Tutti i venerdì faccio il bucato, così da avere libero il fine settimana. Ho due cestini per i panni, uno per quelli bianchi e uno per quelli colorati. Tolgo le lenzuola dal letto e la federa dal cuscino e le metto nel cestino della roba bianca. Gli asciugamani vanno nell’altro cestino. Mia madre adoperava due cestini di plastica celeste per dividere i panni; ne chiamava uno bianco e uno scuro, e questo non mi piaceva. Io uso un cestino di vimini verde scuro per i panni colorati e uno di vimini non tinto per i panni bianchi.
Prendo l’esatto numero di spiccioli dalla scatola dove ripongo le monete, più uno di riserva in caso che uno di essi non faccia funzionare la macchina. Mi faceva andare in collera il fatto che una moneta perfettamente regolare non mettesse in funzione la macchina. Mia madre allora m’insegnò a prendere sempre una moneta in più. È inutile arrabbiarsi per cose da poco, mi diceva.
Mi metto in tasca le monete, ficco la scatola del detersivo nel cestino chiaro e lo metto sopra quello scuro. La luce dovrebbe sempre andare sopra al buio: è una questione di equilibrio.
Mi fisso in mente un preludio di Chopin e scendo in lavanderia, Come sempre il venerdì sera ci trovo solo la signorina Kimberly. È vecchia, con capelli grigi crespi; mi chiedo se pensi al trattamento per prolungare la vita o se sia troppo anziana per sottoporvisi. Porta calzoni di maglia leggera verde chiaro e una camicetta a fiori, il suo abbigliamento solito quando fa caldo.
— Buonasera, Lou — mi dice. Ha già completato il suo bucato e sta mettendo i panni lavati nell’asciugatrice di sinistra. Adopera sempre quella.
— Buonasera, signorina Kimberly — saluto io.
— Hai avuto una buona settimana? — chiede. Me lo domanda sempre, ma non so se le importa davvero che io abbia avuto o no una buona settimana.
— Mi hanno tagliato le gomme — dico.
Lei smette di infilare i panni nell’asciugatrice e mi guarda. — Qualcuno ti ha tagliato le gomme? Dove? Qui o al lavoro?
Non so perché questo faccia differenza. — Qui — dico. — Quando sono uscito giovedì mattina avevo tutt’e quattro le gomme a terra.
Lei sembra turbata. — Proprio qui nel nostro parcheggio? Io credevo che questo fosse un posto sicuro!
— È stata una grossa noia — dico. — E ho fatto tardi al lavoro.
— Ma… vandali! Qui! — Sul suo viso c’è un’espressione che prima non vi avevo mai vista: qualcosa come un misto di paura e di disgusto. Poi la signorina assume un’aria irritata e mi guarda come se avessi fatto qualcosa di male. Io distolgo gli occhi. — Dovrò trasferirmi — dice.
Non capisco: perché pensa di doversi trasferire a causa delle mie gomme tagliate? Nessuno potrebbe tagliare le sue perché non ne ha: non possiede un’automobile.
— Hai visto chi è stato? — domanda. Ha lasciato una parte dei suoi panni penzolanti dal bordo della macchina.
— No — dico. Prendo i panni bianchi dal loro cestino e li metto nella lavatrice di destra; poi aggiungo il detersivo, misurandolo con cura perché sarebbe uno spreco usarne troppo, ma d’altra parte le mie cose non verrebbero pulite se ne usassi troppo poco. Infilo le monete nella fessura, chiudo lo sportello, regolo la macchina per il lavaggio caldo, risciacquo freddo, ciclo regolare e premo il tasto START. Nella macchina si produce come un tonfo e l’acqua gorgoglia attraverso le valvole.
— È terribile — commenta la signorina Kimberly. Sta mettendo il resto della sua roba nell’asciugatrice e le tremano le mani. Io tolgo i panni colorati dal loro cestino e li metto nella lavatrice di mezzo. — Queste cose vanno bene per gente come te — dice lei.
— Cos’è che va bene per gente come me? — chiedo. La signorina non mi ha mai parlato così prima d’ora.
— Tu sei giovane e sei un uomo — spiega. — Non hai preoccupazioni.
Non capisco. Secondo il signor Crenshaw io non sono giovane: sono abbastanza vecchio da aver giudizio. E sono certo un uomo, ma non comprendo perché questo giustifichi il massacro delle mie gomme.
— Io non volevo che mi tagliassero le gomme — dico, parlando lentamente perché non so cos’ha in mente la signorina.
