La prima cosa che Gelsomino trovò entrando in quel paese straniero fu una moneta d'argento. Brillava per terra, accanto al marciapiedi, bene in vista.
«Strano, — pensò Gelsomino, — che nessuno l'abbia raccolta. Io non me la lascerò scappare di certo. I miei pochi soldi sono finiti già da ieri sera, ed oggi non ho ancora aperto bocca per metterci un pezzo di pane. Ma prima domanderò se qualcuno l'ha persa, qua in giro».
Si avvicinò ad un gruppetto di persone che lo osservavano bisbigliando e mostrò la sua moneta:
— Qualcuno di lor signori l'ha perduta? — domandò con un fil di voce, per non spaventarli.
— Vattene, — gli fu risposto, — e mostra quella moneta il meno possibile, se non vuoi passare dei guai.
— Mi scusino tanto, — sussurrò Gelsomino, confuso,
E senz'altro si diresse verso un negozio la cui insegna prometteva: «GENERI ALIMENTARI E DIVERSI».
Nella vetrina, invece che prosciutti e scatole di marmellata, si ammucchiavano quaderni, scatole di pastelli, bottiglie d'inchiostro.
«Saranno i "generi diversi"», — disse Gelsomino fra sé. Ed entrò fiducioso nel negozio.
— Buonasera, — lo salutò cerimoniosamente il commerciante.
«A dire la verità, — riflette Gelsomino, — non ho ancora sentito
suonare mezzogiorno. Ma non è il caso di fare storie».
E col suo solito fil di voce (anche troppo rimbombante per le orecchie normali) si informò:
— Potrei avere del pane?
— Ma certo, caro signore. Quanto ne desidera? Una bottiglia o due? Rosso o nero?
— Nero no di certo, — rispose Gelsomino. — E poi, lo vendete davvero in bottiglie?
Il negoziante scoppiò a ridere:
— E come vuole che lo vendiamo? Al suo paese forse glielo tagliano a fette? Guardi, guardi che bel pane abbiamo!
E così dicendo gli mostrò uno scaffale su cui, allineate meglio d'un battaglione di soldati, stavano centinaia di bottiglie d'inchiostro dei più diversi colori. In tutto il negozio, del resto, non si vedeva nulla di commestibile: non una crosta di formaggio, non una buccia di mela.
«Non sarà diventato matto? — si domandò Gelsomino. — Farò bene ad assecondarlo».
— Un pane bellissimo, infatti, — disse poi, indicando una bottiglia d'inchiostro rosso, più che altro per sentire che cosa gli avrebbe risposto il commerciante.
— Vero? — disse quello, raggiante di soddisfazione per il complimento. — È il più bel pane verde che sia mai stato messo in commercio.
— Verde?
— Ma certo. Scusi, forse lei non ci vede bene?
Gelsomino era sicuro di vedere una bottiglia d'inchiostro rosso e stava già cercando una scusa qualunque per ritirarsi in buon ordine e andare in cerca di un negoziante meno pazzo. Ma improvvisamente gli venne un'idea.
— Senta, — disse, — il pane tornerò a comprarlo più tardi. Mi saprebbe indicare, intanto, un negozio dove comprare dell'inchiostro di buona qualità?
— Certamente, — rispose il negoziante, con il suo eterno, cerimonioso sorriso. — Lì di fronte, guardi, c'è la più rinomata cartoleria della città.
Nella vetrina di fronte erano esposte bellissime forme di pane, e torte, e paste, e spaghetti, e maccheroni, e montagne di formaggi, foreste di salami e salamini.
«Proprio come pensavo, — si disse Gelsomino, — quel commerciante è impazzito e chiama pane l'inchiostro, inchiostro il pane. Qui il paesaggio è un po' più confortante».
Entrò nel negozio e chiese mezzo chilo di pane.
