13

Marciano diretti verso nord, almeno per quanto riesce a stabilire Clay. Siccome lo sferoide non è particolarmente portato alla conversazione, Clay si dedica a un tentativo di analisi razionale delle sue esperienze a partire dal momento del risveglio. Cerca di ricapitolare, dividendo in categorie gli eventi. Classifica le varietà di cosiddette forme "umane" da lui incontrate; considera le varie metamorfosi che ha attraversato; registra i dettagli di ognuno dei suoi viaggi al di là delle normali capacità sensoriali di un uomo del ventesimo secolo, e cerca di discernere se questi viaggi siano stati frutto di illusione o realtà. Esamina i fenomeni di quest’epoca futura, quali l’ambiguità sessuale e la transitorietà della morte. Durante questo riesame freddo e spassionato presta ben poca attenzione all’ambiente che lo circonda, e ci vuole un po’ prima che si accorga della sgradevolezza e disarmonia presenti nella regione che stanno attraversando. È scesa la notte; i particolari della situazione gli sono nascosti dall’oscurità. Ma un lieve e deprimente bagliore purpureo sorge dal terreno, mostrandogli quanto basta. Si trova in una zona arida, piatta e secca, dove la crosta asciutta del terreno scricchiola sotto i piedi, e piccoli e aguzzi sassolini gli pungono la carne. Grandi picchi pietrosi corrosi dal sole si stagliano all’orizzonte. Non si vede nemmeno l’ombra di una pianta, nemmeno le fluorescenze tipiche del deserto. Uno sgradevole ronzio, simile al lamento di mosche intrappolate contro una finestra chiusa, si innalza da strane fessure che si partono nel terreno sotto i suoi piedi; inginocchiandosi accanto a una di esse per un ascolto più attento, sente il sinistro ronzio ritorcersi ed echeggiare negli abissi sotterranei. Un senso di intollerabile secchezza prevale sull’ambiente. Il cielo notturno è velato da una specie di sottile foschia, che maschera le stelle. Clay si chiede se si tratta di un altro degli inferni in Terra di cui una volta gli ha parlato Ninameen, un parente prossimo della regione della Vecchiaia. È questo il posto chiamato Vuoto? O forse Lento? È Pesante? È Scuro? Si apre con cura la strada sulla pungente pianura di granito purpureo, timoroso di inciampare. Non è certo il posto ideale perché un uomo nudo ci cammini di notte.

— Come si chiama questo posto? — chiede allo sferoide, dopo un po’. Ma lo sferoide è più estraneo di lui a quello spazio-tempo, e non risponde.

La gola di Clay si inaridisce. La sua pelle è martoriata dalla sottile polvere di roccia. Ogni volta che ammicca sente le palpebre graffiare le pupille. È arso e secco, e immagina mostri d’incubo dietro ogni ombra. Che suono è quello? Il sibilo delle tenaglie di uno scorpione? L’avanzata di una coda acuminata e velenosa attraverso la pianura desertica? Le pietre smosse dal serpeggiare di un rettile? Ma qui non c’è nulla, tranne notte e silenzio. Lo sferoide, ruotando allegramente in avanti, lo ha ormai sopravvanzato di molto. Clay si costringe a raddoppiare la velocità della sua andatura, con il rischio di tagliarsi sulle rocce che si trovano sul suo cammino. — Aspetta! — urla, rauco, quasi senza voce. — Io non mi muovo su ruote! Non posso andare così velocemente! — Ma la padronanza linguistica dello sferoide sembra terminata; non fa neppure caso alle sue parole, e in breve si perde nell’orizzonte fumoso.

Fermandosi, Clay trova un pezzetto di terreno libero da pietre taglienti e detriti. Il bagliore purpureo (radioattività residua, forse?) è troppo esile per guidarlo, e decide di non muoversi fino al mattino. Il rischio di scivolare e tagliarsi anche seriamente non lo attira affatto. Una frattura della gamba creerebbe qui gli stessi problemi che si verificherebbero nel bel mezzo della vecchia Arizona? Non lo sa. Magari il bianco osso fratturato si salderebbe diligentemente da solo, dopo un certo periodo, e i tessuti epidermici e muscolari si riassesterebbero in maniera dolce e quasi onirica. Ma non vuole fare la prova. Un brutto sogno può finire, ma non tutto è sogno, perfino qui, e lui non ci tiene affatto a trovarsi con una ferita genuina in un ambiente così irreale. Aspetterà di poterci vedere chiaramente.

Nella notte insonne intorno a lui danzano fantasmi. Cose fluttuano tintinnando su sottili fili metallici. Sente lamenti e occasionali sospiri, molto in lontananza, e qualcosa che ricorda un coro di grossi scarafaggi neri. Il vento è freddo e polveroso. Dita trasparenti stuzzicano i canali della sua mente, cercando di entrare. Lente spirali di pura paura si congelano e contorcono intorno a lui. La foschia che vela il cielo scompare, probabilmente divorata da qualche entità che attraversa metodicamente il cielo, e le stelle poco familiari tornano nitide. Nessun conforto giunge da esse: la nostra luce è partita per la Terra, insistono, nel periodo delle automobili e delle bombe atomiche, ed è stata in cammino per tutto questo tempo, stuzzicata dalle molecole che danzano tra le galassie, e adesso è qui, e adesso tu sei qui. Povero folle nudo. Quando arriverà la mattina? Quella è una fila d’insetti che marciano verso i miei piedi? Perché l’oscurità mi è così vicina?

Le prime striature della luce del giorno, adesso. Barre bianco-rosse che scivolano nel cielo. Un vento torrido che giunge dall’ovest. Una traccia di rosso all’orizzonte, che risucchia in essa tutto il putridume del mondo. Secco. Secco. Secco. Brutti rumori striscianti. Luce. Il cielo si fonde, tutto rame e ottone e zinco, con strisce vaganti di antimonio, molibdeno, manganese, magnesio e piombo. Macchie di tungsteno che si stagliano contro le rocce. L’alba ha una luminosità accecante. Distoglie lo sguardo, annaspando e portando le braccia alla fronte e incrociandole come un crostaceo rosso e infelice buttato vivo nell’acqua bollente. L’aria è un mare di rifrazioni, nel quale la struttura atomica fondamentale della materia si trova rivelata come una serie di cerchi intersecantisi di verde e giallo e marrone, che girano su se stessi per creare stupefacenti schemi di anelli frammisti di interferenza. Il mondo ruota su questa traccia. Cinque colori primari che non ha mai visto prima bombardano i suoi nervi ottici. Può dare loro un nome? Come chiamerà questa tonalità fredda e profonda dalle sfumature vellutate? E questo rigido tono rettilineo, così disciplinato, e proibito? Questo è gentile e tentatore; quello, aspro e brutale; quest’altro, silenzioso e complesso. I colori si fondono e si mescolano e di tanto in tanto si contrastano. Spunta la lama accecante del mattino.

