Gli altri arrivano in gruppo, entro un paio di minuti. Ci trasferiamo nel cortile sul retro, facciamo gli esercizi di stiramento, poi indossiamo giubbetto e maschera e cominciamo a tirare di scherma. Tra un incontro e l’altro Marjory si siede accanto a me. Sono felice quando siede accanto a me. Mi piacerebbe toccare i suoi capelli, ma non lo faccio.
Non parliamo molto. Io non so cosa dire. Guardo Marjory battersi con Lucia: lei è più alta di Lucia, ma Lucia è più brava. Questa sera ambedue indossano giubbetti bianchi, e ben presto quello di Marjory ha piccole macchie brune dove Lucia ha toccato.
Sto ancora pensando a Marjory quando comincio a battermi con Tom. Sto seguendo gli schemi di Marjory e non quelli di Tom, che quindi subito mi uccide due volte.
— Non ti stai concentrando — mi riprende.
— Chiedo scusa — dico.
Tom sospira. — So che hai tanti pensieri, Lou, ma una delle ragioni per cui pratichiamo questo sport è proprio quella di dimenticare per un poco le nostre preoccupazioni.
— È vero. — Smetto di pensare a Marjory e mi concentro su Tom e sulla sua arma. Adesso posso distinguere il suo schema, che è lungo e complicato, e sono in grado di parare i suoi assalti. Basso, alto, alto, basso, manrovescio, basso, alto, basso, basso, manrovescio… Tom esegue un manrovescio ogni quinta posizione, variandone l’approccio. Adesso posso prepararmi per il manrovescio, girando su un tallone e poi facendo un passetto in diagonale. Attaccare in linea obliqua, diceva uno dei vecchi maestri, mai direttamente. Infine stabilisco la serie che mi piace di più e colpisco Tom in pieno.
— Ahi! — dice lui. — Pensavo di aver elaborato uno schema che non saresti riuscito a identificare…
— Esegui un manrovescio ogni quinta posizione — dico.
— Alla malora — dice Tom. — Riproviamo…
Questa volta il manrovescio arriva in nona posizione, poi in settima. Osservo che Tom lo esegue sempre in una posizione di numero dispari. Metto alla prova la mia supposizione per una serie più lunga, limitandomi ad aspettare. Ecco, infatti: nove, sette, cinque, poi di nuovo sette. Allora io rifaccio il passetto in diagonale e colpisco di nuovo.
— Non era in quinta posizione — dice lui, piuttosto a corto di fiato.
— No… ma era un numero dispari — gli spiego io.
— Non riesco a pensare abbastanza in fretta — dice Tom. — Non so battermi e pensare insieme. Tu come fai?
— Tu ti muovi, ma lo schema no — spiego. — Lo schema, quando lo vedo io, è immobile. Così è più facile tenerlo a mente, perché non si sposta.
— Non ho mai considerato la cosa da questo punto di vista — dice Tom. — E allora tu come progetti i tuoi assalti? In modo che non seguano uno schema?
— Oh, lo seguono — gli garantisco. — Ma io posso passare da uno schema a un altro… — Vedo che non mi segue e cerco di spiegarmi meglio. — Quando tu vai in macchina da qualche parte, ci sono molte strade che puoi percorrere… molti schemi tra i quali scegliere. Se ne segui uno, e una delle strade contemplate in quello schema è sbarrata, ne prendi un’altra e passi di conseguenza a uno schema diverso, no?
— Tu vedi le strade come schemi? — dice Lucia. — Io le vedo come stringhe… e passare dall’una all’altra per me è sempre complicato.
— Quanto a me, non faccio che perdermi — interviene Susan. — Se non ci fosse il trasporto pubblico non arriverei mai da nessuna parte.
— Quindi tu puoi tenere in mente diversi schemi di assalti e passare come niente dall’uno all’altro?
— Per lo più, però, io reagisco agli attacchi del mio avversario mentre ne analizzo lo schema — dico.
— Questo spiega molto sul modo in cui hai imparato quando hai incominciato a tirare di scherma — dice Lucia. Sembra felice. Non capisco perché questo la faccia sentire felice. — Nei primi incontri, non avevi tempo d’identificare gli schemi… e non avevi acquistato abbastanza abilità da batterti e pensare insieme, vero?
— Vedi… è difficile ricordarmene — dico. Mi sento a disagio con questi discorsi, con altra gente che cerca di capire come il mio cervello funziona… o non funziona.
— Oh, non importa. Adesso sei un bravo schermidore… ma di solito la scherma s’impara in modo diverso.
