Gelsomino canta sul serio; segue una furia e un putiferio

Nel manicomio dopo l'agitazione per la fuga di Bananito, era tornata la calma. Nelle camerate, nelle celle, nei corridoi tutti dormivano: vegliava soltanto, in cucina, il povero sguattero. Lui non poteva quasi mai dormire perché aveva sempre fame, e passava la notte a frugare tra i rifiuti in cerca di qualcosa di commestibile. Di Bananito e di quelli che gli davano la caccia non gli importava proprio nulla. Non gli importava nulia nemmeno di quel bizzarro giovanotto, non tanto «otto» per la verità, anzi piuttosto Piccolino, che si era piantato proprio in mezzo alla piazza, davanti al manicomio, e aveva cominciato a cantare.

Lo sguattero, mordendo alcune bucce di patate, lo guardava crollando la testa:

— Quello sì che è matto. S'è mai visto uno che invece di fare la serenata alle belle ragazze la viene a fare al manicomio? Del resto è affare suo. Però che voce robusta! Scommetto che adesso le sentinelle gli salteranno addosso.

Le sentinelle invece, stanche per la vana corsa dietro a Zoppino, dormivano come sassi.

Gelsomino, che aveva cominciato a cantare quasi sottovoce, per provare le corde vocali, adesso alzava il volume. Lo sguattero rimase lì a bocca aperta, dimenticandosi delle sue bucce.

— A sentirlo, quasi quasi passa la fame.

In quel momento i vetri del finestrino al quale s'era affacciato volarono in pezzi, e mancò poco che qualche pezzo gli si infilasse nel naso.

— Ehi, ma chi è che tira sassi?

Subito dopo, in diversi punti dell'enorme, tristissimo edificio, molti vetri cominciarono a spezzarsi uno dopo l'altro, dal primo all'ultimo piano.

I guardiani accorrevano nelle camerate e nelle celle, immaginando che si trattasse di una rivolta di prigionieri, ma dovevano subito cambiare idea: i prigionieri si erano svegliati, è vero, ma sembravano calmi, contenti, e si godevano la serenata.

— Ma chi è che rompe i vetri? — gridavano i guardiani.

— Silenzio, — si rispondeva da tutte le parti, — lasciateci sentire la canzone. Che ci importa dei vetri? Non sono mica nostri.

Poi cominciarono ad andare in pezzi anche le inferriate: le sbarre si rompevano come fiammiferi, si staccavano dalle finestre e piombavano giù nel fossato, dove facevano «plof» e colavano a picco.

Il direttore del manicomio, informato di quel che stava succedendo fu preso dai brividi.

— È il freddo, — spiegò ai suoi segretari. Ma dentro di sé pensava: «È il terremoto!».

Ordinò subito la sua automobile e, dicendo agli altri che correva ad avvertire il ministro, abbandonò il manicomio alla sua sorte e si rifugiò nella sua villa in campagna.

«Il ministro! — pensavano i segretari, pieni di rabbia. — Ha tagliato la corda, altro che ministro… E noi dobbiamo fare la fine del topo in trappola? Non sia mai!».

E uno dopo l'altro, in automobile e anche a piedi, attraversarono il ponte levatoio: le sentinelle, dopo un istante, non videro più nemmeno la loro schiena.

Era quasi l'alba. Un filo di luce grigia era apparso sui tetti. Per Gelsomino fu quasi un segnale che gli dicesse: canta più forte!

Allora avreste dovuto sentirlo: la voce usciva dalla sua bocca con la potenza del fuoco della terra quando esce dalla bocca di un vulcano. Tutte le porte di legno del manicomio volarono in polvere: quelle di ferro si curvarono abbastanza per non assomigliare più a porte, e chi ci stava rinchiuso dietro corse nei corridoi, saltando di gioia.

Sentinelle, infermieri e guardiani, a questo punto, si diressero l'uno dopo l'altro verso il portone d'uscita, dal quale, attraverso il ponte levatoio, si sbucava in piazza. Tutti si erano ricordati che avevano qualcosa di importante da fare fuori del manicomio.

