XXV

Dalla locanda alla torre il territorio era divenuto progressivamente più arido. A nord della torre, l’aridità diventava deserto. Viaggiare era disagevole. La sabbia scivolava sotto i piedi, e c’erano dune da salire. Il vento soffiava incessantemente da nord-ovest e gettava loro in faccia turbini di sabbia.

Non parlavano. Procedevano a testa bassa, controvento, e Jurgens consultava la bussola e sceglieva il percorso. Ostinatamente, continuarono a proseguire verso nord. Il robot avanzava claudicando e Lansing lo seguiva faticosamente. All’inzio era stato Lansing ad andare avanti, mentre il robot gli zoppicava dietro. Ma poiché Lansing si stancava e Jurgens no, era passato all’avanguardia.

Dopo parecchie ore le dune scomparvero quasi completamente, e il terreno divenne più solido, pur restando sabbioso.

Mentre guardava Jurgens che marciava energicamente davanti a lui, Lansing rifletteva, meravigliato. Il robot era ancora un mistero… come erano tutti misteriosi, in fondo, si disse. Si sforzò di richiamare alla mente ciò che sapeva di ognuno di loro; ma i dati che riusciva a mettere insieme erano frammentari. Mary era ingegnere in un mondo dove persistevano i vecchi imperi del secolo decimottavo, un mondo stabile ma non spietato. A parte questo sapeva pochissimo di lei, escluso un fatto importante… l’amava. Non sapeva che lavoro avesse svolto, che tipo d’ingegneria avesse esercitato, non sapeva niente della sua famiglia e della sua vita d’un tempo. Forse sapeva di lei anche meno di quel che sapeva degli altri.

Il mondo di Sandra era nebuloso, una cultura che non riusciva a capire, anche se, si disse, forse la cultura che rappresentava poteva non essere altro che una piccola subcultura, nel mondo dov’era vissuta. Forse la cultura dominante era del tutto diversa, e Sandra la ignorava come l’ignorava lui. Non erano stati completamente giusti verso Sandra, pensò. Il gruppo, nel suo complesso, l’aveva trascurata. Se ne avesse avuto la possibilità, forse lei avrebbe potuto dare un contributo significativo. Se fosse entrata in contatto con le macchine dell’installazione, al posto suo e di Mary, forse avrebbe tratto qualcosa di più dalla sua esperienza di quanto ne avevano tratto loro. Anche adesso, tramite lo stretto rapporto con la torre musicale, poteva fornire la chiave che tutti avevano cercato.

Il reverendo era stato, così sembrava a Lansing, un libro aperto, anche se, persino lui, poteva aver rappresentato una subcultura. Nulla indicava che l’intero mondo del reverendo fosse stato bigotto, ristretto e malvagio come era parso che lo vedesse lui. Se ne avessero avuto il tempo avrebbero avuto una possibilità di capire il reverendo, di trovare un terreno d’intesa e imparare a conoscere l’ambiente dal quale era venuto, stabilire una certa comprensione con quel suo carattere stizzoso.

Il generale di brigata, si disse Lansing, era stato ben diverso. Amante della segretezza (non aveva cercato di spiegare il suo mondo, aveva rifiutato di dire come era stato gettato in quella situazione insieme a loro), imperioso, con la smania di dominare e comandare, ostinato a non ascoltare altre ragioni che le sue, era stato un enigma. Indubbiamente non era appartenuto a una subcultura: il suo mondo sembrava caratterizzato da un’anarchia militare, in cui centinaia di piccoli “signori della guerra” si combattevano continuamente. Un gioco, aveva detto, nient’altro che un gioco. Ma, anche nel migliore dei casi, un gioco mortale.

E Jurgens? Non proveniva da una subcultura, ma da un mondo che era stato abbandonato per le stelle, dove i reietti erano scivolati in una cieca barbarie. La libertà, aveva detto Jurgens… aveva finalmente acquisito la libertà dalla responsabilità implicita che lui e gli altri robot avevano sentito nei confronti dei meschini avanzi dell’umanità. Libertà? Lansing aveva i suoi dubbi. Si chiedeva se Jurgens, ancora adesso, si rendeva conto di non aver mai riguadagnato la libertà. Faceva ancora da pastore ai suoi umani, come lo stava facendo in quel momento, avventurandosi per primo nel deserto verso un Caos che lui e tutti gli altri non potevano affermare di comprendere. Da quando erano giunti in quel mondo improbabile, era sempre stato lì, sempre pronto a servire, sempre memore delle esigenze e delle speranze di altri… i suoi umani.

