3

Siedono uno di fianco all’altro nell’oscurità, senza dire una parola. Clay osserva la processione delle stelle. La loro luminosità sembra talvolta insopportabile. Più volte pensa di abbracciare ancora Hanmer, ma poi ricorda la metamorfosi dell’altro. Forse prima o poi l’Hanmer femmina ritornerà; la sua comparsa sulla scena gli è sembrata indubbiamente troppo breve.

All’Hanmer attuale, dice: — Sono un barbaro mostruoso? Sono selvaggio? Sono grossolano?

— No. No. No.

— Ma sono un uomo dei primordi. Sono un primo, nebuloso tentativo. Ho un’appendice. Orino. Defeco. Mi viene fame. Sudo. Puzzo. Sono milioni di anni inferiore a te. Cinque milioni? Cinquanta milioni? Ne hai idea?

— Noi ti ammiriamo per quello che sei — lo rassicura Hanmer. — Non ti critichiamo per quello che non hai avuto la possibilità di diventare. Naturalmente, potremo modificare la nostra opinione conoscendoti meglio. Ci riserviamo il diritto di detestarti.

Segue un silenzio prolungato. Stelle luminose pervadono la notte.

Dopo un po’ Clay aggiunge: — Non che io voglia scusarmi. Abbiamo fatto del nostro meglio. Abbiamo dato al mondo Shakespeare, dopo tutto. E… voi conoscete Shakespeare?

— No.

— Beethoven?

— No.

— Einstein?

— No.

— Leonardo da Vinci.

— No.

— Mozart!

— No.

— Galileo!

— No.

— Newton!

— No.

— Michelangelo. Maometto. Marx. Darwin.

— No. No. No. No.

— Platone? Aristotele? Gesù?

— No, no, no.

Clay dice: — Ricordi la luna che una volta questo pianeta aveva?

— Ho sentito parlare della luna, questo sì. Ma nessuna di queste altre cose.

— Tutto quello che abbiamo fatto è andato perduto, allora? Nulla sopravvive. Siamo estinti.

— Ti sbagli. La tua razza sopravvive.

— Dove?

— In noi.

— No — dice Clay. — Se tutto quello che abbiamo fatto è morto, la nostra razza è morta. Goethe. Carlo Magno. Socrate. Hitler. Attila. Caruso. Abbiamo combattuto contro l’oscurità e l’oscurità ci ha spazzati dalla scena. Siamo estinti.

— Se voi siete estinti — dice Hanmer — allora noi non siamo umani.

— Voi non siete umani.

— Noi siamo umani.

— Forse umani, ma non uomini. Figli degli uomini, ecco. C’è un salto qualitativo. Un divario di continuità troppo accentuato. Avete dimenticato Shakespeare. Svolazzate tra i cieli.

— Devi ricordare — dice Hanmer — che il tuo periodo occupa un segmento estremamente ristretto sulla banda del tempo. Le informazioni relative a un periodo troppo limitato diventano confuse e distorte. E forse sorprendente che i vostri eroi siano stati dimenticati? Quello che a te sembra un rumore possente per noi non è che un lieve cicaleccio momentaneo. Noi percepiamo una banda molto maggiore.

— Mi parli di ampiezze di banda — osserva Clay, stupefatto. — Avete perso Shakespeare e conservato le conoscenze tecniche…

— Mi sono servito solo di una metafora.

— Com’è che parli la mia lingua?

— Amico, tu parli la mia lingua — dice Hanmer. — Esiste una sola lingua, e tutti la parlano.

— Esistono molte lingue.

— Una.

There are many languages!

— Solo una, che tutte le creature comprendono.

Muchas lenguas! Sprache! Langue! Sprak! Nyelv! La confusione delle lingue. Enchanté de faire votre con-naissance. Welcher Ort is das? Per favore, potrebbe dirigermi al telefono. Finns det nâgon här, som talar en-gelska? El tren acaba de salir.

— Quando una mente entra in contatto con un’altra — dice Hanmer — la comunicazione è immediata e assoluta. Perché avevate bisogno di tanti modi per parlare l’un l’altro?