— Devo lavare la testa al mio cane, — diceva uno.

— Sono stato invitato a passare qualche giorno al mare, — diceva un altro.

— Non ho cambiato l'acqua ai pesci rossi, e ho paura che muoiano.

Nessuno disse semplicemente che aveva paura, perché erano

troppo abituati a dire bugie.

Insomma, di tutto il personale di servizio, in breve in tutto il manicomio non rimase che il povero sguattero con il suo torso di cavolo in mano e la bocca aperta: la fame gli era veramente passata e per la prima volta nella sua vita si sentiva attraversato da pensieri piacevoli come una fresca corrente d'aria.

Romoletta fu la prima della sua camerata ad accorgersi che i guardiani erano tutti scappati.

— Che cosa aspettiamo a scappare anche noi? — disse a zia Pannocchia.

— È contrario ai regolamenti, — rispose zia Pannocchia, — ma d'altra parte i regolamenti sono contrari a noi. Dunque, andiamocene!

Si presero a braccetto e si avviarono verso le scale, che già una gran folla scendeva a precipizio. C'era una confusione orribile, ma zia Pannocchia distinse subito, in mezzo a mille altre, la voce dei suoi micetti. E loro, del resto, i sette piccoli allievi di Zoppino, avevano già riconosciuto fra mille la testa alta e il volto severo della loro protettrice e ben presto le saltarono al collo da tutte le parti, miagolando.

— Ecco, ecco, — mormorava zia Pannocchia, con le lacrime agli occhi, — torniamo a casa nostra. Uno, due, tre quattro… ci siete tutti? Sette, otto! Ce n'è uno di più!

Era il buon Fido, naturalmente: sulle braccia di zia Pannocchia c'era posto anche per lui.

Gelsomino aveva cessato di cantare: a tutti quelli che uscivano chiedeva notizie di Zoppino, ma nessuno era in grado di dargliene. Allora sì che perse la pazienza davvero.

— È rimasto nessuno là dentro? — gridò.

— Nessuno, non un'anima, — gli risposero.

— E allora, guardate.

Si riempì i polmoni d'aria, come i palombari quando si tuffano; si mise le mani ai lati della bocca, per essere ben sicuro che la voce andasse tutta in una sola direzione, e lanciò un acuto. Se vi sono abitanti con orecchie su Marte e su Venere, debbono averlo sentito anche loro.

Vi basti sapere che il palazzo barcollò, investito da un ciclone: tegole e comignoli volarono via come angioletti. Poi, cominciando dall'ultimo piano, i muri si piegarono, ondeggiarono, vennero giù con un gran frastuono e riempirono il fossato, schizzando acqua da tutte le parti.

La scena durò un minuto: lo sa bene lo sguattero che, rimasto là dentro anche dopo la fuga dei prigionieri, fece appena in tempo a tuffarsi dalla sua finestrella, ad attraversare il fossato con due bracciate e ad arrampicarsi sulla piazza prima che alle sue spalle crollasse tutto quanto.

Un evviva si levò da tutta la piazza, e proprio in quel momento spuntò il sole, neanche fosse corso qualcuno a chiamarlo dicendogli:

— Presto, se no perdi lo spettacolo!

Gelsomino fu portato in trionfo e i giornalisti non riuscirono ad avvicinarsi a lui per fargli dire le sue impressioni. Dovettero accontentarsi di intervistare Calimero La Cambiale, che, con gli occhi torvi, se ne stava in disparte.

— Ha niente da dichiarare al «PERFETTO BUGIARDO»? — gli domandarono i giornalisti.

— Miao, — rispose Calimero voltando loro le spalle.

— Ottimamente! — dissero i giornalisti, — Lei è uno dei testimoni oculari. Può dirci come mai non è successo niente?

— Miao! — fece ancora Calimero.

— Benissimo. Smentiremo nel modo più assoluto che il manicomio sia crollato e che i pazzi si siano sparsi per la città.

