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Era molto divertente osservare i tre bambini, i miei tre bambini!, fare amicizia tra loro. Ma, ovviamente, ogni bambino sa che quando il divertimento avviene sotto gli occhi di un adulto, prima o poi è destinato a finire. E Rita, che era l’unica vera adulta presente nella stanza, non si sconfessò. Dopo poco guardò l’orologio e disse: — Bene. — Unito alla temibile frase: — Domani si va a scuola.

Cody e Astor si scambiarono un’altra delle loro eloquenti occhiate, in cui non si proferiva parola, ma si diceva tutto. — Mami — fece Astor — stiamo giocando con la nostra nuova sorellina. — Lo disse come se stesse citando le nostre parole, perché Rita non potesse contraddirla.

Ma Rita, che era abituata, scosse la testa. — Ci giocherete domani, ancora di più — rispose. — Adesso Dex… papà vi deve portare a casa e mettere a nanna.

Mi guardarono come se fossi un traditore. Alzai le spalle. — Almeno avrete la pizza — dissi.

I ragazzi erano tanto restii ad andarsene dall’ospedale quasi quanto lo erano stati a entrarci, comunque riuscii infine a spingerli fuori e poi in macchina. Lungi dal ripetere i disastri del viaggio precedente e l’acquolina causata dalle esalazioni della pizza, permisi ad Astor di ordinare con il mio cellulare la cena, che ci venne recapitata neanche dieci minuti dopo il nostro arrivo a casa.

Cody e Astor si gettarono sulla pizza come se non mangiassero da un mese e io mi ritenni fortunato per essere riuscito ad afferrarne due fettine senza perdere un braccio.

Dopo guardammo un po’ di TV fino all’ora di andare a letto, quindi venne il momento dei consueti rituali: lavarsi i denti, infilarsi il pigiama e mettersi sotto le coperte. Officiare tale cerimonia mi fece persino un po’ effetto; vi avevo presenziato molto spesso, ma l’Alta Sacerdotessa della Buonanotte era Rita e, stupidamente, mi sentii pure un po’ ansioso di sbagliare qualcosa. Poi pensai a quel che lei aveva detto in ospedale, quando aveva incespicato sulle parole “papà” e “Dex”. Ora ero diventato davvero papà Dex, e tutto ciò sarebbe stato di normale amministrazione. Presto avrei officiato gli stessi rituali con Lily Anne, guidando lei e i fratelli attraverso le oscure insidie della notte per condurli al sicuro nel loro letto. Il pensiero mi fu stranamente di conforto e mi sostenne fino al momento in cui riuscii finalmente a infilare Cody e Astor sotto le coperte e ad avvicinare il dito all’interruttore della luce.

— Ehi — fece Astor. — Hai dimenticato le preghiere.

Sbattei gli occhi, imbarazzato. — Non ne so neanche una.

— Non c’è bisogno che le dici — spiegò. — Basta che le stai a sentire.

Suppongo che un qualsiasi individuo dotato di un briciolo di autocoscienza, davanti ai bambini, si sarebbe sentito un totale ipocrita. Quello era il mio turno. Sedetti comunque con aria solenne e ascoltai la cantilena senza senso che recitavano tutte le sere. Ero ragionevolmente certo che non ci credessero per nulla, proprio come me, ma era parte del rituale, dunque andava fatto. E quando finì tutti quanti ci sentimmo meglio.

— Bene. — Mi alzai a spegnere la luce. — Buona notte.

— Buona notte, Dexter — disse Astor.

— Notte — mormorò Cody.

Nel normale corso delle cose, mi sarei seduto sul divano con Rita a guardare un’altra ora di televisione, giusto per mantenere il travestimento. Stanotte, però, non c’era bisogno di fingermi divertito o interessato dai programmi, così non tornai in soggiorno. Attraversai il corridoio, diretto verso la stanza che Rita aveva battezzato come mio studio. La usavo soprattutto per effettuare ricerche connesse con il mio hobby. Ospitava un computer che mi permetteva di rintracciare le persone speciali meritevoli della mia attenzione, e un armadietto per riporre pochi, innocui attrezzi come il nastro isolante e il filo da pesca in nylon.

