9

Una nebbia improvvisa li avvolge; le fronde ondeggianti emettono adesso una luce intensa e rosata. Dopo un momento comincia a piovere. In lontananza, forse in alto su qualche montagna invisibile, ma imponente, una creatura femminile comincia a singhiozzare, e i suoni emessi fluttuano su di loro, vera e propria serie di lamenti estremamente sgradevoli. — Che cos’è? — chiede Clay a Hanmer, che dice: — È l’Errore, che piange sulle colline.

— L’Errore?

— L’Errore. Una delle energie che ci propiziamo.

— Avete dèi?

— Ci sono esseri che sono più grandi di noi. Come per esempio Errore.

— Perché piange?

— Forse per la felicità — suggerisce vagamente Hanmer.

Il suono dei lamenti di Errore muore in lontananza, mentre loro continuano l’avanzata. La pioggerella smette di cadere e scende un calore appiccicoso, ma Clay, fradicio, rabbrividisce lo stesso. Comincia a sentire la stanchezza per la prima volta dal momento del suo risveglio. È una strana specie di stanchezza metafisica la cui natura lo incuriosisce. Non ha ancora mangiato né dormito un solo momento in questo tempo, eppure non è né affamato né assonnato; e, per quanto abbia camminato per molte miglia, i suoi muscoli non sono indolenziti. Ma adesso nelle sue ossa c’è una nuova pesantezza, come se diventassero d’acciaio temprato, e la sua testa è un carico enorme per la spina dorsale, e i suoi organi pesano e premono contro le pareti di carne che li contengono. Infine lo colpisce il fatto che quella che sta sentendo è una qualità dell’ambiente che lo circonda piuttosto che di se stesso: un’emanazione, una specie di radioattività, che promana dalle rocce e spunta dal suolo. Rivolgendosi a Ninameen, osserva: — Mi sento stanco. E tu?

— Naturalmente. Qui succede sempre.

— Perché?

— Questa è la parte più vecchia del mondo. Le età del passato si ritrovano ammassate nelle nuvole che ci avvolgono. Non possiamo fare a meno di respirarle nell’attraversarle, e ci intontiscono.

— Non farebbe più sicuro sorvolarle?

— Non possono farci del male. Solo un malessere passeggero.

— Come si chiama questo posto?

— Vecchio — gli dice Ninameen.

E Vecchio è. Il suo corpo si ispessisce. La sua pelle si appesantisce. Sul petto gli spuntano una quantità di folti peli bianchi, e anche sulla pancia e sull’inguine i suoi genitali si raggrinziscono. Le sue anche si indolenziscono. Le vene si ingrossano. Gli occhi gli lacrimano. Il respiro si accorcia. La schiena fa male. Le ginocchia tendono a piegarsi. Il cuore perde il ritmo e rallenta. Le narici si mettono a gocciolare. Cerca di non respirare, temendo di inalare la vecchiaia come fumo velenoso, ma dopo un momento comincia a girargli la testa, ed è costretto a inspirare altra aria nebbiosa. La stessa cosa sta succedendo ai suoi compagni; la pelle cerea e levigata degli Sfioratori adesso è rugosa e arricciata, l’invecchiamento si manifesta in ogni parte del loro corpo; gli occhi sono gonfi. I seni di coloro che si trovano nella forma femminile sono diventati sgradevoli appendici raggrinzite, piatte e penzolanti, con capezzoli scuri e rosicchiati. Le bocche semiaperte rivelano mascelle grigie prive di denti. Clay è preoccupato da quei cambiamenti; in effetti, se sono tutti immortali e senza età, non dovrebbero alterarsi neanche adesso che passano nelle valli della vecchiaia. O forse i suoi ospiti stanno corrompendo la loro carne a suo beneficio, con estremo tatto, perché lui non senta la vergogna del suo stesso deterioramento? Finora gli hanno detto talmente tante cortési bugie che ha smesso di fidarsi di loro. Forse stanno di nuovo sognando a suo beneficio. Forse tutta la sua avventura non è altro che uno dei sogni personali di Hanmer, una dormita sgradevole tra un tramonto e un’alba.

Si sforza di proseguire. Silenziosamente li prega di portarlo lontano da quel posto. Come sarebbe facile per loro creare nuvole rosee e scintillanti, e decollare da questo luogo putrefatto in un volo molto più gradevole! Ma insistono a camminare. Lui avanza ancora più lentamente. La fronda luminescente che gli illumina la strada ha a sua volta assorbito il contagio della senescenza; tende a seccare e ad avvizzire, e il suo bagliore è incerto. Il sentiero è ascendente, il che rende la situazione ancora più difficile. La sua gola è secca e la sua lingua, arida, è un pezzo di tessuto ruvido nella bocca. Lacrime gommose gli scendono lentamente dagli angoli degli occhi fino a raggiungere la gola. Ricorda gli uomini-capra puzzolenti e sfatti, coperti di catarro.

