XXVII

Al mattino presto, il secondo giorno dopo che Lansing s’era messo in marcia verso la locanda, il Lamentatore comparve. Era sulla cima di una collina parallela alla strada e, mentre Lansing camminava, il Lamentatore procedeva lentamente, passo passo. Quando, a volte, Lansing restava indietro, il Lamentatore si fermava e si sedeva, pesantemente, per attenderlo. Quando, una volta, Lansing si spinse un po’ più avanti, il Lamentatore allungò l’andatura, con scioltezza, e lo raggiunse.

Era sconcertante, a dir poco. Lansing fece del suo meglio per non tradire l’agitazione. Sebbene ogni tanto gli lanciasse un’occhiata di sbieco per sorvegliarlo, cercava di fingere d’ignorarlo. Dopo un po’, si diceva, avrebbe rinunciato a quel gioco e se ne sarebbe andato per i fatti suoi. Ma il Lamentatore non sembrava intenzionato a farlo.

Era una bestia poderosa, più simile a un lupo di quanto fosse apparsa quando l’avevano vista sulla cima della mesa, e aveva un’aria poco raccomandabile. Era un vagabondo, pensò Lansing. Finora non aveva fatto mosse ostili, ma questo non garantiva che non ne avrebbe fatte. Da un momento all’altro poteva scatenarsi come una furia. E se fosse andata così, nessuno poteva sperare di tenergli testa. Lansing slacciò il fodero del coltello per tenerlo pronto sottomano, ma non sperava che servisse a molto, se l’animale si fosse avventato alla carica.

Mary, pensò. Forse era quella bestia, la ragione che aveva indotto Mary a lasciare l’accampamento? L’aveva messa in fuga? E dov’era andata? Ma era andata in qualche posto? Oppure la belva, dopo aver giocato anche con lei, s’era decisa ad assalirla? Lansing si piegò, sopraffatto dalla nausea a quel pensiero.

Se Mary era fuggita per sottrarsi alla belva, senza dubbio s’era diretta verso la locanda, perché era l’unico posto che potesse assicurare una protezione. Dio voglia, pregò, Dio voglia che l’abbia raggiunta.

La belva si andava avvicinando, scendendo il fianco della collina verso di lui, e dimenava la coda (e un lupo, ricordò, non la dimena mai), e rideva aggricciando le labbra e mettendo in mostra la chiostra di denti. Per distanziarla, Lansing abbandonò la pista, tagliando obliquamente verso sud-est. Il Lamentatore attraversò la strada e lo seguì, procedendo parallelo a lui ma facendosi sempre più vicino. Lo spingeva verso sud-est, sempre di più.

Il gioco continuò per ore. Il sole raggiunse lo zenith e incominciò a declinare verso occidente. Più avanti, Lansing lo ricordava, scorreva il fiume che proveniva da ovest e si gettava nell’altro fiumicello, quello che avevano fiancheggiato attraversando le maleterre. Sulla punta, alla confluenza dei due corsi d’acqua, c’era la locanda. Non poteva permettere che la belva Io costringesse ad attraversare il fiume. Altrimenti non avrebbe raggiunto la locanda, e il Lamentatore avrebbe continuato a incalzarlo fino a che fosse crollato per lo sfinimento.

Quando giunse sulla cima di una bassa cresta, nel pomeriggio inoltrato, vide il fiume. Scese il pendio per raggiungerlo, e il Lamentatore lo seguì. Quando arrivò sulla riva, si fermò e si voltò. Il Lamentatore era a meno di quindici metri. Lansing estrasse il coltello dalla cintura e attese.

— Sta bene — chiese al Lamentatore, — che cosa intendi fare?

Il Lamentatore era enorme. Era alto tre metri al garrese. Abbassò la testa, protese il muso e venne verso di lui, lentamente, prima un passo e poi un altro. Era irsuto e orribile. Sembrava un letto sfatto. Ed era enorme… Dio, se era enorme! Un morso e l’avrebbe stritolato.

Lansing strinse più forte l’impugnatura del coltello, ma non l’alzò. Non mosse un muscolo; rimase irrigidito, immobile, di fronte all’avanzata della belva. Il Lamentatore continuò ad avvicinarsi, adagio. Protese il muso, quasi toccandolo, e ringhiò.

Con uno sforzo di volontà, Lansing non si mosse. Si chiese vagamente che cosa sarebbe accaduto se si fosse mosso. Ed era sorpreso di non averlo fatto.

La belva avanzò di un altro passo. Il muso era a una trentina di centimetri da lui. Questa volta non ringhiò. Continuando a stringere il coltello, Lansing alzò la mano libera e la posò sul muso. La belva irsuta uggiolò di gioia. Si accostò, gli premette il muso contro il petto, costringendolo ad arretrare un poco. Lansing accarezzò ancora il muso, poi gli grattò un orecchio. La belva piegò la testa perché lui potesse grattarlo meglio.

Lansing continuò a grattargli l’orecchio, e il Lamentatore tenne la testa in modo da farsi grattare. Borbottava sommessamente. Spinse Lansing indietro di un altro passo, urtandolo con un movimento affettuoso.

— Basta — disse Lansing. — Non posso continuare a coccolarti tutto il giorno. Devo proseguire.