— Naturale che non lo volevi — mi tranquillizza lei in fretta. Di solito la sua pelle appare pallida e giallastra sotto il neon della lavanderia, ma adesso sulle sue guance sono apparse due macchie rosse. — Tu però non devi preoccuparti che qualcuno ti salti addosso. Uomini.
Guardo la signorina e non riesco a immaginare che qualcuno possa saltarle addosso. Ha i capelli grigi e abbastanza radi da far vedere il rosa del cranio, ha molte rughe e macchie scure sulle braccia. Vorrei chiederle se parla sul serio, ma so che è serissima. Non ride nemmeno di me quando faccio cadere qualcosa.
— Mi dispiace che lei sia preoccupata — dico versando detergente nella lavatrice piena di panni colorati. Infilo le monete nella fessura. La porta dell’asciugatrice si chiude con fragore: io l’avevo dimenticata del tutto nel cercare di comprendere le angosce della signorina Kimberly, così sobbalzo e una delle monete mi cade nella lavatrice. Adesso dovrò tirar fuori tutto per cercarla, e il detersivo si spargerà sulla macchina e sul pavimento. Sento un ronzio nella testa.
— Grazie, Lou — dice la signorina. La sua voce si è fatta più calma e più calda. Sono sorpreso: non mi aspettavo di aver detto la cosa giusta. — Cosa c’è che non va? — domanda mentre io comincio a togliere i panni dalla macchina, scuotendoli perché il detersivo vi ricada dentro.
— Ho fatto cadere una moneta nella macchina — dico.
Lei mi si sta avvicinando. Io non voglio che mi venga accanto. Porta un profumo troppo acuto e dolciastro.
— Lascia stare, usane un’altra. Poi tirerai fuori la moneta perfettamente pulita insieme ai panni — mi dice.
Rimango immobile un istante con i panni in mano. Posso lasciare la moneta nella macchina? Sì, ne ho un’altra in tasca. Lascio cadere la mia roba e tiro fuori la moneta. La infilo nella fessura, chiudo lo sportello, regolo la lavatrice e premo START. Di nuovo il tonfo e il gorgogliare dell’acqua. Mi sento strano. Credevo di capire la signorina Kimberly prima, quando era la solita vecchia signora che faceva il bucato il venerdì sera come me. Credevo di averla capita pochi minuti fa, almeno abbastanza da comprendere che era sconvolta per qualche ragione. Ma lei ha pensato a una soluzione del mio problema immediatamente, mentre io ritenevo che fosse ancora troppo turbata. Come ha fatto a immaginare la soluzione? È forse qualcosa che la gente normale fa abitualmente?
— È più facile fare così che togliere i panni — spiega lei. — In questo modo non sporchi nulla e poi non devi far la fatica di ripulire. Io porto sempre con me un po’ di monete extra a scanso di guai. — Fa una risatina malinconica. — Con l’avanzare dell’età, a volte le mani mi tremano. — Fa una pausa e mi guarda: mi rendo conto che aspetta qualcosa da me.
— Grazie — le dico.
Ho detto di nuovo la cosa giusta: lei mi sorride.
— Sei un caro ragazzo, Lou; mi dispiace per le tue gomme — dice, e guarda l’orologio. — Ho delle telefonate da fare. Tu resti qui? Badi all’asciugatrice?
— Rimango qui giù — dico — ma non in questa stanza, è troppo rumorosa. — Gliel’ho già detto altre volte, quando lei mi chiedeva di tener d’occhio la sua roba.
La signorina Kimberly esce e anch’io vado nell’atrio.
Il pavimento della lavanderia è di un brutto cemento grigio, un poco in discesa verso un grosso canale di scolo coperto posto sotto le macchine. Quello dell’atrio è di mattonelle, ognuna a righe in due toni di verde e beige. Ogni mattonella è un quadrato di trenta centimetri di lato; l’atrio è largo cinque quadrati e lungo quarantacinque quadrati e mezzo. La persona che ha disposto le mattonelle le ha messe in modo che le righe s’incrocino reciprocamente… cioè, ogni mattonella è disposta in modo che le sue righe formino un angolo di novanta gradi con le strisce della mattonella vicina. La maggior parte delle mattonelle sono messe nell’uno o nell’altro di due sensi, ma otto di esse sono disposte in senso capovolto rispetto alle altre.
Mi piace guardare questo pavimento e pensare a quelle otto mattonelle. Quale schema poteva essere completato solo disponendo le otto mattonelle in quel modo? Finora sono riuscito a immaginare tre schemi possibili. Una volta cercai di parlarne con Tom, ma lui non è in grado di vedere gli schemi nella sua mente come succede a me. Io allora feci un disegno su un foglio di carta, però ben presto mi accorsi che lui si annoiava. Non è educato annoiare la gente, così non gliene ho parlato più.
