Arriva in una zona in cui non esistono colori. Ogni cosa ha perso la sua pigmentazione; tutto è a lunghezza d’onda zero, e Clay teme quasi una frattura nello spettro. Anche il sole è senza tonalità, e la luce che ne discende è un vero paradosso. Egli cammina con attenzione, pieno di meraviglia. Ha già visto il biancore dell’Antartico che sembra divorare tutto, e ha visto la tenebra aggressiva di Scuro, ma questo posto è diverso, perché, se il nero può essere considerato assenza di colori, qui nulla è nero, e d’altra parte non c’è neppure fusione di colori, cioè bianco. Allora, come si fa a vedere qualcosa? — Non mi ingannate — dice coraggiosamente. — Ne so abbastanza, sulle leggi dell’ottica. Il colore non è nient’altro che l’effetto prodotto sull’occhio dalle radiazioni elettromagnetiche di una certa lunghezza d’onda. Nessuna lunghezza d’onda, niente colore; niente colori, nessuna visione. Così, come faccio a vedere queste cose? — Studia la propria mano incolore. Spinge in fuori la lingua incolore. Tocca i petali incolori di una piantina incolore.
Se può esistere un colore privo di estensione fisica, forse può esistere anche un’estensione fisica priva di colori. Indubbiamente siamo d’accordo sull’esistenza di un concetto quale quello di colore assoluto. È possibile visualizzare il rosso anche senza visualizzare un oggetto rosso, no? Benissimo. Colore astratto, non collegato a una massa. Adesso visualizziamo una massa priva di colori, una semplice forma, meno la distrazione di risonanza nello spettro ottico. Non è facile? Be’, tentate, ragazzi miei, tentate, tentate!
Clay urla alla voce pedante, cattedratica, di uscirgli dalla testa: e quella sparisce, con il suono di fili che bruciano. Una lucertola incolore guizza sul terreno incolore: vede la scena come uno spostamento di strutture. C’è qualcosa di giapponese, decide, in questa speciale percezione. Si può dipendere dalla forma pura per l’identificazione degli oggetti; il mondo ha la sottigliezza di una sinfonia in una sola chiave, di un giardino di rose nere, di un singolo splendente segno calligrafico. Accetta questa restrizione percettiva. Si muove con grande dolcezza, temendo che un passo falso possa far ricomparire improvvisamente lo spettro. Com’è tranquillo questo posto, così deliziosamente vuoto. Anche il suono è incolore. — Ehilà — chiama. — Ehilà. Ehilà. Ehilà — e le parole sono simili a frecce di vetro, pure, caste. — Potete dirmi dove posso trovare gli Intercessori? — Vede rocce, alberi, uccelli, fiori, erba, insetti. Questo è lo spettro del mondo. Questa è l’ombra di un’ombra. Potrebbe rimanere qui per sempre, senza avere responsabilità, purificandosi mentalmente, ripulendosi dalle impurità dei vecchi colori, e di tutti quegli sgradevoli residui accumulati, dei verdi traslucidi e dei gialli e degli ultramarini e degli scarlatti e dei mirtilli e dei bistro e dei carminio e dei blu e dei grigi e degli arancioni e degli indaco e dei porpora e dei lilla e dei ciliegia e dei seppia e dei bronzi e degli smeraldi e dei vermigli e degli oro e degli argenti. Vedere un tramonto incolore diffuso pacificamente su un cielo incolore, guardare nel nucleo incolore di una foresta incolore, pensare pensieri incolori mentre il vento fa stormire tremolanti foglie incolori… Poi ricorda gli Sfioratori. Va avanti, passa su una striscia sabbiosa e in un posto in cui milioni di pezzettini di vetro scintillante, levigati e corrosi dal tempo, brillano silenziosi tutt’intorno, ed entra in un settore di fitti rovi da cui spuntano spine aguzze da viticci spessi che si spostano e si sollevano. Sospirando e sibilando, i viticci lo circondano come serpenti infuriati, facendo alcuni passaggi sperimentali sui suoi occhi, sui genitali, sulle cosce. — Avanti — dice Clay. — Tagliatemi, se dovete farlo, e poi toglietevi dai piedi! — I viticci esitano ancora. Lui li deride. Poi uno di essi gli punge un fianco con un bacio improvviso, traendone un rivoletto di sangue, e anche queste goccioline che scaturiscono sulle prime sono incolori, ma improvvisamente