Tuttavia, per qualche ragione inspiegata, non aveva riposto tutta la sua fiducia in questi suoi umani. Aveva raccontato a Lansing solo una minima parte della sua storia… com’era il suo mondo, il suo hobby di costruire marionette umanoidi ispirate alle antiche favole dell’umanità. (Marionette, si chiese Lansing, come Melissa?) A tutti gli altri non aveva detto nulla; era rimasto ostinatamente muto persino quando Mary l’aveva interrogato.

E questo era sconcertante, si disse Lansing. Perché il robot s’era confidato con uno di loro e non con gli altri? Esisteva tra loro due un legame che Jurgens riusciva a scorgere, e l’umano no?

Un po’ più avanti, Jurgens s’era fermato ai piedi d’una piccola duna. Quando Lansing lo raggiunse, gli indicò un oggetto che sporgeva dalla sabbia. Era una sfera di vetro pesante o di plastica trasparente, simile al casco d’una tuta spaziale; e all’interno, rivolto verso di loro, c’era un teschio umano. La fila ghignante di denti sembrava sorridere; e uno di quei denti, notò Lansing, era d’oro, e luccicava al sole. Dalla duna affiorava un pezzo arrotondato di metallo e poco più oltre, sulla destra, un altro oggetto metallico.

Jurgens estrasse una pala dal suo zaino e incominciò a rimuovere la sabbia. In silenzio, Lansing rimase a guardare.

— Fra un minuto vedremo — disse Jurgens.

E pochi minuti dopo videro.

L’oggetto metallico aveva una forma vagamente umana. C’erano tre gambe, non due, e due braccia e un torso. Misurava tre metri o forse più, e nella parte superiore c’era uno spazio dove un tempo aveva viaggiato un uomo che adesso era ridotto a uno scheletro. Le ossa erano sparse, disarticolate, nello spazio che l’uomo aveva occupato. Il cranio era rimasto imprigionato nel casco.

Jurgens, accosciato a terra, alzò la testa verso Lansing.

— Ha indovinato? — chiese. Lansing rabbrividì. — No, dimmi tu.

— D’accordo — disse il robot. — Una macchina camminante.

— Una macchina camminante?

— Potrebbe essere. È la prima cosa che mi è venuta in mente.

— Ma cos’è una macchina camminante?

— Qualcosa di molto simile a questa venne costruito dagli umani del mio pianeta. Prima che andassero alle stelle. Da usare su altri pianeti. In un ambiente ostile, immagino. Immagino, ho detto. Non ne ho mai vista una. Ne avevo soltanto sentito parlare.

— Una macchina per muoversi in un ambiente ostile?

— Appunto. Collegata al sistema nervoso, con circuiti complessi capaci di reagire come reagirebbe un corpo umano. L’umano vuole camminare, e la macchina cammina. Anche le braccia funzionano nello stesso modo.

— Jurgens, se è vero, forse quello che abbiamo davanti era uno degli abitanti di questo pianeta. Nessun altro umano sarebbe stato trasportato qui, come siamo stati trasportati noi, racchiuso in un congegno simile. Noi siamo arrivati con i panni che avevamo adosso, certo, ma…

— Ma non può escluderlo — disse Jurgens.

— Forse — disse Lansing. — Ma quest’uomo, se veniva da qualche altro luogo, doveva provenire da un mondo alternativo che era divenuto ostile agli esseri umani. Così inquinato, così pericoloso…

— Un mondo in guerra — disse Jurgens. — Pieno di raggi e gas letali.

— Sì, credo che sia possibile. Ma appena fosse giunto in questo mondo, non avrebbe più avuto bisogno del congegno. Qui l’aria non è inquinata.

