IX

— Accidenti — disse Mary. — C’è quel dente d’arresto rotto, o almeno credo che sia un dente d’arresto. Se avessimo il pezzo di ricambio, potremmo rimetterlo in sesto.

— Mi dispiace — disse Jurgens. — È un pezzo di ricambio che non porto con me. Qualche pezzo normale, certo, ma quello no. Non posso portare tutti i pezzi di ricambio di cui potrei aver bisogno. La ringrazio, signora, per il lavoro che ha fatto. Sarebbe stato molto difficile, farlo da solo.

— La gamba è rigida — disse Lansing. — Non può piegare il ginocchio; e anche dopo la riparazione, l’articolazione dell’anca non funziona troppo bene.

— Posso muovermi — disse Jurgens. — Ma senza agilità. Dovrò camminare adagio. Rallenterò la marcia.

— Ti preparerò una gruccia — disse Lansing. — Forse impiegherai un po’ di tempo per imparare a servirtene; ma quando ti sarai abituato ti sarà d’aiuto.

— Per continuare il viaggio con voi — disse Jurgens, — sarei disposto a trascinarmi a carponi.

— Ecco i tuoi utensili — disse Mary. — Rimettili nella cassetta. È meglio che li riponi.

— Grazie — disse Jurgens. Prese la cassettina degli utensili, aprì lo sportello della cavità toracica, vi sistemò la cassetta e richiuse. Si battè la mano sul petto per assicurasi che lo sportello fosse bloccato a dovere.

— Credo che il caffè sia pronto — disse Mary. — La cena forse no, ma sento l’odore del caffè e ne vorrei una tazza. Edward, mi fa compagnia?

— Fra un momento — disse Lansing.

Accosciato accanto a Jurgens, la seguì con lo sguardo mentre lei si avviava verso il fuoco.

— Vada a bere il caffè — disse Jurgens. — Non è necessario che resti con me.

— Il caffè può aspettare — disse Lansing. — Poco fa hai detto qualcosa. Che saresti disposto a trascinarti carponi, pur di venire con noi. Jurgens, che cosa succede? Sai qualcosa che noi non sappiamo?

— Non so niente. Ma voglio venire con voi.

— Ma perché? Siamo un gruppo di profughi. Siamo stati strappati ai nostri mondi, alle nostre culture e non sappiamo perché siamo qui…

— Lansing, che cosa sa della libertà?

— Ecco, non molto, credo. Nessuno pensa alla libertà, fino a quando la perde. Nel posto da dove sono venuto io l’avevamo. Non dovevamo lottare per conquistarla. Era una cosa naturale, scontata. Ci pensavamo molto di rado. Non dirmi che tu…

— No, non nel modo che intende lei. I robot del mio mondo non sono oppressi. In un certo senso, credo, eravamo liberi. Ma avevamo un onere, una responsabilità. Aspetti, lasci che cerchi di spiegarglielo.

— Certo — disse Lansing. — Alla locanda hai detto che vi prendevate cura dei vostri umani e che voi ne avevate cura.

— Prima che parli io — disse Jurgens, — mi dica una cosa. Ha riferito quello che le spiegava il suo amico… mi pare abbia detto che farneticava, o qualcosa del genere. A proposito dei mondi alternativi, delle terre alternative che si scindevano l’uno dall’altro in certi punti critici. E lei ha detto, mi pare, che forse è accaduto proprio questo.

— Sì, l’ho detto. Nonostante sia un’idea pazzesca…

— E ognuno di quei mondi alternativi seguirebbe una propria linea. Esisterebbero simultaneamente, nel tempo e nello spazio. Potrebbe significare che, se veniamo davvero da mondi alternativi diversi, proveniamo tutti dalla stessa struttura temporale?

— A questo non avevo pensato — disse Lansing. — E non lo so, sinceramente. Devi capire che sono soltanto supposizioni. Ma se la teoria dei mondi alternativi fosse vera e se noi venissimo da tali mondi, non vedo alcun motivo per credere che dovremmo provenire tutti dalla stessa struttura temporale. Chiunque ci abbia portato qui, potrebbe avere probabilmente concenzioni arbitrarie anche per quanto riguarda il tempo.