— È uno dei piaceri dei selvaggi — dice Clay amaramente. È sconvolto dall’idea che tutto e tutti siano stati dimenticati. Dalle nostre acquisizioni noi definiamo noi stessi, pensa. Per mezzo della continuità della nostra cultura deduciamo la nostra umanità. E tutte le continuità sono spezzate. Abbiamo perso la nostra immortalità. Potremmo farci crescere tre teste e trenta piedi, e la nostra pelle potrebbe diventare blu notte, e fintanto che vivono Omero e Michelangelo e Sofocle anche l’umanità vive. E sono tutti scomparsi. Se noi fossimo globi di fuoco verde, o incrostazioni rossicce su una roccia, o ammassi splendenti di filo, e ricordassimo ancora chi siamo stati, saremmo ancora uomini. — Quando tu e io siamo volati nello spazio, prima, come abbiamo fatto?

— Ci siamo dissolti. Siamo saliti.

— Come?

— Dissolvendoci. Salendo.

— Non è una risposta.

— Non posso dartene una migliore.

— È una cosa che fate spontaneamente, naturalmente? Come respirare? Come camminare?

— Sì.

— Così siete diventati dèi — dice Clay. — Tutte le possibilità per voi sono aperte. Fate un salto su Plutone quando ne avete voglia. Cambiate sesso a volontà. Vivete eternamente, o vicini all’eternità fino a quando volete. Se volete della musica, potete creare Bach, ognuno di voi può farlo. Potete ragionare come Newton, dipingere come El Greco, scrivere come Shakespeare, se non fosse che la cosa non vi interessa. Vivete ogni momento in una sinfonia di colori e forme e strutture. Dèi. Siete riusciti a diventare dèi. — Clay ride. — Noi abbiamo cercato di riuscirci. Voglio dire, sapevamo come volare, siamo riusciti ad arrivare ai pianti, abbiamo domato l’elettricità, abbiamo creato i suoni nell’aria, abbiamo sconfitto le nostre malattie, abbiamo spaccato gli atomi. Per quello che eravamo, non eravamo neanche male. Per il periodo in cui vivevamo. Ventimila anni prima del mio tempo gli uomini indossavano pelli di animali e vivevano nelle caverne; nel mio tempo camminavano sulla Luna. Voi potete vivere ventimila anni se la cosa vi interessa, Vero? Come minimo. Ma c’è stato qualche cambiamento significativo nel mondo in tutto questo tempo? No. Non potete cambiare da quando siete diventati dèi, perché avete realizzato tutto. Sai, Hanmer, che noi ci chiedevamo spesso se fosse giusto spingerci troppo avanti? Voi avete perso i Greci, così forse non conoscete il concetto di hybris. Orgoglio eccessivo. Se un uomo si arrampica troppo in alto, gli dèi lo colpiranno facendolo crollare, perché certe cose sono riservate solo agli dèi. Noi ci preoccupavamo molto, dell’hybris. Ci chiedevamo: stiamo diventando troppo simili agli dèi? Saremo colpiti? La peste, il fuoco, la tempesta, la carestia?

— Avevate davvero un concetto del genere? — chiede Hanmer, con un tono di genuina curiosità nella voce. — Che è male tentare troppo?

— Proprio così.

— Un mito stagnante, concepito da codardi…

— Un concetto nobile inventato dalle menti più nobili della nostra razza.

— No — dice Hanmer. — Chi difenderebbe un’idea del genere? Chi rifiuterebbe il mandato del destino umano?

— Noi vivevamo — dice Clay — nella tensione tra l’impulso a muoverci e la paura di arrampicarci troppo in alto. Ma continuavamo a salire, anche se scossi dalla paura. E siamo diventati dèi. Siamo diventati voi, Hanmer! Eppure, riesci a vedere la nostra punizione? Per la nostra hybris siamo stati dimenticati.

