Per non fare torto a nessuno Gelsomino fa «uno a uno»

La storia sarà del tutto finita quando avrete appreso le poche notizie che qui vi darò, e che nella fretta di chiudere il ventesimo capitolo mi ero scordate in tasca. Sono gli ultimi foglietti degli appunti da me presi il giorno in cui Gelsomino mi narrò le sue avventure nel paese dei bugiardi.

Leggo in questi foglietti che di Giacomone non si seppe più nulla: così non posso nemmeno dirvi se è diventato una persona per bene

O se le sue gambe di pirata lo hanno portato di nuovo sulla cattiva strada.

Leggo pure che Gelsomino, per quanto in generale abbastanza contento di quel che aveva fatto, non poteva passare per la piazza della città senza sentirsi un po' a disagio, come uno che ha un sassolino in una scarpa.

— C'era proprio bisogno, — egli si rimproverava, — di distruggere completamente la reggia, di farne un mucchio di rovine? Giacomone sarebbe scappato lo stesso anche se mi fossi accontentato di rompere i vetri: poi si chiamava un vetraio e tutto si aggiustava.

A togliergli questo sassolino dalla scarpa ci pensò Bananito, che ricostruì il castello alla sua maniera, con pochi pezzi di carta e una scatola di colori. Ci mise mezza giornata, e non trascurò il balcone all'ultimo piano. Anzi, quando il balcone spuntò al posto giusto, la gente voleva che Bananito ci montasse a pronunciare un discorso.

— Date retta a me, — rispose Bananito, — fate una legge per proibire a chiunque di pronunciare discorsi da quel balcone. Io, poi, faccio il pittore e basta. Se proprio volete un discorso, rivolgetevi a Gelsomino.

In quel momento apparve su! balcone Zoppino, e miagolò:

— Maramao!

La gente applaudì e non chiese altri discorsi.

Su un altro foglietto leggo che zia Pannocchia era diventata!a direttrice di un Istituto per gatti abbandonati. Giustissimo: con lei si poteva stare sicuri che nessuno avrebbe costretto i gatti ad abbaiare. Romoletta era tornata a scuola, e forse a quest'ora non siede più nei banchi, ma alla cattedra: ha avuto tutto il tempo di diventare maestra.

Infine, su un fogliolìno più piccolo degli altri, leggo soltanto: «La guerra finisce uno a uno».

Figuratevi un po': stavo dimenticando una guerra!

La cosa successe pochi giorni dopo la fuga di Giacomone. DI nascosto dai suoi sudditi, contando sui cannoni che Bananito gli avrebbe fabbricato con la sua matita, Giacomone aveva dichiarato guerra a uno stato confinante, e quelli non scherzavano mica: i loro eserciti si erano messi in marcia per difendere la patria.

— Ma noi non la vogliamo fare più, questa guerra! — dicevano I nuovi ministri. — Noi non siamo come Giacomone!

Un giornalista andò a intervistare Gelsomino, che studiava musica per prepararsi a dare finalmente un vero concerto.

— La guerra? — disse Gelsomino. — Proponete al nemico di sospenderla e di fare al suo posto una partita di calcio. Ci sarà qualche stinco ammaccato, ma scorrerà in ogni caso pochissimo sangue.

Per fortuna l'idea piacque anche ai nemici, che di fare la guerra, in fondo, non avevano nessuna voglia.

La partita di calcio ebbe luogo la domenica successiva. Gelsomino, naturalmente, faceva il tifo contro i nemici. E si lasciò tanto trascinare dall'entusiasmo che ad un certo punto, gridando «Forza!», spedì un pallone nella rete avversaria, come aveva già fatto, se ben ricordate, una volta al suo paese.

«Non sia mai, — si disse subito Gelsomino, — che questa guerra finisca con una vittoria rubata. Qui siamo su un campo di calcio: le bugie non sono ammesse dal regolamento».

E fece subito un gol anche dall'altra parte! Al suo posto, anche voi avreste fatto lo stesso.

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