Il resto del pomeriggio passa rapidamente. Mi batto con diversi altri del gruppo; negli intervalli siedo accanto a Marjory, se lei non è impegnata. Ascolto i rumori che vengono dalla strada ma non sento nulla. Di tanto in tanto passa qualche automobile, però tutto sembra normale, almeno dal cortile. Quando esco, la mia macchina è intatta, il parabrezza non è rotto e le gomme non sono a terra. L’assenza di danni c’era prima che i danni si verificassero… se qualcuno fosse venuto a vandalizzare la mia auto, il danno si sarebbe verificato dopo, proprio come il buio e la luce. Prima c’è il buio, poi arriva la luce.
— La polizia ti ha fatto sapere nulla circa il parabrezza? — chiede Tom. Siamo tutti fuori, nel cortile anteriore.
— No — dico. Non voglio pensare alla polizia stasera. Marjory mi è vicina e sento il profumo dei suoi capelli.
— Hai riflettuto su chi potrebbe essere stato? — domanda ancora Tom.
— No — rispondo. Non voglio pensare nemmeno a quello, non con Marjory vicina.
— Lou… — Si gratta la fronte. — Tu devi pensarci. Ti sembra plausibile che la tua macchina sia stata danneggiata due volte di seguito da estranei?
— Non è stato nessuno del nostro gruppo — dico. — Voi siete miei amici.
Tom abbassa gli occhi, poi li alza a guardarmi. — Lou, penso che dovresti considerare… — Le mie orecchie non vogliono sentire ciò che dirà dopo.
— Eccoti qui! — lo interrompe Lucia. Interrompere qualcuno non è educato, ma io sono contento dell’interruzione. Lucia mi ha portato il libro e me lo porge dopo che ho messo lo zaino nel portabagagli. — Fammi sapere come ti sembra.
Alla luce del fanale all’angolo della strada il libro è di un grigio opaco e la copertina è ruvida sotto le mie dita.
— Cosa leggi di bello, Lou? — domanda Marjory. M’irrigidisco. Non desidero parlare della ricerca con lei. Non voglio che mi dica che la conosceva già.
— Cego e Clinton — spiega Lucia, come se fosse quello il titolo.
— Diamine! — dice Marjory. — Buon per te, Lou.
Torno a casa guidando con cautela, più conscio del solito dei raggi e delle pozze di luce che incontro, riflessi nella strada dai fanali e dalle vetrine illuminate. Entro ed esco dal buio… e ho l’impressione di andare più veloce al buio.
Tom scosse il capo mentre l’auto di Lou si allontanava. — Non so proprio… — disse, e s’interruppe.
— Stai pensando quello che penso anch’io? — domandò Lucia.
— Mi pare l’unica possibilità — annuì Tom. — Non mi piace pensarlo, è difficile credere che Don possa esser capace di un misfatto tanto serio, ma… chi altri potrebbe essere? Lui conosce Lou, potrebbe trovare facilmente il suo indirizzo; certo sa quando ci esercitiamo nella scherma e conosce la macchina.
— Alla polizia non hai detto nulla — osservò Lucia.
— No. Pensavo che Lou avrebbe fatto questa ipotesi, e dopo tutto si tratta della sua macchina. Non ho creduto bene impicciarmi. Adesso però… vorrei aver parlato e detto a Lou chiaro e tondo di guardarsi da Don. Lui immagina ancora che quello sia suo amico.
— Lo so. — Lucia scosse la testa. — Lui è così… be’, non so se sia lealtà o forza dell’abitudine. Una volta amico, sempre amico… e poi…
— Potrebbe anche non essere stato Don. Lo so, lui è stato una spina nel fianco e un fastidio per parecchio tempo, però prima non aveva mai fatto nulla di violento. E stasera non è successo nulla.
— La notte non è ancora passata — disse Lucia. — Se accadesse qualcosa d’altro, dovremo parlare alla polizia… per amore di Lou.
— Hai ragione, naturalmente — sbadigliò Tom. — Speriamo però che non succeda niente e che si tratti solo di coincidenze.
Arrivato a casa, porto su il libro e lo zaino. Passando davanti all’appartamento di Danny non odo nessun suono. Metto il mio giubbetto da scherma nel cesto dei panni sudici e porto il libro sulla scrivania. Alla luce della lampada la copertina è azzurro pallido, non grigia.
Lo apro, e senza Lucia a dirmi di saltare leggo tutte le pagine fin dal principio. Le dediche, la prefazione, scritta da un certo Peter J. Bartleman che era stato professore di Betsy R. Cego quando lei studiava medicina e risvegliò in lei un duraturo interesse per lo studio delle funzioni cerebrali. Lo stile mi sembra poco scorrevole. La prefazione spiega di cosa tratta il libro, perché gli autori lo hanno scritto e poi ringrazia molta gente e diverse compagnie per il loro aiuto. Mi sorprende trovare tra di esse il nome della compagnia per la quale lavoro. Aveva fornito assistenza per i metodi di calcolo.
