Gelsomino, forse lo ricorderete, si era addormentato in una cantina su un mucchio di carbone. Come letto, non era davvero comodo, ma quando si è giovani alle comodità non ci si fa caso: i pezzi di carbone che gli pungevano le costole con i loro spigoli non impedirono a Gelsomino di sognare.
Nel bel mezzo del sogno egli cominciò a canticchiare. Tanti hanno l'abitudine di parlare nel sonno: Gelsomino aveva appunto quella di canticchiare. Al risveglio, poi, egli non ricordava nulla. La voce gli giocava quel tiro forse per vendicarsi dei lunghi silenzi a cui Gelsomino la costringeva durante il giorno: per prendersi la rivincita di tutte le volte che il suo padrone l'aveva ricacciata in gola.
Il «sottovoce» di Gelsomino fu però abbastanza forte da svegliare mezza città. I cittadini si affacciavano alle finestre, indignati:
— Ma dove sono le guardie notturne? Possibile che non ce ne sia una per far tacere quell'ubriacone?
Le guardie notturne correvano a destra e a sinistra, ma non vedevano che strade deserte.
Si svegliò anche il direttore del Teatro Comunale, che abitava alla altra estremità della città, una buona decina di chilometri lontano dalla cantina di Gelsomino.
— Che voce straordinaria! — egli esclamò. — Questo sì che è un tenore. Ma chi sarà mai? Ah, se potessi mettergli le mani addosso, come farei presto a riempire il teatro. Quest'uomo potrebbe essere la mia salvezza.
Bisogna sapere, infatti, che da tempo il Teatro Comunale di quella città era in crisi, anzi, sull'orlo del fallimento: nel paese dei bugiardi i cantanti erano rarissimi, e quei pochi credevano fosse loro dovere di stonare. Ed ecco perché. Se cantavano bene, il pubblico gridava: «Cane! Smettila di abbaiare!». Se cantavano male, il pubblico gridava: «Bravo! Bravissimo! Bis!». I cantanti, in generale, preferivano sentirsi dir «bravo» piuttosto che cantar bene.
Il direttore del Teatro si vestì in fretta, scese in istrada e si diresse verso il centro della città, da dove gli sembrava provenisse la voce.
Non sto a raccontarvi quante volte credette di essere arrivato.
— Dev'essere in questa casa, — diceva, — la voce esce da quella finestra lassù, non c'è dubbio.
Dopo un paio d'ore di quella ricerca, morto di stanchezza e sul punto di rinunciare, trovò finalmente la cantina di Gelsomino e potete figurarvi la sua meraviglia quando, alla fioca luce del suo accendisigari, constatò che la voce straordinaria usciva dal petto di un giovanottino addormentato sul carbone.
— Se canta così bene nel sonno, figuriamoci quando sarà sveglio, — concluse il direttore del Teatro, fregandosi le mani. — Quest'uomo è una miniera d'oro e, secondo ogni evidenza, non lo sa. Io sarò il solo minatore, e mi farò una fortuna alle sue spalle.
Svegliò Gelsomino e si presentò:
— Sono il maestro Domisol e ho fatto dieci chilometri a piedi per scovarti. Tu devi assolutamente cantare nel mio teatro, domani sera stessa. Avanti, alzati, andiamo a casa mia a fare una prova.
Gelsomino si provò a rifiutare. Diceva che aveva sonno: il maestro Domisol gli prometteva un letto a due piazze per farlo dormir comodo.
Diceva che non aveva mai studiato musica: il maestro giurava che con la sua voce non c'era bisogno di conoscere le note. La voce, del resto, dentro di lui, si stava già aggrappando a quell'occasione:
— Coraggio. Non volevi diventare un cantante? Accetta: forse sarà il principio della tua fortuna.
Il maestro Domisol pose fine alla discussione afferrando Gelsomino per un braccio e tirandoselo dietro a viva forza. Se lo portò a casa, si mise al piano, cavò un accordo dalla tastiera e ordinò:
— Canta!