— Deve rendersi conto — disse Jurgens, — che forse era impossibile separarsi dalla macchina. Forse vi era legato biologicamente, al punto da non potersi staccare. Con ogni probabilità non gli dispiaceva troppo. Doveva essere abituato. E una macchina del genere avrebbe offerto certi vantaggi. Li avrebbe offerti senza dubbio, in un posto come questo.

— Sì — disse Lansing. — Sì, è vero.

— E qui si è trovato nei guai — disse Jurgens. — Qui, in tutta la sua arroganza, ha trovato la fine.

Lansing scrutò il robot. — Tu pensi che tutti gli uomini siano arroganti. È la caratteristica distintiva della razza umana.

— Non tutti gli umani — disse Jurgens. — Può capirmi, se provo un certo risentimento. Essere abbandonati…

— E ti ha roso per tutti questi anni?

— Non mi ha roso — disse Jurgens.

Tacquero per lunghi istanti, poi il robot disse: — Lei no. Lei non è arrogante. Non lo è mai stato. Il reverendo lo era, e anche il generale. E Sandra, in quel suo modo gentile…

— Sì, lo so — disse Lansing. — Spero che potrai perdonarli.

— Lei e Mary — disse Jurgens. — Darei la vita per lei e Mary.

— Eppure non hai voluto parlare di te a Mary. Hai rifiutato di confidarti.

— Mi avrebbe commiserato — disse Jurgens. — Non avrei sopportato la sua pietà. Lei non mi ha mai commiserato.

— No, non l’ho mai fatto — disse Lansing.

— Edward, lasciamo stare l’arroganza. Noi due dovremo proseguire il cammino.

— Precedemi, io ti seguo — disse Lansing. — Non abbiamo tempo da perdere. Non mi va di lasciare sola Mary. Persino adesso, mi è difficile resistere all’impulso di tornare indietro.

— Ancora tre giorni e saremo di ritorno. La troveremo sana e salva. Non impiegheremo più di quattro giorni.

Non trovarono legna, lungo il percorso. Il terreno era completamente spoglio. Quella notte si accamparono senza accendere il fuoco.

La notte era bellissima, in un suo modo duro e smaltato. Sabbia deserta e la luna alta, mentre ai margini del cielo, dove non erano offuscate da quel fulgore bianco, le stelle brillavano con un’intensità ardente.

Lansing sentiva l’essenza della notte che si insinuava in lui, con la sua bellezza spietata e crudele e classica. A un certo momento sentì qualcosa che gli sembrava un gemito. Veniva dal sud, e sembrava il lamento della grande bestia sperduta che aveva gridato sopra la città e poi, di nuovo, sulla mesa nelle maleterre. Ascoltò attentamente, tutt’altro che sicuro di averlo udito, ma il suono non si ripeté.

— Hai sentito qualcosa? — chiese a Jurgens. Jurgens rispose che non aveva sentito nulla.

Il robot svegliò Lansing molto prima dell’alba. La luna era librata sull’orizzonte occidentale e a oriente le stelle impallidivano.

— Mangi qualcosa — disse Jurgens. — Poi ci metteremo in marcia.

— Non voglio niente, adesso — disse Lansing. — Un sorso d’acqua mi basta. Mangerò più tardi mentre camminiamo.

All’inizio fu abbastanza agevole procedere; ma verso mezzogiorno incontrarono altre dune, dapprima piccole, e poi sempre più alte. Erano in un mondo di sabbia gialla, e l’azzurro pallido del cielo era una cupola che s’incurvava a racchiudere quella sabbia. Il terreno, davanti a loro, saliva gradualmente, e dava loro la sensazione di ascendere nel duro cielo azzurro. Molto più avanti una sottile fascia di cielo al di sopra dell’orizzonte settentrionale, assunse una tinta blu più scura e carica, e via via che salivano sulle dune infide, con la sabbia che scivolava sotto i loro piedi, la fascia blu ascendeva più alta nel cielo, e dal blu della sommità si mutava in un nero fondo, poco più in basso.

Dal nord giungevano vaghi brontolii smorzati. Divennero più forti mentre lottavano contro le dune per procedere.

