— Devi sapere, — cominciò Zoppino…
Ma io abbrevierò il suo racconto, per non farvi perdere troppo tempo, come segue.
Molto tempo prima che Gelsomino arrivasse in quel paese straniero, vi era giunto dal mare un abile ed audace pirata, chiamato Giacomone: un uomo abbastanza grande e grosso da portare un nome simile senza piegarsi, e abbastanza avanti negli anni da desiderare una sistemazione.
«Ormai, — egli si era detto, — la gioventù se n'è andata. Di correre il mare sono stufo. È meglio che io occupi qualche isoletta e mi ritiri dalla professione. Non dimenticherò i miei pirati, certo: li nominerò maggiordomi, camerieri, stallieri, fattori, e non avranno da lamentarsi del loro capo».
Fatto questo progetto, cominciò a cercare la sua isoletta, ma erano tutte troppo piccole per i suoi gusti. E se andavano bene per i suoi gusti non piacevano alla ciurma. Uno ci voleva il fiume per pescare le trote, e il fiume non c'era. Un altro ci voleva il cinematografo, un altro la banca per far fruttare i suoi risparmi di pirateria.
— Perché non occupiamo qualcosa di meglio di un'isoletta?
Andò a finire, insomma, che occuparono un'intera nazione, con una grande città piena di banche e di teatri, con molti fiumi per pescare le trote e andarci in barca la domenica, e fin qui niente di straordinario: succede abbastanza spesso che una banda di pirati si impadronisca di questo o di quel paese in qualche parte del mondo.
Occupato il paese, Giacomone pensò bene di cambiare il proprio nome in quello di rè Giacomone Primo e di nominare i suoi uomini ammiragli, ciambellani, cortigiani e capi dei pompieri.
Naturalmente Giacomone fece anche una legge che obbligava tutti a chiamarlo Sua Maestà, pena il taglio della lingua. Ma per essere sicuro che a nessuno saltasse mai in testa di dire la verità sul suo conto ordinò ai suoi ministri di riformare il vocabolario.
— Bisogna cambiare tutte le parole, — spiegò. — Per esempio, la parola pirata significherà gentiluomo. Così quando la gente dirà che io sono un pirata, che cosa dirà, nella nuova lingua? Che io sono un gentiluomo.
— Per tutte le balene che ci hanno visto andare all'arrembaggio! — gridarono i ministri entusiasti. — Questa sì che è un'idea di lusso, da mettere in cornice.
— Chiaro? — proseguì Giacomone. — Allora avanti: cambiate tutti i nomi delle cose, degli animali e delle persone. Per cominciare, alla mattina invece che «buongiorno» bisognerà dire «buonanotte»: così i miei fedeli sudditi cominceranno la loro giornata con una bugia. Naturalmente, al momento di andare a letto bisognerà dire «buongiorno».
— Magnifico, — gridò uno dei ministri. — E per dire a uno «che bella cera, avete», si dovrà dire «guarda che bella faccia da schiaffi!».
Fatta la riforma del vocabolario, promulgata la legge che rendeva obbligatoria la bugia, ne venne fuori una confusione incredibile.
Nei primi tempi la gente si sbagliava facilmente. Per esempio, andava a comprare il pane dal fornaio, dimenticandosi che ormai il fornaio vendeva quaderni e matite e che il pane si comperava dal cartolaio. Oppure andava ai giardini pubblici, guardava i fiori e sospirava:
— Che belle rose!
Subito saltava fuori da un cespuglio una guardia di rè Giacomone con le manette pronte.
— Ma bravo, bravo davvero. Siete in contravvenzione, lo sapete? Come vi salta in testa di chiamare «rose» le «carote»?
— Chiedo scusa, — balbettava il malcapitato. E in gran fretta si metteva a lodare gli altri fiori del giardino.
— Che splendide ortiche! — diceva indicando le viole del pensiero.
— No, no, non me la fate. Ormai il delitto lo avete commesso. Passerete un po' di tempo in prigione ad allenarvi a dire le bugie.
Nelle scuole, quello che successe non si può descrivere. Giacomone aveva fatto cambiare tutti i numeri della tavola pitagorica. Per fare una somma bisognava fare una sottrazione. Per fare una divisione una moltiplicazione.
Gli stessi maestri non riuscivano più a correggere i problemi. Per i somari una vera bazza: più facevano errori, e più erano sicuri che avrebbero avuto un bel voto.
E i temi?
Con le parole a rovescio, potete figurarvi che roba. Ecco per esempio come uno scolaro che poi fu premiato con una medaglia d'oro falso svolse il tema «Descrivete una bella giornata»:
«Ieri pioveva: ah, che delizia andare sotto la pioggia che cadeva a goccioloni. La gente, finalmente, aveva potuto lasciare a casa ombrelli e soprabiti e andava in maniche di camicia. A me non piace quando: c'è il sole: bisogna stare chiusi in casa per non bagnarsi, e si passa la notte a guardare i suoi raggi che scivolano tristemente sulle tegole della porta».