Io comunque trovo il pavimento dell’atrio di un interesse inesauribile.
Sento la centrifuga di una delle lavatrici cambiar rumore e torno in lavanderia. So che per arrivare alla lavatrice mi ci vuole esattamente il tempo che impiega la centrifuga a fermarsi. È come un gioco fare l’ultimo passo mentre la centrifuga compie l’ultimo giro. L’asciugatrice di sinistra sta ancora brontolando. Io prendo i miei panni bagnati e li metto nell’asciugatrice di destra. L’ho appena caricata e controllato che nella lavatrice non sia rimasto niente quando anche la seconda lavatrice finisce il suo ciclo.
Tolgo la mia roba anche da questa macchina e in fondo trovo la mia moneta tutta lucida e pulita. La intasco, metto i panni nell’asciugatrice, inserisco le monete e accendo.
La signorina Kimberly ritorna proprio nel momento in cui l’asciugatrice con la sua roba si arresta. Mi sorride. Porta un piatto con sopra alcuni biscotti. — Grazie, Lou — dice, e mi porge il piatto. — Prendine qualcuno. So che ai ragazzi… volevo dire ai giovanotti come te… piacciono i biscotti.
Ne porta quasi tutte le settimane. A volte alcuni tipi di biscotti che lei fa non mi piacciono molto, ma non glielo dico. Questa sera sono biscottini al limone, che mi piacciono moltissimo: ne prendo tre. La signorina mette il piatto sul tavolo pieghevole e tira fuori il suo bucato dall’asciugatrice mettendolo direttamente nel cestino: non ripiega i panni quaggiù. — Quando avrai fatto riportami il piatto, Lou — chiede. Aveva detto la stessa cosa la settimana scorsa.
— Grazie, signorina Kimberley — dico.
— Di nulla, di nulla — risponde lei, come sempre. Finisco i biscotti, lascio cadere le briciole nel cestino della spazzatura e ripiego i miei panni prima di salire in casa. Lascio il piatto alla signorina Kimberley e vado nel mio appartamento.
Il sabato mattina io vado al Centro. Uno dei consulenti è a nostra disposizione dalle 8.30 alle 12.00, e una volta al mese c’è un programma speciale. Oggi non c’è programma, ma quando arrivo vedo Maxine, una consulente, andare verso il suo studio. Bailey non mi ha detto se è a lei che hanno parlato la settimana scorsa. Penso se sia il caso di parlarle, ma qualcuno entra da lei prima che io abbia potuto prendere una decisione.
I consulenti sanno come trovarci assistenza legale o un appartamento, ma non so se saranno capaci di capire il problema che dobbiamo affrontare adesso. Loro c’incoraggiano sempre a fare tutto il possibile per diventare più normali. Ora, credo, diranno che dovremmo desiderare questo nuovo trattamento anche se è troppo pericoloso da tentare mentre si trova ancora alla fase sperimentale. Una volta o l’altra io dovrò parlare con qualcuno qui, ma sono contento che un altro mi abbia preceduto. Non devo farlo per forza adesso.
Sto guardando il cartellone degli annunci con le notizie delle riunioni dei vari gruppi che si radunano al Centro quando Emmy mi si avvicina. — Bene, come va la tua ragazza?
— Io non ho una ragazza — rispondo.
— Io l’ho vista — insiste lei. — Lo sai che l’ho vista. Non dire bugie.
— Tu hai visto una mia amica — dico. — Non la mia ragazza. Un’amica può diventare la propria ragazza quando acconsente a esserlo, ma lei non ha acconsentito. — Non sono proprio onesto e questo non è bello, però io continuo a non voler parlare con Emmy di Marjory.
— Tu gliel’hai domandato? — continua lei.
— Non desidero parlare di lei con te — dico, e mi volto per andarmene.
— Perché sai che ho ragione — dice Emmy e mi gira intorno, piantandosi di nuovo di fronte a me. — Lei è una di quelle persone che si definiscono normali e ci usano come cavie. Tu stai sempre appiccicato a loro, Lou, e questo non è bene.
— Non so cosa tu voglia intendere — dico. Io vedo Marjory solo una volta alla settimana, perciò come si può dire che sto "appiccicato" a lei? Se venissi al Centro tutte le settimane e ci trovassi Emmy, questo significherebbe che sto appiccicato a lei? L’idea mi disgusta.
— Sono mesi che non partecipi a nessuno degli eventi speciali — insiste lei. — Il tuo tempo lo passi con i tuoi amici normali. - Pronuncia "normali" come una parolaccia.
