cuoceva, il che mi tolse completamente dalla testa tutte le mie velleità di pranzare e di gustare un bel piatto di ropa vieja.

D’ora in poi la mia vita sarebbe andata avanti in questo modo? Come avrei potuto fare il mio lavoro, se provavo empatia umana per tutte le vittime con cui avevo a che fare ogni giorno? Peggio ancora, come avrei potuto reggere un lavoro che si frapponeva tra me e il mangiare?

Era davvero una brutta faccenda e lasciai che l’autocommiserazione si impossessasse di me per qualche minuto. Dexter il Disorientato, che immagine assurda. Io, che avevo spedito all’altro mondo dozzine di meritevoli criminali, ero lì a piangere la scomparsa di una ragazzina qualunque, e solo perché chi l’aveva fatta fuori non ne aveva sprecato la carne.

Era tutto così surreale; e in ogni caso, la mia potente macchina aveva bisogno di carburante. Sgombrai dunque la mente da quei tristi pensieri e attraversai il corridoio diretto ai distributori automatici.

Osservare attraverso il vetro la magra scelta di snack non servì a migliorare il mio umore. All’ospedale una barretta di Snickers mi era parsa manna dal cielo. Ora mi sembrava un castigo. Eppure nessun altro snack mi tentava con allettanti promesse. Nonostante gli involucri squillanti e gli slogan gioiosi, vedevo soltanto una vetrina affollata di prodotti dai colori chimici e pieni di conservanti. Tutta quella roba aromatizzata artificialmente da genuini additivi sintetici mi suscitava lo stesso appetito del set del Piccolo Chimico.

Ma il dovere mi chiamava, e avevo bisogno di mangiare qualcosa che mi permettesse di funzionare al massimo grado. Così mi sintonizzai sulla scelta meno invasiva: un pacchetto di cracker con una sostanza nel mezzo che pretendeva di essere burro di arachidi. Inserii il denaro e premetti il pulsante. Lo snack cadde nel cassettino e, non appena mi chinai a recuperarlo, una figurina oscura fece capolino nei sotterranei del Maniero Dexter. Mi bloccai per qualche istante e mi misi in ascolto. Non udii nulla, a parte il setoso fruscio di una bandierina d’allarme, segno che le cose non andavano come avrebbero dovuto. Mi tirai su lentamente e con cautela. Mi voltai.

Alle mie spalle non c’era nulla: nessun maniaco che brandiva un coltello, nessun autocarro che mi finiva addosso, nemmeno un colosso in turbante armato di scimitarra… nulla. Eppure, la vocina continuava ad avvisarmi di stare in guardia.

Il Passeggero mi stava prendendo in giro, ovvio. Forse si era offeso perché non l’avevo più nutrito né addestrato. “Taci” gli dissi. “Vattene, lasciami in pace.” Ma lui non la smetteva con i suoi sorrisetti, così lo ignorai e feci per attraversare il corridoio.

Finendo praticamente addosso al sergente Doakes… o, almeno, a ciò che ne rimaneva.

Doakes mi aveva sempre odiato, persino prima del momento in cui non ero riuscito a salvarlo dalle grinfie di un dottore pazzo che gli aveva tagliato mani, piedi e lingua. Insomma, io ci avevo provato, seriamente, ma la faccenda non era andata a buon fine e, come diretta conseguenza, Doakes aveva perso qualche piccola e sopravvalutata parte del corpo. In ogni caso, anche prima di questo episodio, mi odiava comunque perché, a differenza di tutti i poliziotti che conoscevo, lui era l’unico a sospettare della mia vera natura. Non disponeva di prove né di apparenti motivazioni, ma in qualche modo lo sapeva.

E ora se ne stava lì, immobile sulle sue protesi, a scrutarmi con il veleno di mille cobra. Per un istante sperai che il dottore pazzo gli avesse cavato anche gli occhi, ma poi mi resi subito conto che si trattava di un pensiero poco carino, inadatto al nuovo e umano me stesso, così lo scacciai e rivolsi a Doakes un sorriso cordiale.

— Sergente Doakes — dissi. — Lieto di vederla da queste parti, e sempre così in ottima forma.

Doakes non fece nulla, continuò semplicemente a fissarmi. Posai lo sguardo sugli uncini metallici che aveva al posto delle mani. Stavolta non aveva con sé quel congegno con le frasi preregistrate che lo aiutava a comunicare; forse voleva avere liberi entrambi gli artigli per potermi strangolare, o ancora più verosimilmente meditava di servirsi del distributore di snack. Visto che era privo di lingua, i suoi tentativi di parlare senza sintetizzatore erano decisamente imbarazzanti, costellati di “ngah” e suoni simili, e magari non voleva rischiare di fare una figura ridicola. Così si limitò a fissarmi, finché i miei tentativi di rendere l’incontro amichevole svanirono.

— Be’ — dissi — è stato bello parlare con lei. Buona giornata. — Mi diressi verso il laboratorio, girandomi una volta sola. Doakes continuava a scrutarmi con il suo sguardo velenoso.

Te l’avevo detto, gongolava il Passeggero, ma io mi limitai a fare un cenno al sergente ed entrai.

Quando Vince e gli altri furono di ritorno verso le tre, continuavo ad avere in bocca uno sgradevole retrogusto di cracker.

— Fantastico — fece Vince, gettando il borsone sul pavimento.

— Credo di essermi preso una scottatura.

— Che cos’hai mangiato a pranzo? — chiesi.

Sbatté le palpebre come se gli avessi fatto una domanda senza senso, e forse era vero. — Uno dei poliziotti si è fermato a un Burger King — rispose. — Perché?

— Non ti è passato l’appetito a pensare a quella ragazza laggiù, arrostita e mangiata?

Vince sembrava ancora più stupito. — No — fece, scuotendo lentamente il capo. — Ho preso un Double Whopper con formaggio e patatine fritte. Ti senti bene?

— Ho soltanto fame — risposi.

Vince mi lanciò un’occhiata perplessa e io, per non sentirmi osservato, mi alzai e tornai al lavoro.

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