È compiaciuto della complessità delle sue affermazioni. Aspetta la risposta di Hanmer, ma non giunge nessuna risposta. Lentamente, si rende conto che Hanmer è scomparso. Stufo delle mie chiacchiere? Ritornerà? Tutto ritorna. Clay aspetterà la fine della notte senza muoversi da quel posto. Cerca di dormire, ma si ritrova perfettamente sveglio. Non ha dormito fin dal suo primo risveglio qui. Non riesce a vedere quasi nulla nell’oscurità fittissima. Ma ci sono i suoni. Il rumore di una corda pizzicata pervade l’aria. Poi arriva un suono che ricorda quello di qualche grossa massa che sta vibrando lentamente e poderosamente. Poi sente l’innalzarsi di sei colonne massicce di pietra che si infrangono al suolo. Un rumore acuto e straziante. Un boato intenso e cupo. Un frinire di globi perlacei. Un gorgoglìo viscido. Uno sbattere d’ali. Uno spruzzo. Un cigolìo. Un sibilo. Dov’è l’orchestra? Non si vede nessuno, nei pressi. È sicuro di èssere rinchiuso in un cono scuro di solitudine. La musica si dissolve, lasciando solo alcuni aromi fragranti. Sente salire una foschia che lo avvolge completamente. Si chiede fino a che punto siano contagiosi i miracoli di Hanmer, e gli esperimenti di trasformazione sessuale; giacendo supino su una lastra gelida e scivolosa, cerca di farsi crescere il seno. Irrigidito dalla concentrazione, cercando di far sorgere due montagnole carnee sul petto, fallisce; si chiede se sarebbe più efficace cominciare stimolando le strutture ghiandolari interne delle mammelle, e poi tenta di immaginare quale aspetto dovrebbe assumere la struttura, e fallisce; si chiede se non gli sarebbe impossibile sviluppare ghiandole femminili senza prima sbarazzarsi degli organi maschili, e si concentra brevemente sulla possibilità di estrometterli dall’esistenza, ma esita, e fallisce. Considera quindi questo tentativo di cambiamento di sesso come un insuccesso. Poi, pensando di visitare le coste ghiacciate di Saturno, cerca di dissolversi e salire. Per quanto ansimi, sudi e si sforzi, rimane irrimediabilmente materiale; ma poi si sorprende quando, in un momento di rilassamento tra due sforzi, riesce realmente a emanare la pallida nube grigia della dissoluzione. La cosa lo incoraggia. Si aggrappa a questo risultato. È convinto di essere quasi riuscito a farcela, e ispeziona attentamente la sua periferia, cercando di salire. Qualcosa sta indubbiamente accadendo, ma non sembra essere esattamente la stessa cosa avvenuta in precedenza. Un bagliore opaco e verdastro lo avvolge, e sente tutt’intorno suoni aspri e sgradevoli. Dopo di che ricade al suolo. Lascia quindi via libera alle sue paure e percorre spontaneamente una buona metà dello spettro prima di riuscire a riconquistare una qualche forma di controllo sulla situazione. L’uomo è stato creato per fare cose di questo tipo? Non si sta avventurando forse in un territorio proibito? No! No! No! Si attenua. Si dissolve. Ondeggia come una foglia al vento, quasi contro la sua volontà, un po’ incapace di compiere quell’atto finale di separazione dai legami terreni. È molto vicino, però. Luci vorticano nel cielo: arancioni, gialle, rosse. È decisamente ansioso di riuscire, e per un momento pensa di essere realmente riuscito, poiché prova la sensazione di poter recidere ogni legame e di lanciarsi nel firmamento, e i gong risuonano e le luci lampeggiano, e c’è una sensazione terribile di strappo e qualcosa di straordinario accade…

Ma si rende conto di non essere andato da nessuna parte. Sembra invece aver attratto qualcosa a lui.