— Sono contento di sentirglielo dire, perché mi preoccupavo. Io devo provenire da una struttura temporale molto successiva a quelle di tutti voi. Vede, io esistevo in un mondo che era stato abbandonato dalla razza umana.

— Abbandonato?

— Sì, se ne erano andati su altri mondi, orbitanti intorno ad altre stelle. Nello spazio lontano. Non so fin dove si fossero spinti. La Terra, la mia Terra, era esaurita. L’ambiente era rovinato, le risorse naturali consumate. Le ultime risorse erano state utilizzate per costruire le navi che avevano portato gli umani nello spazio. La lasciarono spogliata e sventrata…

— Ma qualche umano era rimasto. Erano pochi, hai detto.

— Sì, alcuni umani erano rimasti… i buoni a nulla, gli incapaci, gli inetti, gli idioti. Quelli che non valevano lo spazio che avrebbero occupato sulle navi. Ed erano rimasti anche i robot… quelli antiquati e superati e che in un modo o nell’altro erano sfuggiti alla demolizione. Gli incapaci erano rimasti, sia gli umani che i robot, mentre gli altri, gli umani intelligenti e normali, i robot sofisticati, avevano lasciato la Terra in cerca di una nuova vita. Noi, i reietti di millenni d’evoluzione, venimmo abbandonati perché ci arrangiassimo come potevamo. E noi robot abbandonati, abbiamo cercato per secoli di fare il nostro meglio per quei pochi umani rimasti. Non ci siamo riusciti… per secoli, non ci siamo riusciti. I discendenti di quei disgraziati che furono lasciati sulla Terra non sono migliorati dal punto di vista mentale o morale, nel corso degli anni. A volte c’era qualche scintilla di speranza, due o tre che, in una generazione, rappresentavano una certa promessa; ma la promessa si perdeva sempre nella palude del pool genetico. Alla fine avevo dovuto ammettere che gli umani stavano declinando, anziché migliorarsi, e che per loro non c’era speranza. Ad ogni generazione diventavano sempre più immondi, sempre più crudeli, più indegni.

— E voi eravate prigionieri — disse Lansing. — Prigionieri della vostra devozione agli umani.

— Ha detto bene — disse Jurgens. — Vedo che lei capisce. Eravamo prigionieri, davvero. Sentivamo di dover restare, perché dovevamo a quegli esseri degenerati il meglio che potevamo dar loro, e che non bastava mai.

— E adesso che sei uscito da quella situazione, ti senti libero.

— Sì, libero. Più libero di quanto mi sia mai sentito nella mia esistenza. Finalmente sono padrone di me stesso. È sbagliato?

— Non credo che sia sbagliato. Hai terminato un compito sgradevole.

— Ecco, qui, come dice lei — continuò Jurgens, — non sappiamo dove siamo e che cosa dobbiamo fare. Ma almeno abbiamo voltato pagina, possiamo ricominciare daccapo.

— E tu sei fra gente che è contenta di averti come compagnia.

— Di questo non sono tanto sicuro. Il reverendo non ha molta simpatia per me.

— Al diavolo il reverendo — disse Lansing. — Io sono contento che tu sia con noi. Con la possibile eccezione del reverendo, siamo tutti lieti di averti qui. Devi ricordare che è stato il reverendo che è venuto a raccoglierti e a portarti via quando ti sei ferito. Resta comunque il fatto che è un bigotto.

— Darò buona prova di me — disse Jurgens. — Anche il reverendo finirà per accettarmi.

— È questo che stavi cercando di fare quando sei corso verso il muro? Volevi dar buona prova di te?

— Al momento non ci pensavo. Pensavo che era necessario fare qualcosa, e mi sono mosso per farlo. Ma sì, credo che forse stavo cercando di dimostrare…

— Jurgens, è stato un gesto stupido. Promettimi che non farai altre stupidaggini.

— Farò il possibile. Me lo dica lei, quando mi comporto da stupido.

— La prossima volta — disse Lansing, — ti darò una botta in testa con la prima cosa che mi capita sottomano.

Il generale di brigata chiamò Lansing. — Venga! La cena è pronta.

Lansing si alzò. — Non vuoi venire con me a raggiungere gli altri? Su, appoggiati. Ti aiuterò.

— Non credo — disse Jurgens. — Adesso devo riflettere.

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