I metodi di calcolo sono quelli che la nostra sezione sviluppa. Guardo di nuovo la data del copyright. Quando questo libro è stato scritto io ancora non lavoravo là.
Mi domando se qualcuno di quei vecchi programmi esiste ancora.
Consulto il glossario alla fine e scorro in fretta le definizioni. Adesso conosco circa la metà di esse. Quando comincio il primo capitolo, che espone la struttura cerebrale, comprendo tutto. Il cervello, il cervelletto, l’amigdala, l’ippocampo… appaiono in numerosi diagrammi e in sezioni verticali, orizzontali e oblique. Non avevo mai visto tuttavia un diagramma che mostrasse le funzioni delle diverse aree cerebrali, e quindi lo studio con cura. Mi chiedo come mai il principale centro del linguaggio parlato sia nella parte sinistra del cervello, mentre nella parte destra c’è un’area perfettamente efficiente che elabora gli stimoli auditivi. Perché specializzarsi fino a questo punto? Mi chiedo se i suoni sentiti da un orecchio vengano percepiti più come linguaggio dei suoni sentiti dall’altro. I livelli di elaborazione degli stimoli visivi sono altrettanto difficili da capire.
Ma nell’ultima pagina di quel capitolo trovo una frase talmente straordinaria che non posso far altro che fermarmi a contemplarla: "Essenzialmente, e a parte le funzioni fisiologiche, il cervello umano esiste per analizzare e generare schemi".
Mi si mozza il respiro, mi sento prima gelare e poi ardere. È questo che io faccio. Se davvero questa è la funzione essenziale del cervello umano, allora io non sono un handicappato ma una persona normale.
Non è possibile. Tutto ciò che conosco mi dice che io sono il diverso, l’handicappato. Rileggo la frase più e più volte, cercando di farla combaciare con quanto so.
Infine continuo la lettura per il resto del paragrafo. "L’analisi degli schemi e la loro creazione può essere difettosa, come in alcune malattie mentali, dando come risultato analisi errate o schemi generati sulla base di ’dati’ non corretti; però anche nelle più severe deficienze cognitive queste due attività sono caratteristiche del cervello umano… e anche di cervelli molto meno sofisticati di quello umano. I lettori interessati a tali funzioni negli esseri non umani dovrebbero consultare i seguenti riferimenti."
Quindi forse io sono normale e handicappato… normale nel percepire e nel generare schemi, ma i miei schemi sono errati?
Continuo a leggere, e quando finalmente smetto, sentendomi nervoso ed esausto, sono quasi le tre del mattino. Sono arrivato al capitolo 6: Trasformazione matematica del processo visivo.
Sto già cambiando. Pochi mesi fa non sapevo di amare Marjory. Non sapevo di poter tirare di scherma in un torneo con estranei. Non sapevo di essere in grado di imparare la biologia e la chimica come invece ho fatto. Non sapevo di poter cambiare fino a questo punto.
Una delle persone del centro di riabilitazione dove passavo tante ore da bambino diceva spesso che gli handicap sono il modo con cui Dio dà agli uomini la possibilità di dimostrare la propria fede. Io non concepisco Dio in questo modo. Non credo che Dio faccia succedere brutte cose allo scopo d’incrementare la crescita spirituale delle persone. Sono i cattivi genitori che fanno questo, diceva mia madre. I cattivi genitori rendono le cose difficili e penose per i loro figli e poi dicono che lo fanno per aiutarli a crescere. Crescere e vivere sono cose già tanto dure di per se stesse, quindi i bambini non hanno bisogno che gliele rendano peggiori. Io credo che questo sia vero anche per i bambini normali. Ho visto bambini piccoli imparare a camminare: faticano, e cadono molte volte. Dai loro visi si vede che la cosa non è facile. Sarebbe stupido caricarli di mattoni per render loro la cosa ancora più ardua. E se questo è vero per l’imparare a camminare, allora io credo sia vero anche per altre cose che interessano il crescere e l’imparare.
Si suppone che Dio sia un buon genitore, il Padre. Perciò io non credo che voglia renderci le prove più dure di quanto già sono. Non credo che io sia autistico perché i miei genitori avevano bisogno di una prova o perché ne avevo bisogno io. Credo che sia come se io fossi un bambino e un sasso mi cadesse sopra e mi rompesse una gamba. Ciò che ha causato questo è stato un accidente. Dio non lo ha prevenuto, ma nemmeno lo ha cagionato.