Animali si annidano nel sottobosco. La debole luce della fronda gli mostra bocche irte di denti che si spalancano alla base di ogni àlbero lungo il sentiero. Boccioli scuri di fiori esalano un odore di fluidi digestivi. Le tempie gli martellano pesantemente; in bocca sente uno strano gelo. Due volte cade, e due volte deve arrancare per rialzarsi, senza che qualcuno lo aiuti. Vecchio. Vecchio. Vecchio. L’universo stesso sta morendo; i soli sono scomparsi, le molecole si agitano tranquillamente nel vuoto, l’entropia ha vinto la sua lunga battaglia. Quanto tempo? Per quanto ancora? Non può più sopportare la vista del proprio corpo raggrinzito, e, stanco, butta lontano la fronda, felice di essersi sbarazzato di ogni fonte di luce. Ma Bril, riprendendola, gliela rimette in mano, e ammonisce: — Non dovresti condannarla a metter radici in un posto del genere. — E l’anima di Clay si riempie di colpa e vergogna, e aumenta la stretta sulla fronda, tentando di non guardare se stesso né gli altri.

Tutti i colori sono scomparsi. Vede tutto in sfumature di nero, anche il bagliore della fronda. Le ossa gli dolgono a ogni passo. Le spire del suo intestino sono contorte e si lamentano. I suoi polmoni si stanno essiccando. Con un fiero sforzo si spinge in avanti verso Hanmer… raggrinzito, avvizzito… e mormora: — Moriremo qui! Non possiamo uscirne alla svelta?

— Il peggio è ormai passato — dice Hanmer, con voce calma e controllata.

Ed è così. Sono ancora nella notte fonda, ma il cupo dominio del Vecchio Mondo deve, seppur con riluttanza, allentare la sua stretta su di lui. La resurrezione è graduale e prolungata. I lamenti, gli incespicamenti e gli affanni cessano lentamente; i sintomi di decadimento fisico diminuiscono a vista d’occhio. Il corpo di Clay si raddrizza. La sua vista si acuisce. La pelle torna levigata. I denti ricrescono, fiorendo nelle gengive rivitalizzate. La sua umanità sorge trionfante. Eppure la forza riacquistata non può liberarlo dal ricordo del luogo in cui è stato e di ciò che ha vissuto; sente ancora la stretta del tempo sulle spalle, e non dimentica un solo dettaglio della discesa spettrale nell’invecchiamento. Cammina con cura riprendendo coscienza della sua forza. Respira con cautela. È ossessionato dalla fragilità della sua struttura interna. Sente lo sfregamento di un osso sull’altro, l’affannarsi veloce dell’oscuro sangue che spinge attraverso arterie ispessite. Ha poca fiducia nella sua ripresa. È realmente finita questa sofferenza, o la ripresa delle forze non è che un sogno dentro un sogno? No. Ha davvero ritrovato nuovamente la sua gioventù, anche se temprata da quei sobri accenni alla mortalità. — Ci sono molti posti di questo tipo nel mondo? — chiede, e Ninameen dice: — C’è un solo posto Vecchio. Ma ci sono altri settori sgradevoli.

— Tipo?

— Uno si chiama Vuoto. Uno si chiama Lento. Uno si chiama Ghiaccio. Uno si chiama Fuoco. Uno si chiama Scuro. Uno si chiama Pesante. Pensavi che tutto il nostro mondo fosse un giardino?

— Come sono nati, i posti di questo tipo?

— Nei vecchi tempi — dice Ninameen — furono stabiliti per istruzione dell’umanità. — Ridacchia, allegra. — In quei tempi gli uomini erano molto seri.

— Ma certamente avrete il potere di eliminare luoghi simili, adesso — suggerisce Clay.

Ninameen ridacchia ancora. — Certo che possiamo, ma non lo faremo mai. Ne abbiamo bisogno. Anche in quest’epoca siamo molto seri.

Il corpo di Ninameen è nuovamente pieno e sodo. I suoi seni sono eretti; le cosce sono tornite. Ancora una volta si muove con flessuosità sensuale. La sua pelle verde-oro ha riconquistato l’interno splendore. Lo stesso vale per gli altri Sfioratori, che sono tornati al vigore e alla vitalità.