È seduto accanto a lui sulla piattaforma levigata. È uno sferoide rosa levigato e ovale, gelatinoso, ma solido, rinchiuso in una gabbia rettangolare fatta di un qualche pesante metallo argenteo. La gabbia e lo sferoide sono interconnessi: le sbarre incrociano il corpo in diversi punti. Una singola ruota lucente e sferica sostiene il pavimento della gabbia. Lo sferoide gli parla con un gorgoglìo confuso. Clay non riesce a capire nulla. — Pensavo che ci fosse una sola lingua — dice. — Che cosa mi stai dicendo? — Lo sferoide parla ancora, evidentemente ripetendo le sue affermazioni, enunciandole con maggior precisione, ma Clay non riesce ancora a comprendere. — Mi chiamo Clay — dice, costringendosi a sorridere. — Non so come ho fatto ad arrivare qui. Non so neanche come abbia fatto tu a finire qui, ma forse ti ho chiamato involontariamente, — Dopo una pausa lo sferoide risponde in maniera inintelligibile. — Mi dispiace — dice Clay. — Sono un primitivo. Sono ignorante. — Improvvisamente lo sferoide diventa verde scuro. La sua superficie si agita e tremola. Una striscia di occhi luminosi compare e svanisce. Clay sente dita gelide che gli palpano delicatamente la fronte, accarezzando i lobi del cervello primitivo. In un flusso veloce e immediato riceve l’anima dello sferoide, e comprende che sta dicendo: Sono un essere umano civilizzato, nativo del pianeta Terra, che è stato strappato dal suo ambiente naturale da forze inesplicabili e trascinato in questo luogo. Sono solo e infelice. Vorrei tornare al mio gruppo-matrice. Ti prego, dammi aiuto, nel nome dell’umanità!

Lo sferoide si appoggia alle sbarre della sua gabbia, evidentemente esausto. La sua forma diventa asimmetrica e il suo colore diventa giallo pallido.

— Penso di aver seguito il tuo discorso — dice Clay. — Ma come posso fare ad aiutarti? Anch’io sono una vittima del flusso temporale. Sono un uomo dell’alba della storia. Condivido la tua solitudine e infelicità; sono perso esattamente quanto te.

Lo sferoide si agita debolmente diventando arancione pallido.

— Riesci a capire quello che ho detto? — chiede Clay. Non c’è risposta. Clay conclude che questa creatura, che dichiara di essere umana anche se ha una forma completamente aliena, deve provenire da un momento situato ancora più avanti lungo la curva del tempo, oltre le possibilità evolutive della razza di Hanmer. È la logica dell’evoluzione a dirglielo. Hanmer, se non altro, ha braccia e gambe, testa, occhi e genitali. E le stesse caratteristiche sono presenti anche nelle bestie umano-caprigne, appartenenti evidentemente a un periodo intermedio tra quello di Clay e quello di Hanmer. Ma questa creatura, ormai completamente priva di arti, tutta l’umanità rinchiusa in qualche sacca invisibile, interna, è certamente l’ultima versione dello schema. Clay si sente un po’ in colpa, convinto di aver attratto lo sferoide dal suo gruppo-matrice nel corso dei suoi maldestri tentativi di liberarsi, ma sente anche una nota sottile di orgoglio per il fatto di essere riuscito a fare una cosa del genere, se pur non volontariamente. Ed è un piacere incontrare qualcuno ancora più confuso ed emotivo di se stessi. — Possiamo in qualche modo comunicare? — chiede.