Adesso comprende di trovarsi in un deserto in cui le allucinazioni sorgono come onde di calore dalle rocce. La sua mente è limpida e chiara, e le sue percezioni sono esatte; le imprecisioni che esperimenta appartengono all’ambiente, non a lui. Ma la distinzione è molto sottile. Cammina lentamente in avanti, cercando di anticipare le trappole.

Le rocce sono diventate noduli luminosi di energia pura le cui superfici rosse dalla ricca struttura vibrano in schemi che mutano continuamente. Su un lato di ogni masso pietroso vede luci dorate che roteano graziosamente. Sul lato opposto sfere blu pallido si creano incessantemente e avanzano ribollendo nell’aria, risalendo silenziosamente a un’altezza di almeno tre metri per poi svanire. Tutto brilla. Tutto splende di una luce interiore. Il suolo desertico e riarso è adesso vivo e pieno di fiori, che crescono istantaneamente, come si trovassero in sintonia con un flusso di respiro cosmico. L’incandescenza regna.

La sua epidermide è un labirinto. Le sue mani sono martelli. Una massa blu pulsante pende tra le sue gambe. I suoi piedi sono pesanti clave. Le sue ginocchia hanno occhi, ma non ciglia. La sua lingua è di metallo. La saliva è vetro. Il sangue è bile e la bile è sangue.

Il respiro è appassionatamente vivo, ed esplode ogni volta che tocca il terreno, sollevando sbuffi di pulviscolo rosso turbinante.

Il tempo è elastico; un secondo si allunga in termini talmente incommensurabili ed evanescenti che sembra ridicolo cercare di computarne il senso, e allora un secolo scivola con un debole, piccolo risucchio in un singolo raggio di luce solare. Analogamente anche lo spazio è sottoposto a estensioni e compressioni. Il cielo è livido e gonfio, si spinge aggressivamente in dimensioni adiacenti, costringendo gli abitanti dei continuum paralleli in piccole sacche di realtà distorta. Poi tutto torna alla normalità, riportando dal turbine cascate di nebulose distrutte e comete sfiancate.

Attraverso tutto questo, Clay si spinge testardamente in avanti. La maggior parte di quello che vede è bellissimo, ispirante, anche se sa che dovrebbe terrorizzarlo. Lui grida in mezzo alla tempesta e rimane impavido. Ma ci sono altri momenti terrorizzanti: parabole verdi balzano dall’orizzonte come araldi del Giorno del Giudizio, emanando spaventosi crescendo di suoni limacciosi. Una foresta di funghi ostili si disvela, uno squarcio si apre nel cielo e ne fuoriescono lame d’argento. Il terreno geme, si lamenta. Lui persevera. Il deserto lascia il posto a fango nero e a sensazioni sussurranti: viene baciato da coccodrilli, accarezzato da cose fangose. Un senso di castigo imminente lo assale. Uccelli scheletrici con un’allucinante peluria gracchiano e ridacchiano rivolti a lui. Si apre la strada attraverso un lago di aborti e una duna di mostri. Sente che il sole gli brucia la pelle e gli divora la schiena. Viene sepolto sotto piramidi oscure. È aggredito da granchi che si dirigono verso di lui in formazioni compatte deridendo la sua virilità. Creature fatte di strutture verticali di cartilagine grigia emettono suoni rombanti al suo indirizzo: Clay entra in una stanza e trova qualcosa di verde e serpentiforme che lo aspetta pazientemente in un angolo oscuro, respirando e sibilando.

Vede una gigantesca faccia ridente che riempie mezzo cielo. Questi sogni mancano di bellezza, e sospetta che non si tratti di sogni.

Ma continua.

Con l’accompagnamento di un coro di rumori raspanti, una voce tenera gli sussurra: — Ti scoraggeremo. Ti faremo a pezzi, se necessario. Sappiamo come turbare la tua anima, e non abbiamo limiti. Né inibizioni. Non esiteremo… — Mani invisibili manipolano gli organi sessuali di Clay, lasciando impronte digitali verdi. Un catetere scivola dentro di lui cinque volte nel giro di tre minuti. Le dita dei suoi piedi si confondono… Clay risponde alla sfida di quegli esseri con la forza delle sue ghiandole endogene, dei suoi vasi seminali, e quelli lo trasformano per tutta risposta in una semplice conchiglia, minacciata di essere annichilita dalla spada distruttrice del sole in qualsiasi momento. Lui si adatta alla mutazione, e l’accoglie perfino con piacere, e istantaneamente gli viene restituita la consueta solidità e diventa una massa di ferro, col gusto dell’acciaio in bocca: sa che se qualcuno lo colpisse ora, emetterebbe un suono metallico. Sfugge a questa condizione schermando il suo corpo. — Quindi ti illuderemo con splendidi miraggi — lo informano i suoi tormentatori, e Clay sente una musica debole. Nel dolce crescere e decrescere delle note si diffonde un’armonia stimolante. Ecco, un organo risuona, con pause di zaffiro e un diapason di opale, e spande ottave interminabili da una stella all’altra. Raggi di luna sono le corde che intonano l’accordo perfetto, e questo trascinante unisono si riversa nelle sue orecchie incantate. Sotto un tale incantesimo, come potrà resistere loro? La magia di una tale melodia gli turba l’anima. Comincia a sollevarsi nell’aria. La musica diventa via via costantemente più dolce; lo porta sempre più in alto, e lui fluttua in sintonia con l’infinito… sotto i cieli turchesi in cui scintillano globuli di mercurio. Gira. Rotea. Si fonde. Si dissolve. Scompare. Recita brani delle sue poesie preferite, declamando:

Suona via il vecchio, suona qui il nuovo,

Suonate, felici campane, attraverso la neve:

L’anno se ne sta andando, lasciatelo andare.

Suona via il falso, suona qui il vero.

E:

Rendi aride le nostre vite.

E matrimonio e morte e divisione

I nostri amori in cadaveri o mogli;

Il tempo trasmuta i vecchi giorni in derisione,

E l’amore è più crudele della passione.

Nessuna spina va a fondo come quella di una rosa,

È oscurità, il frutto della polvere;

La corona della vita quando si chiude.

E:

Navi che passano nella notte, e si parlano nel passare:

Così sull’oceano della vita passiamo e ci parliamo,

Solo un segnale mostrato e una voce lontana nell’oscurità:

Solo uno sguardo e una voce; poi ancora oscurità, e silenzio.

Vede una luce chiara. Sente i sintomi della terra che affonda nell’acqua. Esperimenta una visione fuggente della Pura Verità, sottile, scintillante, luminosa, inquietante, gloriosa e radiosamente rispettosa, in apparenza simile a un miraggio che si sposta su uno scenario in un flusso continuo di vibrazioni. Vede una divina luce blu. Vede una pigra luce bianca. Vede un’inquietante luce bianca. Vede una luce pigra, color fumo dell’Inferno. Vede un’inquietante luce gialla. Vede la pigra luce giallo-bluastra del mondo umano. Vede una luce rossa. Vede un alone di luce iridescente. Vede una pigra luce rossa. Vede un’inquietante luce rossa.