— Pane? — si informò premurosamente il commesso. — Guardi che ha sbagliato. Il pane si vende là di fronte. Noi vendiamo solo cancelleria, vede?
E indicò con un largo, orgoglioso gesto della mano tutto quel ben di dio di roba da mangiare.
«Ho capito, — concluse fra sé Gelsomino, — in questo paese bisogna parlare alla rovescia. Se chiami pane il pane non ti capiscono».
— Mi dia mezzo chilo d'inchiostro, — disse al commesso. Questi gli pesò mezzo chilo di pane e glielo porse incartato con tutte le regole.
— Vorrei anche un po' di quello, — aggiunse Gelsomino, indicando una forma di cacio parmigiano, senza arrischiarsi a darle un nome.
— Un po' di gomma da cancellare? — domandò il commesso. — Subito, signore!
Tagliò una bella fetta di formaggio, la pesò, l'incartò.
Gelsomino tirò un respiro di sollievo e gettò sul banco la moneta d'argento trovata poco prima.
Il commesso la guardò, la studiò per qualche minuto, la gettò più volte sul banco per ascoltarne il suono, la scrutò con una lente, si provò perfino a morderla, e finalmente la rese a Gelsomino di malagrazia, sentenziando freddamente:
— Mi dispiace, giovanotto, la sua moneta è buona.
— Meno male, — sorrise Gelsomino, fiducioso.
— Meno male un corno. Le sto dicendo che quella moneta è buona, io non la posso accettare. Qua la mia roba e se ne vada per la sua strada. E buon per lei, giovanotto, che non ho voglia di uscire in strada per chiamare una guardia. Lo sa che cosa c'è per gli spacciatori di monete buone? La prigione!
— Ma io…
— Lei non alzi tanto la voce, che non sono sordo! Vada, vada via: torni con una moneta falsa e la merce sarà sua. Guardi, non sto nemmeno a disfare i pacchetti. Glieli tengo qui da una parte, va bene? Buonasera.
Gelsomino si cacciò in bocca un pugno per non gridare. Nei pochi metri che dividevano il banco dalla porta si svolse tra Gelsomino e la sua voce questo brevissimo dialogo:
LA VOCE — Vuoi che cacci un «ah!» e gli mandi in pezzi la vetrina?
GELSOMINO — Per carità, in questo paese sono appena arrivato e già tutto mi va storto.
LA VOCE — Però io mi debbo sfogare, se no scoppio: tu sei il mio padrone, trovalo tu il modo.
GELSOMINO — Abbi pazienza: usciamo dal negozio di questo pazzo. Non lo voglio rovinare. In questo paese c'è qualcosa che non capisco.
LA VOCE — Sbrigati che non ne posso più. Ecco, ecco, sto per gridare… sto per fare un macello…
Gelsomino si mise a correre, svoltò per una stradina solitària, poco più larga di un vicolo. Si guardò intorno rapidamente: non c'era nessuno. Allora si tolse il pugno di bocca e lasciò andare un piccolo «Ah!», per liberarsi dalla rabbia che aveva in corpo. Si udì un lampione andare in pezzi, e un vaso di fiori che stava in equilibrio su un davanzale precipitò sul selciato. Gelsomino sospirò:
— Quando avrò dei soldi manderò un vaglia al comune per pagare il lampione e regalerò un altro vaso di fiori a quel balcone. Non c'è niente altro di rotto?
— Nient'altro, — gli rispose una vocetta sottile sottile, tra due colpi di tosse.
Gelsomino cercò il padrone di quella vocetta e vide un gatto, o almeno qualcosa che da lontano poteva anche assomigliare a un gatto: era tutto rosso, per cominciare, ma rosso papavero, rosso vernice; aveva tre sole zampe; infine, cosa più straordinaria ancora, era soltanto il contorno di un gatto, come uno di quei pupazzetti che i bambini disegnano sui muri.
— Un gatto parlante? — si meravigliò Gelsomino.