Io credo che il mio autismo sia stato un accidente, ma ciò che ne faccio esprime ciò che sono. Così diceva mia madre.
Questo è ciò che credo la maggior parte del tempo. Ma a volte non ne sono tanto sicuro.
È una mattina grigia, con nuvole basse. La luce lenta non ha ancora scacciato del tutto il buio. Preparo il sacchetto del pranzo, prendo Cego e Clinton e scendo. Posso leggere durante l’intervallo.
Le mie gomme sono a posto, il parabrezza nuovo è intatto. Forse la persona che non mi è amica si è stancata di danneggiarmi la macchina. Apro lo sportello, metto il sacchetto e il libro sul sedile del passeggero ed entro. La musica del mattino che preferisco per guidare sta già suonando nella mia mente.
Quando giro la chiave dell’accensione non succede niente. L’auto non parte. Non c’è alcun suono tranne il leggero clic della chiave che gira. So cosa significa questo: la batteria è morta.
La musica nella mia testa tace. La mia batteria non era morta ieri sera. L’indicatore del livello di carica era normale.
Esco e vado ad aprire il cofano. Appena lo sollevo qualcosa mi balza contro. Barcollo e quasi cado sul marciapiedi.
Si tratta di un giocattolo da bambini, un diavoletto a molla, che sta al posto in cui dovrebbe stare la batteria. La batteria è sparita.
Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Richiudo il cofano sul motore senza toccare il giocattolo. Non mi piacevano i diavoletti a molla quando ero bambino. Devo chiamare la polizia e l’assicurazione, ripercorrere tutta la noiosa trafila. Guardo l’orologio. Se mi affretto ad andare alla stazione della metropolitana posso prendere un treno per il campus, così non farò tardi.
Prendo il sacchetto del pranzo e il libro, richiudo la macchina e mi avvio in fretta verso la stazione. Ho nel portafogli le carte dei due poliziotti che si sono occupati del mio caso: li chiamerò dal campus.
Sul treno affollato la gente tiene gli occhi fissi su un punto indeterminato e non guarda mai negli occhi gli altri viaggiatori. Non è che siano tutti autistici: sanno in qualche modo che non è appropriato avere contatti di sguardi sul treno. Alcuni leggono. Anch’io apro il libro e leggo cosa dicono Cego e Clinton sul modo in cui il cervello elabora i segnali visivi.
Mi affascinano gli scambi d’informazioni che ciclicamente si svolgono fra gli strati dell’elaborazione visiva. Non mi ero mai reso conto che una cosa tanto interessante avvenisse dentro la testa delle persone normali: credevo che si limitassero a guardare le cose e a riconoscerle automaticamente. Pensavo che i miei processi visivi fossero difettosi, invece (se interpreto l’informazione correttamente) sono soltanto lenti.
Arrivato alla fermata del campus oramai so dove andare e ci metto meno tempo a raggiungere il nostro edificio. Sono in anticipo di tre minuti e venti secondi. Il signor Crenshaw è di nuovo nell’atrio, ma non mi rivolge la parola. Si fa da parte. Io dico: — Buon giorno, signor Crenshaw — perché è educato, e lui grugnisce qualcosa che non si capisce bene. Se avesse avuto il mio terapista della dizione parlerebbe enunciando più chiaramente.
Metto il libro sulla scrivania e torno nell’atrio per andare a portare il mio pranzo nella cucinetta. Adesso il signor Crenshaw è sulla porta e guarda il parcheggio. Si volta e mi vede. — Dov’è la tua automobile, Arrendale? — domanda.
— A casa — dico. — Ho preso la metropolitana.
— Dunque tu puoi prendere il mezzo pubblico — commenta, e ha la faccia un po’ lucida. — Non hai veramente bisogno di un parcheggio speciale.
— I treni sono molto affollati e rumorosi — spiego. — Qualcuno mi ha rubato la batteria stanotte.
— Una macchina è solo una continua fonte di problemi per qualcuno come te — commenta ancora lui accostandosi. — Gente che non abita in zone sicure, con parcheggi custoditi, davvero non dovrebbe esibire il possesso di automobili.
— Non è mai successo nulla fino a poche settimane fa — rettifico. Non capisco perché desidero discutere con lui. A me discutere non piace.
— Sei stato fortunato. Adesso però sembra proprio che qualcuno ce l’abbia con te, no? Tre episodi di vandalismo. Ma almeno stavolta non sei arrivato in ritardo.
— Sono arrivato in ritardo una volta sola a causa dei vandalismi — dico.