Entra in un mondo di oscurità, un’oscurità che gradualmente si ispessisce mentre sogna una luce polare e un inverno perenne.

Passa quindi a una foresta tropicale mai esplorata. La sua anima si trasforma in un’essenza vegetale; è una quercia gigante, e allarga le sue ampie foglie stormendo e frusciando ai soffi della brezza. È ormai nei pressi della fine del passaggio attraverso la confusione, adesso. Si libera dallo scuro suolo della foresta e continua, attraverso un vuoto assoluto di suoni e sospiri. Tre intensi punti luminosi campeggiano su un triplo muro di oscurità, verso il quale si dirige silenziosamente. Adesso riesce a distinguere chiaramente tre archi colossali che salgono dal fondo di un mare immoto. L’arco mediano è il più alto; i due che lo fiancheggiano sono uguali tra loro. Riesce a stabilire che formano il portale di un’enorme caverna, il cui soffitto si slancia altissimo su di lui, nascosto da un sipario di nubi. Su ciascun lato intorno a lui corre un muro di roccia glabra e scabrosa, dai cui punti superiori, a un’altezza a malapena raggiungibile dalla sua vista, si dipartono stalattiti di ogni forma immaginabile che ammantano la scena di bellezza. Terribili accordi rombanti si riverberano attraverso l’universo mentre lui prosegue il suo cammino verso l’imboccatura della caverna.

Entra.

Qui l’aria è fresca e dolce, e in lui nasce lentamente il pensiero di essere entrato in una vera caverna, di essere infine riuscito a superare il deserto di allucinazioni. Eppure lunghe dita di irrealtà lo stuzzicano anche qui, solleticando dispettosamente la sua mente appena è entrato, e lui non riesce a distinguere la realtà dal falso con un minimo grado di certezza neanche qui. Una porta si chiude dietro di lui. Si trova sotto un soffitto a volta, pareti verticali, un fondale di avorio perfettamente nero. Sedie disposte ad arco bloccano l’ingresso. I pesanti drappeggi alle pareti sono adorni di grotteschi arabeschi di uccelli, bestie e mostri di quest’epoca futura, che sono in continuo movimento tremolante, e cambiano continuamente forma come oggetti visti in un caleidoscopio. Adesso le pareti sbattono i denti; adesso uccelli annuiscono allegramente dai loro rami con becchi di diamante e svolazzano in cieli smeraldini; adesso Respiratori e Aspettatoli troneggiano pazienti sulla scena. Tutto fluisce. Tutto muta. Tutto emerge. Si apre a stento la strada in mezzo a corde dorate e procede impavido. Si arrampica sulle tende. Dietro c’è una galleria nera. Dal centro di quest’ultima soffia una brezza serena che proviene da qualche stanza vicina. Risale cautamente l’ultima parte della tenda ed entra nella galleria.

Cammina per quasi un’ora, secondo i suoi calcoli, prima che l’oscurità si interrompa in qualche punto. Finalmente compare una debole luce purpurea. L’aria diventa più luminosa ogni poche centinaia di metri. Si sente febbrile; gli gira la testa. Forse qualche sfera fluttuante di allucinazione l’ha seguito fin quaggiù sotto l’epidermide del pianeta? La struttura del pavimento cambia bruscamente: è stata levigata, come marmo o roccia, e adesso ha la brusca piattezza del granito. Nel momento in cui tocca questo nuovo pavimento le luci risplendono abbaglianti, e lui si ritrova nel vestibolo di un’enorme sala gotica le cui volte e arcate svettano via via verso l’alto fino a perdersi nell’oscurità. Sul pavimento di questa stanza maestosa giacciono stridenti anacronismi: ogni tipo di macchina e strumento, per la maggior parte dipinti di un verde luminoso, che danno al luogo l’aspetto di un immenso laboratorio del ventesimo secolo, tranne per il fatto che le ruote, le gabbie, le pulegge, le leve, le turbine, i pistoni, i bollitori, i compressori non appartengono a nessuna struttura coerente che Clay riesca a estrarre dalle sue conoscenze del mondo del passato. Il macchinario sembra in funzione, però. Rombi, stridii, ronzii e mormoni provengono dalla struttura di base, e parecchie gabbie si spostano e flettono come se fossero possedute dall’energia che fluisce in esse.

Alla sinistra di Clay c’è una scala che sale contro la parete della stanza. La sale pensieroso, osservando i suoi passi sugli stretti scalini. Quando si trova a circa trenta metri sopra il livello delle macchine scopre che la scala termina improvvisamente; se facesse ancora un solo passo si schianterebbe sul pavimento lontano. Guardando verso l’alto, vede una seconda rampa di scale ancora più in alto sul muro. Ed eccolo, intento a salire, un uomo nudo che si muove lentamente, con il fiatone. Clay si irrigidisce. Istantaneamente si sente trasportato su quella seconda rampa, ed è lui l’uomo nudo che arranca verso l’alto. Ancora una volta la scala si ferma sull’orlo di un abisso; ancora una volta solleva lo sguardo; ancora una volta scopre una rampa di scale più in alto ancora, e lui che la sta risalendo; ancora una volta si raccoglie e sale la terza scala. Continua a salire in questo modo, una duplicazione dopo l’altra, fino a quando, dopo un’infinità di scale, giunge alla parte superiore dell’enorme sala.

Si inginocchia su una larga piattaforma di marmo rosa.

Si deterge rivoli di sudore caldo. Ansima. Tossisce. Affanna.

Scruta oltre il bordo e si meraviglia di fronte allo spettacolo grandioso delle macchine in funzione molto più in basso.

Vede numerose rampe di scale e numerosi Clay che le risalgono. Agita una mano e urla frasi d’incoraggiamento. Un impeto di nuova energia lo pervade; si alza, percorre uno stretto passaggio nel punto più alto di quella stanza enorme, e giunge sotto una botola che sembra implorare di essere sollevata. La solleva. Oltre la botola c’è una foschia verde, con una leggera sfumatura ambrata, opaca. Fa scivolare per prova una mano nella foschia, perfettamente preparato a sentirsi la carne divorata fino all’osso; ma no, sente solo un calore appiccicoso. Arrampicati, lo invita la botola. Sono fatta per te, fatta per te! Deciditi a entrare! Un dolce viaggio fluttuante. Entra. La foschia si richiude rapidamente intorno a lui come un pugno stretto. Vapori alla menta glaciale nei suoi occhi. Folate di viscido verde si avvolgono lascive intorno ai suoi genitali. Fluttua. Fluttua verso il basso, sempre più in giù, discendendo come minimo la stessa distanza che aveva precedentemente salito, e ancora più giù, in una galleria che si allunga sotto la sala delle macchine. La gravità è completamente annullata; mentre cade gira su se stesso e nuota, mette i piedi sopra la testa, si guarda i genitali assumere qualsiasi angolazione, e alla fine la sua discesa è terminata, Clay atterra facilmente a testa in su. Esce dalla foschia, che si allontana da lui con un risucchio umido e sonoro. Ci sono luci luminose, qui. Una città sotterranea, una strada accanto all’altra, tutto luminoso, tutto fragrante. Fiamme bianco-lattee bruciano nell’aria, fredde, deliziose. Gallerie si allungano verso l’esterno nella distanza polverosa. È già stato qui, prima. Questo è il mondo di gallerie eletto a residenza dell’umanità in un periodo in cui la superficie del mondo non era adatta alla vita. Durante il rito dell’Apertura della Terra, ricorda, è passato attraverso questo livello, rimanendoci solo per pochi istanti per poi scendere più in basso. Adesso potrà ispezionarlo più a fondo. Continua ad avanzare.