acquistano un rosso molto intenso; grazie a quello stupefacente rivoletto brillante sulla pelle capisce di aver passato il confine. All’improvviso i colori balzano fuori da ogni parte, oscenamente diffusi. Rimane stupefatto. La retina gli duole, irritata dal carico cromatico. Rosso! Arancione! Giallo! Verde! Blu! Indaco! Violetto! La struttura intrinseca si perde nel divampare furioso dello spettro. Abbandonare l’assenza di colore è triste; volta lo sguardo verso quel luogo, nella Speranza di coglierne un’ultima occhiata per ricordare quell’incolorità unica, ma gli occhi indolenziti non riescono più a cogliere la qualità dell’assenza di colore, e, stringendosi nelle spalle, affronta il massiccio bombardamento. I canali della sua mente che sono stati purificati dai detriti di colore residuo si riempiono nuovamente come pozzi ricolmi, ed emettono assetati risucchi man mano che la luce abbacinante vi entra. Come può esistere una tale luminosità? Tutto pulsa. Tutto irradia. Dal nucleo di una sola foglia provengono un migliaio di gradazioni di colore. Il cielo è un prisma, e lui danza sotto quei raggi grandiosi. La sua stessa pelle riluce di masse indecifrabili e cavernose di luce e ombra. I globi oculari sono inondati, e sembrano volergli rientrare nel cranio. Sta imparando i limiti dei suoi sensi: se non riesce in qualche modo a diminuire la ricettività, finirà bruciato per il sovraccarico. Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi! - Chiudere gli occhi è un po’ morire — risponde fieramente, e fissa il sole. Vai! Fai del tuo peggio! Allarga le braccia. La sua umanità sorge. Beve le radiazioni multicolori e, annaspando, trova posto per tutte, e riempie ogni interstizio del suo corpo e stringe i pugni, e sfida il prisma gigante invitandolo a distruggerlo. E trionfa. E assorbe. E si riempie di rossi e di verdi. E raggiunge l’estasi, mandando il suo seme a spruzzare in uno splendido arco multicolore; nel suo percorso risplende purpureo e blu e dorato, e dove si ferma crea orgogliosi omuncoli avvolti in strati guizzanti di fiamma. Ride. Una nuvola passa davanti al sole. Si inginocchia e guarda in un universo che trova all’interno di una sola gocciolina d’acqua e una foglia rotonda e carnosa. Tutte le minuscole creature, sofferenti, amorose, sorgono, ricadono, si sforzano, perdono: invia loro la sua benedizione. — Dove sono gli Intercessori? — sussurra. — I miei amici sono in pericolo. Dove? Dove? Dove? — I colori si attenuano. Il mondo riprende le tonalità solite. Clay è assalito da dubbi, fantasmi, gnomi, arpie, fobie, nebbie, infermità, disfacimento, tabù, rigidità, bolge, bugie, infezioni, impotenze, ipocrisie, sbalzi di temperatura, sfibramento spirituale. Ondeggia in mezzo a questi miasmi come se stesse attraversando un mare di alghe, e ne emerge ricoperto di melma che si secca e si stacca al primo tocco del sole. Davanti a lui un grandioso promontorio roccioso, un enorme e spettacolare masso che spunta da una pianura qualunque e si innalza come un missile a un’altezza di centinaia di metri, formando un piedestallo alto e dalla sommità piatta che domina un paesaggio tranquillo. Annidate alla base di questo promontorio, dalla parte opposta della pianura, ci sono le rovine di un edificio immenso, una gigantesca struttura di pietra che anche nelle attuali condizioni di decadenza conserva uno straordinario senso di potenza e solennità: è un edificio a colonne in stile classico, grigio e stolido e sicuro nella sua maestosità, adatto come stile e pompa per diventare il museo supremo della Terra; il ricettacolo di tutto quanto è stato realizzato su questo pianeta. Molte sue colonne sono spezzate, il possente portale pende dai cardini marmorei, la base è in disfacimento, le finestre sono vuote occhiaie profonde e buie.
Eppure Clay comprende di non essersi imbattuto in un’opera minore, ma piuttosto in un luogo dal significato duraturo, e sente la strana sicurezza che qui potrà incontrare quelli che sta cercando. Si dirige verso la struttura colossale sentendosi in confronto un verme.