— Sono un gatto un po' speciale, lo riconosco. Per esempio, so anche leggere e scrivere. Ma dopotutto sono figlio di un gessetto scolastico.
— Figlio di chi?
— Mi ha disegnato su quel muro una bambina con un pezzo di gesso rubato a scuola. Siccome stava arrivando una guardia, per la fretta di scappare la bimba mi ha fatto solo tre zampe. Perciò sono zoppo, anzi, ho deciso che il mio nome sarà Zoppino. Ho anche un po' di tosse, perché il muro era piuttosto umido, e io ci ho passato proprio i mesi dell'inverno.
Gelsomino osservò il muro. Vi era rimasta l'impronta vuota di Zoppino, come se il disegno si fosse staccato dall'intonaco.
— Ma come sei saltato giù? — domandò Gelsomino.
— Devo ringraziare la tua voce, — rispose Zoppino. — Se tu avessi gridato un po' più forte, forse avresti sfondato il muro, e sarebbe stato un guaio. Così invece, per me è stata una fortuna. Ah, che bellezza andare per il mondo, sia pure con tre sole zampe. Tu del resto ne hai soltanto due e ti bastano, vero?
— Già, — ammise Gelsomino, — sono anche troppe: se ne avessi avuta una sola non mi sarei mosso da casa.
— Non sei molto allegro, — osservò Zoppino. — Che cosa ti è successo?
Mentre Gelsomino stava per cominciare il racconto delle sue peripezie, passò per la stradina un gatto vero, con quattro vere zampe: ma doveva avere dei pensieri perché non si voltò nemmeno a guardare i nostri amici.
— Miao, — gli gridò Zoppino. Nella lingua dei gatti questa parola vuol dire «ciao».
Il gatto si fermò. Pareva meravigliato, o piuttosto scandalizzato.
— Mi chiamo Zoppino. E tu? — si informò il gatto-scarabocchio. Il gatto vero parve in dubbio se rispondere o no, poi borbottò di malavoglia:
— Il mio nome è Fido.
— Che cosa dice? — domandò Gelsomino, che naturalmente non capiva nulla.
— Dice che si chiama Fido.
— Ma non è un nome da cani?
— Appunto.
— Non ci arrivo, — disse Gelsomino. — Prima un cartolaio che pretende di darmi inchiostro per pane, adesso un gatto con un nome da cani.
— Caro mio, — spiegò Zoppino, — lui crede di essere un cane. Vuoi sentire?
E rivolto al gatto, lo salutò cordialmente:
— Miao, Fido.
— Bau, bau, — rispose il gatto, arrabbiatissimo. — Vergognati: un gatto che miagola.
— Ma io sono un gatto, — disse Zoppino, — anche se ho soltanto tre zampe disegnate col gesso rosso.
— Tu sei piuttosto il disonore della nostra razza. Sei un bel bugiardo, va là. Non voglio fermarmi un minuto di più a parlare con te. Del resto comincia a piovere: è meglio che corra a casa a prendere l'ombrello.
E se ne andò, voltandosi di tanto in tanto ad abbaiare.
— Che cos'ha detto? — domandò Gelsomino.
— Ha detto che piove.
Gelsomino guardò in cielo: fra i tetti, il sole splendeva più bello che mai, e non si sarebbe potuta vedere una nuvola nemmeno con un cannocchiale da marina.
— Speriamo che i temporali di questo paese somiglino tutti a questo. Mi sembra di essere capitato in un mondo alla rovescia.
— Caro Gelsomino, tu sei più semplicemente capitato nel paese dei bugiardi. Qui tutti, per legge, dicono bugie. E guai se dicono la verità: pagano certe multe da levare la pelle, compresa quella della coda.
E a questo punto Zoppino, che dal suo posto di osservazione sul muro aveva potuto imparare tante cose, fece a Gelsomino una completa descrizione del paese dei bugiardi.