Di colpo si sente riportato alla realtà. Girando a una curva della galleria, scopre il corpo di un uomo-capra sul pavimento, con la pancia rivolta verso il cielo. La creatura è stata ferita a morte, e la pelle del busto strappata per rivelare la parte interna della cavità addominale. Gli organi sono stati asportati. Non c’è traccia di sangue: potrebbe essere addirittura un modellino meccanico dell’originale. Ma la puzza di capra aleggia intorno a lui, quell’odore inconfondibile di decomposizione. La morte è recente.

Lasciate ogni speranza, o voi che…

La parete splendente si apre e ne fuoriesce un uomo di metallo. È più corto e più largo di Clay: il suo corpo è un semplice cono di acciaio blu tornito, circondato presso la sommità da una fila di sensori… occhi, auricolari, rilevatori di temperatura e altri ancora, che lo circondano completamente. Arti di vario tipo spuntano da un anello al livello del petto. Non ci sono gambe; si muove su ruote nascoste. Clay ha già visto robot di questo tipo in precedenza: sono i servitori del passato, abbandonati e dimenticati, che rimangono eternamente in attesa. — Sono amico dell’uomo — dichiara il robot con una voce gracchiante, che fuoriesce da un piccolo altoparlante a griglia. — Rispetto l’antico patto: io servo. Io eseguo gli ordini. — Clay non riconosce la lingua, ma comprende lo stesso le parole.

— Amico dell’uomo — sottolinea Clay, con scherno.

— Sì. Miracolo dell’ingegneria moderna.

— Forse che gli amici dell’uomo distruggono gli uomini?

— Chiarire prego.

Clay indica il capro sbudellato. — Questo è un uomo. Chi l’ha conciato così?

— Quello non corrisponde ai parametri umani.

— Guarda più da vicino. Conta i cromosomi. Analizza i geni. È un uomo, indipendentemente da quello che puoi pensarne tu. Geneticamente adattato, Dio sa perché, a questa forma ributtante. Chi l’ha ucciso?

— Siamo programmati per rimuovere tutti gli organismi potenzialmente ostili di ordine inferiore.

— Chi l’ha ucciso?

— I servitori — ammette umilmente il robot.

— Distruggere un uomo… Non era un granché, forse, ma era umano. Cosa fareste se uno Sfioratore venisse qui? Un Respiratore? Un Aspettatore?

— Interrogativo.

Clay comincia a spazientirsi. — Ascolta — dice — il mondo è pieno di esseri umani che non corrispondono all’immagine di "umanità" corrente all’epoca in cui questo posto è stato costruito. Può capitare che alcuni di loro finiscano qui. Non voglio che tu li uccida.

— Un cambiamento di programma?

— Un’espansione. Una ridefinizione di uomo. Come posso imprimervi l’ordine?

— Lo trasmetterò alla centrale — promette il robot.

— Tutto a posto, allora: l’uomo viene da questo momento ridefinito come qualsiasi organismo che appartenga in qualche modo alla vera linea genetica che discende dall’Homo Sapiens, che è definito a sua volta come la specie che ha costruito queste gallerie. Si intende che i servitori del mondo-galleria non faranno alcun tentativo di molestare tali esseri se essi penetreranno in questa giurisdizione.

— Conflitto. Conflitto. Conflitto.

Luci rosse lampeggiano sulla superficie del robot.

— E allora? — chiede Clay.

— Abbiamo l’incarico di proteggere gli uomini. Ma abbiamo anche l’incarico di proteggere la città. Se arrivano organismi umani ostili. Istruzioni? Definizioni?

Clay considera il problema. — Preverrete, in qualsiasi modo possibile, il danneggiamento del mondo-galleria da parte di intrusi. Ma avrete la cura di isolare e rigettare gli intrusi senza provocare loro danni fisici permanenti.

— Trasmesso. Accettato.

— Io sono Clay. Sono umano. Mi servirete.

— Il nostro antico compito — dice il robot.

Clay studia la creatura, affascinato dalla sua capacità di comunicare con lui. — Ti rendi conto — dice dopo un momento — che potresti essere il più vecchio manufatto esistente prodotto dall’umanità? Voglio dire, praticamente sei un mio contemporaneo. E tutto il resto di quei tempi remoti è scomparso. Quando è stata costruita questa città?

— Nel diciottesimo secolo.

— Non nel mio diciottesimo secolo, suppongo. Il diciottesimo secolo dopo cosa?

— Il diciottesimo secolo — ripete compiacente il robot. — Vuoi avere accesso alle Informazioni?

— Vuoi dire, una macchina per le risposte?

— Corretto.

— Potrebbe aiutarmi — dice Clay, provando per la prima volta una punta di autentica, selvaggia speranza. — Qualcosa che mi completi la storia. Che mi aiuti a ricostruire. Dov’è? Come faccio a fare le domande?

— Se vuoi seguirmi…

Il robot si volta e scende lungo un corridoio dalle pareti argentee. Clay gli trotterella dietro, vedendo mentre corre scorci tentatori di strani strumenti attraverso finestre nelle pareti. Il robot fa una pausa di fronte a una macchina grigia che sorge come una coppa da un pilastro. — Accedi pure alle Informazioni — dice, invitando Clay ad avvicinarsi con dolci luci lampeggianti. — Salve — saluta Clay. — Ascolta, sono stato catturato dal flusso del tempo, e voglio alcune informazioni. Sullo sviluppo della civiltà, sul corso della storia. Provengo dal ventesimo secolo dopo Cristo, ma non sono riuscito a ricollegare questa data con qualsiasi altra epoca, nemmeno quella in cui è stato costruito il mondo-galleria, e forse potrai aiutarmi a ricavare un quadro organico della situazione. Anche se non sai nulla degli eventi successivi alla civiltà del mondo-galleria, potrai se non altro dirmi cosa è successo tra il mio periodo e il tuo. Sì? Mi senti? Sto aspettando. — Silenzio. — Forza, allora. Aspetto di sentirti.

