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Domande, sempre domande… e non aspettavano nemmeno le risposte, poi. No, affollavano domande su domande, eternamente.

E ordini. Si poteva scegliere solo tra "Lou, questo cos’è?" e "Lou, dimmi cos’è questo". Un vaso. Sempre lo stesso vaso. Un vaso, brutto, noioso e privo di qualsiasi connotato interessante.

Ma se non vogliono ascoltarmi, perché dovrei parlare?

Non sono tanto sciocco da dire queste cose a voce alta. Tutto ciò che dà qualche valore alla mia vita l’ho guadagnato imparando a non dire mai quello che penso e dire invece quello che loro vogliono sentire.

In questo ufficio, dove vengo giudicato e consigliato ogni quadrimestre, la psichiatra non è meno sicura di tutti i suoi predecessori che tra noi esiste una linea di demarcazione. Questa sua certezza mi dà fastidio, ecco perché cerco di guardarla meno che posso, cosa non del tutto priva di pericoli. Come i colleghi che l’hanno preceduta, la dottoressa pensa che io dovrei sforzarmi di guardarla di più. Le lancio un’occhiata.

Disinvolta e professionale, la dottoressa Fornum alza un sopracciglio e scuote la testa in modo abbastanza accentuato. Le persone autistiche non comprendono questi gesti, così dice il libro. Io l’ho letto, perciò so cos’è che non capisco.

Quello che ancora non sono riuscito a intuire è l’estensione di ciò che loro non capiscono. Loro, le persone normali, le persone reali: quelle che hanno la laurea e siedono dietro le scrivanie in comode poltrone.

Ci sono alcune cose che lei non sa. Per esempio, che io so leggere. Pensa che io ripeta le parole a pappagallo: non sa che possiedo un lessico ricco. Ogni volta che mi domanda dove lavoro, e io le rispondo che lavoro presso un’azienda farmaceutica, mi chiede se so cosa significhi farmaceutica. Crede che io ripeta la parola a pappagallo. Sa benissimo che io lavoro al computer, che sono andato a scuola, ma non riesce a capire che ciò è incompatibile con il fatto che io sia semianalfabeta e riesca a stento a spiccicare qualche parola, come crede lei.

Mi parla come si parlerebbe a un bambino piuttosto tardo. Non le va che io usi parole difficili (così le chiama): vuole che mi limiti a dire ciò che voglio dire.

Io vorrei dire che la velocità del buio è interessante quanto la velocità della luce e forse è ancora maggiore, e chi riuscirà a stabilirla?

Vorrei parlare della gravità: se esiste un mondo su cui essa sia il doppio di quella che è sulla Terra, il vento generato da un ventilatore sarebbe più forte a causa della maggiore densità dell’aria, e quindi farebbe volar via il mio bicchiere insieme col tovagliolo? O la gravità maggiore farebbe aderire di più il bicchiere al tavolo, tanto che il vento non riuscirebbe a smuoverlo?

Vorrei dire che il mondo è grande, pauroso e folle, ma anche bello e immobile in mezzo a un uragano.

Vorrei dire che io so quel che mi piace e quel che voglio, mentre lei non lo sa, e non desidero amare o volere ciò che vuole lei.

La dottoressa non vuol sapere cosa voglio dire: vuole che io dica quello che dice l’altra gente. "Buon giorno, dottoressa Fornum." "Sto bene, grazie." "Certo, posso aspettare, non mi dà fastidio."

Davvero non mi dà fastidio. Quando lei risponde al telefono io posso guardarmi intorno e osservare le cose luccicanti che la dottoressa non sa di avere nell’ufficio. Posso muovere la testa avanti e indietro così che la luce ammicchi sulla copertina lucida di un libro sullo scaffale. Ma se lei nota che io muovo la testa avanti e indietro scriverà un appunto sulla mia cartella… potrebbe anche smettere di parlare al telefono e dirmi di star fermo. Perché si chiamano movimenti stereotipati se li faccio io e stiramenti per rilassare il collo se li fa lei. Io li faccio per divertirmi a vedere la riflessione della luce spegnersi e riaccendersi col mio ondeggiare.

La dottoressa Fornum non fa che ripetermi che Ognuno sa questo e Ognuno fa quello, ma io non credo che tutte le altre persone siano uguali e comunque sono autistico, non cieco, e so che le persone sanno e fanno cose differenti. Nei parcheggi le macchine sono di forme, colori e dimensioni diverse. Alla televisione diversi canali trasmettono cose diverse, e questo non succederebbe se le persone fossero tutte uguali.