Non ho partecipato a nessuno degli eventi speciali da mesi perché non m’interessano. Una conferenza su come educare i figli? Ma io non ho figli. Un ballo? La musica che vi suonerebbero non è quella che piace a me. La presentazione di un corso per ceramisti? Io non voglio confezionare oggetti di creta. Adesso che ci penso, mi rendo conto che ormai il Centro offre davvero pochissime cose che m’interessino. Fa comodo per incontrare altri autistici, ma non tutti sono come me, e trovo più persone che condividano i miei interessi : Internet o in ufficio. Cameron, Bailey, Eric, Linda… tutti andiamo al Centro per incontrarci prima di andare da qualche parte, ma è solo un’abitudine. Non abbiamo davvero bisogno del Centro tranne di tanto in tanto per parlare con i consulenti.
— Se vai in cerca di ragazze, dovresti cominciare da quelle che ti somigliano — torna alla carica Emmy.
Guardo il suo viso che porta tutti i segni fisici della collera: la pelle arrossata, gli occhi strizzati e troppo scintillanti, la bocca squadrata, i denti quasi digrignanti. Non so perché sia sempre così arrabbiata con me e non so perché le importi che io vada al Centro oppure no. Non credo comunque che lei mi somigli. Emmy non è autistica. Non conosco il suo handicap e non m’interessa.
— Non sono in cerca di ragazze — dico.
— Allora è lei che cerca te?
— Ho detto che non desidero parlare di questo con te — ripeto. Mi guardo intorno e non vedo nessuno che conosco. Pensavo che Bailey sarebbe venuto stamattina, ma può darsi che lui si sia accorto prima di me di quello che io ho capito solo oggi. Magari non è venuto perché si è reso conto di non aver bisogno del Centro. E io non voglio restar qui ad aspettare che Maxine sia libera.
Faccio per andarmene, ma Emmy ha ancora qualcosa da dire. — Dove credi di andare? — domanda. — Sei appena arrivato. Non pensare di poterti sottrarre ai tuoi problemi, Lou!
Posso sottraimi a lei, però. Non posso sfuggire al lavoro o alla dottoressa Fornum, ma posso sfuggire a Emmy. Pensando a questo sorrido, e lei si fa ancora più rossa in faccia.
— Cos’hai da sorridere?
— Sto pensando a una musica — dico. Questa è una scusa sempre plausibile. Non voglio guardare Emmy con quella faccia rossa, lucida e rabbiosa. Lei mi sta piantata davanti come volesse costringermi ad affrontarla, ma io guardo a terra. — Penso sempre a una musica quando qualcuno va in collera con me — aggiungo. Questo spesso è vero.
— Oh, sei impossibile! — lei scatta, e si allontana a passi pesanti. Mi chiedo se abbia qualche amico, perché non la vedo mai con altra gente. È triste, ma io non posso farci nulla.
Fuori tutto sembra più tranquillo, benché il Centro si trovi in una strada molto frequentata. Non ho alcun progetto. Se non passo la mattinata di sabato al Centro, non so con precisione cosa fare. Il bucato l’ho fatto, e le pulizie di fino al mio appartamento anche. I testi dicono che noi autistici non ce la caviamo bene con le incertezze e i cambiamenti di programma. Di solito queste cose non mi disturbano, ma questa mattina mi sento incerto. Mi ha disturbato tutto il parlare che Emmy ha fatto di Marjory.
Vorrei vederla adesso. Vorrei che potessimo fare qualcosa insieme, o che io potessi anche solo guardarla parlare con qualcun altro. Me ne accorgerei se le piacessi? Credo di piacerle. Tuttavia non so se le piaccio molto o un poco. Non so se le piaccio come un uomo piace a una donna o come un bambino piace a una persona adulta. Non so come fare a capirlo. Se fossi normale lo capirei, credo. Le persone normali devono capirlo, altrimenti non potrebbero mai sposarsi.
La settimana scorsa a quest’ora ero al torneo. Mi stavo divertendo. Preferirei trovarmi di nuovo lì piuttosto che qui; anche con tutto quel rumore, quell’affollamento, quegli odori. Era un posto dove mi trovavo a mio agio: qui non mi ci trovo più. Sto cambiando, credo, o piuttosto sono già cambiato.
Decido di tornare a piedi a casa, anche se è lontana. Fa più fresco adesso, e in alcuni giardini lungo la strada si vedono già sbocciare fiori autunnali. Il ritmo dei miei passi allevia la tensione e mi rende più facile ascoltare la musica che ho scelto per accompagnare la mia passeggiata. Vedo altre persone con gli auricolari: stanno ascoltando musica registrata o trasmessa. Mi chiedo se quelle senza auricolari stanno ascoltando la propria musica mentale o camminano senza musica.