Suoni metallici e cupi lamenti provengono dalla coppa grigia. Stridii e sibili. Alcune parole abbozzate, ben articolate, ma incomprensibili. Sforzi di tentare una comunicazione. Poi: — Verso la fine della prima era postindustriale un grande cataclisma sociale portò alla demolizione completa di tutte le ipotesi e i postulati su cui si erano fondate le vecchie società urbane. Seguì un’epoca di ristrutturazione conosciuta come "caos conseguente al collasso ambientale". Sorsero nuovi concetti architettonici. Il nostro sistema attuale parte da questo punto. Tuttavia un sistema parallelo si manifestò dando vita a un’oscillazione fondamentale delle cronologie. Si può computare l’instabilità nella nuova struttura sociale nell’ordine di otto o dieci secoli, durante i quali qualsiasi precedente attitudine sociale o costume fu dimenticato e scomparve. Dopo che la crisi ebbe superato il più severo livello, il mondo sembrò di nuovo desiderabile. Fortunatamente, l’ingegno e la tecnica resero possibile l’edificazione del nuovo sistema urbano in mèzzo a una distruzione di gran lunga più terribile d’ogni precedente apocalisse. L’abbandono della superficie, l’accumulazione di strumenti meccanici, sempre più perfetti, la rapida ed efficace moltiplicazione delle città sotterranee caratterizzarono questa rinascita; alla fine del diciottesimo secolo dell’era attuale cominciò il trasferimento della popolazione, con la sua bastarda eredità genetica, le differenze sociali, gli sforzi tesi a eliminare le malattie, e tutte le altre cause di sofferenza. Abbiamo potenziato l’infrastruttura umana. Noi, i superstiti della specie, e tutte le catastrofi che ci hanno temprato in quello che fu il Periodo del Pianto, dal quale è sorta una nuova razza. Possiamo essere orgogliosi. I nuovi uomini hanno creato un mondo, il che dimostra: dateci speranza e affronteremo tutto quello che ci attende nelle epoche future. Dopo una breve pausa Clay dice tristemente: — Grazie — e si allontana rapidamente. Il robot gli è accanto. — Inutile — mormora Clay. — Non mi è di nessuna fottuta utilità. Meglio così.

— Vestire gli ignudi — dice il robot. — Un altro dovere assoluto. Vuoi vestirti?

— Sono tanto brutto, così?

— Gli umani si coprono il corpo, nella strada. Per coloro che non lo fanno, ci pensiamo noi.

Clay non risponde, e il robot considera il suo silenzio un consenso. Una sezione della parete alle spalle di Clay si spalanca e compare un secondo robot. Porta uno strano contenitore e spruzza Clay con una strana mistura colorata di tessuto e pigmenti. Quando si riprende dalla sorpresa Clay si accorge di indossare adesso una leggera tunica dorata, scarpe che sembrano buste trasparenti, e un cappello floscio. È rimasto nudo talmente a lungo che i vestiti lo fanno sentire impacciato e gli danno fastidio. Non volendo offendere nessuno, tuttavia continua a portarli. Cammina lungo i corridoi. Il primo robot lo segue, dicendo: — Vuoi cibo? Riparo? Vuoi lavarti? Divertirti?

— No.

— Nessun desiderio di alcun tipo?

— Uno — dice Clay. — Intimità. Vai via. Quando avrò bisogno di te, ti faccio un fischio.

— Interrogativo.

— Ti chiamerò. Urlerò forte con le mie corde vocali. Meglio? Adesso va, per favore. Te lo chiedo gentilmente. Non andare lontano, ma rimani fuori dalla mia vista fino a quando ti chiamerò.

Si volta. Cammina. Il robot si allontana.

Clay sbircia in stanze e negozi. Tutto abbastanza pulito, una Pompei a sua disposizione, nessuna porta chiusa. In un locale uno schermo televisivo mostra, dando un tocco leggero a un pulsante, protuberanze tridimensionali che si formano e scompaiono come bolle di lava fusa. Più avanti c’è un gabinetto ottagonale le cui pareti di porcellana trasudano realistico sangue, alla semplice pressione di un pulsante. Forme verdi simili a salsicce sporgono e fuoriescono da un ammasso di recipienti metallici su quello che potrebbe essere uno scaffale. Un letto cambia forma e dimensioni con energia frenetica, diventando più grosso, più piccolo, circolare, rettangolare. Un colossale fallo rosa, sinistro per la sua apparente vitalità, si innalza dal centro di una pedana levigata nera. Un muro si dissolve in una serie di disegni a mosaico. Sferette che si muovono disordinatamente lungo i bordi di una finestra lo inondano di profumi, aromi, lozioni, unguenti, e un esile fluido rosa che consuma i suoi abiti in un paio di secondi. Lui è felice di tornare alla nudità, anche se rimane davanti alle sferette troppo a lungo, e una di esse gli spruzza un olio rosso che gli anestetizza la pelle. Si mette un dito nell’orecchio: nulla. Si gratta cautamente il petto: nulla. Stringe il pene nel pugno: nulla. Non sente nemmeno il contatto dei piedi nudi sul pavimento ruvido. È una cosa permanente? Si immagina mentre sbatte involontariamente in oggetti taglienti che gli incidono la pelle e gli tagliano i piedi senza che nemmeno se ne accorga, non fino a quando si troverà ridotto a un ammasso pulsante di muscoli appesi a ossa nude. — Robot? — chiama. — Ehi, robot, vieni ad aiutarmi! — ma prima che l’uomo-macchina possa raggiungerlo, due sferette lo spruzzano improvvisamente e contemporaneamente, e lui sente che le cellule nervose riprendono vita con intensità talmente meravigliosa che raggiunge all’istante l’orgasmo. Un po’ ansimando, si allontana, congedando il robot con secchi monosillabi. Andando avanti, si imbatte in mezzo a una doppia parete di specchi dritti, deformi e ondulati, e si trova catturato in un riflesso infinito, rimbalzando e rimbalzando e rimbalzando da una parete all’altra a seconda delle inclinazioni e deformazioni assunte dagli specchi; si butta al suolo cercando disperatamente di sfuggire alla loro portata. Come hanno fatto a sopravvivere tutte queste cose, si chiede, se il mondo ha attraversato tanti sommovimenti e cataclismi geologici, quando gli stessi continenti hanno assunto nuove forme? Considera la probabilità che il mondo-galleria, dopotutto, sia un’illusione. Si sposta in una serie diversa di strade e gallerie; qui l’architettura è di un altro stile, più brutale, meno immaginativo di quello precedente, ma gli ornamenti e le strutture superficiali delle strutture sono di gran lunga superiori. Robot spuntano da ogni angolo e si offrono di servirlo, ma lui tiene gli occhi puntati sul suo robot, quello che lo segue a distanza rispettosa, e non presta minimamente attenzione agli altri. — Dov’è andata la gente? — chiede al robot. — Perché se ne sono andati? Quando? — Il robot risponde, impassibile: — Un giorno non ci furono più. — Clay accetta questa risposta con buona grazia. Tocca un pulsante e una pellicola astratta tridimensionale fuoriesce da un proiettore fluorescente. Quando rilascia il bottone l’intero allegro formicolio di luci colorate rientra all’indietro nel proiettore, con un rumore di risucchio mentre svanisce. In un’altra stanza trova giochi d’azzardo: luci che brillano e rimbalzano, ruote che girano in orbite casuali, banche, segnapunti, fiches, dadi d’ebano, carte da gioco che si mescolano e dispongono appena le si tocca. Dietro c’è qualcosa che ricorda un acquario gigantesco, ma dentro non ci sono pesci. Poi affronta un rompicapo da bambini, un albero scomposto, una struttura vuota, e una piccola scatola sigillata. Procede. Getti di vapore bollente lo dissuadono dal tentare una stanza attraente e seducente dalle pareti spugnose e a forma di utero. Evita una rampa di scale che scendono a quello che potrebbe essere un livello inferiore, in quanto nubi avvolgenti di vapore verde scaturiscono dal nulla appena scesi i primi tre scalini. Arriva in un luogo dove i robot stanno smontando altri robot. Scopre uno schermo maestoso che mostra una visione del mondo di superficie: dolci colline e vallate, nessuna traccia del crudele deserto di allucinazioni attraverso il quale infine è arrivato. Infine raggiunge una porta graziosamente intarsiata di solido metallo che sembra alluminio, e, mentre si apre solennemente da sola, il robot trotterella verso di lui e gli dice: — Oltre questo punto non ci sono difese.

