XXII

Quando aprirono la porta, si trovarono in un grande stanzone, con un camino in fondo. Davanti al camino stava una tavola circondata da sedie. Due persone erano sedute, rivolte verso il fuoco, e voltavano le spalle ai nuovi arrivati. Una donnetta rotonda, con la faccia da luna piena, uscì di corsa dalla cucina, asciugandosi le mani sul grembiule a quadretti.

— E così siete già arrivati — esclamò. — È una sorpresa. Siete venuti prima di quanto immaginassi.

Si fermò davanti a loro, continuando ad asciugarsi le mani, e li scrutò. Alzò una mano per scostarsi una ciocca di capelli dalla faccia di luna piena.

— Oh, oh! — esclamò, un po’ agitata. — Siete quattro! Ne avete perduti due soli, passando dalla città. Quelli seduti accanto al fuoco ne hanno perduti quattro, e ci sono gruppi che spariscono completamente.

Un suono lieve indusse Lansing a lanciare un’occhiata verso l’altra estremità dello stanzone, l’angolo in ombra più lontano dal fuoco e vide i giocatori di carte raccolti intorno a un tavolo. Erano assorti e non prestavano attenzione ai nuovi arrivati. Il suono che aveva sentito, notò Lansing, era stato quello delle carte posate sul piano del tavolo.

Indicò i giocatori con un cenno.

— Quando sono arrivati? — chiese.

— Ieri sera — rispose la donna. — Si sono seduti là e hanno incominciato a giocare. Non hanno ancora smesso.

I due che stavano seduti accanto al fuoco si erano alzati e si stavano avvicinando. Una era una donna bionda, alta e flessuosa; l’altro era un uomo, e a Lansing ricordava un piazzista che una volta aveva cercato di vendergli un pacchetto di azioni non molto raccomandabili.

La donna tese la mano a Mary. — Mi chiamo Melissa. Non sono umana, anche se lo sembro. Sono una marionetta.

Non diede altre spiegazioni, ma strinse la mano a tutti.

— Io sono Jorgenson — disse l’uomo. — E sono felicissimo di vedervi. Noi due siamo spaventati, devo confessarlo. Siamo rintanati qui da diversi giorni e non riusciamo a deciderci a continuare questo viaggio insensato che sembra siamo condannati a compiere, anche se non vogliamo.

— Capisco benissimo perché la pensate così — disse Lansing. — Tutti noi, credo di poterlo affermare, abbiamo provato le stesse sensazioni.

— Torniamo accanto al fuoco — disse Jorgenson. — Abbiamo una bottiglia che non siamo riusciti a finire. Forse potrete aiutarci.

— Molto volentieri — disse Lansing. — Grazie dell’invito.

La donna con il grembiule, che evidentemente era la padrona della locanda, era scomparsa. I giocatori di carte non li degnarono della minima attenzione.

Quando furono seduti davanti al fuoco con i bicchieri in mano, Jorgenson disse: — Ora, forse, dovremmo far conoscenza e scambiarci esperienze e pensieri. Per quanto mi riguarda, sono un viaggiatore nel tempo. Quando sono arrivato qui, pensavo d’essere semplicemente di passaggio… e se fosse stato così, me ne sarei andato da un pezzo. Ma non è così. Perché non è così, non lo so. Non sono certo di capire che cos’è successo: non mi era mai capitato di restare incastrato nel tempo.

Lansing assaggiò il liquore. Era ottimo. Ne bevve un altro sorso.

— Come ho già detto — intervenne Melissa, — io sono una marionetta. Non ho ben chiaro in mente che cosa sia una marionetta, anche se a quanto ho capito è l’imitazione di un umano. Per la verità noi siamo pochi, o meglio eravamo pochi, perché io non sono più là… Eravamo pochi e risiedevamo in quella che, credo, si potrebbe chiamare la città assoluta, un luogo molto comodo e pratico, dove vivevamo esistenze che si potrebbero definire piacevoli, a parte il fatto che non avevano uno scopo e questo talvolta può essere un po’ deprimente. Come ho detto, siamo pochi, e può darsi che tutti noi siamo marionette, anche se non ho mai osato chiederlo… vedete, temevo d’essere l’unica marionetta tra tutti gli altri, e se così fosse sarebbe spaventoso.