Jurgens si fermò sulla sommità di un’altra duna e attese che Lansing lo raggiungesse. Lansing gli arrivò al fianco, ansimando per la fatica.

— Sembra che tuoni, là avanti — disse Jurgens. — Forse sta per arrivare un temporale.

— Il colore del cielo sembra prometterlo — disse Lansing.

— Ma non pare un nembo temporalesco. Non ne ho mai visto uno delineato così nettamente. Di solito sono grandi nuvoloni ribollenti, e non vedo i lampi.

— Mi è sembrato di vederne uno, poco fa — disse Jurgens.

— Non proprio un fulmine, ma un guizzo, come il riflesso d’un lampo.

— Un lampo di calore — disse Lansing. — Un riflesso, contro le nubi, di un fulmine molto lontano.

— Fra poco vedremo che cos’è — disse Jurgens. — È pronto per proseguire? Oppure dobbiamo riposare?

— Proseguiamo. Quando avrò bisogno di riposare te lo dirò.

Verso la metà del pomeriggio la grande nube nera era salita molto al di sopra dell’orizzonte. In certi punti mostrava sfumature d’un porpora cupo. Era un fenomeno spaventoso. Sembrava immobile: non c’erano nuvole vorticanti, né banchi di vapore agitati dal vento, sebbene qualche volta Lansing avesse l’impressione, quando si soffermava un momento a guardarla, di scorgere un movimento quasi impercettibile verso il basso, come se una pellicola sottile d’una sostanza sconosciuta scorresse su quel nero, come un velo d’acqua che scende sul vetro d’una finestra durante una pioggia estiva. Un senso di violenza terribile sembrava compenetrare la nube, la minaccia opprimente del maltempo; eppure non c’era una violenza visibile, o una minaccia di maltempo, eccettuati i fulmini che scorrevano a intervalli su quella facciata di tenebre. Ormai, il rombo del tuono era incessante.

— È molto strano — disse Jurgens. — Non avevo mai visto niente di simile.

— Il Caos? — chiese Lansing. E mentre lo chiedeva, rammentò il caos, o il senso di caos (perché ormai dubitava di averlo veduto veramente) che aveva scorto quando, per un momento, era asceso sulla montagna di soli al di sopra dell’universo. E quel caos universale era stato molto dissimile, sebbene si rendesse conto che, se gli avessero chiesto di descriverlo, non avrebbe saputo assolutamente che cosa dire.

— Forse — disse Jurgens. — Lo domando a lei: che cos’è il Caos?

Lansing non tentò neppure di rispondere.

Continuarono a salire, e adesso il percorso era più scosceso di quanto lo fosse mai stato dal momento in cui erano partiti. S’inerpicarono su una serie di dune sempre più alte, e davanti a loro l’orizzonte s’incurvava, allontanandosi sulla destra e sulla sinistra, come se stessero salendo un’unica duna continua, il cui orlo fosse disposto in un semicerchio e si protendesse, su entrambi i lati, contro il nero del cielo.

Nel pomeriggio inoltrato raggiunsero la sommità della grande cresta che avevano scalato. Esausto, Lansing si lasciò cadere sulla sabbia, appoggiandosi a un grosso macigno. Un grosso macigno? si chiese. Un macigno, lì dove fino a quel momento non aveva visto nulla che fosse più voluminoso d’un granello di sabbia? Si rialzò barcollando, sbalordito, e il macigno c’era davvero… e non uno soltanto, ma parecchi, appena un poco più in basso dell’altezza massima della duna che avevano scalato. Stavano sulla sabbia come se qualcuno, forse in epoche remote, li avesse sistemati lì meticolosamente.

Jurgens era sulla sommità della duna, a gambe aperte, con la gruccia nella sabbia per puntellarsi e conservare l’equilibrio.

A destra e a sinistra s’incurvava il ciglio della duna che avevano scalato, e davanti a loro la superficie si spezzava nettamente, per precipitare in un pendio ininterrotto, fino a raggiungere il fondo della nube enorme.

