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In effetti Lento cerca di trattenerlo. Scivola giù dalla sommità senza guadagnare troppa velocità, e scende in maniera molto rallentata, senza ancora essersi uniformato allo schema temporale del mondo esterno. Riesce così a risistemarsi mentre scende, spostandosi da quella sgradevole posizione a testa in giù e facendo in modo di atterrare verticalmente, ma sulle natiche, che considera più adatte ad assorbire il colpo che non i piedi. E così atterra, con un piccolo tonfo soffocato. Rimbalza un paio di volte e poi si ferma.

Si rende rapidamente conto di essere illeso.

Si alza rapidamente in piedi, godendo delle sensazioni portate dai movimenti veloci.

Muove le braccia. Tira calci al terreno. Salta nell’aria. Scuote la testa.

Nel nuovo posto non c’è né una gravità schiacciante, né una misteriosa forza rallentatrice; il freddo non è insopportabile, e il caldo non è furioso, e lui non si sente sopraffatto da una senilità precoce come a Vecchio. È sollevato nel trovare assenti queste qualità negative dal luogo in cui si trova. D’altra parte, non sembra che abbondino neppure le qualità positive. È in piedi in una pianura estesa e uniforme che sembra consistere interamente di una singola distesa di pietra grigia levigata, che raggiunge l’orizzonte. Anche il cielo è grigio, e incontra la terra in modo che è impossibile determinare dove uno finisca e dove cominci l’altro. Non c’è traccia di vegetazione, non ci sono segni di vita animale, non ci sono colline e non si vedono vallate. Non ci sono torrenti. Percepisce un grigio ininterrotto ed esteso, interamente privo di contenuti.

Capisce che non è ancora uscito dai distretti sgradevoli; intuisce di essere giunto nel luogo conosciuto come Vuoto.

— Ehilà! — chiama. — Ehi! C’è qualcuno? Dove…?

Non gli risponde nemmeno l’eco.

Si inginocchia e appoggia una mano sulla roccia grigia. Non è né fredda né calda. Cerca di graffiarla senza riuscirci. Avvicina il suo volto, alla ricerca di una qualche imperfezione, senza riuscire a trovarne. Potrebbe benissimo essere una lastra perfetta di materiale plastico. Alzandosi, si volta, cercando di scorgere l’altipiano su cui sorge Lento, ma si perde nel grigiore generale. Il sole è invisibile. Non c’è assolutamente nulla. Rimane quasi sorpreso dallo scoprire che almeno le molecole d’aria sopravvivano in questo luogo privo di materia; perché non il vuoto assoluto? Ma indubbiamente lui sta respirando. O se non altro ha l’illusione di farlo.

Si rassegna ad attraversare Vuoto.

Non ha mai conosciuto un isolamento di questo tipo. Lui potrebbe benissimo essere il solo oggetto esistente nell’universo. Forse è stato colto di nuovo dal flusso del tempo, e lanciato miliardi di anni avanti nel futuro, nell’era del trionfo dell’entropia, quando il grigiore avrà conquistato tutto. Dove andrà? Come farà a far passare il tempo?

Ma potrebbe essere peggio. Dopotutto non è ferito, non è immobilizzato, non è schiacciato da nulla, in questo strano posto. Non corre il pericolo di gelare né quello di bruciare né quello di invecchiare. Non è capace di affrontare la solitudine? E la qualità dell’isolamento, è poi molto diversa da quella che sentiva quando era con Hanmer e i suoi amici?

Si mette in movimento, e comincia a camminare. Lasciamo che Vuoto faccia quello che può per creare ostacoli. Da qualche parte dovrà pur finire. Si spingerà in avanti, come ha fatto a Vecchio e a Ghiaccio e a Fuoco, e a Pesante e a Lento; e forse dovrà superare qualche ulteriore prova, e forse si riunirà ai suoi amici, ma in ogni modo nel cammino non soffrirà particolarmente. Dopo un po’, però, non ne è più così sicuro: potrebbe benissimo stare compiendo una serie di circoli viziosi, e non può contare sull’alba o sulla luce delle stelle come punto di riferimento. Non sa neanche se sta avanzando o se il grigiore sotto di lui sta scivolando costantemente indietro mentre lui rimane immobile. Possono passare secoli senza che qui si verifichi il minimo cambiamento. È una stasi peggiore di quella che lo ha stretto a Pesante e a Lento, e man mano che il tempo scivola in intervalli inconoscibili una confusa disperazione avvinghia la sua anima. Adesso sa qual è il peggio. Nel mare del nulla è completamente annichilito, annientato. La vita gli scivola davanti agli occhi e lui non vede assolutamente nulla: niente incidenti, niente crisi, niente relazioni, niente eventi, soltanto un flusso di giorni e di settimane e di mesi e di anni, grigi senza lineamenti, vuoti. Questo è un regno infinito. È una città continua. Come farà a liberarsene? Cammina. Cammina. Cammina. Non si preoccupa di chiedere aiuto. Questo è Vuoto. Questo è un posto in cui ogni risposta è impossibile.