In quel momento appare una luce in cielo.

Non è il sole nascente. A meno che Clay non abbia completamente perso il suo senso dell’orientamento, hanno camminato verso ovest per tutta la notte; ma la luce sorge davanti a loro. È un cono di luminosità verde, che sorge da un punto ai piedi del pendio che stanno discendendo, e si allarga per riempire gran parte della volta celeste; è come un geyser di pallida luminosità che si diffonde ovunque. Mentre il vento gli soffia dentro, assume una tonalità grigia, e bagliori di luce si accendono dentro la luce. Ad accompagnare questa esplosione di colori c’è un suono insinuante, sussurrante, che ricorda a Clay il rumore dell’acqua lontana. Sente anche una specie di risata sotterranea, sonora e scivolosa. Alcuni minuti di ulteriore discesa e ha una visione più chiara di quanto lo attende più avanti. Dove la collina si fonde nella valle uno strato di vetro uniforme copre il terreno; tutta la valle sembra sigillata dallo strato di vetro, che si estende fin verso l’orizzonte. Al centro, da una fumarola circolare, sorge la struttura torreggiante di luce verde. Dietro la luminosità torreggiante e ondeggiante Clay riesce a malapena a discernere una forma massiccia, probabilmente una montagna larga e bassa. Non è visibile alcuna forma di vegetazione. L’aspetto di ogni cosa è proibitivo, ultraterreno. Si rivolge agli Sfioratori per avere una spiegazione, ma i loro volti sono così rigidi nella concentrazione, camminano con interesse tanto assorto, che non osa interrompere la loro meditazione con domande. In silenzio continuano a scendere. A un certo punto comincia a sentire il vetro gelido e scivoloso sotto i piedi nudi. Quando tutti gli Sfioratori si trovano sul ghiaccio, fa una pausa, voltandosi per illuminare con la sua fronda il confine tra terra e vetro. Nel far ciò imita quello che hanno fatto gli Sfioratori. Posando le fronde, vede che le radici si dirigono fameliche verso il suolo ancor prima di toccarlo. Le fronde si stabilizzano, e, nella luce di quello strano bagliore verdastro, la loro trasparenza assume un aspetto nuovo.

Spostandosi sul pavimento levigato percorrono un lungo e largo arco intorno alla fumarola, dirigendosi verso sud. Ormai l’apertura è chiaramente visibile, stranamente piccola vista la portata degli effetti che produce, un cerchio non più grande della circonferenza delle sue braccia allargate, circondato da un bordo sollevato alto trenta centimetri. E attraverso di esso la luminosità verde scoppia in fiamme pulsanti, come se venissero espulse ritmicamente da una qualche fabbrica nel cuore del mondo. Tutto, qui, gli sembra artificiale, l’opera di una delle tante razze di figli dell’uomo, probabilmente antica dal punto di vista degli Sfioratori, eppure senza dubbio di gran lunga nel futuro rispetto al momento in cui il suo mondo è scomparso.

Adesso si trovano nella nube verde vera e propria.