C’era anche un piccolo casellario chiuso a chiave, che conteneva alcuni fascicoli con appunti su potenziali compagni di gioco. Mi sedetti alla scrivania e lo aprii. Non c’era molto materiale, al momento. Avevo due alternative, ma, preso dal susseguirsi degli eventi, non ero riuscito a occuparmi di nessuna delle due. Ora mi chiesi se l’avrei mai fatto. Aprii un fascicolo e guardai all’interno. Si trattava di un pedofilo omicida, rilasciato un paio di volte grazie a un comodo alibi. Ero abbastanza certo di riuscire a smontarlo e a dimostrare la sua colpevolezza… non in senso legale, ovviamente, ma comunque in modo consono ai rigidi principi che Harry, il mio patrigno poliziotto, mi aveva instillato. C’era inoltre un locale notturno a South Beach che figurava come l’ultimo posto in cui parecchie persone erano state viste prima di scomparire. Si chiamava ZANNE, un nome a dir poco stupido per un club. Oltre a essere citato nei resoconti sulle persone scomparse, il locale risultava anche in alcuni documenti dell’INS, l’ufficio immigrazione. A quanto pareva, il personale addetto alle cucine era soggetto a un allarmante turnover e qualcuno all’interno dell’INS sospettava che non tutti i lavapiatti fossero tornati in Messico perché l’acqua di Miami era cattiva.

Gli immigrati clandestini rappresentano un facile bersaglio per i predatori. Nessuno ne reclama la scomparsa: parenti, amici e colleghi non osano rivolgersi alla polizia. Così continuano a sparire, in quanti è difficile dirlo, ma i dati sarebbero senza dubbio elevati e sbalorditivi, persino per Miami. Qualcuno, in quel club, stava certamente approfittando della situazione. Forse, pensai, si trattava del gestore, che avrebbe dovuto essere consapevole del turnover. Sfogliai la documentazione: si chiamava George Kukarov. Viveva a Dilido Island, una zona amena non lontana dal suo locale. Una distanza comoda per conciliare il lavoro con lo svago: controlli i conti, ingaggi un DJ, ammazzi il lavapiatti e poi a casa per cena. Mi sembrava di vederla, la sua splendida attività, così pulita e redditizia che quasi gliela invidiavo.

Posai un momento il fascicolo e riflettei. George Kukarov: gestore di un locale notturno e assassino. Aveva perfettamente senso, quel tipo di senso che desta il segugio interiore di Dexter e lo fa salivare, guaire eccitato e fremente dal desiderio di essere sguinzagliato dietro alla volpe. Anche il Passeggero, in segno d’assenso, sbatté le ali, che frusciarono con voluttà, come se dicessero: Sì, è lui. Stanotte, insieme… Adesso…

Percepii i raggi della luna filtrare dalla finestra e attraversarmi la pelle, penetrare dentro di me e scuotere quel brodo oscuro che è la mia mente, facendo affiorare deliziosi pensieri… e, man mano che il profumo di quel brodo interiore si diffondeva nell’aria notturna, mi parve di vederlo, legato al tavolo, che si contorceva e agitava, in preda allo stesso, soffocante terrore che aveva suscitato in chissà quanti… e vidi il gioioso coltello levarsi…

Poi si materializzò il pensiero di Lily Anne, e la luna non mi parve più così luminosa e il sussurro della lama svanì. Il corvo del neonato sé di Dexter gracchiò: Mai più. E la luna venne oscurata dalla nube argentea e vaporosa di Lily Anne, il coltello venne rinfoderato e Dexter tornò alla sua vita piccolo-borghese, mentre Kukarov era di nuovo libero e pronto a compiere i crimini più efferati.

Ovviamente il Passeggero passò al contrattacco, in perfetta sintonia con la mia mente razionale. Siamo seri, Dexter, esordì il mio amico, cantilenando sommessamente le sue ragioni. Possiamo forse permettere che predatori simili agiscano indisturbati? Lasciare che quei mostri vaghino liberi per le strade, quando abbiamo il potere di fermarli in un modo assai piacevole e definitivo? Possiamo davvero ignorare la sfida?

Pensai di nuovo alla promessa fatta in ospedale, cioè che sarei diventato un uomo migliore. Addio, Demone Dexter… ero diventato papà Dex, interamente dedito al benessere di Lily Anne e della mia nascente famiglia. Per la prima volta la vita umana mi parve un bene raro e prezioso, nonostante in giro se ne vedesse parecchia, e per la maggior parte fallisse invariabilmente nel dimostrare il suo valore. Eppure avevo promesso a Lily Anne che sarei cambiato, e l’avrei fatto.