Non cambia nulla.

Tenta di distrarre la sua mente. Diventerà una vera e propria macchina ambulante, che fa un passo dopo l’altro senza pensare, e forse arriverà un giorno o l’altro al confine, e in quel modo lascerà vittorioso questo posto. Ma non è poi così facile, non pensare. La consapevolezza del suo isolamento gli martella la mente, stimolando desideri e rimpianti e paure e speranze. Cammina. Non cambia nulla. È il terreno a scivolare all’indietro? Davvero il cielo si unisce alla terra? Questo è Vuoto. Questo è Vuoto. Questa è la morte finale del cuore, la negazione perfino della negazione.

Cerca un sistema per sconfiggere il vuoto. Conta i suoi passi, facendo cinquanta passi cominciando con il piede destro, poi portando i piedi paralleli e ricominciando daccapo, cinquanta con il piede sinistro. Varia gli schemi dei suoi passi: ottanta e sessanta, settanta e cinquanta, novanta e quaranta, cento e trenta, trenta e cento. Salta per un po’ sulla gamba destra. Salta sulla gamba sinistra. Si ferma. Cade in una serie di rigidi movimenti automatici. Si ferma e si riposa, sdraiandosi sul piatto e grigio nulla. Si masturba. Mentre cammina richiama ricordi della sua vita precedente, cerca di immaginare i volti dei compagni di scuola, degli insegnanti, dei colleghi d’affari, delle amanti. Immagina edifici e strade e parchi. Si sdraia e cerca di dormire, sperando al risveglio di ritrovarsi da qualche altra parte, ma non riesce a prendere sonno. Cammina all’indietro. Canta. Recita il catechismo. Sputa. Salta correndo.

Non serve a niente. Il grigiore vuoto continua ininterrotto, e ondate di noia miasmatica roteano come nebbia intorno a lui. Questa è la terra della notte, il posto che non è un posto, il rifiuto dell’universo, la casa del suono del silenzio. Ogni tentativo fallisce. La sua mente comincia lentamente a perdersi. È un uomo meccanico, che fa un passo dopo l’altro, senza mai avvicinarsi a qualcosa.

— Io! — urla.

— Tu!

— Noi!

Neanche un’eco. Neanche un’eco.

— Gesù Cristo Nostro Salvatore!

— Quando nel corso degli umani eventi!

— Scopa! Scopa! Scopa!

Silenzio. Silenzio. Silenzio.

Non si lascerà battere. Continuerà ad avanzare, non importa quello che lo attende, anche se il vuoto si stende da qui ai confini dell’universo. È sfuggito a Vecchio e a Ghiaccio e a Fuoco, e a Pesante e a Lento, e sfuggirà anche al Vuoto, a costo di camminare un milione di anni in quella landa deserta.

— Clay! — chiama.

— Padre! Figlio! Spirito Santo!

— Hanmer! Ninameen! Ti!

Le sue parole si perdono nell’aria. I suoi urli rabbiosi scivolano in quella distesa di nulla e si dissolvono. Eppure continua a strillare. E a portare avanti i suoi piedi. E a battere le mani. E a scuotere i pugni. E a camminare. A camminare. A camminare. Il suo stato d’animo oscilla. Ci sono momenti in cui è talmente sopraffatto dalla disperazione che cade sulle ginocchia, lasciandosi andare, e chiude gli occhi, e aspetta che il momento della fine delle cose lo raggiunga. Ma in altri momenti sa che la fine delle sue sofferenze è appena più avanti, se solo riuscirà a conservare il suo coraggio e a marciare impavidamente: è il rappresentante dell’umanità in questi ultimi giorni, e non deve deludere l’alta fiducia che gli viene attribuita. Continua a camminare, cercando qualche segno. Quella all’orizzonte è una stella? No. No. C’è un ispessimento nel tessuto del grigio, da qualche parte? Forse. Laggiù, sta scendendo l’oscurità? Sembrerebbe. Se questo posto può subire il cambiamento, allora deve anche poter finire. Lui persevererà. E già la qualità del grigiore sembra essere indiscutibilmente mutata. Deve aver passato inconsapevolmente un confine. La ricompensa alla fede: liberato dal Vuoto. La sua gioia per la fuga è temperata, tuttavia, dalla difficoltà di percepire il nuovo ambiente. Qui è terribilmente scuro. Continua imperterrito a camminare, senza imbattersi in alberi o cespugli né percependo alcuna variazione nella levigatezza sotto i suoi piedi, e l’oscurità aumenta fino a diventare assoluta; comincia a chiedersi se si è realmente lasciato dietro il Vuoto, o se questa non è altro che la notte del Vuoto, che scende dopo un giorno infinito. Mentre procede comincia a comprendere che cosa è successo. In realtà è riuscito a uscire da Vuoto, ma nel farlo è sconfinato nel vicino distretto di Scuro, certo non migliore, anzi probabilmente peggiore. Qui all’assenza di tutte le cose tipica del Vuoto si aggiunge anche l’assenza della luce, così da far rimpiangere perfino il vecchio grigiore. Adesso assapora la vera rassegnazione. Vuoto era un giardino di delizie in confronto a Scuro.