— Cosa vorresti farmi intendere, con questo?

— Se continui in questa direzione non possiamo proteggerti.

Clay guarda nel corridoio che si apre davanti a lui. Sembra in tutto simile a quello che ha appena esplorato, ma se possibile è ancora più luminoso e attraente. Gli edifici hanno facciate sottili e maestose che risplendono con il fuoco misurato dei rubini più fini, e lui riconosce un’eco di musica elegante che proviene da qualche cortile vicino. Proseguirà. Il robot ripete il suo avvertimento, e Clay osserva: — Ciò nonostante, accetto il rischio. — Mentre muove il primo passo nel settore proibito un pensiero sgradevole lo colpisce, e, voltandosi, chiede al robot: — Quando sarò entrato questa porta si chiuderà?

— Affermativo.

— No — dice Clay. — Non voglio che ciò avvenga. Ti ordino di lasciarla aperta fino a quando tornerò.

— Ho istruzioni ben precise di impedire le incursioni da parte degli abitanti di…

— Dimenticale. Questo è un ordine. In questo momento sono l’unico uomo presente sul pianeta, e questo posto è stato costruito per servire gli uomini, e voi stessi non siete nient’altro che macchine progettate per rendere la vita umana più felice e ricca di soddisfazioni, e che io sia dannato se ti permetterò di sfidarmi. La porta rimane aperta. Hai capito?

Esitazione. Conflitto.

— Affermativo — dice infine il robot.

Clay entra. Al sesto passo si volta. La porta è ancora aperta. Il suo robot è accanto alla soglia, in attesa. — Bene — dice Clay. — Ricorda, io sono il capo. Rimane aperta.

Mentre analizza le facciate classiche in quel settore del mondo-galleria, scorge il primo segno, dopo il cadavere dell’uomo-capra, del fatto che la vita non-meccanica è riuscita a infiltrarsi nel rifugio sotterraneo. Otto piccole pallottoline verdi si trovano all’esterno di un edificio traslucido. Chiaramente sono i rifiuti organici di qualche animale dell’epoca. Dove non arrivano i robot, la vita ha ripreso il sopravvento.

Improvvisamente Clay vede di fronte a sé il possibile depositatore delle pallottoline: un animale oblungo, basso sul terreno, che si muove su gambe tozze e agita una coda nuda e purpurea. La sua schiena è costellata di occhi. Clay è consapevole dell’esistenza di un’intelligenza crudele e intenzionale all’interno della bestia. Non sarà un figlio dell’uomo anche questo? No. Non c’è nemmeno una briciola di umanità, in lui. È accucciato un po’ più avanti, nel corridoio. Si allontana. Clay lo segue. La bestia si lancia. Una preda invisibile, forse? La bestia afferra qualcosa con le zampe e la coda, vi affonda le zanne. Mastica. Prova evidente soddisfazione. Un piccolo brutto carnivoro, intento a mangiare. Dopo un po’ ha finito; trascina la sua vittima invisibile in un’alcova e riemerge, depositando altre pallottoline verdi. Se ne va. Clay procede per la sua strada.

Qui manca del tutto la manutenzione. L’aria è umida, inquinata, protoplasmica. Tele scintillanti pendono dalle pareti, e predatori scricchiolanti si annidano nel centro. Clay ne guarda uno da vicino: un’aragosta blu e pelosa. Gli sorride famelica. Lui le scivola di fianco ed entra in un meraviglioso cortile in cui una fontana radiosa scorre e riluce. Qui ci sono altre macchine del tipo comune dall’altra parte della porta, anche se non ha ancora visto due strumenti uguali. Davanti a lui c’è uno specchio concavo, la cui cavità sembra maliziosamente dolce e scintillante, come una porta d’ingresso per il paese delle fate. Ne tocca la superficie serica e vetrosa con quattro dita, poi ci ripensa e le ritira. — A cosa servi? — chiede allo strumento. — Le cose qui dovrebbero avere tutte un’etichetta, tipo BEVETEMI O SCHIACCIATE QUESTO PULSANTE, AVRETE OTTIME ALLUCINAZIONI, o cose del genere. Non possono aspettarsi che un estraneo capisca tutto da solo. Potrebbe farsi male. O danneggiare qualche meccanismo delicato.

Nel momento in cui smette di parlare, sente uno stridìo acuto, un gorgoglìo, un ribollire, uno sbatacchiare, e poi da un punto all’interno dello specchio gli torna la sua stessa voce, riarrangiata e riprodotta e scambiata per formare una sinfonia urlante, cacofonica: — OTTIME ALLUCINAZIONI cose etichette avere estraneo ad ad ad ad ad ad ad non possono aspettarsi SCHIACCIATE QUESTO PULSANTE o, o, o, dovrebbero avere BEVETE cose delicate qualche danneggiare danneggiare danneggiare indovinare potrebbe indovinare indovinare indovinare farsi male mi per qui non possono loro loro loro loro loro loro loro farsi male o SCHIACCIATE SCHIACCIATE SCHIACCIATE come estraneo il qui su loro su loro per qualcosa a cose queste qualcosa etichette PULSANTE dann la ex quale età inch cate ic ess ll’or ose uci orse delicate per cose ulsante raneo ale se SCHIACCIATE QUESTO PULSANTE un un un anno ALLUCINAZIONI rabbie OTTIMO.

Segue il silenzio.