Tenete presente, per apprezzare pienamente la composizione, che le tegole della porta in quel linguaggio erano i vetri della finestra.
Ma basta così: ormai sapete di che si tratta. Nel paese dei bugiardi perfino gli animali avevano dovuto imparare a dire le bugie: i cani miagolavano, i gatti abbaiavano, i cavalli muggivano e il leone, nella sua gabbia al giardino zoologico, era costretto a squittire, perché il suo ruggito era stato assegnato al topo.
Solo i pesci nell'acqua e gli uccelli nell'aria potevano infischiarsene i; delle leggi di rè Giacomone: i pesci perché stanno sempre zitti, e perciò nessuno può obbligarli a dir bugie; gli uccelli, perché gli acchiappacani non potevano arrestarli. Gli uccelli continuavano come sempre a cantare ciascuno nel suo verso, e qualche volta la gente li guardava con malinconia.
— Beati loro, — sospirava la gente, — nessuno gli può dare la multa.
Ascoltando il racconto di Zoppino, Gelsomino era diventato sempre più triste.
«Come farò a vivere in questo paese? — pensava. — Con questa mia voce troppo forte, se mi scapperà detta la verità mi sentiranno tutte le guardie di Giacomone. Inoltre, è una voce così ribelle: chissà che fatica tenerla cheta».
— Ecco, — concluse Zoppino, — ora sai tutto. E vuoi sapere un'altra cosa? Ho fame.
— Anch'io. Me n'ero quasi dimenticato.
— La fame è la sola cosa che non può essere dimenticata. Il tempo non le fa paura: anzi, più passa il tempo e più senti fame. Qualcosa troveremo, vedrai. Ma prima voglio lasciare un salutino a questo muro del quale sono stato prigioniero per tanto tempo.
E con la sua zampa di gesso rosso scrisse, nel bel mezzo dell'impronta che aveva lasciato:
— Miao! Viva la libertà!
Trovare qualcosa da mangiare non fu facile. Gelsomino, per tutto il tempo che andarono peregrinando per la città, tenne sempre gli occhi al suolo, nella speranza di trovare una moneta falsa da spendere. Zoppino, invece, guardava tra la folla come se cercasse qualcuno di sua conoscenza.
— Eccola, — disse finalmente, indicando una vecchia signora che camminava frettolosamente lungo il marciapiedi, reggendo un pacchettino.
— Chi è?
— È zia Pannocchia, la protettrice dei gatti. Tutte le sere porta un pacchettino di avanzi ai gatti randagi che si radunano vicino al parco della reggia di Giacomone.
Zia Pannocchia era una vecchia diritta, secca, alta quasi due metri, dall'aspetto severo. A guardarla, si sarebbe detto quel tipo di signora che caccia i gatti con la scopa. Invece, stando alle parole di Zoppino, era tutto il contrario.
Essa guidò Gelsomino e il suo compagno in una piazzetta, in fondo alla quale il muro del parco metteva in mostra i suoi merli sormontati da cocci aguzzi di bottiglia. Una decina di gatti piuttosto malandati e spelacchiati l'accolsero abbaiando disordinatamente.
— Stupidi, — disse Zoppino. — Ora vedrai come li sistemo.
Nell'istante in cui zia Pannocchia svolgeva il suo cartoccio e ne posava il contenuto accanto al marciapiedi Zoppino balzò nella mischia e lanciò un acutissimo: «MIAO!»
Un gatto che miagolava invece di abbaiare era più di quanto i gatti di quei paese fossero abituati a vedere. La sorpresa fu così forte che essi rimasero lì, immobili come statue di gatti con la bocca spalancata.
Zoppino addentò due teste di merluzzo e la spina di una sogliola e in quattro salti fu sul muro del parco, lo scavalcò, si lasciò cadere in un cespuglio.
Gelsomino si guardò attorno: avrebbe voluto scavalcare il muro a sua volta, ma zia Pannocchia lo stava osservando con sospetto.
«Non voglio che dia l'allarme», pensò. E fingendosi un passante qualunque, diretto in un qualsiasi posto, se ne andò per un'altra strada.
I gatti, passato il primo istante di sorpresa, abbaiavano aggrappandosi alle gonne di zia Pannocchia che, per la verità, era rimasta più meravigliata di loro. Infine sospirò, distribuì ai gatti il resto delle provviste, diede un'ultima occhiata al muro dietro il quale era scomparso Zoppino e tornò a casa.
Gelsomino, appena girato l'angolo, trovò finalmente la moneta falsa che cercava e potè comprarsi pane e formaggio (ossia, come si diceva laggiù, «un tramezzino di inchiostro e gomma da cancellare»).
La notte scendeva rapidamente, era stanco, aveva sonno. Trovò un portoncino aperto, si infilò in una cantina e si addormentò su un mucchio di carbone.