— Possiamo raggiungerci attraverso questa barriera? Ascolta! Mi avvicinerò a te. Sto aprendo la mia mente al massimo possibile. Devi perdonare le mie deficienze. Provengo dall’Era dei Vertebrati. Sono molto più vicino al Pitecantropo che a te. scommetto. Parlami. Donde està el telefono? — Lo sferoide ritorna a una tonalità molto simile al rosa originario. Amichevolmente offre a Clay una visione: una città di grandi piazze e torri splendenti, nelle cui gradevoli strade si muovono molti gruppi di sferoidi rosa, ciascuno rinchiuso nella sua gabbia splendente. Fontane inviano cascate di acqua verso il cielo. Luci di molti colori vorticano e ammiccano. Gli sferoidi si incontrano, si salutano reciprocamente, di tanto in tanto allungano tentacoli protoplasmici attraverso le sbarre delle gabbie in una specie di stretta di mano. Arriva la notte. C’è la luna! L’hanno ricostruita, crateri e tutto quanto? Osserva l’amata superficie butterata. Scorrendo come una telecamera, si sposta in un giardino. Ci sono delle rose. Dei tulipani gialli. Qui ci sono dei narcisi e delle gardenie e giacinti color blu notte. C’è un albero con foglie familiari, là un altro, là un altro ancora. Quercia. Faggio. Salice. Sono antiquari, certo: queste masse gigantesche e tremolanti di carne rosata hanno ricostruito la vecchia Terra per il loro piacere. La visione ondeggia e si dissolve mentre scende un sipario impenetrabile di rammarico. Clay si rende conto di aver tratto conclusioni sbagliate. Forse gli sferoidi non sono esseri provenienti da un futuro incalcolabilmente remoto. Sono, allora, i discendenti a breve termine dell’uomo? La visione ritorna. Lo sferoide sembra più vivace, come volesse comunicargli che è sulla strada giusta. Sì. Chi sono, loro? L’umanità di cinque, dieci, ventimila anni dopo i giorni di Clay, un periodo in cui le querce, i tulipani, i giacinti e la luna esistevano ancora? Sì. E dov’è la logica evolutiva del processo? Non esiste. L’uomo vi è rimodellato come più gli aggrada. Questa è la fase dello sferoide ovale. In seguito sceglierà di essere un orrido capro. Più avanti ancora diventerà un Hanmer. Tutti noi, trascinati dal flusso del tempo. — Figlio mio — dice Clay. (Figlio? Nipote? Pronipote?). Cerca impulsivamente di infilare una mano tra le sbarre per abbracciare il solenne sferoide. Una scarica di energia lo manda a ruzzolare a molti metri di distanza, e lui rimane immobile, attonito, mentre una pianta parassita gli avvolge i tentacoli sulle cosce. Lentamente riacquista le forze. — Mi dispiace — sussurra, avvicinandosi alla gabbia. — Non volevo invadere il tuo spazio personale. Stavo offrendo amicizia. — Lo sferoide è adesso ambrato e scuro. Il colore della furia? Della paura? No: scuse. Un’altra visione pervade la mente di Clay. Sferoidi, gabbia contro gabbia, sferoidi che danzano, sferoidi che si congiungono con tentacoli simili a corde estesi dal corpo. Un inno d’amore. Prova di nuovo, prova di nuovo, prova di nuovo. Clay allunga una mano. Attraversa le sbarre. Non è ributtato indietro. La superficie dello sferoide tremola e vibra e una sottile protuberanza tentacolare si estende ad afferrare il polso di Clay. Contatto. Fiducia. Vittime congiunte del flusso del tempo. — Mi chiamo Clay — dice Clay, pensandolo con molto forza. Ma tutto quello che riesce a ottenere dallo sferoide non è che una serie di vivide immagini del suo mondo. La lingua universale deve essere ancora inventata anche al tempo dello sferoide. Può comunicare con lui solo per mezzo di immagini. — Va benissimo — dice Clay. — Accetto le limitazioni. Impareremo a conoscerci insieme.

Il tentacolo lo lascia. Lui si allontana dalla gabbia.

Si concentra sulla formazione di immagini. È difficile padroneggiare le astrazioni. Amore? Si mostra accanto a una donna della sua razza. Mentre l’abbraccia. Mentre le tocca il seno. Adesso sono tutti e due a letto, e stanno chiavando. Illustra esplicitamente l’unione degli organi. Sottolinea caratteristiche quali i capelli, i peli del corpo, gli odori, le sensazioni fisiche. Facendo continuare l’immagine dell’accoppiamento crea un’immagine supplementare di se stesso insieme all’Hanmer femmina, intento a eseguire lo stesso rito. Poi si mostra mentre si avvicina alla gabbia e permette al tentacolo di avvolgersi intorno al suo polso. Capisce? E adesso bisogna mostrare fiducia. Gatti e gattini? Bambini e neonati? Sferoidi senza gabbia che abbracciano sferoidi? Un’improvvisa reazione di angoscia. Cambiamento di colore: ebano. Clay cancella l’immagine, rimettendo gli sferoidi nelle gabbie. Sensazione immediata di sollievo. Bene. Adesso, come comunicare la solitudine? Se stesso nudo in un campo esteso di fiori alieni. Sogni baluginanti di casa. Scene in una città del ventesimo secolo; inquinata, convulsa, eppure amata.

— Adesso stiamo comunicando — dice Clay. — Ci stiamo riuscendo.