— Non è questo il punto — ribatte. Mi chiedo quale sia il punto, a parte la sua antipatia per me e per i miei compagni. Dà un’occhiata alla porta del mio ufficio. — Sarà meglio che tu ritorni al lavoro — dice. — O meglio, che cominci a lavorare… — Adesso guarda l’orologio dell’atrio. Sono in ritardo di due minuti e diciotto secondi. Senza più rispondere, torno nel mio ufficio e chiudo la porta. Non ho intenzione di rimettermi in pari con i due minuti e diciotto secondi, non è colpa mia se sono in ritardo. Mi sento un poco agitato.
Richiamo il lavoro di ieri e i bellissimi schemi tornano a snodarmisi in mente. Un parametro segue l’altro, facendo passare lo schema da una struttura all’altra con fluidità impeccabile. Quando torno ad alzare la testa è passata un’ora e undici minuti. Il signor Crenshaw non sarà più qui adesso, non si trattiene mai tanto a lungo. Vado nell’atrio a prendere un po’ d’acqua. L’atrio è vuoto, ma vedo il segno sulla porta della palestra: c’è dentro qualcuno. Non m’importa.
Scrivo le parole che dovrò dire, poi chiamo la polizia e chiedo del primo poliziotto che si è occupato di me, il signor Stacy. Quando è in linea, sento dei rumori di fondo: altre persone stanno parlando.
— Sono Lou Arrendale — mi presento. — Lei venne da me quando le gomme della mia macchina furono tagliate. Mi disse di chiamare…
— Sì, sì — dice lui. Mi sembra impaziente, come se non mi stesse realmente ascoltando. — L’agente Isaka mi ha informato del parabrezza la settimana dopo, ma non abbiamo avuto il tempo di approfondire le indagini…
— La notte scorsa mi hanno rubato la batteria — spiego. — E qualcuno ha messo al posto della batteria un giocattolo.
— Cosa?
— Questa mattina la mia automobile non voleva partire. Ho guardato nel cofano e qualcosa mi è balzata contro. Era un diavoletto a molla che qualcuno aveva messo dove doveva stare la batteria.
— Rimanga lì, manderò qualcuno… — dice.
— Non sono a casa — spiego. — Sono al lavoro. Il mio superiore si sarebbe arrabbiato se avessi fatto tardi un’altra volta. La macchina è a casa.
— Capisco. Dov’è il giocattolo?
— Nel cofano — rispondo. — Non l’ho toccato. Ho solo richiuso.
— La faccenda non mi piace — dice Stacy. — Qualcuno davvero non le vuol bene, signor Arrendale. Una volta passi, ma… lei non ha nessuna idea di chi potrebbe essere il vandalo?
— L’unica persona che conosca e che ce l’abbia con me è il mio capo, il signor Crenshaw — dico. — A lui sono antipatici gli autistici. Vuole che proviamo un trattamento sperimentale…
— Ci sono dunque altri autistici nel posto dove lavora?
Mi rendo conto che non può saperlo. — La nostra sezione è costituita solo da autistici — dico. — Però non credo che il signor Crenshaw farebbe una cosa del genere. Benché a lui non piaccia che noi abbiamo un permesso speciale per guidare e un parcheggio tutto per noi. Pensa che dovremmo prendere la metropolitana come tutti gli altri.
— Ehm. E tutti i vandalismi hanno preso di mira la sua macchina.
— Sì. Ma lui non sa nulla del fatto che io tiro di scherma.
— C’è altro?
Non desidero lanciare false accuse. Farlo è sbagliato; ma non voglio nemmeno che la mia macchina subisca altri danni. Mi fa perdere tempo, confonde i miei orari e poi costa denaro.
— C’è qualcuno al Centro, Emmy Sanderson, che pensa sia sbagliato da parte mia avere amici normali — dico. — Però lei non sa dove si riunisce il mio circolo di scherma. — Io non credo veramente che sia stata Emmy, tuttavia lei e il signor Crenshaw sono le uniche persone che si siano arrabbiate con me negli ultimi tempi. Ma lo schema appare sbagliato, sia per lei che per il signor Crenshaw.
— Emmy Sanderson — dice lui, ripetendo il nome. — E lei non crede che sappia dove vi radunate per tirare di scherma?
— No. — Emmy non è mia amica, comunque io non credo che abbia fatto quelle cose. Don è mio amico e io non voglio credere che le abbia fatte.
— Non è più probabile che il nostro vandalo sia qualcuno che fa parte del circolo di scherma? Lì c’è qualcuno col quale lei non va d’accordo?
Di colpo mi sento tutto sudato. — Quelli sono miei amici — dico. — Gli amici non fanno del male agli amici.
Stacy grugnisce e non capisco cosa voglia dire il suo grugnito. — Ci sono amici e amici. Mi parli delle persone che fanno parte di quel gruppo.