Sono quasi arrivato a casa quando mi ferma un profumo di pane fresco. Trovo in una traversa una piccola panetteria e compro un filoncino di pane appena sfornato. Accanto alla panetteria c’è un fioraio la cui vetrina espone masse di fiori viola, gialli, azzurri, bronzo, rosso cupo. Quei colori trasmettono molto più che lunghezze d’onda di luce: irradiano gioia, orgoglio, tristezza, consolazione. Me ne sento quasi sopraffare.
Registro quei colori e quelle forme e porto a casa il pane annusando la sua fragranza e combinandola con i colori accanto ai quali passo. C’è una casa dietro un cortile che ha un rosaio rampicante tutto fiorito lungo la facciata: anche attraverso il cortile mi giunge il suo profumo.
È passata una settimana ormai, e né il signor Aldrin né il signor Crenshaw hanno più detto niente sul trattamento. Non ci sono giunte altre lettere. Sarebbe bello se ciò significasse che qualcosa non funziona nel progetto e che loro ci hanno rinunciato, ma non credo proprio che se ne siano dimenticati, anzi. Il signor Crenshaw sembra sempre così collerico, sia nell’aspetto che nella voce. La gente collerica non dimentica le ingiurie, perché il perdono dissolve la collera, questo era l’argomento del sermone domenicale. La mia mente non dovrebbe divagare durante il sermone, ma spesso mi annoio un poco e penso ad altre cose. La collera e il signor Crenshaw mi sembrano argomenti correlati.
Lunedì tutti noi riceviamo l’avviso che dobbiamo riunirci sabato prossimo. Non ho voglia di perdere il mio sabato, ma non sembra possano esserci scuse valide per non partecipare. Adesso vorrei aver aspettato per parlare a Maxine al Centro, ma è troppo tardi.
— Credi che dobbiamo andare davvero? — domanda Chuy. — Ci licenzieranno se non andiamo?
— Non lo so — dice Bailey. — Io comunque voglio sapere cosa faranno, perciò ho deciso di andare.
— Andrò anch’io — annuncia Cameron. Io annuisco, e così fanno anche gli altri. Linda pare molto infelice, ma dopo tutto lei ha sempre un’aria infelice.
— Guarda… ehm… Pete… — La voce di Crenshaw trasudava affabilità ipocrita, e Aldrin notò che gli riusciva difficile ricordare il suo nome. — Tu credi, lo so bene, che io sia un bastardo dal cuore di pietra, ma il fatto è che la compagnia finanziariamente non è in buone acque. La produzione aerospaziale è necessaria, però sta divorando profitti in un modo che non crederesti.
"Ah, non lo crederei?" pensò Aldrin. A parer suo quella era stata una stupidaggine: i vantaggi che si ricavavano dagli impianti a bassa gravità e a gravità zero erano peggio che annullati dalle spese e dagli inconvenienti che comportavano. Ci si poteva arricchire benissimo giù sulla Terra, e lui non avrebbe mai votato per l’impegno aerospaziale se gli avessero concesso il diritto di voto.
— I tuoi ragazzi sono fossili, Pete, renditene conto. Gli autistici più vecchi di loro erano da buttar via al novanta per cento. E non mi citare quella donna, come si chiamava, quella che disegnava mattatoi o che altro…
— La Grandin — mormorò Aldrin, ma Crenshaw non sentì.
— Una su un milione, e io nutro il massimo rispetto per chi sa innalzarsi al di sopra delle proprie menomazioni come fece lei. Quella donna però rimane un’eccezione. La maggior parte di quegli altri poveri bastardi erano esseri inutili. Non per colpa loro, lo ammetto… ma insomma non erano buoni a nulla, né per sé né per gli altri, a dispetto di quanto si spendeva per curarli. E se i dannati psicologi avessero mantenuto il loro monopolio della categoria, i tuoi ragazzi si sarebbero trovati nelle stesse condizioni di quei poveracci. La loro fortuna è stata che a un certo punto hanno cominciato a curarli i neurologi e i behavioristi. Comunque, diciamolo chiaro e tondo: non sono normali.
Aldrin non disse nulla: tanto Crenshaw non lo avrebbe ascoltato. Crenshaw prese il suo silenzio per approvazione e continuò a vele spiegate.
— Infine si sono resi conto di dove stava precisamente il danno e hanno cominciato a metterci rimedio nella prima infanzia… ecco perché i tuoi ragazzi sono fossili, Pete. Sono naufraghi fra il triste passato e il brillante futuro. Non stanno né di qua né di là. Non è giusto.