Quando guardò direttamente la nube, Lansing si accorse che non era una nube, sebbene non riuscisse a capire che cosa fosse. Era una muraglia massiccia, assolutamente nera, che s’innalzava dal punto in cui incontrava la superficie del pendio sabbioso fin su su, nel cielo, così lontano che Lansing era costretto a rovesciare all’indietro la testa per vederne l’estremità superiore.

I fulmini saettavano ancora con ferocia devastante, e il tuono scrosciava e rombava. La muraglia, o almeno così gli sembrava, era una diga mostruosa eretta contro il cielo, e dall’orlo si riversava qualcosa che non era acqua e scendeva precipitando, una cascata gigantesca d’un nero intenso che non era acqua, così solida e ininterrotta che Lansing non la vedeva cadere, ma percepiva soltanto il senso ipnotico della caduta. E mentre la guardava, comprese che ciò che udiva non era solo il tuono, ma il rombo cupo e terribile di ciò che precipitava dal ciglio della diga, lo scroscio di qualcosa che cadeva da una grande altezza e piombava dall’ignoto all’ignoto. Aveva l’impressione che il terreno, sotto i suoi piedi, tremasse a quel rombo.

Girò la testa e guardò Jurgens, ma il robot non gli badò. Si appoggiava pesantemente alla gruccia, e fissava la tenebra, affascinato e ipnotizzato e irrigidito.

Lansing volse di nuovo lo sguardo alla tenebra: adesso, più che mai, sembrava una diga, anche se un attimo dopo non fu più sicuro che lo fosse. Dapprima una nube, e poi una diga; e adesso, si chiese, che cosa poteva essere?

Una cosa era certa: non era la soluzione che cercavano, non era neppure un indizio che con l’andare del tempo avrebbe potuto offrire la soluzione. Come il cubo e le porte, come l’installazione e la torre che cantava, non aveva significato. Forse non era interamente priva di significato, ma lo era per lui e per Jurgens e per gli altri umani, per l’intelligenza e la percezione che risiedono nella mente umana.

— La fine del mondo — disse Jurgens, con voce stranamente spezzata.

— La fine di questo mondo? — chiese Lansing; e appena lo ebbe detto se ne pentì, perché era una frase molto sciocca. Non sapeva immaginare perché l’avesse pronunciata.

— Forse non soltanto di questo mondo — disse Jurgens. — Non soltanto di questo mondo. La fine di tutti i mondi. La fine di tutto. L’universo scompare. Divorato da una tenebra.

Il robot avanzò d’un passo, sollevando la gruccia e cercando un punto solido per posarla. Non trovò un punto solido. La gruccia scivolò e gli sfuggì di mano. La gamba lesionata si piegò sotto il suo peso e lo sbilanciò in avanti. Jurgens cadde, ruzzolando sul declivio. Lo zaino, sbalzato dalle spalle, sdrucciolò lungo il pendio davanti a lui. Il robot mosse le mani convulsamente, cercando di afferrarsi al pendio per fermarsi, ma non c’era nulla cui potesse aggrapparsi. C’era soltanto la sabbia, e franava tutto intorno a lui, e scivolava con lui. Le mani contratte lasciavano lunghe impronte in quella sabbia.

Lansing, che s’era accosciato, si rialzò prontamente. Se fosse riuscito a restare diritto, pensò, affondando saldamente i piedi nella sabbia sotto la superficie scivolosa, avrebbe avuto una possibilità di raggiungere Jurgens e di fermarlo, di ritrascinarlo su, al sicuro.

Fece un passo, e il piede, abbassandosi, non trovò nulla di solido. La sabbia sembrava polvere. Era impossibile camminare, impossibile starvi ritto. Tentò di ributtarsi all’indietro, tendendosi disperatamente per raggiungere la sommità della duna, sperando di servirsene per sottrarsi alla superficie mobile. Ma adesso il suo piede sdrucciolava ancora più rapidamente, e scavava un solco profondo nella sabbia; slittò sul pendio, scivolò lentamente, all’attrazione della forza di gravità.