Gli parlo prima di Tom e Lucia e poi degli altri; lui si annota i nomi.
— Erano tutti lì in queste ultime settimane?
— Non tutti ogni settimana. — Gli dico quelli che riesco a ricordare. — E Don è passato a un altro istruttore, perché si è offeso con Tom.
— Con Tom? Non con lei?
— No. — Non so come riferire l’accaduto senza criticare degli amici, e criticare gli amici è sbagliato. — Don certe volte scherza, ma è mio amico — dico. — Si è offeso con Tom perché Tom mi ha parlato di una cosa che Don aveva fatto molto tempo fa, e Don non voleva che me la dicesse.
— Qualcosa di brutto? — chiede Stacy.
— Eravamo a un torneo — racconto. — Don venne da me dopo un incontro e mi disse cosa avevo fatto di sbagliato e Tom, il mio istruttore, gli disse di lasciarmi in pace. Don cercava di aiutarmi, ma Tom pensava che non fosse così. Tom disse che io ero stato molto più bravo di Don al suo primo torneo, Don lo sentì e andò in collera con Tom. Dopo non ha voluto più far parte del nostro gruppo.
— Ehm. Ho l’impressione che questo sia più che altro un motivo per tagliare le gomme del suo istruttore. Dovremo controllare, però. Se le viene qualche altra idea, me la comunichi. Manderò qualcuno a prendere il giocattolo: vedremo di riuscire a ricavarne qualche impronta digitale, se sarà possibile.
Dopo aver riattaccato, mi siedo e penso a Don, ma non è piacevole. Penso a Marjory, invece.
Marjory ha detto a Lucia che io le piaccio? Questa è un’altra cosa che la gente normale fa, penso. Loro sanno quando a qualcuno piace un’altra persona, e quanto; non devono avere dubbi. Fa parte della loro abilità a leggere la mente degli altri, a sapere quando uno scherza e quando fa sul serio, a sapere quando una parola è usata nel suo senso letterale e quando è usata in altri sensi. Quanto vorrei sapere con sicurezza se piaccio a Marjory. Lei mi sorride e mi parla con gentilezza: ma lo farebbe ugualmente, credo, anche se avesse per me solo un poco di simpatia. È una persona di modi gentili.
Ricordo le accuse di Emmy. Ma le allontano dalla mia mente. Marjory è mia amica, me lo ha detto, e io devo crederle se davvero le sono amico.
Accendo il ventilatore per mettere in moto le mie girandole e spirali. Ne ho bisogno: sto respirando troppo in fretta e mi sento il collo bagnato di sudore. È a causa dell’automobile, a causa del signor Crenshaw, a causa del fatto che ho dovuto chiamare la polizia. Non a causa di Marjory.
Dopo qualche minuto la funzionalità del mio cervello torna all’analisi e alla creazione di schemi. Ma non lascio tornare la mia mente a Cego e Clinton. Lavorerò per una parte dell’intervallo del pranzo onde pareggiare il tempo che mi ci è voluto per parlare col signor Stacy, ma non i due minuti e diciotto secondi che il signor Crenshaw mi ha fatto perdere.
Immerso nella bellezza e complessità degli schemi, non ne emergo per il pranzo fino alle 13.28.17.
La musica nella mia mente è il Concerto per violino n.2 di Bruch. A casa ne ho quattro interpretazioni diverse. Una risale al Ventesimo secolo ed è la più vecchia, ma è ancora la migliore.
Questa musica rende più agevole distinguere alcuni tipi di schemi piuttosto che altri. Bach ne mette in risalto la maggior parte, ma non quelli che sono… l’unica definizione che mi viene in mente è "ellittici". Le lunghe ondate di questa musica, che oscurano gli schemi a favo illuminati da Bach, mi aiutano a trovare e costruire le lunghe, asimmetriche componenti che trovano riposo nella fluidità.
È una musica oscura. Sentirla mi dà l’impressione di lunghe scie ondulanti di tenebra, come nastri nerazzurri agitati dal vento di notte, oscurando e rivelando le stelle. Ora morbida, ora più alta, ora il violino solista con l’orchestra che alita nello sfondo e ora in crescendo, col violino che naviga sull’orchestra come un nastro su una corrente d’aria.
Credo che sarebbe la musica giusta anche per leggere Cego e Clinton. Mangio in fretta e carico il timer del mio ventilatore. In questo modo gli ammiccamenti e i barbagli della luce mi faranno sapere quando sarà il momento di rimettermi al lavoro.