Nella vita ben poche cose erano giuste, e Aldrin non credeva che Crenshaw fosse abilitato a parlare di giustizia.
— Adesso dirai che loro possiedono certi talenti unici e meritano tutti i costosi accessori che garantiamo loro perché producano. Potevi aver ragione cinque anni fa, Pete, forse anche due anni fa, ma adesso le macchine sono arrivate a prestazioni straordinarie, come succede sempre. — Alzò un opuscolo. — Scommetto che non ti tieni al corrente della letteratura sull’intelligenza artificiale, vero?
Aldrin prese l’opuscolo senza guardarlo. — Le macchine non sono mai state capaci di fare quel che fanno loro — disse.
— C’è stato un tempo in cui le macchine non potevano addizionare due più due — ribatté Crenshaw. — Adesso però tu non assumeresti qualcuno solo per addizionare colonne di cifre con carta e matita, no?
Solo durante un’interruzione della corrente elettrica: le imprese minori trovavano profittevole assumere come contabili persone che all’occorrenza potessero fare addizioni con carta e matita. Ma era inutile menzionare questo fatto.
— Davvero adesso le macchine potrebbero sostituirli? — chiese Aldrin.
— Facilissimamente — affermò Crenshaw. — Be’… non proprio tanto facilmente ora come ora. Ci sarà bisogno di nuovi computer e di un software estremamente sofisticato… ma poi per farli funzionare basterà l’elettricità. Non ci vorranno più tutti quegli stupidi extra di cui i tuoi ragazzi godono.
L’elettricità però bisognava pagarla in continuazione, mentre gli extra per i "suoi ragazzi" erano stati ammortizzati da molto tempo: un’altra cosa di cui Crenshaw non voleva sentir parlare.
— Supponiamo che tutti loro si sottoponessero al trattamento e questo avesse successo… verrebbero comunque sostituiti da macchine?
— Un problema alla volta, Pete, un problema alla volta. Ciò che io voglio è quel che è bene per la compagnia. Se i tuoi ragazzi potranno fare il lavoro come le macchine e costare meno di esse, allora non intendo certo licenziare nessuno. Tieni presente però che noi dobbiamo tagliare le spese… è assolutamente necessario. In questo mercato, l’unico modo di procurarsi investimenti è mostrare la massima efficienza. E quella palestra privata e quegli uffici individuali… nessun azionista li chiamerebbe segni di efficienza.
Parecchi azionisti non consideravano segni di efficienza nemmeno i privilegi di cui godevano i grandi capi, e Aldrin lo sapeva benissimo. Ma non lo disse.
— Allora, Gene, veniamo al sodo… — Era un’audacia chiamare Crenshaw per nome, ma Aldrin in quel momento si sentiva audace. — O loro acconsentono a sottoporsi al trattamento, nel qual caso tu potresti continuare a tenerli nella compagnia, o troverai un modo per costringerli a lasciarsi buttar fuori… legge o non legge.
— La legge non può costringere un’azienda a fallire — disse Crenshaw. — Noi perderemo le facilitazioni fiscali, ma dopo tutto queste sono una parte talmente esigua del nostro bilancio che praticamente non contano. Però, se loro acconsentissero a rinunciare ai loro extra e a comportarsi come impiegati normali, io non insisterei sul trattamento… anche se proprio non riesco a capire perché dovrebbero rifiutarlo.
— Insomma cosa vuoi che faccia? — domandò Aldrin.
Crenshaw sorrise. — Finalmente stai cominciando a vedere le cose dal lato giusto, Pete. Desidero che tu spieghi chiaramente al tuo personale come sta la situazione. In un modo o nell’altro, loro devono smettere di essere un peso per l’azienda: rinunciare ai loro privilegi adesso o sottoporsi al trattamento e rinunciarvi dopo, se davvero è solo l’autismo che rende quei privilegi necessari per loro. Oppure… — Si passò l’indice attraverso la gola. — Non possono permettersi di ricattare la compagnia. Non esiste una legge in questa nazione che noi non possiamo aggirare o far cambiare. — Si lasciò andare sullo schienale della poltrona e si mise le mani sotto la testa. — Non siamo privi di risorse… anzi.
Aldrin si sentì nauseato. Quella era una cosa che aveva saputo da quando era diventato adulto, ma non si era mai innalzato a un tale livello da poterla dire a voce alta… e così era riuscito a tenerla nascosta anche a se stesso.
— Cercherò di spiegare loro tutto questo — disse a voce bassa.