— Per anni — disse Jorgenson, — io ho cercato un certo tempo e un certo luogo. Una volta, in passato, ci sono stato per un po’ e in seguito, senza volerlo, ne sono uscito. Da allora l’ho sempre cercato, e per quanto mi sforzi, sembra che non riesca a ritornarci. Mi sono chiesto se, per qualche ragione inspiegabile, mi è diventato inaccessibile. E se dovesse essere vero, mi domando il perché.

— Se l’avessi bene in mente — disse Mary, — forse ti aiuterebbe a trovarlo. Voglio dire, se conoscessi bene il tempo e il luogo…

— Oh, il tempo e il luogo li conosco piuttosto bene. È nel 1920 o poco dopo, i cosiddetti Venti Anni Ruggenti, anche se quando ci sono stato io non c’erano ruggiti. C’era pace e tranquillità, la tranquillità e la pace d’una interminabile giornata estiva. Il mondo non aveva ancora raggiunto la cinica sofisticazione di qualche decennio più tardi. Credo, per la verità, di averlo individuato piuttosto bene. Penso che fosse il 1926, nel mese di agosto. Era una sonnolenta cittadina in riva al mare, sulla costa orientale. Nel Massachusetts, forse, o più probabilmente nel Delaware e nel Maryland.

— Tutti i nomi che dici per me non significano niente — protestò Melissa. — Mi hai parlato dell’America del Nord, ma io non conosco nessuna America del Nord. Conosco soltanto il posto dove vivevamo. Era costruito con magnificenza, e avevamo piccoli servitori meccanici premurosi che lo tenevano pulito e in ordine e provvedevano alle nostre esigenze. Ma non c’erano nomi di luogo, e non aveva nome neppure il posto dove vivevamo. Non avevamo bisogno di sapere se aveva un nome, e non desideravamo andare altrove, quindi non c’erano nomi di luogo, per gli altri posti, anche ammettendo che ci fossero altri posti.

— Quando siamo arrivati qui — disse Jorgenson, — eravamo sei.

— Anche noi eravamo sei — disse Mary. — Chissà se i gruppi come i nostri sono sempre formati da sei persone.

— Non saprei — disse Jorgenson. — Il nostro gruppo e il vostro sono i soli di cui sappia qualcosa.

— C’era un idiota — disse Melissa. — Non uno di quelli che sbavano, anzi… era molto simpatico. Divertentissimo. Scherzava sempre e inventava giochi di parole sfacciati. E c’era il giocatore d’azzardo del Mississippi. Non l’ho mai chiesto, prima, perché non volevo rivelare la mia ignoranza. Ma adesso voglio saperlo. Qualcuno sa dirmi che cos’è un Mississippi?

— È un fiume — disse Lansing.

— La locandiera ha detto che avete perduto gli altri quattro nella città — disse Mary. — Potete dirci come li avete perduti?

— Non sono tornati — rispose Melissa. — Un giorno siamo andati tutti in cerca di qualcosa. Non sapevamo che cosa stessimo cercando. Molto prima di notte, noi due siamo tornati dove eravamo accampati, nella piazza. Abbiamo acceso il fuoco e preparato la cena, e abbiamo atteso gli altri. Li abbiamo aspettati per tutta la notte, ma non sono tornati. E poi, tremando di paura, siamo andati a cercarli. Li abbiamo cercati per cinque giorni, ma non ne abbiamo trovato traccia. E tutte le notti una bestia enorme usciva sulle colline sopra la città e urlava contro il destino.

— Poi avete trovato la strada a ovest della città e alla fine avete raggiunto questa locanda — disse Sandra.

— Appunto — disse Jorgenson. — Da allora siamo rimasti rintanati, senza il coraggio di proseguire.

— La locandiera — disse Melissa, — ci ha fatto capire che dovremmo andarcene. Sa che non abbiamo più denaro. Due del nostro gruppo avevano denaro, ma adesso non sono più con noi.