Quando lei rimette giù il ricevitore e mi guarda, il suo viso assume una certaria. Non so come la chiamerebbero gli altri, ma io la chiamo un’aria da "Io sono reale, vera". Quell’aria significa che lei è reale e conosce le risposte e io sono qualcosa di meno. Non completamente reale, anche se sento benissimo le irregolarità del sedile della sedia dove sono seduto. Una volta, prima di sedermi, ho messo sul sedile una rivista; ma la dottoressa mi ha detto che non ce n’era bisogno. Lei è reale, così crede, e perciò sa meglio di me quello di cui ho bisogno oppure no.

Ora mi chiede notizie della mia vita sociale.

Non le piace la mia risposta. Le dico che corrispondo mediante Internet col mio amico Alex in Germania e col mio amico Ky in Indonesia, ma lei corruga la fronte. — Parla dei tuoi rapporti con persone non virtuali — ammonisce.

— Frequento le persone con le quali lavoro — dico, e allora lei annuisce e parla delle bocce, del minigolf, del cinema e della branca locale dell’Associazione autistici.

Ma giocare alle bocce mi fa dolere la schiena e il minigolf è roba da bambini e non da adulti, per quanto a me non piacesse nemmeno quando ero bambino. Mi piaceva il tiro a segno col laser, ma quando lo dissi alla dottoressa al nostro primo incontro lei annotò "Tendenze violente". Ci volle parecchio tempo perché la smettesse di sottoponili a test su queste mie pretese tendenze alla violenza, però sono sicuro che quell’annotazione non l’ha mai cancellata.

Le dico che sono stato al cinema tre volte e lei mi domanda com’erano i film. Io ne ho letto le recensioni, quindi posso raccontarle le loro trame. Non mi piacciono molto neanche i film, ma devo pur avere qualcosa da dire alla dottoressa… la quale finora non si è mai accorta che la mia conoscenza delle trame deriva dalla lettura delle recensioni.

M’irrigidisco per prepararmi alla prossima domanda, che mi irrita sempre moltissimo. La mia vita sessuale non riguarda la dottoressa. Lei è l’ultima persona alla quale parlerei di una mia eventuale ragazza. D’altra parte la Fornum non si aspetta che ne abbia una, vuole solo accertarsi che non l’abbia, e questo mi dà fastidio ancora di più.

Finalmente è finita. Ci rivedremo al prossimo controllo, dice lei, e io dico: — Grazie, dottoressa Fornum. — Lei risponde: — Bravo — come se io fossi un cane ammaestrato.

Fuori fa caldo, e sto camminando troppo in fretta. Devo perciò rallentare e pensare alla musica.

La dottoressa dice che dovrei imparare ad amare la musica che piace all’altra gente; ma è proprio questo che faccio. So che c’è gente che ama Bach e Schubert, e non è autistica: noi autistici non siamo tanto numerosi da poter far funzionare teatri d’opera e sale da concerti solo per noi. Però per la dottoressa l’"altra gente" significa "la maggioranza della gente". Io penso al quintetto La trota e la musica fluisce nella mia mente. La mia respirazione diventa regolare e il mio passo va a tempo.

La chiave scivola nella serratura dello sportello della macchina con la massima facilità, adesso che ho la musica giusta. Il sedile è piacevolmente tiepido e il vello che lo ricopre è soffice e comodo. Dapprima mi contentavo di un vello artificiale, ma appena ho ricevuto il primo stipendio mi sono comprato una vera pelle di pecora.

Mentre vado al lavoro lascio che la musica mi accompagni attraverso gli incroci, i semafori, gli ingorghi. Infilo i cancelli del campus, come lo chiamano. Il nostro edificio è a destra: mostro la mia tessera al guardiano del parcheggio e mi fermo nel mio spazio preferito. Ho sentito persone che lavorano in altri edifici lamentarsi perché non riescono a parcheggiare nei posti che preferiscono, ma qui da noi questo non succede mai: nessuno prenderebbe mai il mio posto, né io prenderei mai quello degli altri. Dale è alla mia destra e Linda alla mia sinistra; di fronte ho Cameron.

Sono ancora irritato con la dottoressa Fornum come succede ogni quadrimestre, perciò non vado subito a lavorare ma mi dirigo alla nostra palestra. Rimbalzare mi farà bene, mi fa sempre bene. Non c’è nessuno, perciò appendo il cartello alla porta e metto su la musica adatta.