Non può continuare a lottare.

Ha superato ogni prova; è sopravvissuto a ogni rischio. Ma non ha ottenuto nulla e ha perso moltissimo. Adesso si arrende. Non si misurerà contro lo Scuro.

Si siede. Incrocia le braccia intorno alle ginocchia. Fissa nel vuoto senza dire nulla.

Perché mi hai abbandonato?

Se potesse avere anche solo un segno, continuerebbe a procedere: una sola goccia di pioggia, il suono di un sospiro lontano, il passaggio nelle vicinanze di un uccello, uno sfavillìo di luci, un momento di luce stellare. Ma la nerezza è completa. Ne è schiacciato. Si sdraia piatto, braccia allargate, il volto verso il cielo assente, gli occhi aperti che però non vedono nulla. Non farà più nulla. Aspetterà.

Ricorda un mondo di forme, di contenuti e di colori. Le costellazioni luminose; i rami grigi e contorti degli alberi; l’occhio dorato di una rana; lo sferzare insistente di una furiosa tempesta di neve; una ricca e rossa sabbia desertica all’alba; il rosa profondo di un capezzolo sullo sfondo roseo di un seno; lo sfavillìo guizzante e veloce di un pesce argenteo in un laghetto verde; centrali per l’alta tensione contro un cielo estivo; un’iguana pronta a lanciarsi fulminea sulla sua preda; i colori stupefacenti dell’aurora; le acute scintille di un arco voltaico; la luce solare rossa e morente del New Jersey che si infrange sulle torri di Manhattan; schiuma bianca su un mare azzurro; i monaci sorridenti dei conventi zen; l’oceano; le montagne; le praterie; le paludi. Non rivedere mai più nessuna di tutte queste cose. Fissare con occhi assenti un mondo diventato cieco. Dove sono gli alberi? Dove sono le rane? Dove sono le stelle? Dov’è la luce?

Un milione di anni di vuota nerezza si srotolano su di lui.

— Basta! — mormora. — Basta!

E la luce invade il cielo. Ed Errore singhiozza. E un uccello passa vicino al suo naso in uno sbatter d’ali. E la pioggia gli rinfresca la pancia. E le stelle spuntano nella notte. E tutt’intorno a lui spuntano gli oggetti della natura, alberi e cespugli e piante da fiore, rocce e macigni, insetti chiacchierini, veli di rugiada, lucertole gialle, licheni azzurri, erba verde. Nella parte bassa del cielo una lama di luce compare e si allarga, diventando un ventaglio d’argento, un occhio fiero, un sole radioso. Cori celesti cantano. Il cielo blu, maculato di nubi, lo rischiara. Colori spuntano da tutte le parti. — Sono Hanmer — dice una voce gentile. — Sono amore. — Clay si siede. Gli Sfioratori sono intorno a lui. Hanno tutti forma femminile. Ninameen gli stringe un braccio, dicendo: — Io sono amore, sono Ninameen. — Ti gioca con i suoi piedi, Bril con i suoi capelli, Angelon unisce le sue dita a quelle di Clay, Serifice gli preme le labbra su una guancia. — Io sono amore — sussurra Serifice. — Io sono Angelon — dice Angelon. Lo fanno alzare in piedi. Ammicca. Adesso la luce è troppo forte per lui. — Dove sono stato? — chiede loro. — Nel Fuoco — dice Bril. — Nel mondo Pesante — dice Hanmer. — A Lento — mormora Ninameen. — Nel Vuoto — sussurra Angelon. — E nel regno Scuro — conclude Ti. — Ora sei con noi — lo confortano. — Dove siete stati? — chiede Clay. E loro: — Abbiamo nuotato nel Pozzo delle prime Cose. Abbiamo discusso della morte con gli Intercessori. Abbiamo visitato Marte e Nettuno. Abbiamo riso dell’Errore. Abbiamo insegnato la bellezza agli uomini-capra. Abbiamo amato i Distruttori e cantato per i Mangiatori.

— E adesso? E adesso?

— Adesso — dice Hanmer — faremo il Riempimento delle Valli.

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