Allargò la gambe e le braccia per opporre una resistenza maggiore alla superficie sulla quale scivolava e quando lo fece gli sembrò di muoversi un poco più lentamente, sebbene fosse difficile capirlo. Non c’era speranza, ammise. Ogni suo tentativo d’inerpicarsi verso l’alto non avrebbe fatto altro che smuovere la sabbia facendola slittare più rapidamente e trascinandolo verso il basso.

Ma adesso il movimento discendente era rallentato un po’, e per un attimo parve che la frana si fosse arrestata. Giaceva sulla sabbia, con le braccia larghe e le gambe divaricate, senza osare muoversi, temendo che il minimo movimento da parte sua facesse ricominciare la frana.

Non sapeva dove fosse Jurgens, e quando cercò di muovere la testa per guardare più in basso, nella speranza di scorgerlo, la sabbia ricominciò a scivolare: ributtò la testa all’indietro e la premette contro la superficie. Lo slittamento cessò.

Trascorsero intere eternità, o almeno così gli parve. Il terreno sembrava tremare ancora al rombo della grande cascata nera. Il frastuono cancellava quasi completamente ogni percezione. Dal punto in cui stava disteso riusciva a scorgere appena la sommità della duna che lui e Jurgens avevano scalato. Era distante una sessantina di metri, calcolò. Se fosse riuscito a trascinarsi per quella sessantina di metri… ma, lo sapeva, era impossibile.

Concentrò tutta l’attenzione su quella cresta impossibile, come se concentrandosi potesse trovare la possibilità di raggiungerla. La cresta della duna rimaneva immobile e vuota, una linea di sabbia contro l’azzurro del cielo.

Per un momento girò gli occhi per scrutare l’estensione apparentemente sconfinata del pendio sul quale era disteso. Quando tornò a guardare la sommità della duna, là c’era qualcuno… quattro figure allineate contro il cielo. Stavano lassù e lo guardavano, e le loro facce erano parodie grottesche e sconvolgenti di volti umani.

A poco a poco comprese chi erano… i quattro giocatori di carte che aveva visto seduti intorno al tavolo, isolati da tutti gli altri, in due diverse locande; e adesso erano lì e lo fissavano, con quelle loro facce scheletrite.

Perché mai erano lì? si chiese. Che cosa li aveva condotti lì? Cosa poteva esserci, in quel luogo, che destasse il loro interesse? Per un momento pensò di chiamarli, e poi decise che sarebbe stato inutile. Se li avesse chiamati, quelli si sarebbero limitati a ignorarlo, e la situazione sarebbe divenuta anche peggiore. Si chiese se erano là veramente. O forse era uno scherzo della sua immaginazione? Distolse gli occhi e poi guardò di nuovo: c’erano ancora.

Uno dei quattro, vide, teneva in mano qualcosa, e Lansing cercò di capire che cosa fosse, ma non ci riuscì. Poi il giocatore di carte alzò la mano e la fece roteare al di sopra della testa. In quell’istante Lansing comprese che cos’era: era un rotolo di corda. I giocatori di carte stavano lanciando una corda!

La corda volò nell’aria, srotolandosi mentre saettava verso di lui. Avrebbe avuto una possibilità, Lansing lo sapeva, al massimo un paio di possibilità. Se avesse dovuto slanciarsi per afferrare la corda, avrebbe ricominciato a scivolare, e prima che la fune venisse ritirata, avvolta di nuovo e lanciata, sarebbe stato ormai al di fuori della sua portata.

La corda parve restare sospesa nell’aria, quasi senza muoversi, e continuò a srotolarsi. Quando piombò, gli piombò addosso, in un lancio perfetto. Lansing tese le mani più disperatamente di quanto fosse necessario, l’afferrò con una mano, rotolò su se stesso per stringerla anche con l’altra. Aveva ripreso a scivolare, con quel movimento, a scivolare molto rapidamente. Strinse più forte la presa, con una mano, una stretta convulsa. Poi posò anche l’altra mano sulla corda, e si sentì bloccare, con uno strattone violento, quando l’intera lunghezza della fune si tese. Restò aggrappato furiosamente, e adagio adagio incominciò a issarsi su per il pendio. Continuò a tenersi schiacciato contro la superficie, per evitare il pericolo di lasciarsi sfuggire la corda. Spanna a spanna, si issò verso l’alto. Finalmente si arrestò per riprendere fiato e guardò verso la cresta. Era deserta; i giocatori di carte se ne erano andati. E allora, si chiese, chi reggeva la corda? Ebbe la visione agghiacciante dell’altro capo della fune che si staccava, s’inerpicò come un pazzo, senza pensare a nulla, senza curarsi di nulla. La sola cosa che contava era raggiungere il ciglio della duna prima che la corda si staccasse. Poi sentì il proprio corpo scivolare al di là dell’orlo. Soltanto allora smise di arrampicarsi.