— Non sarebbe meglio aprire le finestre? — domandò timidamente Gelsomino.
— No, no, non voglio disturbare il vicinato.
— Che cosa devo cantare?
— Quel che vuoi: una canzoncina del tuo paese.
Gelsomino cominciò una canzoncina del suo paese. Si sforzava prudentemente di cantare con un fil di voce, e teneva gli occhi fissi sui vetri delle finestre che vibravano pericolosamente e parevano sul punto di scoppiare.
I vetri non si ruppero, ma all'inizio della seconda strofa andò in pezzi il lampadario e la sala rimase al buio.
— Benissimo! — gridò il maestro Domisol, accendendo una candela. — Magnifico! Meraviglioso! Sono trent'anni che in questa stanza cantano dei tenori, e nessuno è mai riuscito a rompere una tazzina da caffè.
All'inizio della terza strofa i vetri delle finestre fecero la fine che Gelsomino temeva. Il maestro Domisol abbandonò il pianoforte per correre ad abbracciarlo.
— Ragazzo mio! — gridava, piangendo d'entusiasmo. — Questa è la prova che non mi sbagliavo. Tu sarai il più grande cantante di tutti i tempi! La folla staccherà le ruote della tua automobile per portarti in trionfo!
— Ma io non ho automobile, — disse Gelsomino.
— Ne avrai dieci, ne avrai una nuova per ogni giorno dell'anno! Ringrazia il cielo di aver incontrato il maestro Domisol! Avanti, canta un'altra canzone!
Gelsomino cominciava a provare una certa commozione. Era la prima volta che qualcuno lo lodava per il suo canto: egli non era superbo, ma le lodi fanno piacere a tutti. Cantò dunque un'altra canzone, e questa volta lasciò un poco più libera la voce. Soltanto un pochino, per un acuto o due. Ma tanto bastò per far succedere un finimondo.
I vetri del vicinato andavano in pezzi l'uno dopo l'altro. La gente si affacciava spaventata alle finestre.
— Il terremoto! Aiuto, aiuto! Si salvi chi può!
Correvano, con sibili laceranti, le auto dei pompieri a sirena aperta. Le strade furono rapidamente invase da gente che si dirigeva verso i campi, portando in braccio i bambini addormentati e spingendo carretti carichi di masserizie.
II maestro Domisol non stava più nel vestito per l'entusiasmo.
— Formidabile! Portentoso! Mai visto!
Baciava e ribaciava Gelsomino, corse a prendere una sciarpa per proteggergli la gola dalle correnti d'aria, poi lo fece accomodare in sala da pranzo e gli servì un pasto che sarebbe bastato a sfamare dieci disoccupati.
— Mangia, figliolo, mangia, — gli raccomandava. — Guarda questo pollo: è speciale per rinforzare le note alte. Questo cosciotto di montone è particolarmente indicato per vellutare le note basse. Mangia! Da oggi sei mio ospite. Avrai la camera più bella della casa e ti farò imbottire le pareti, in maniera che tu possa esercitarti a tuo piacere senza farti sentire da nessuno.
Gelsomino, veramente, avrebbe voluto correre a rassicurare il cittadini spaventati o almeno telefonare ai pompieri per evitare loro tante corse inutili. Ma il maestro Domisol non gli diede retta:
— Lascia perdere, figliolo. Dovresti pagare tutti quei vetri rotti e, per adesso, non hai un soldo. Senza contare che potrebbero anche, denunciarti, e se tu finisci in prigione addio carriera musicale.
— E se dovessi provocare dei danni anche a teatro?
Domisol scoppiò a ridere.
— I teatri sono fatti apposta perché i cantanti ci possano cantare. Sono a prova di voce, anzi, a prova di bomba. Tu ora vai a letto, ed io preparerò il manifesto e lo farò subito stampare.