L’aria è elettrica. I suoi pori sono formicolanti. Un odore amaro sale verso l’alto nelle sue narici. Il suo corpo nudo suda, odora. Silenziosi e solenni, gli Sfioratori rimangono immobili, e lui continua a rispettare il loro momento di concentrazione e distacco. Il gruppo è all’incirca parallelo alla fumarola: nel passargli davanti, prima di superare il cono verde, riesce a vedere la forma massiccia a occidente con maggior nitidezza. Non è una montagna. Piuttosto, è una specie di monolite di carne, un gigantesco Moloch vivente, enorme ed esteso, nascosto dietro al verde. La creatura siede su una colossale lastra curva, di struttura metallica e di una profonda tonalità scarlatta, che la tiene al di sopra del livello del suolo. Riflessi della nuvola verde scivolano sulla superficie della lastra, screziando di verde lo scarlatto, fondendovisi in certi punti per creare un colore marrone luminoso e dominante. Marrone è il colore della creatura accucciata. Clay ne vede la pelle di cuoio, spessa e levigata e a scaglie come quella di un rettile. La forma della creatura ricorda quella di una rana, ma è una rana di sogno, senza occhi, senza arti; un mostruoso promontorio, dal corpo allungato, massiccio e corrugato, con la schiena curva, i fianchi grassi, la pancia tremolante, il posteriore che ricorda un piedistallo. Siede immobile, come un idolo. Non è possibile rilevare la minima traccia di respirazione, eppure Clay è convinto che la cosa sia viva. C’è un’aura di quiete attorno alla creatura illuminata dal verde, che dà una sensazione di vecchiezza, migliaia d’anni trascorsi, e un’estrema saggezza, come si trattasse di una sentinella, un guardiano, un colosso ibernato. La punta del naso si protende almeno di centocinquanta metri nell’aria. Il suo gigantesco posteriore si perde nella nebbia. Se dovesse muoversi, scuoterebbe il pianeta. Troneggiante, mostruoso, una collina vivente, osserva la valle vetrosa con un fervore allucinante. Di cosa si tratta? Da dove è venuto? Clay attinge alle sue nuove conoscenze in fatto di razze umane, così come gli sono state elencate da Quoi il Respiratore: chi è quell’essere? È un Aspettatore? Un Intercessore? Un Distruttore? Una qualche specie che non gli è stata descritta? Non può credere che questa cosa possa essere annoverata nel novero dei figli degli uomini. Anche se gli umani, nel corso del tempo, possono aver scelto di trasformarsi in capri e sferoidi, e altre forme strane, non può credere che qualcuno possa aver cercato di diventare una montagna. Deve trattarsi di qualche mostruosità sintetica, o magari un visitatore proveniente da un’altra galassia naufragato e imprigionato sulla Terra, o il relitto di un incubo degli Sfioratori, incidentalmente dimenticato e sopravvissuto nel mondo della realtà.

Hanmer apre la strada. Camminano cautamente lungo il bordo meridionale del tremendo sostegno su cui riposa la creatura. Da esso riverberano colori, che screziano i corpi dei marciatori con strisce di rosso, verde e marrone. Quando l’hanno quasi superato, la cosa infine mostra un segno di vita: da essa emerge un terribile lamento tuonante, ai limiti della soglia dell’udibilità, che fa tremare il terreno e sembra congelare perfino la fontana di luminosità verde. È un lamento contorto di una tale fiera angoscia che Clay rabbrividisce di compassione. Ha sentito animali intrappolati emettere grida analoghe nella foresta, catturati da una tagliola. A parte questo suono triste, però, non c’è traccia di animazione nella creatura.

Clay chiede a Hanmer quando saranno al sicuro, fuori della sua portata.

— È un dio — gli spiega Hanmer — sopravvissuto a un’era precedente. Abbandonato dai suoi adoratori. Un’entità infelice.

— Un dio? — ripete Clay. — Gli dèi hanno una forma del genere?

— Questo sì.

— Che forma avevano gli Adoratori, allora?

— La stessa — dice Hanmer — solo che erano più piccoli. Vissero per undici ere, sedici eoni fa. Prima del mio tempo, voglio dire.

— Dopo il mio.

— Non c’è bisogno di dirlo. Hanno creato il loro dio a loro immagine. L’hanno lasciato seduto in questa spianata splendidamente ricoperta di vetro; begli effetti luminosi. Quella gente sapeva come si costruisce. Assicurarono una rara longevità alle loro strutture. Il mondo è completamente cambiato, ma questo rimane. Ma loro, no.

— Umani?

— Se così si può dire.

Clay si volta. Vede il geyser di luce verde; vede il corpo possente del dio abbandonato. Il terreno trema quando la divinità grida di nuovo. Le lacrime inumidiscono gli occhi di Clay. Un impulso incontrollato si impadronisce di lui: fa il segno della Croce, come se si trovasse davanti a un altare. Il suo gesto lo stupisce, perché non si è mai considerato cristiano; ma non di meno l’atto di sottomissione è stato effettuato, e il profilo della mano risplende, lucente nell’aria davanti ai suoi occhi. Pochi momenti dopo la montagna rospo si lamenta ancora, perfino più terribilmente. Si verificano piccoli terremoti; rocce cadono in valanghe tonanti; la crosta di vetro luminoso che ricopre la valle si frattura in centinaia di punti colpiti dalle rocce. Su questo mostruoso basso rombo viene, di nuovo, l’acuto lamento dell’Errore, e una risata riecheggia dai cieli. La paura si impadronisce di lui. Non riesce a muoversi. Si inzuppa i piedi con la propria urina. Si aspetta da un momento all’altro uno spaventoso terremoto. Mani lo stringono ai polsi: Ninameen, Ti, Bril. — Vieni — dicono, e: — Vieni — e ancora: — Vieni — e lo sollevano nell’aria, mentre i primi raggi del sole nascente illuminano lentamente la scena.

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