Cego e Clinton parlano di come il cervello elabora bordi, angoli, consistenze, colori e di come le informazioni scorrono avanti e indietro attraverso le stratificazioni del processo visivo. Io non sapevo che c’era una zona separata per l’identificazione dei visi, benché i riferimenti che gli autori citano risalgano al Ventesimo secolo. Non sapevo che l’abilità di riconoscere un oggetto visto da angolazioni diverse è fortemente deficitaria in un cieco nato che riguadagni la vista più tardi.
Molto spesso gli autori parlano di cose che mi hanno dato fastidi gravi mettendole in relazione con l’esser nati ciechi o aver subito un trauma cranico per incidenti, embolie o aneurismi. Quando la mia faccia non diventa strana come quella delle persone normali allorché provano una forte emozione, questo vuol dire che il mio cervello non riesce a elaborare i cambi di espressione?
Un lieve ronzio: il ventilatore si è messo in funzione. Chiudo gli occhi, aspetto tre secondi e li riapro. La stanza è piena di colori e movimenti, spirali e girandole sono tutte in moto, riflettendo la luce in tanti scintillii mutevoli. Metto da parte il libro e torno al lavoro. L’oscillazione regolare dei bagliori mi calma: ho sentito persone normali chiamarla caotica, ma non è vero. È invece uno schema regolare e prevedibile, e mi è costato settimane per renderlo così. Credo ci siano metodi più facili per farlo, ma io ho dovuto regolare ognuna delle parti mobili finché non si muoveva alla velocità giusta in rapporto a quella delle altre.
Suona il telefono. Non mi piace che il telefono suoni, mi distrae da quel che sto facendo e all’altro capo ci sarà qualcuno che si aspetterà che io cominci subito a parlare. Tiro un respiro profondo. Dico: — Qui Lou Arrendale.
— Ah… parla l’agente Stacy — dice la voce. — Ascolti… abbiamo mandato qualcuno al suo appartamento. Mi ripeta di nuovo il numero di targa dell’auto.
Glielo recito.
— Uhm. Bene, avrò bisogno di parlare con lei di persona. — Segue una lunga pausa. — Io penso che lei possa essere in pericolo, signor Arrendale. Chiunque stia facendo questo non è davvero una persona perbene. Quando i nostri ragazzi hanno cercato di tirar fuori quel giocattolo, c’è stata una piccola esplosione.
— Esplosione!
— Già. Per fortuna i nostri ragazzi sono stati prudenti. La faccenda non gli piaceva, così avevano chiamato la squadra esplosivi. Ma se lei avesse preso il giocattolo, ci avrebbe rimesso un paio di dita… o la cosa avrebbe potuto esploderle in faccia.
— Vedo. — Potevo davvero vedere tutto, visualizzarlo perfettamente. Ero stato sul punto di tendere la mano e prendere il giocattolo… e se lo avessi fatto… Di colpo mi sento gelare, le mani cominciano a tremarmi.
— Dobbiamo davvero prendere questa persona. A casa del suo istruttore di scherma non c’è nessuno…
— Tom insegna all’università — dico. — Ingegneria chimica.
— Questo ci aiuta. E sua moglie?
— Lucia è medico — rispondo. — Lavora all’ospedale. Lei davvero pensa che questa persona voglia farmi del male?
— Vuole sul serio causarle dei guai — dice il poliziotto. — E il vandalismo sembra diventare sempre più violento. Lei può venire alla stazione di polizia?
— Non posso allontanarmi da qui fino a dopo il lavoro, o il signor Crenshaw si arrabbierà con me. — Se qualcuno vuole farmi del male, non voglio che altri se la prendano con me.
— Manderemo qualcuno, allora — decide il signor Stacy. — In quale edificio si trova? — Glielo dico, gli spiego da quale porta entrare e quale strada fare per arrivare al nostro parcheggio, e lui continua: — Saremo lì entro mezz’ora. Abbiamo delle impronte digitali, dovremo prendere le sue per paragonarle con le altre. Le sue impronte dovrebbero essere dappertutto nella macchina… poi ultimamente lei l’ha fatta riparare, quindi ci saranno impronte di altri. Ma se ne troviamo alcune che non risultino essere sue o degli operai che hanno lavorato all’auto… avremo qualcosa di solido su cui basarci.
Mi chiedo se devo informare il signor Aldrin o il signor Crenshaw che sta arrivando la polizia per parlarmi. Ho idea che il signor Crenshaw si arrabbierà per questo. Il signor Aldrin pare non vada in collera con tanta facilità. Chiamo il suo ufficio.
— La polizia sta venendo per parlarmi — dico. — Mi rimetterò in pari con il tempo perso.
— Lou! Cos’è successo? Che hai fatto?
— È a causa della mia macchina — dico.