— Pete, devi piantarla di cercare e cominciare ad agire - ribadì Crenshaw. — Tu non sei né stupido né pigro, io lo so. Il tuo unico guaio è che non hai… la grinta.
Aldrin annuì e fuggì dall’ufficio di Crenshaw. Filò dritto in bagno e si lavò le mani con cura… ma si sentiva ancora sporco. Pensò di licenziarsi, di dare le dimissioni. Mia aveva un buon lavoro e per il momento non volevano ancora bambini. Avrebbero potuto farcela per un poco col solo stipendio di lei.
Ma chi si sarebbe preso cura dei suoi ragazzi? Non Crenshaw, certamente. Aldrin scosse la testa guardandosi allo specchio. Stava solo ingannando se stesso se s’illudeva di poterli aiutare. Poteva provarci, ma… chi altri della sua famiglia poteva permettersi di pagare le rette dell’istituto dove viveva suo fratello? E se lui avesse perduto il lavoro?
Cercò di ricordare i suoi contatti: Betty alle Risorse umane, Shirley alla Contabilità. All’ufficio legale non conosceva nessuno. Erano le Risorse umane che si occupavano dei diritti legali degli impiegati aventi necessità particolari; l’ufficio legale interveniva solo in caso di necessità.
Il signor Aldrin ha invitato tutta la sezione a cena. Ci troviamo quindi alla pizzeria, e siccome il nostro gruppo è troppo numeroso per un tavolo solo, sediamo a due tavoli riuniti nella parte sbagliata della sala.
Non mi sento a mio agio col signor Aldrin seduto a tavola con noi, ma non so cosa farci. Lui sorride molto e parla molto. Adesso pensa che quella del trattamento sia una buona idea, dice. Non vuole influenzarci indebitamente, ma crede che il trattamento ci porterebbe beneficio. Io mi sforzo di pensare al sapore della pizza e di non ascoltarlo, ma è difficile.
Poi il signor Aldrin si rilassa un poco. Si fa portare un’altra birra e assume un tono più incerto, più simile a quello dell’uomo che ho conosciuto finora. — Ancora non capisco però la ragione di tanta fretta — dice. — Il costo della vostra palestra e delle altre cose è davvero minimo… una goccia nel mare, se si paragona ai profitti che ci fa guadagnare la vostra sezione. Dello spazio non ne abbiamo bisogno. E poi non ci sono ormai al mondo abbastanza autistici come voi da rendere il trattamento proficuo, quando pure dovesse funzionare perfettamente per tutti voi.
— Secondo le stime recenti, ci sono milioni di autistici solo negli Stati Uniti — dice Eric.
— Sì, ma…
— Il costo dei servizi sociali per tale popolazione, includendo gli istituti di cura per i più handicappati, viene valutato a vari miliardi all’anno. Se il trattamento avesse successo, quel denaro potrebbe essere risparmiato…
— Ma il mercato non sosterrebbe l’impatto di una simile massa di nuovi lavoratori — dice il signor Aldrin. — Inoltre parecchi di loro sono troppo anziani. Jeremy… — S’interrompe di colpo e il suo viso si fa lucido e rosso. È irritato o imbarazzato? Non lo so. Tira un respiro profondo. — Mio fratello — spiega. — È troppo anziano per poter trovare un lavoro, adesso.
— Lei ha un fratello autistico? — domanda Linda, e lo guarda in viso per la prima volta. — Non ce lo aveva mai detto. — Improvvisamente io mi sento nudo, esposto. Credevo che il signor Aldrin non potesse scrutare nella nostra testa, ma se ha un fratello autistico può sapere di noi più di quanto io pensassi.
— Io… non credevo che fosse importante. — Ha ancora il viso rosso e lucido e io penso che non stia dicendo la verità. — Jeremy è più anziano di tutti voi e vive in un istituto…
— Lei ci ha mentito — dice Cameron. Ha stretto le palpebre e sembra in collera. Il signor Aldrin si volge a lui con uno strano scatto della testa.
— Io non…
— Ci sono due tipi di bugie — dice Cameron. Sono sicuro che sta citando qualcosa che gli è stato detto. — La bugia di commissione che attesta una cosa non vera di cui chi parla sa che non è vera; e la bugia di omissione la quale omette di dichiarare una cosa di cui chi parla sa che è vera. Lei ha mentito quando non ci ha detto che suo fratello era autistico.
— Io sono il vostro capo, non il vostro amico — scatta il signor Aldrin. Si è fatto ancora più rosso. Prima aveva detto che era nostro amico. Stava mentendo allora o sta mentendo adesso? — Voglio dire… questa faccenda non ha niente a che vedere col lavoro.