Osservai la cartella con i fascicoli sulle mie ginocchia. Mi invocava, tenera e seduttiva, implorandomi di cantare con lei e intonare la nostra melodia sotto la luna… invece no. I gorgheggi della mia neonata coprirono tutto, in un continuo crescendo. Allora infilai con sicurezza il fascicolo nel distruggidocumenti e andai a letto.

L’indomani mi presentai al lavoro leggermente più tardi del solito, avendo accompagnato a scuola Cody e Astor. In passato era compito di Rita. Ora era tutto cambiato, naturalmente; mi trovavo nell’Anno Primo dell’Epoca d’Oro di Lily Anne. Nel futuro immediato sarebbe sempre toccato a me, almeno finché lei non fosse cresciuta abbastanza da poter essere trasportata sul sedile di un’auto. Se ciò voleva dire che non sarei più andato a lavorare con il canto del gallo, come sacrificio mi parve decisamente accettabile.

La faccenda si fece più impegnativa quando entrai in ufficio e scoprii che qualcun altro, al posto del Diligente Dexter, si era assunto l’onere di portare le ciambelle… e che non ne era rimasto più nulla, a parte una scatola di cartone unta e strappata. Ma chi se ne importa delle ciambelle, se la vita stessa è così dolce? Mi misi quindi al lavoro, con la gioia nel cuore e una canzoncina sulle labbra.

Per una volta non ricevetti nessuna affannosa chiamata che mi intimava di precipitarmi sulla scena del crimine e, per la prima ora e mezza, riuscii a smaltire un bel po’ di lavoro d’ufficio. Chiamai anche Rita, soprattutto per accertarmi che Lily Anne stesse bene e non fosse stata rapita dagli alieni, e quando mi rassicurò che era tutto okay, le dissi che nel pomeriggio sarei passato a trovarle.

Ordinai forniture, catalogai resoconti, insomma riorganizzai per bene la mia vita professionale. Certo, tutto ciò non compensava l’assenza delle ciambelle, ma mi sentii comunque molto soddisfatto di me stesso: Dexter detesta il disordine.

Poco prima delle dieci ero ancora ben avvolto nella mia nuvoletta rosa di autosoddisfazione, quando il telefono sulla scrivania squillò. Alzai la cornetta con un allegro: — Pronto, qui Morgan! — per venire ricompensato dalla ruvida voce di mia sorella, Deborah.

— Dove sei?

Domanda piuttosto inutile, pensai. Se infatti le stavo parlando da un telefono collegato alla mia scrivania da un lungo filo elettrico, dove avrei mai potuto essere? Pare proprio vero: i cellulari distruggono i tessuti cerebrali.

— Sono qui, all’altro capo del telefono — risposi.

— Vediamoci nel parcheggio — disse, e riattaccò prima che potessi protestare.

Incontrai Deborah vicino alla sua auto di servizio. Era appoggiata al cofano che mi fissava, impaziente e corrucciata, così feci una mossa strategica e decisi di attaccare per primo. — Perché mai dovevamo vederci qui? — chiesi. — Hai uno splendido ufficio, dotato di sedie e aria condizionata.

Deborah si spostò dal cofano e armeggiò in cerca delle chiavi.

— Il mio ufficio è infestato — disse.

— Da che cosa?

— Da Deke — rispose. — Quel viscido e ottuso figlio di puttana non mi lascia mai sola.

— Non deve lasciarti sola — osservai. — È il tuo socio.

— Mi sta facendo andare fuori di testa — continuò lei. — Posa il culo sulla mia scrivania e se ne sta seduto lì, in attesa che gli salti addosso.

Come immagine mi parve piuttosto forte: Deborah che si sedeva alla scrivania e finiva addosso al suo nuovo socio. Ma nonostante la scena fosse decisamente vivida, non riuscivo a coglierne il senso. — Perché dovresti saltare addosso al tuo socio? — domandai.

Mia sorella scosse il capo. — Forse ti sarai accorto di quanto sia stupidamente belloccio — fece. — Se no, sei l’unico in tutto il fottuto palazzo. Deke compreso.