Come se avesse compreso, la grossa belva bofonchiò. Lansing arretrò di un altro passo verso il fiume. Poi staccò la mano dalla testa enorme, lentamente, si voltò, e incominciò a guadare il corso d’acqua.

Continuò a guadare. L’acqua era diaccia. Non si voltò indietro fino a quando arrivò al centro, con l’acqua alle ginocchia. Poi guardò. Il Lamentatore era rimasto sulla riva, con aria desolata, e lo seguiva con gli occhi. Avanzò d’un passo, immerse una zampa nell’acqua, poi la ritrasse e la scosse.

Lansing rise e proseguì. Quando arrivò sull’altra sponda, si voltò di nuovo. La belva era ancora dalla parte opposta. Vedendo che Lansing s’era fermato a guardarlo, avanzò nell’acqua per due passi, quindi indietreggiò e si scrollò.

— Arrivederci, amico — disse Lansing. S’incamminò lungo il fiume, ad andatura decisa. Dopo ottocento metri si voltò ancora a guardare. La belva non aveva attraversato. A quanto pareva, non amava l’acqua fredda.

Lansing allungò il passo. Nonostante ciò che era accaduto, si disse, non sarebbe stata una cattiva idea mettere la massima distanza possibile tra sé e il Lamentatore. Non era una bestia che desse molto affidamento.

Il sole tramontò, ma Lansing non si fermò per passare la notte. Continuò a camminare, corricchiando ogni tanto, a volte correndo, per procedere più in fretta che poteva. La luna, che ormai aveva superato la fase del plenilunio, gettava una luce bianca e fredda sul territorio deserto. Il fiume scorreva gorgogliando verso est. All’alba si fermò e accese un fuoco, preparò il caffè e mangiò qualcosa. Del Lamentatore non c’era traccia.

Era stanco e avrebbe voluto dormire, ma dopo una breve sosta ripartì, proseguendo lungo il fiume. Il sole stava scendendo obliquamente quando arrivò alla locanda.

Lo stanzone era vuoto, buio e freddo. Il camino era spento. I giocatori di carte non erano al loro tavolo.

Lansing chiamò e nessuno gli rispose. Attraversò la stanza e si lasciò cadere su una sedia, davanti al camino spento. Si rannicchiò, esausto.

Dopo un po’, la donna dalla faccia di luna piena e dal grembiule a quadretti uscì dalla cucina.

— Oh — disse. — È ancora lei.

Con voce gracchiante, Lansing chiese: — È venuta qui una donna? Una donna giovane? In questi ultimi due giorni?

— Oh, sì, è stata qui.

— E adesso dov’è?

— È ripartita questa mattina. Questa mattina presto.

— Ha notato dov’è andata? Che direzione ha preso?

— No, non l’ho notato, signore. Avevo da fare.

— Non ha lasciato detto qualcosa? Non ha lasciato un biglietto?

La donna disse: — Mi pare di sì. L’ho messo via. Ora vado a prenderlo.

Corse fuori, e Lansing attese. Dopo un po’ la donna ritornò portando una bottiglia e un boccale e li mise sul tavolo davanti a lui.

— Non so come sia successo — gli disse. — Ma non riesco a trovare il biglietto. Devo averlo perso.

Lansing scattò in piedi, furioso. — Come può aver perso un biglietto? Un biglietto che le è stato dato questa mattina?

— Non so come ho fatto, signore. Ma a quanto pare l’ho perso.

— Bene, allora lo cerchi. Guardi meglio.

— Ho cercato dappertutto — disse. — Non è dove credevo di averlo messo. Non c’è da nessuna parte.

Lansing si lasciò ricadere sulla sedia. La donna gli versò da bere e glielo porse. — Accenderò il fuoco, così si scalderà, e le preparerò qualcosa — disse. — Probabilmente ha fame.

— Sì, ho fame — ringhiò Lansing.

— La signora — disse la donna, — non aveva denaro…

— Maledizione — gridò Lansing. — Pagherò io il suo conto. È sicura che il biglietto si sia perso?

— Sicurissima, signore — disse la locandiera.

Lansing rimase seduto a bere, incupito, mentre lei accendeva il camino.

— Si fermerà questa notte? — chiese la locandiera.

— Sì — rispose lui. — Partirò domattina presto.

Dove poteva essere andata Mary? Alla torre che cantava, per aspettarlo, sapendo che lui sarebbe arrivato? Oppure aveva riattraversato le maleterre per tornare alla città? No, non era tornata alla città, pensò, no, certamente. O forse sì. Poteva anche darsi. Forse aveva pensato che ci fosse qualcosa da esaminare meglio, un aspetto della città che prima avevano trascurato. Ma perché non l’aveva atteso lì? Sapeva indubbiamente che l’avrebbe seguita.

Continuò a riflettere, considerando i pensieri che gli affioravano via via nella mente. Quando la locandiera venne a portargli la cena, aveva preso una decisione. Sarebbe ritornato alla torre che cantava; e se non l’avesse trovata lì, si sarebbe rimesso in cammino… dalla torre alla locanda, e poi verso la città. Se Mary non fosse stata nella città, sarebbe tornato al cubo. Continuava a ricordare che Mary aveva sempre pensato che la soluzione fosse il cubo.

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