Prima che possa spiegarmi meglio, lui riprende a parlare, in fretta. — Lou, non dire nulla. Ti troveremo un avvocato. Qualcuno si è fatto male?
— Non si è fatto male nessuno — dico, e lo sento tirare un sospirone.
— Bene, questo è già qualcosa.
— Quando ho aperto il cofano, non ho toccato l’oggetto.
— Quale oggetto? Di cosa stai parlando?
— Della… della cosa che qualcuno mi ha messo nella macchina. Sembrava un giocattolo, un diavoletto a molla.
— Aspetta… aspetta. Mi stai dicendo che la polizia viene a causa di qualcosa che è successo a te, qualcosa che ha fatto qualcun altro? Non qualcosa che hai fatto tu?
— Io non l’ho toccato — ripeto. Le parole che lui ha detto mi filtrano nel cervello lentamente, una dopo l’altra; l’eccitazione nella sua voce mi ha impedito di sentirle con chiarezza. In un primo tempo lui ha creduto che io avessi fatto qualcosa di brutto, qualcosa capace di far venire la polizia. Quest’uomo che ho conosciuto fin da quando ho cominciato a lavorare qui… ha creduto che io potessi aver fatto qualcosa di brutto. Mi sento scosso.
— Chiedo scusa — dice il signor Aldrin prima che io possa parlare. — Ti ho dato l’impressione… devo averti dato l’impressione… sono balzato alla conclusione che tu avessi fatto qualcosa di sbagliato. Mi dispiace. So che non faresti mai cose del genere. Però continuo a pensare che hai bisogno di un avvocato della compagnia mentre parli con la polizia.
— No — rispondo. Mi sento gelido e amaro; non voglio esser trattato come un bambino. Credevo di essere simpatico al signor Aldrin. Se invece non gli sono simpatico, allora il signor Crenshaw, che è molto peggiore, deve odiarmi sul serio. — Non voglio un avvocato, non ne ho bisogno. Non ho fatto nulla di sbagliato. Qualcuno ha vandalizzato più volte la mia auto.
— Più di una volta?
— Sì — dico. — Due settimane fa mi hanno tagliato tutt’e quattro le gomme. È stato allora che sono arrivato al lavoro tardi. Il mercoledì seguente, poi, mentre ero a casa di un amico, qualcuno mi ha fracassato il parabrezza. Anche allora ho chiamato la polizia.
— A me però non l’hai detto, Lou — mi rimprovera il signor Aldrin.
— No… pensavo che il signor Crenshaw si sarebbe irritato. Questa mattina la mia macchina non voleva mettersi in moto. La batteria era sparita e al suo posto c’era un giocattolo. Io sono venuto a lavorare e ho chiamato la polizia. Quando loro sono andati a guardare, il giocattolo aveva sotto dell’esplosivo.
— Dio mio, Lou, questo… avresti potuto restare ferito. È orribile! Hai nessuna idea su chi… ma no, naturalmente no. Ascolta, vengo subito.
Riappende prima che io possa dirgli di non venire. Adesso sono troppo eccitato per lavorare. Ho bisogno di un po’ di tempo in palestra. Non c’è nessun altro. Metto la musica adatta e comincio a rimbalzare sul trampolino. La musica mi solleva, mi alleggerisce.
Quando Aldrin arriva, mi sento più disteso. Sono sudato e ho addosso l’odore del sudore, ma non sono più scosso o impaurito.
Aldrin sembra preoccupato e vuole avvicinarsi a me più di quanto io desideri. Non voglio nemmeno che lui mi tocchi. — Stai bene, Lou? — chiede. La sua mano continua ad annaspare come volesse battermi qualche colpetto sulla spalla.
— Sto bene — rispondo.
— Ne sei sicuro? Io credo davvero che dovremmo avere qui un avvocato, e forse tu dovresti andare alla clinica…
— Non mi sono fatto male — ripeto. — Sto benissimo. Non ho bisogno di farmi visitare da un dottore e non voglio un avvocato.
— Ho lasciato detto all’entrata di far venire qui la polizia — dice lui. — Ho dovuto anche riferire al signor Crenshaw. — Aggrotta la fronte. — Era in riunione. Lo avviseranno quando uscirà.
Suona il campanello della porta. Gli impiegati che lavorano in questo edificio hanno tutti la chiave magnetica: solo i visitatori adoperano il campanello. — Vado io — dice il signor Aldrin. Io non so se andare in ufficio o restare nell’atrio. Resto nell’atrio e guardo il signor Aldrin andare alla porta. L’apre e dice qualcosa all’uomo che è comparso sulla porta. Non posso distinguere se è lo stesso uomo al quale ho già parlato finché lui non si avvicina, e allora lo riconosco subito: è lui.