Me n’ero accorto, ovviamente, ma non capivo che cosa avesse a che fare il suo aspetto con la nostra discussione. — Okay — dissi.

— Me ne sono accorto. E allora?

— Allora pensa che gli salterò addosso anch’io, come tutte le altre donnine che ha conosciuto — spiegò. — Che vomito. È più muto di una pietra e se ne sta seduto lì, sull’angolo della mia scrivania, a passarsi il filo in quella cazzo di dentatura perfetta in attesa che gli dica che cosa fare. Se lo fisso due secondi di più, gli faccio esplodere quella testa di merda. Salta in macchina.

Deborah non era mai stata una che maschera i propri sentimenti, ma nonostante tutto, quella mi parve una vera e propria sfuriata e, mentre saliva in macchina e girava la chiave nel cruscotto, rimasi un istante interdetto. Il motore stava andando su di giri; mia sorella, per farmi capire che era di fretta, diede un colpetto al clacson e io balzai fuori dalle mie fantasticherie, direttamente sul suo sedile. Non avevo ancora chiuso la portiera che eravamo già schizzati in strada, fuori dal parcheggio.

— Non penso che ci segua — dissi, mentre Deborah si infilava nel traffico con l’acceleratore a tavoletta. Non rispose. Sterzò bruscamente per evitare un autocarro carico di angurie e fuggì a tutta velocità dalla centrale e dal suo socio.

— Dove andiamo? — domandai, avvinghiato saldamente al bracciolo, tentando di non mettere a repentaglio la mia incolumità.

— Alla scuola.

— Quale scuola? — Mi chiesi se il ruggito del motore non avesse coperto parte della conversazione.

— Quella per ricchi frequentata da Samantha Aldovar — disse. — La Ransom Everglades.

La fissai perplesso. Non mi sembrava che ci fosse il bisogno di presentarsi lì con tanta fretta, a meno che Deborah non temesse di arrivare in ritardo per le lezioni, ma in ogni caso così fece, lanciandosi pericolosamente nel traffico a velocità supersonica. La mia unica consolazione fu che, se fossi sopravvissuto a un viaggio simile, laggiù non sarei andato incontro a minacce rilevanti, a parte il lancio di qualche proiettile di carta pressata. E ovviamente, a giudicare dallo status socioeconomico della scuola, la carta sarebbe stata di ottima qualità, il che fa sempre piacere.

Così mi limitai a stringere i denti e a tenermi forte, mentre Deborah correva per la città, imboccando LeJeune Road e immettendosi in Coconut Grave. Una svolta a sinistra nella US1, una a destra nella Douglas, e ancora a sinistra nella Poinciana per tagliare verso la Main Highway, ed eccoci arrivati alla scuola, in quello che si poteva tranquillamente definire un tempo record, a prescindere dalla strada percorsa.

Stavamo per varcare la cancellata in corallo, quando ci fermò una guardia. Deborah mostrò il distintivo e l’uomo si chinò a esaminarlo, prima di lasciarci proseguire. Passammo dietro a una fila di edifici e ci fermammo sotto un grande banano. Sul posto era scritto: RISERVATO AL SIG. STOKE. Deborah parcheggiò e saltò giù, e io la seguii. Camminammo prima in un vialetto ombroso, poi sotto il sole, e intanto osservavo quella che da quand’eravamo piccoli era stata denominata “scuola per ragazzi ricchi”. Gli edifici erano lindi e sembravano nuovi; il suolo era molto ben tenuto. Lì il sole era un po’ più luminoso, i palmizi frusciavano un po’ più dolcemente… insomma, non mi sarebbe dispiaciuto essere stato un ragazzo ricco.

Gli uffici amministrativi si trovavano ai lati del campus, collegati al centro da un passaggio coperto. Ci fermammo alla reception, dove ci fecero attendere il vice non so cosa. Pensai al nostro vicepreside delle medie. Era incredibilmente grosso, e con la fronte sporgente come un uomo di Cro-Magnon. Perciò, quando una donna piccolina ed elegante comparve e ci salutò, restai in un certo qual modo sorpreso.

— Siete voi gli agenti? — domandò gentilmente. — Io sono la signora Stein. Come posso aiutarvi?

Deborah le strinse la mano. — Ho bisogno di farle alcune domande su uno dei vostri studenti — disse.