— Ma la volete capire, — sbottò Calimero, — la volete capire sì o no che io sono un gatto?

— Vorrà dire un cane, dal momento che miagola.

— Un gatto, un gatto! Sono un gatto e piglio i topi! Anzi, anzi, ora che vi guardo bene: voi potete nascondervi quanto vi pare, ma a me non la fate. Siete topi, e finirete sui miei artigli! Miao! Maramao!

E in così dire Calimero spiccò un salto. I giornalisti fecero appena in tempo a infilarsi la penna stilografica nel taschino e a saltare sulla loro automobile.

Il povero Calimero ricadde per terra e rimase lì a miagolare disperatamente per tutto il resto della giornata, finché un passante pietoso lo raccolse e lo portò all'ospedale.

Un'ora più tardi uscì un'edizione straordinaria del «PERFETTO BUGIARDO». Su tutta la prima pagina campeggiava un titolone a caratteri di scatola che diceva:

«UNA NUOVA MANCATA IMPRESA DEL TENORE GELSOMINO:

CANTANDO NON RIESCE A FAR CROLLARE IL MANICOMIO!»

Il direttore del giornale si fregava le mani dalla contentezza:

— Una smentita coi fiocchi! Oggi venderò centomila copie per lo meno!

Invece poco dopo gli strilloni del «PERFETTO BUGIARDO» tornavano con pacchi di giornali invenduti sul braccio. Nessuno aveva voluto comprarne una copia.

— Ma come? — gridava il direttore. — Non una copia sola? Che cosa legge, la gente, il calendario?

— No, signor direttore, — gli rispose uno strillone più coraggioso degli altri. — Non legge più neanche quello. Cosa vuole che se ne faccia di un calendario sul quale il mese di dicembre si chiama agosto?

Forse la gente sentirà caldo solo perché il nome del mese è cambiato? Stanno succedendo cose grosse, signor direttore. La gente ci ha riso in faccia e ci ha consigliato di adoperare il nostro giornale per farci delle barchette di carta.

In quella entrò nell'ufficio il cane del direttore, che aveva fatto una scorribanda in città per conto suo.

— Micio, qua micio! — lo chiamò meccanicamente il padrone.

— Bau, bau! — rispose il cane.

— Cosa? Tu abbai?

Per tutta risposta il cagnolino scodinzolò di gioia e abbaiò con più forza.

— Ma è la fine del mondo! — esclamava il direttore, tergendosi il sudore dalla fronte, — è veramente la fine del mondo!

Era soltanto la fine delle bugie. Il crollo del manicomio aveva messo in circolazione tutte insieme centinaia di persone che dicevano la verità, cani che abbaiavano, gatti che miagolavano, cavalli che nitrivano, come vogliono le regole della zoologia e della grammatica: la verità dilagava come un'epidemia, e ormai la maggioranza della popolazione ne era contagiata. I commercianti stavano già cambiando i cartelli sulla loro merce.

Un fornaio staccò la propria insegna, sulla quale era scritto «CARTOLERIA», la rivoltò e con un pozzetto di carbone ci scrisse: «PANE». Subito una gran folla si radunò davanti al negozio ad applaudire.

Ma la folla più numerosa si era raccolta sulla grande piazza davanti alla reggia. La guidava Gelsomino, cantando, e a quel canto gente accorreva da tutti i quartieri e perfino dai paesi vicini.

Giacomone, dalle finestre della sua stanza, vide il grande corteo e batte le mani per la gioia.

— Presto, presto, — gridò per far accorrere i cortigiani, — presto, il mio popolo vuole che io pronunci un discorso. Guardate come si radunano per farmi festa.

— Ma che festa è? — si domandavano l'un l'altro i cortigiani.

Vi sembrerà strano, ma non sapevano ancora che cosa era successo.

Gli spioni invece di precipitarsi alla reggia a riferire, si erano precipitati a cercarsi un nascondiglio qualunque.

Nella reggia di rè Giacomone i gatti abbaiavano ancora: erano gli ultimi gatti infelici di tutto il regno.

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