Nessuno viene a interrompermi mentre rimbalzo. La spinta energica del trampolino seguita da una sospensione senza peso mi fa sentire leggero, mi rilassa e mi rasserena. Quando sento ritornarmi la concentrazione rallento i rimbalzi e infine scendo dal trampolino.

Nessuno m’interrompe nemmeno mentre mi dirigo verso la mia scrivania. Credo che ci siano anche Linda e Bailey, ma non ci faccio caso. Più tardi possiamo andare insieme a mangiare, ma non adesso. Adesso sono pronto a lavorare.

I simboli sui quali lavoro appaiono confusi e privi di significato a molta gente. È difficile spiegare ciò che faccio, però io so che si tratta di un lavoro importante perché mi pagano abbastanza da potermi permettere un appartamento e un’automobile, mentre la ditta mi fornisce la palestra e le visite quadrimestrali della dottoressa Fornum. Fondamentalmente io identifico schemi, andamenti: alcuni hanno nomi bizzarri e molte persone non riescono facilmente a riconoscerli, mentre per me è facilissimo. L’unica cosa di cui devo preoccuparmi è d’imparare il modo migliore per descriverli, così da renderli chiari anche agli altri.

Indosso gli auricolari e scelgo una musica. Per questo particolare lavoro Schubert è troppo fiorito; Bach invece è perfetto, i suoi schemi limpidi e complessi rispecchiano quelli di cui ho bisogno. Lascio che la parte della mia mente che genera e identifica gli schemi si concentri su questa particolare ricerca, e allora è come vedere cristalli di ghiaccio formarsi sulla superficie di un’acqua immota: una dopo l’altra le strutture di ghiaccio crescono, si ramificano, s’intrecciano… e a me non resta che fare attenzione e badare che lo schema rimanga simmetrico o asimmetrico a seconda delle esigenze di ogni singola ricerca.

Quando la vista comincia ad annebbiarmisi, mi lascio andare sullo schienale della poltrona. Ho lavorato per cinque ore filate e non me ne sono accorto. Al di sopra della mia scrivania una banderuola ondeggia pigramente nella corrente del sistema di ventilazione. Soffio e dopo un momento comincia a girare più in fretta, in un occhieggiare di viola e d’argento nella luce. Decido di accendere il mio ventilatore, così che tutte le girandole, banderuole e spirali possano mettersi in moto contemporaneamente, colmando il mio ufficio di luccichii tremolanti.

Quasi subito però sento Bailey che dal vestibolo chiama: — Chi vuole una pizza? — Ho immediatamente una gran fame. Spengo il ventilatore, do un ultimo sguardo ai bagliori multicolori che si vanno arrestando ed esco nell’atrio. Una breve occhiata ai visi dei miei amici mi fa capire subito chi verrà e chi no. Non abbiamo bisogno di parlare, ci conosciamo molto bene.

Entriamo nella pizzeria alle nove circa: io, Linda, Bailey, Eric, Dale e Cameron. Anche Chuy voleva venire, ma qui i tavoli hanno solo sei posti e nessuno di noi vuol sedersi da solo a mangiare a un altro tavolo. Noi ci fermiamo sempre allo stesso tavolo, e ci sistemiamo secondo un ordine stabilito: Dale, per esempio, ha all’occhio un tic che infastidisce Linda, perciò lei siede dove non può vederlo. Io penso invece che sia divertente, quindi mi metto alla sinistra di Dale e così ho l’impressione che lui mi strizzi l’occhio.

La gente che lavora qui ci conosce. Anche quando altri clienti ci fissano troppo a lungo a causa del modo in cui ci muoviamo o parliamo (o non parliamo), non ci rivolgono mai quelle occhiate ostili che mi sono visto lanciare in altri ristoranti. Linda si limita a indicare sul menù quello che desidera, oppure talvolta scrive l’ordinazione su un foglietto, così non la seccano mai con domande.