Segue una ripetizione, invertita. Una fuga tripla. Una modulazione in tonalità minore. Uno spiccato. Inquietanti settime dominanti. Una cosetta, prima dell’ingresso della terza voce. Trasposizione del soggetto nella tonica. Allegro non giocoso. Andante ma non troppo. Largo. Vivace. Solfeggio. La stanza riecheggia della musica delle sue parole. SCHIACCIATE! "more!" "Lucina!" "Evete!". Variazioni ad libitum. "Oo oo oo oo oo oo oo oo". Quasi una fantasia. Portamento. Sforzando. Sfogato. Fortissimo. Vola. La musica lo segue nel corridoio. Legato! Doloroso! Dal segno! Agitato! "Danneggiare! Danneggiare! Danneggiare!". Corre, inciampa, si rialza, corre ancora. La macchina registratrice gli lancia dietro piani solidi di suono che suddividono l’aria in livelli, come un bar di lusso. Gira velocissimo un angolo, e un secondo, e un terzo; continuando a correre anche quando i suoni sono scomparsi. Poi si ferma bruscamente. Una grossa bestia blocca il corridoio. Ha la forma di una tenda, con strati grassi di pelle verde simile a cuoio, ed è circa due volte la massa di Clay. Si sostiene su piccoli piedi gialli palmati da papero. Assurde piccole braccia spuntano dal suo petto; su di esse c’è la fessura di una bocca e due grossi occhi acquosi. Gli occhi fissano Clay: ammiccano con buonumore clownesco e con indiscutibile intelligenza, ma c’è anche una fredda malevolenza nel loro lento movimento ammiccante. La bestia e Clay si affrontano in silenzio, una di fronte all’altro. Infine Clay si decide a dirlo: — Se sei una forma umana, dichiaro fratellanza. Sono una tua variante ancestrale. Trasportato dal flusso del tempo. — Gli occhi diventano ancora più attenti e scrutatori, ancora più divertiti, ma non ci sono altre risposte. La creatura continua lentamente ad avvicinarsi. È grossa, ma sembra innocua; Clay, ciò nonostante, nudo e disarmato, è estremamente attento, e indietreggia con la massima cautela. Senza voltare la testa, cerca con la coda dell’occhio una porta, la trova, la apre, entra, la sbatte dietro di sé, e ci si appoggia contro per tenerla ben chiusa, mentre segue i movimenti della creatura nel corridoio attraverso una larga finestra. La grossa bestia non fa alcun tentativo di forzare la porta. Evidentemente ha altre prede in mente, infatti adesso, nota Clay, sta rivolgendo la sua attenzione a un nido inserito in una colonna dalla parte opposta del corridoio. La fessura-bocca si è aperta, e da essa si è svolta una lingua nera e cilindrica, lunga parecchi metri, con tre punte simili a dita. Con queste ultime la bestia sonda il nido, che è fatto di strati luccicanti di plastica. Mentre le dita stanno esaminando con attenzione il nido, spunta una testa: il cucciolo, sembra di una delle creature oblunghe. Sei arti neri si agitano nella prevedibile furia. Afferrano la lingua triforcuta; uno di loro le si avvicina coraggiosamente e ci affonda le sue minuscole zanne gialle, poi balza indietro, e la creatura a forma di tenda, colpita, ritira velocemente la lingua quasi completamente, sferzando poi l’aria, con essa, per rinfrescarla. Poi la lingua riprende ad avanzare e ricomincia la sua esplorazione del nido. Le giovani bestiole tornano in vista e le girano intorno, ma questa volta la lingua colpisce velocemente, prendendone uno per la pancia e ritirandolo rapidamente verso la bocca in attesa. Piccole mascelle crudeli si aprono per inghiottirlo senza speranza. E affonda in quella bocca; e nello stesso momento la bestia-madre, di ritorno da una scorribanda di caccia, raggiunge la scena e si lancia contro il vorace predatore. Clay sente rumore di mascelle attraverso la porta, ma non riesce a stabilire a chi appartengano. La madre oltraggiata morde e mastica e lacera. La lingua, che guizza come un serpente irritato, si alza e ridiscende, le dita cercano di colpire, per allontanarlo dall’attacco. Ma il piccolo animale infuriato è troppo veloce. Spostandosi rapidamente, elude i movimenti incontrollati delle dita, e le morde ogni volta che gli si avvicinano troppo. La bestiola si accorge che è abbastanza facile raggiungere il corpo dell’avversario, e lo morde in diversi punti, e infine riesce ad aprire una grossa ferita sotto uno degli arti più grossi, ferendolo seriamente. Riesce così a raggiungere la carne viva della bestia-tenda, squarciandola come se volesse aprirsi un passaggio fino allo stomaco per liberare il piccolo inghiottito. Adesso la battaglia ha cambiato tono. Mascelle, spalle, buona parte della bestiola penetra nell’apertura del corpo dell’avversario. Gli occhi della bestia-tenda hanno perso la luce ironica; lampeggiano in agonia. La lingua, che si svolge per tutta la sua enorme lunghezza, spazza convulsamente le pareti. La bestia ondeggia e saltella sulle gambe da papera; cerca inutilmente di raggiungere il nemico mortale con le inutili piccole mani. Si strofina contro una colonna, emette pietosi lamenti di dolore, salta da una parte all’altra, nella crisi mortale. La sua sorte è segnata.

Ma la fine, quando viene, arriva da una fonte diversa. Improvvisamente nel corridoio compare una terza creatura, rettiliforme, quasi un dinosauro. Avanza su gambe colossali che ricordano quelle di un elefante, le cosce simili a tronchi d’albero. Una coda carnosa la sostiene posteriormente. Gli avambracci sono corti, ma possenti, il volto si allunga in un muso massiccio; i denti sono in realtà zanne così terribili e numerose che più di ogni altra cosa preannunciano la pericolosità agghiacciante del nuovo venuto, ed esagerano quasi grottescamente la brutalità della sua natura. Su questo ammasso sinistro di zanne splendono due occhi grandi e luminosi, che lampeggiano gelidamente. Di dove viene questo minaccioso tirannosauro? Quale scherzo dell’evoluzione, ripiegata su se stessa, ha fatto sì che questo enorme sauro si perdesse nei corridoi? Il mostro indietreggia, la testa raggiunge il soffitto del mondo-galleria, poi scruta la bestia-tenda e la sposta con una zampata, come fosse completamente priva di peso. Due colpi arroganti di mascella, e la creatura più sfortunata crolla, massacrata. L’altra bestiola fugge libera, inzuppata di sangue nerastro e appiccicoso, allontanandosi rapidamente. Il sauriano, soddisfatto, si pasce di enormi bocconi di carne, golosamente tratti nella bocca terribile. Lacera e strappa; grugnisce di soddisfazione. Clay, al sicuro dietro la porta, assiste alla scena, attonito non tanto per la brutale uccisione, ma per i messaggi che gli giungono dalla mente del mostro. Non si tratta di un rettile. E un altro dei figli dell’uomo. Sei un Mangiatore? chiede Clay e l’incubo risponde, senza interrompere il festino: Così siamo conosciuti.

