Il libro del destino, come sapete, non c'è. Non esiste nessun libro sul quale siano scritte le cose che succederanno: per scrivere un simile libro, bisognerebbe essere almeno almeno il direttore del «PERFETTO BUGIARDO». Dunque esso non esiste, e non esisteva nemmeno ai tempi di Giacomone.
È quasi un peccato. Se ci fosse stato, e se il povero sovrano in parrucca avesse potuto consultarlo, egli avrebbe letto alla data di quel giorno: «Oggi Giacomone non pronuncerà un discorso!».
Infatti, mentre egli impaziente aspettava che i servi spalancassero le vetrate per comparire sul balcone, la voce di Gelsomino cominciò a produrre i suoi effetti: le vetrate si sfasciarono, con un rumore di cascata.
— Fate più attenzione, — gridò Giacomone ai suoi servi.
Gli rispose un altro «patatrac», dalla sua stanza.
— Questo è lo specchio! — gridò Giacomone. — Chi ha rotto il mio specchio?
Sua Maestà si guardò attorno, stupito che nessuno gli rispondesse: ahi per lui! alle sue spalle era rimasto solo il vuoto. Ministri, ammiragli, ciambellani e cortigiani, al primo segnale, ossia al primo acuto di Gelsomino, si erano precipitati nelle loro stanze a cambiarsi d'abito: gettavano a terra senza complimenti gli splendidi costumi che avevano portato per tanti anni, tiravano fuori di sotto il letto la vecchia valigetta con i loro vestiti da pirati e brontolavano:
— Se faccio a meno della benda nera sull'occhio, potrò parere uno spazzino del municipio.
Oppure:
— Se non mi metto l'uncino in fondo alla manica della giacca, nessuno mi riconoscerà.
In compagnia di Giacomone erano rimasti solo i due servitori che avevano la mansione di aprire e chiudere le vetrate del balcone, e anche adesso che i vetri erano crollati tenevano in mano rispettosamente le maniglie e ogni tanto, con i pizzi delle maniche, le lucidavano.
— Andate anche voi, — sospirò Giacomone, — ormai tutto crolla intorno a me.
Difatti in quei momento stavano scoppiando le mille lampadine del lampadario. Gelsomino, quel giorno, faceva sul serio.
I servitori non si fecero pregare: camminando all'indietro e inchinandosi ogni tre passi raggiunsero la porta delle scale, fecero dietrofront, e per arrivare in basso più presto scivolarono sulla ringhiera.
Giacomone rientrò nella sua stanza, si tolse il costume da rè e si infilò un vestito da cittadino qualunque che aveva comperato per girare in incognito tra la folla (ma poi non se l'era messo, e tra la folla aveva preferito mandarci gli spioni). Era un vestito marrone, adatto per un cassiere di banca o per un professore di filosofia. Come stava bene con la parrucca arancione! Purtroppo bisognava levarsi anche quella, che era conosciuta più della corona reale.
— La mia bella parrucca! — sospirò Giacomone. — Anzi le mie belle parrucche!
Aprì il famoso armadio e le vide tutte in fila, pronte come teste di marionette prima dello spettacolo. A quella tentazione Giacomone non seppe proprio resistere: ne afferrò una dozzina e le cacciò nella valigia.
— Le porterò con rne in esilio, mi aiuteranno a ricordare questi tempi felici.
Scese le scale, ma mentre i suoi cortigiani le avevano scese fino in cantina, e qui si erano infilati nelle fogne come topi, Giacomone preferì uscire nel suo bel parco. Anzi, suo un bel niente: ma bello, verde, profumato.
Giacomone respirò ancora una volta quell'aria reale, poi aprì una porticina che dava su un vicolo, si accertò che nessuno lo vedesse, fece un centinaio di passi e si trovò in piazza, in mezzo alla folla che applaudiva Gelsomino.
Così pelato e vestito di marrone nessuno poteva riconoscerlo: con la valigia, poi, sembrava un viaggiatore di commercio.
— Forestiero, eh? — gli domandò subito un tale, battendogli allegramente una mano sulla spalla. — Venga, venga anche lei a godersi il concerto del tenore Gelsomino! È quello là, vede? Quel giovanottino che ha l'aria di un corridore ciclista, insomma, che non gli si darebbero due soldi. Sente che voce?
— Sento, sento, — borbottò Giacomone. E fra sé aggiunse: «E vedo…»
Vide il suo amato balcone precipitare in pezzi, vide quello che voi immaginate già: la reggia che crollava su se stessa come un castello di carte stanco di stare in piedi, sollevando un nuvolone di polvere.
Gelsomino fece un altro acuto per far volare via la polvere, e si videro soltanto le macerie.
— A proposito, — disse ancora a Giacomone il suo vicino, — sa che lei ha una magnifica pelata? Non si offenderà mica se glielo dico, vero? Guardi la mia.
Giacomone si passò una mano in testa e guardò, com'era stato invitato a fare, la testa del suo vicino, calva e rotonda e liscia più di una pallina da ping pong.