— Noi abbiamo un po’ di denaro — disse Lansing. — Pagheremo il vostro conto, e potrete viaggiare con noi.

— Avete intenzione di proseguire? — chiese Melissa.

— Naturalmente — disse Jurgens. — Che altro potremmo fare?

— Ma non ha senso! — esclamò Jorgenson. — Se almeno sapessimo perché siamo qui, e che cosa dovremmo fare! Voi sapete qualcosa?

— Niente — rispose Mary.

— Siamo ratti che corrono in un labirinto — disse Lansing. — Può darsi che ci vada bene.

— Quando ero a casa mia — disse Melissa, — prima di venire trasportata qui, avevamo tavoli da gioco. Giocavamo per ore, a volte giorni. Erano giochi senza regole, e le regole saltavano fuori via via. E anche quando le regole erano stabilite, o noi credevamo che lo fossero, cambiavano.

— Qualcuno riusciva a vincere? — chiese Mary.

— Non ricordo. Non credo che vincessimo mai. Nessuno vinceva, no. Ma non ci dispiaceva, naturalmente. Era soltanto un gioco.

— Questo gioco è una realtà — disse cupamente Jorgenson. — Abbiamo puntato le nostre vite.

— Vi sono alcuni scettici — disse Lansing, — pronti a sostenere che non esiste un principio permanente nell’universo. Poco prima di lasciare il mio mondo ho parlato con un uomo, un mio amico, un amico chiacchierone, il quale sosteneva che l’universo potrebbe operare a caso, o anche peggio. Non posso crederlo. Dev’esserci un elemento di razionalità. Devono esistere causa ed effetto. Deve esistere una finalità, anche se qualche altro essere, più intelligente, ce lo esponesse e ce lo spiegasse dettagliatamente, forse non riusciremmo comunque a comprenderlo.

— Allora non ci sono molte speranze per noi — disse Jorgenson.

— No, credo che non ci siano. Ma forse può significare che c’è qualche speranza. Non siamo completamente allo sbando.

— Ci sono misteri — disse Jurgens, — e sto parlando nel senso migliore della parola, non nella sua connotazione più volgare e sensazionale, ci sono misteri che si possono districare, se ci si mette d’impegno.

— Abbiamo chiesto alla locandiera che cosa c’è, più avanti — disse Melissa. — Ma non ha saputo dirci quasi nulla.

— Esattamente come quel briccone della prima locanda — disse Jorgenson. — Quello ci aveva parlato soltanto del cubo e della città.

— La locandiera — disse Melissa, — sostiene che più avanti, a una certa distanza, troveremo una torre che canta. Ed è tutto. A parte questo, dice che dovremmo viaggiare verso ovest, non verso nord. A nord, dice, c’è il Caos. Il Caos, con l’iniziale maiuscola.

— Quella non sa che cos’è il Caos — disse Jorgenson. — Conosce la parola e basta. Rabbrividisce, quando la pronuncia.

— Allora ci dirigeremo verso nord — disse Jurgens. — Io tendo a insospettirmi quando qualcuno sconsiglia di percorrere una certa strada. Ho la sensazione che là si possa trovare qualcosa che non dovremmo trovare.

Lansing finì di bere e posò il boccale sul tavolo. Si alzò lentamente, attraversò lo stanzone e si accostò alla tavola dove i quattro stavano giocando a carte.

Restò fermo per lunghi istanti, e nessuno dei quattro gli prestò la minima attenzione: come se non l’avessero visto avvicinarsi. Poi uno alzò la testa e la girò per guardarlo.

Lansing indietreggiò d’un passo, inorridito. Gli occhi erano fori bui nel teschio, due sferule d’ossidiana nera. Il naso non era un naso: erano due fenditure che servivano per respirare, intagliate nello spazio tra gli occhi e la bocca. La bocca era un altro squarcio, privo di labbra. Il mento non esisteva: la faccia si fondeva nel collo in una linea obliqua.

Lansing girò sui tacchi e si allontanò. Quando tornò al tavolo accanto al fuoco sentì Sandra esclamare, con uno strano tono melodioso: — Non vedo l’ora di raggiungere la torre che canta!

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