I pensieri del Mangiatore fluiscono come iceberg su un mare grigio. Clay è sconvolto da quel contatto. Si tira indietro, appiattendosi contro il muro più lontano; il Mangiatore è troppo grande per entrare in questa stanza, ripete tra sé. Ma la porta si spalanca. La testa feroce si spinge all’interno, anche se il resto del corpo mostruoso rimane nel corridoio. Clay vede la propria immagine riflessa, distorta, in quegli occhi luccicanti.

Sei uomo? chiede il Mangiatore. Hai una forma antica…

Esatto. Il flusso del tempo.

Sì. Brusca interruzione. Soffice cosa carnosa. Inutile.

Clay risponde: Gli umani sono stati creati deboli in modo da sviluppare il loro ingegno e i riflessi. Se avessimo avuto le tue mascelle e i denti fin dall’inizio, avremmo mai inventato i coltelli, i martelli, i ceselli e le asce?

Il Mangiatore sbuffa. Spinge la faccia un po’ più avanti nella stanza. Clay contempla a disagio il modo in cui la parete levigata di plastica intorno all’uscio sta cominciando a scricchiolare. Se lo mangerebbe in tre bocconi, quell’orrore.

Anch’io sono umano proclama il Mangiatore. Hai assunto una forma animale? Ho assunto una forma di potenza.

La potenza risiede nella possibilità di trascendere la debolezza fisica per mezzo dell’intelligenza dice Clay. Non in una forza puramente bestiale.

Sfiderò la tua intelligenza con i miei denti, si offre il Mangiatore. Spinge con più forza contro la porta; ovviamente è insaziabile, e alla ricerca di qualsiasi tipo di carne.

Clay dice: Gli umani di quest’epoca sembrano capaci di cavarsela senza bisogno di uccidere. Non hanno bisogno di cibo. Perché tu devi mangiare?

Per libera scelta.

Scelta di tornare alla primitività?

Devo per forza essere come gli altri?

Gli altri sono più liberi di te insiste Clay. Tu sei legato alle necessità della tua carne. Non sei un passo avanti sulla scala dell’evoluzione, sei un anacronismo, un atavismo. L’uscio comincia a spezzarsi. Che fine possono avere avuto gli uomini nell’evolversi da forme mostruose, se poi dovevano finire con il ritornare a forme mostruose?

Poderosa pressione contro la parete. Scricchiolii nelle strutture portanti.

Il Mangiatore dice: Non c’è finalità. Non esiste uno schema. Luccichio di denti. Infila un braccio nella stanza. Abbiamo scelto questa forma in un periodo in cui ci andava di sceglierla. Dovremmo sederci e metterci a cantare? Dovremmo giocare con i fiori? Dovremmo fare i Cinque Riti? Abbiamo i nostri sistemi. Siamo parte della struttura delle cose. E colpi attraverso la porta, che distruggono mezzo muro.

L’enorme bocca si spalanca. I denti feroci brillano minacciosi. Clay, che ha scorto un piccolo tombino nella parte opposta della stanza durante il suo colloquio con il mostro, si precipita per raggiungerlo, riesce ad aprirlo; e, con grande sollievo, si affretta a entrarvi, fuggendo. I ruggiti del Mangiatore risuonano mentre Clay si allontana. Adesso si trova in una specie di galleria di servizio, scura, polverosa, in cui una serie di passaggi a spirale creano un inquietante labirinto. I suoi occhi cominciano ad abituarsi dopo qualche momento al nuovo ambiente che lo circonda. Animali di un centinaio di tipi vivono in queste gallerie. Non riesce a comprenderne l’ecologia: di cosa si nutrono gli erbivori? Inutile cercare qui una forma logica. E attraverso i corridoi si spostano i Mangiatori, ne vede almeno una dozzina, che riempiono i passaggi. Ognuno ha un territorio proprio. Non ci sono sconfinamenti. Cacciano continuamente, e non trovano mai abbastanza carne. Clay impara a intuirne la presenza, feroce e goffa, molto tempo prima di avvicinarglisi troppo, e così evita ogni pericolo. Riuscirà a trovare nuovamente il percorso per tornare alla porta che è rimasta aperta per lui? Potrà tornare al sicuro a quella parte del mondo-galleria difeso dai robot?

Vaga per un’eternità nei corridoi che si intersecano. I peli crescono nuovamente sul suo corpo. Per la prima volta da quando ha trasferito la sua fame a Hanmer sente un bisogno debole, ma definito di cibo. Lo preoccupa il fatto di essere nudo. Solleva troppa polvere. Cercando di evitare i Mangiatori, non nota nemmeno piccoli carnivori, e parecchie volte viene morso alle caviglie e ai polpacci. Ogni passaggio porta in un altro, ma non si avvicina mai a una zona familiare. La disperazione lo avvolge. Vagherà per sempre in quel mondo sotterraneo. Oppure, se riuscirà a guadagnare la superficie, si ritroverà semplicemente nel deserto di allucinazioni in cui l’ha abbandonato la sua guida-sferoide. L’incontro con il Mangiatore gli ha incupito l’umore. È oppresso dal fatto di sapere che una bestia del genere è un suo discendente.

Come forma di azione tenta di convincere se stesso di aver frainteso i Mangiatori. Inventa una cultura anche per loro. Si crea una visione di Mangiatori in preghiera, infiammati di zelo e tenerezza spirituale. Inventa una poesia dei Mangiatori. Cerca di figurarsi un gruppo di Mangiatori raccolti accanto a una parete da cui pendono quadri, e ascolta le loro idee sull’estetica. Visualizza matematici Mangiatori, che tracciano simboli nella polvere con le terribili mascelle. La sua anima è piena di compassione per loro. Voi siete umani, siete umani, siete umani, siete umani, insiste, ed è pronto ad abbracciarli fraternamente. Un sentimento di amore si impadronisce di lui. La sua coscienza penetra nel mondo dei Mangiatori, oscuro, fantastico, incerto, attraversato da passioni possenti, e, tremolando e luccicando, tremolando e aprendosi, porta il suo messaggio d’amore ai mostri, compone la sua Epistola agli Atroci, ed essi si affollano intorno a lui, ringraziandolo per il dono della grazia, facendo scricchiolare i denti paurosi in gentili armonie, benedicendolo per aver saputo riconoscere l’umanità essenziale nascosta in quella carne d’incubo. In questa condizione si muove serenamente attraverso il labirintico mondo-galleria, e alla fine vede davanti a sé luci brillanti, un sentiero che porta verso l’alto, e ode un coro celeste, e una voce gli dice: — Vieni, questa è la strada. — Sale. Cori di angeli che cantano. Passa attraverso una porta ottagonale e la dolcezza dell’aria fresca gli solletica le narici. E non si tratta di un sogno, in quanto emerge in un prato di erba tosata e dorata, e i suoi amici sono tutti lì, e Hanmer dice: — Sei arrivato in tempo per unirti a noi nella Melodia dell’Oscurità.

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