La lunga notte finisce. Alle prime luci dell’alba Clay vede tutta una vegetazione che al tramonto non c’era assolutamente: alberi alti con frutti rossi; spire pulsanti e cadenti di viticci colmi di grappoli, grossi frutti che crescono direttamente dal terreno, in mezzo ai quali annuiscono e vibrano minuscole antenne, liberando un polline dalla luminosità del diamante. Hanmer è tornato. Siede a gambe incrociate all’estremità opposta della lastra sulla quale si trova Clay.

— Abbiamo un compagno — dice Clay. — Non so se sia stato il flusso del tempo a prenderlo o se sono stato io, involontariamente. Stavo facendo degli esperimenti dentro la mia testa. Ma in ogni modo, è…

Morto?

Lo sferoide è una massa avvizzita raccolta su un lato della gabbia. Un rivoletto di fluido iridescente è fuoriuscito dalle sbarre. Clay non riesce più a entrare in contatto con la mente dello sferoide, che ormai gli è divenuta familiare. Si avvicina alla gabbia, ci infila incerto due dita, e non sente nessuna scossa.

— Che cosa è successo? — chiede.

— La vita va — dice Hanmer. — La vita torna. Lo porteremo con noi. Vieni.

Camminano in direzione opposta al sole nascente. Senza toccarla, Hanmer spinge la gabbia davanti a loro. Stanno passando in mezzo a un boschetto di piante alte e giallastre le cui foglie rosse, tintinnando al vento come campanellini, allietano l’aria con una dolce musica.

— Hai mai visto creature come questa in precedenza? — chiese Clay.

— Parecchie volte. Il flusso porta un po’ di tutto.

— Ho intuito che si tratta di un’altra forma primitiva. Abbastanza vicina ai miei tempi, in effetti.

— È possibile che tu abbia ragione — dice Hanmer.

— Perché è morto?

— La vita l’ha abbandonato.

Clay si sta abituando sempre più allo stile delle risposte di Hanmer.

Poco dopo fanno una sosta davanti a una bolla di fluido blu scuro in cui nuotano solennemente placche dorate rotonde. — Bevi — suggerisce Hanmer. Clay si inginocchia ai bordi. Allunga una mano, esitante. Il gusto è pepato. Lo pervade di una strana tristezza espansiva, una consapevolezza di opportunità perdute e di occasioni mancate, che sul primo momento minacciano di soverchiarlo; vede tutte le scelte possibili che ogni istante presenta, l’infinità di vie trascurate e oscure contrassegnate da segnali stradali inintelligibili, e si ritrova a percorrere tutte queste strade contemporaneamente, stupefatto, ipersensibilizzato. La sensazione scompare. Piuttosto, si raffina acquisendo una natura più precisa, e si rende conto di aver avuto in dono nuovi mezzi di percezione, che ha usato metaforicamente al posto di quelli spaziali. Beve di nuovo. La percezione si approfondisce e si intensifica. Accetta immagini rutilanti: undici creature notturne dormienti in una galleria profonda appena sotto di lui, il sangue che pulsa come una miriade di scintille all’interno del corpo solido di Hanmer, l’informità nebulosa della carne in putrefazione dello sferoide defunto, i gorgoglii caratteristici interni di queste piccole placche dorate nuotatrici. Beve ancora. Adesso vede con maggior precisione l’interno delle cose. La sua zona di percezione è diventata una sfera cinque volte più alta di lui, con il cervello al centro. Analizza la struttura del suolo, trovando uno strato di mota nera sopra uno strato di sabbia rosa sopra uno strato di sassolini compressi sopra uno strato di blocchi di granito fortemente pressati. Misura le dimensioni della polla e ne sottolinea la curva matematicamente perfetta del fondale. Calcola lo sforzo ambientale provocato dal passaggio contemporaneo di un terzetto di piccole creature simili a pipistrelli proprio sopra di lui, e dalla crescita di sei cellule nelle radici di un albero vicino. Beve ancora. — È così facile essere un dio, qui — dice a Hanmer, e osserva le tonalità della sua voce riecheggiare sulla superficie della polla. Hanmer ride. I due se ne vanno.

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