— È la ragione per cui lei voleva essere il nostro supervisore — dice Cameron.
— Assolutamente no. In un primo tempo io non volevo diventare il vostro supervisore.
— In un primo tempo. — Linda lo sta ancora guardando in viso. — Dopo, qualcosa è cambiato. Forse suo fratello?
— No. Voi non somigliate molto a mio fratello. Lui è… molto handicappato.
— Lei vuole il trattamento per suo fratello? — chiede Cameron.
— Io… non lo so.
Nemmeno quest’affermazione ha il suono della verità. Cerco d’immaginare il fratello del signor Aldrin, questa sconosciuta persona autistica. Se il signor Aldrin pensa che suo fratello sia molto handicappato, cosa pensa di noi? Come sarà stata la sua fanciullezza?
— Scommetto che lo vuole — dice Cameron. — Se lei crede che sia una buona idea per noi, deve credere che possa aiutare anche lui. Forse pensa che se riesce a convincerci a sottoporci a esso, la compagnia la ricompenserà facendo curare suo fratello? Lei si sarà dimostrato un bravo ragazzo e le daranno una caramella?
— Quello che dici non è giusto — dice il signor Aldrin alzando la voce. La gente si sta voltando a guardarci. Vorrei che non fossimo qui. — Lui è mio fratello, naturalmente io desidero aiutarlo come posso, ma…
— Il signor Crenshaw le ha forse detto che se ci convinceva suo fratello poteva avere il trattamento?
— Io… non è questo… — I suoi occhi vagano qua e là, la sua faccia cambia colore. La sua espressione esprime sforzo, lo sforzo d’ingannarci in modo convincente. Il mio testo diceva che le persone autistiche sono credulone e facili da raggirare perché non afferrano le sfumature della comunicazione. Ma io non credo che la menzogna sia una sfumatura, credo che mentire sia davvero una brutta cosa. Mi dispiace che il signor Aldrin ci stia mentendo, ma sono contento che non riesca a farlo bene.
— Se veramente non c’è un mercato abbastanza vasto per questo trattamento dell’autismo, a cos’altro può servire? — domanda Linda. Vorrei che non avesse riportato la discussione all’argomento di prima, ma non c’è rimedio. Il signor Aldrin si rilassa un poco.
Io ho un’idea, ma ancora non è chiara. — Il signor Crenshaw dice che sarebbe disposto a continuare a farci lavorare senza trattamento se noi rinunciassimo ai nostri extra, vero?
— Sì, perché lo chiedi?
— Dunque… lui vorrebbe avere ciò che noi autistici siamo bravi a fare senza le cose in cui non siamo bravi.
Il signor Aldrin aggrotta la fronte, gesto che dimostra la sua confusione. — Suppongo di sì — dice. — Però non capisco cosa questo abbia a che fare con il trattamento.
— Il profitto deve scaturire da qualche particolare del procedimento originale — dico. — Non per il fatto che cura l’autismo… non esistono più bambini nati come siamo nati noi, almeno in questo paese. Non ci sono abbastanza di noi. Però qualcosa che noi facciamo è tanto insostituibile che se le persone normali potessero farlo, ciò renderebbe il trattamento profittevole. — Penso a quel momento, nel mio ufficio, in cui per qualche tempo il significato dei simboli, le splendide complessità dello schema dei dati si cancellarono e mi lasciarono confuso e desolato. — Lei ci osserva lavorare ormai da anni: deve sapere cos’è.
— È la vostra abilità nella matematica e nell’analisi degli schemi, lo sai.
— No… lei ha detto che secondo il signor Crenshaw il nuovo software potrebbe sostituirci in quello. Quindi dev’essere qualche altra cosa.
— Io ancora vorrei sapere qualcosa di più su suo fratello — dice Linda.
Aldrin chiude gli occhi, tagliando il contatto. Una volta mi rimproverarono per aver fatto la stessa cosa. Poi li riapre. — Voi siete… implacabili — dice. — Non volete desistere.
Lo schema che si va formando nella mia mente, la configurazione di ombre e di luci che si spostano e si girano attorno comincia a coagularsi. Ma non abbastanza: mi servono altri dati.
— Ci spieghi il denaro — domando ad Aldrin.
— Cosa devo spiegare?
— Il denaro. In che modo la compagnia fa abbastanza denaro per pagarci?
— È… molto complicato, Lou. Non credo che potresti capire.
— Per favore, provi a farlo. Il signor Crenshaw sostiene che costiamo troppo, che i profitti ne soffrono. Ma da dove provengono davvero i profitti?