Rotolò su se stesso e si sollevò a sedere. Non lasciò la fune fino a quando fu seduto saldamente, sulla superficie solida. Allora allentò la stretta. Vide che la corda era legata intorno ad uno dei macigni che aveva notato con una certa sorpresa quando lui e Jurgens avevano salito la cresta affacciata sul pendio esiziale.

Jurgens! pensò. Jurgens, oh, mio Dio! Negli ultimi minuti dell’ascesa disperata (erano stati minuti, non ore?) aveva completamente dimenticato il robot.

Si trascinò carponi su per il pendio, raggiunse la sommità della duna e restò disteso, a scrutare il lungo, liscio scivolo di sabbia. La traccia che aveva lasciato inerpicandosi veniva rapidamente cancellata dai lenti rivoli di sabbia fluida. Ancora pochi minuti, e non sarebbe rimasto nulla a indicare che lui era stato là.

Non c’era segno di Jurgens, lo sapeva, era andato… andato al di là del confine dove la grande tenebra scendeva a incontrare la sabbia.

Il robot non aveva gridato, ricordava, non aveva gridato per chiedere soccorso, non l’aveva chiamato per nome, non aveva invocato aiuto. Era andato in silenzio incontro alla fine… o, se non la fine, incontro a ciò che l’attendeva ai piedi del pendio. E s’era comportato così, ne era certo, per riguardo verso di lui, per non coinvolgere lui, l’umano Lansing, nell’incidente irrimediabile.

Era stato un incidente? si chiede dubbiosamente. Ricordava che Jurgens era rimasto affascinato davanti alla tremenda tenebra tonante… come Sandra era rimasta affascinata di fronte alla torre che cantava. E ricordava come Jurgens aveva mosso il primo passo dal punto dove stava, sull’orlo estremo della sicurezza, come doveva sapere indubbiamente: ma aveva mosso quel passo per avvicinarsi alla cosa terribile che l’affascinava.

Era stato attratto com’era stata attratta Sandra? C’era stato qualcosa, nella cortina di tenebra, che l’aveva chiamato? Aveva compiuto quel passo volontariamente, senza immaginare che sarebbe precipitato giù per il pendio, eppure volontariamente, adesso che era accaduto… nella smania inconscia, ignara ma travolgente di avvicinarsi a ciò che l’aveva incantato?

Lansing scrollò la testa. Era impossibile saperlo.

Ma se era davvero così, pensò, allora finalmente Jurgens, il robot, aveva compiuto una mossa esclusivamente sua, aveva agito per se stesso e non per gli uomini affidati alla sua custodia. Aveva agito come aveva sempre desiderato e non come gli imponeva la sua devozione agli umani. In quel momento supremo, Jurgens aveva trovato la libertà che cercava.

Lansing si alzò in piedi, lentamente. Slegò l’estremità della corda dal macigno e incominciò a riavvolgerla, metodicamente. Forse non era necessario riavvolgerla, avrebbe potuto lasciarla cadere. Ma almeno, così aveva qualcosa da fare.

Quando ebbe finito di arrotolarla, la posò al suolo e si guardò intorno per cercare i giocatori di carte. Ma non c’erano, e niente indicava che fossero mai stati lì. Più tardi, si disse, avrebbe pensato a loro. Adesso non aveva il tempo per riflettere su quel problema. C’era qualcosa che doveva fare, e al più presto possibile.

Doveva ritornare alla torre che cantava, dove Mary stava ancora vegliando l’affascinata Sandra.

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