La signora Stein inarcò un sopracciglio per comunicarci che trovava la cosa assai insolita; era la prima volta che la polizia la interpellava riguardo ai suoi studenti. — Venite nel mio ufficio — fece. Ci condusse attraverso il corridoio in una stanza che ospitava una scrivania, due sedie e dozzine di targhe e di foto appese alle pareti. — Prego, sedetevi — disse.

Senza neanche rivolgermi uno sguardo, Deborah si appropriò dell’unica sedia di plastica per gli ospiti e mi lasciò vagare alla ricerca di uno spazio libero da ricordi in cornice contro cui potermi comodamente appoggiare.

— Bene — esordì la signora Stein. Si sedette alla scrivania e ci scrutò con un’espressione educata, ma gelida. — Qual è il problema?

— Samantha Aldovar è scomparsa — disse Deborah.

— Sì — rispose la signora. — L’abbiamo saputo, ovviamente.

— Che tipo di studentessa è?

La signora Stein aggrottò la fronte. — Non posso riferirle i suoi voti, o simili — disse. — Comunque è abbastanza brava. Nella media, direi.

— Per l’iscrizione ha ricevuto aiuti finanziari? — continuò Debs.

— Questa è un’informazione riservata, naturalmente — rispose la donna. Deborah le lanciò uno sguardo duro, ma, incredibilmente, la signora Stein non si scompose. Doveva essere abituata a lanciare occhiate intimidatorie ai genitori abbienti.

Decisi di aiutare mia sorella a superare l’impasse. — Ci stava molto male quando i compagni la prendevano in giro? — domandai. — Sa, per i soldi o simili.

La signora Stein mi scrutò, poi dischiuse le labbra in un mezzo sorriso, per nulla divertito. — Dunque lei pensa che la sua scomparsa celi un movente finanziario — dichiarò.

— Le risulta che Samantha avesse un fidanzato? — chiese Debs.

— Non ne ho idea — rispose lei. — E se anche l’avessi, non credo che ve lo direi.

— Signora Stern — fece Deborah.

— Stein — la corresse la donna.

Mia sorella fece un cenno spazientito. — Non siamo qui per indagare su Samantha Aldovar, ma sulla sua scomparsa. Se lei elude le domande, ci impedisce di ritrovarla.

— Non vedo come…

— Ci farebbe piacere trovarla viva — la interruppe Debs, fredda e determinata, e io fui fiero di lei.

La signora Stein sbiancò all’istante. — Io non… — protestò — non ne so nulla delle sue faccende personali. Potrei farvi parlare con una sua amica…

— Ci sarebbe sicuramente utile — disse Deborah.

— Credo che frequentasse Tyler Spanos — fece. — Ma gradirei presenziare al colloquio.

— Ci porti questa Tyler Spanos, signora Stein.

La donna si morse il labbro e si alzò, infilando la porta con assai meno severità di quanto aveva fatto all’andata. Mia sorella si contorse sulla sedia in cerca di una posizione comoda. Non la trovò. Dopo un minuto si arrese e si raddrizzò, accavallando e distendendo le gambe, impaziente.

La spalla mi faceva male, così provai ad appoggiarmi sull’altra. Passò qualche minuto; Deborah mi guardò un paio di volte, ma nessuno dei due aveva niente da dire.

Finalmente udimmo delle voci dall’altra parte della porta che aumentavano in intensità e volume. Durò circa mezzo minuto, poi tornò il silenzio. Dopo altri lunghi minuti in cui Deborah aveva accavallato di nuovo le gambe e io ero tornato alla spalla d’appoggio originaria, la signora Stein entrò di corsa in ufficio. Era sempre pallida e non sembrava contenta.

— Tyler Spanos oggi è assente — disse. — E lo era anche ieri. Così ho chiamato a casa. — Esitò, come imbarazzata.

Deborah la spronò a parlare. — È malata? — chiese.

— No, lei… — La signora Stein esitò un’altra volta e si morse il labbro. — Mi hanno detto… che sta facendo un lavoro di gruppo con un’altra studentessa — disse infine. — E che… uhm… che per poter lavorare insieme è andata a stare dall’altra ragazza.

Deborah scattò in piedi. — Samantha Aldovar — disse, e non era una domanda.

La signora Stein rispose comunque. — Sì. Esatto.

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