— È proprio una bella pelata, — disse Giacomone.
— Macché, è delle più comuni. La sua sì che è splendida! Adesso che ci batte il sole, poi, solleva dei riflessi meravigliosi, ci si fanno male gli occhi a guardarla!
— Via, via, lei è troppo buono, — mormorò Giacomone.
— Ma no, non esagero. Sa cosa le dico? Che se lei facesse parte del nostro Club dei calvi, sarebbe subito eletto presidente.
— Presidente?
— A pieni voti.
— Avete un Club dei calvi?
— Certo. Fino, a ieri era un club segreto, ma adesso diventerà pubblico: ne fanno parte i migliori cittadini. E non è mica facile essere ammessi, sa? Bisogna provare di non avere più nemmeno un pelo in testa. C'è chi se li strappa, per entrare nel nostro club.
— E lei dice che io?…
— Lei potrebbe diventare il nostro presidente. Sarei pronto a scommetterci!
Giacomone sentì che stava per commuoversi.
«Dunque, — pensava, — dunque ho proprio sbagliato tutto! Ho sbagliato carriera. E adesso è troppo tardi per ricominciare…»
Approfittando di un movimento della folla, si allontanò dal suo interlocutore, uscì dalla piazza e se ne andò per le strade deserte, mentre nella valigia le sue dodici parrucche frusciavano tristemente.
Qua e là vide spuntare dai tombini certe teste che gli parve di riconoscere. Non erano i suoi pirati, quelli? Ma le teste sparivano subito alla vista di un cittadino come lui, calvo e vestito di marrone, dignitoso e calmo.
Giacomone si diresse verso il fiume, deciso a por fine ai suoi giorni. Ma quando fu sulla sponda cambiò decisione. Aperse la valigia, ne tolse le parrucche e, una alla volta, le gettò nell'acqua.
— Addio, — mormorava Giacomone, — addio, piccole bugiarde.
Le parrucche non andarono mica perdute: le pescarono, quel giorno
stesso, i ragazzini che infestavano le rive del fiume peggio dei coccodrilli. Le fecero asciugare al sole, se le misero in testa, e fecero un bellissimo corteo. Erano allegri e cantavano, eppure quello era il funerale del regno di Giacomone.
Mentre Giacomone se ne va per sempre, ed è ben fortunato di potersene andare, forse in qualche posto dove diventerà presidente, o almeno segretario, di un dignitosissimo Club dei calvi, noi torniamo a dare un'occhiata in piazza.
Gelsomino, finita la sua terribile canzone, si asciugò il sudore mormorando:
— E anche questa è fatta.
Al cuore, però, provava sempre la puntura di una spina: Zoppino non si era fatto vivo.
— Ma dove sarà finito? — si domandava il nostro eroe. — Non vorrei che fosse rimasto sotto le macerie del manicomio. Sono tanto bravo a fare disastri, io.
La folla, però, non gli diede il tempo di crucciarsi troppo.
— La colonna! — gridavano da tutte le parti. — Bisogna abbattere la colonna!
— Ma perché?
— Perché vi sono narrate le imprese di rè Giacomone: tutte bugie, anche quelle, perché Giacomone non si è mai mosso dal suo palazzo.
— Va bene, — disse Gelsomino, — farò una serenata come si deve anche alla colonna. Sgombrate tutt'attorno, che non vi caschi addosso.
La gente che si trovava presso la colonna si ritirò precipitosamente, la folla in tutta la piazza ondeggiò come l'acqua in una bagnarola. E finalmente Gelsomino potè vedere là, sulla colonna, a un paio di metri da terra un ben noto scarabocchio con tre zampe…
— Zoppino! — chiamò, mentre la spina gli cadeva dal cuore.
Il disegno tremò, le sue linee si curvarono per un attimo, poi tornarono immobili.
— Zoppino! — chiamò più forte Gelsomino.
Questa volta la voce penetrò nel marmo, vincendone la resistenza: Zoppino si staccò dalla colonna e saltò a terra, zoppicando.
— Meno male, meno male, — miagolava, baciando Gelsomino su una guancia, — se non c'eri tu sarei rimasto appiccicato a quella colonna e gli acquazzoni avrebbero finito col lavarmi via. Io amo la pulizia, tutti lo sanno: ma morire lavato, non mi sarebbe piaciuto affatto.
— Ci sono sempre io, — si udì esclamare Bananito, che a forza di gomitate e spintoni era riuscito a farsi strada per raggiungere i suoi e nostri amici. — Se mai ti succederà qualcosa di simile, io ti ridisegnerò tale e quale, più bello e più vero di prima!
Tre amici che si ritrovano hanno tante cose da dirsi: lasciamoli soli e tranquilli.
E la colonna?
Ma che noia volete che dia una colonna: le sue bugie serviranno a ricordare alla gente che un giorno su quel paese regnò un gran bugiardo, e che una canzone ben cantata bastò a far crollare il suo regno.