Stasera il nostro tavolo preferito non è stato ancora sparecchiato. Aspettiamo, cercando di avere pazienza, mentre Ciao-Sono-Sylvia (così è stampato su una targhetta che lei porta sul petto) fa cenno a un inserviente di sgombrare tutto. A me la cameriera è simpatica e riesco perfino a ricordarmi di chiamarla Sylvia senza guardare la targhetta. Ciao-Sono-Sylvia ci sorride sempre e cerca di aiutarci. In questo locale non veniamo mai il giovedì, perché quel giorno la cameriera di servizio è Ciao-Sono-Joan. Lei non ha simpatia per noi e si mette a brontolare appena ci vede. Certe volte uno di noi va a ordinare per tutti: l’ultima volta che lo feci io, Ciao-Sono-Joan disse a uno dei cuochi, mentre me ne andavo: — Almeno non si è portato dietro tutti quegli altri picchiatelli. — Sapeva che la sentivo, voleva che la sentissi. In questo locale è l’unica che ci tratta così.

Questa sera però ci sono solo Ciao-Sono-Sylvia e Tyree, che sta raccogliendo le stoviglie e le posate sudicie come se la cosa non lo disturbasse. Tyree non porta targhetta perché è addetto solo alle pulizie.

— Mi sbrigo subito — dice. — State tutti bene?

— Benissimo — risponde Cameron. Sta dondolandosi appena tra la punta e il calcagno dei piedi. Lo fa sempre un poco, ma osservo che stavolta si dondola a un ritmo leggermente più affrettato del solito.

Guardo una scritta pubblicitaria della birra che occhieggia contro la vetrina. S’illumina in tre segmenti separati, rosso e verde alle estremità e poi blu nel mezzo; quindi si spegne e ricomincia. Acceso il rosso, acceso il verde, acceso il blu, poi accesi tutti e tre, poi spenti, poi di nuovo acceso il rosso eccetera. Lo schema è ridicolmente semplice e i colori non sono molto gradevoli (il rosso per esempio è troppo arancione), però è sempre uno schema da considerare.

— Il loro tavolo è pronto — dice Ciao-Sono-Sylvia, e io cerco di non sobbalzare mentre distolgo gli occhi dalla scritta della birra.

Prendiamo posto intorno al tavolo nel solito modo e sediamo. Ordiniamo le stesse cose che mangiamo sempre ogni volta che veniamo qui, perciò ci vuol poco a fare le ordinazioni. Aspettiamo l’arrivo del cibo senza parlare, perché ognuno di noi, a modo suo, si sta adeguando alla situazione. Siccome sono reduce dalla visita alla dottoressa Fornum, osservo più acutamente del solito i dettagli del procedimento. Linda sta picchiettando le dita sulla parte convessa del suo cucchiaio secondo uno schema complesso che renderebbe un matematico beato quanto sta rendendo beata lei. Io continuo a guardare la scritta della birra con la coda dell’occhio, e così fa anche Dale. Cameron sta agitando il minuscolo dado di plastica che tiene in tasca, abbastanza discretamente da non farsi notare da chi non lo conosca, ma io vedo il movimento ritmico della sua manica. Anche Bailey guarda la scritta della birra. Eric si è tolto di tasca la sua penna multicolore e sta disegnando piccole figure geometriche sulla tovaglietta di carta. Dapprima in rosso, poi in viola, poi in azzurro, poi in verde, poi in giallo, poi in arancione; quindi si torna al rosso. A Eric piace quando il cibo arriva proprio alla fine di una delle sue sequenze di colore.

Questa volta le bevande arrivano quando lui è al giallo, e le pizze quando è all’arancione. Il viso di Eric si rilassa.

A noi è vietato parlare fuori del campus dei lavori che svolgiamo; ma Cameron sta ancora dondolandosi sulla sedia con aria impaziente quando abbiamo quasi finito di mangiare: è evidente che vuole informarci del problema che ha risolto. Mi guardo intorno. Nessun tavolo accanto al nostro è occupato. — Procedi — dico.

Cameron estrae dalla tasca un prospetto e lo spiega sul tavolo. Ci è vietato anche portar fuori documenti dal campus, per paura che possano cadere in mani sbagliate, però è una cosa che facciamo tutti. Molte volte è arduo parlare, mentre è tanto più facile scrivere ciò che si vuole spiegare o fare un disegno.

Sul prospetto riconosco gli schemi che Cameron ha collegato con una ricursione parziale che ha l’eleganza sobria di molte delle sue soluzioni. Tutti quanti li guardiamo e facciamo cenno di sì con la testa. — Molto bello — dice Linda. Le sue mani accennano un movimento di lato. Se fossimo al campus agiterebbe le braccia a mulinello, ma qui lei cerca di non farlo.

— Davvero — assente Cameron, e rimette in tasca il prospetto.

So che questo scambio di opinioni tra noi non piacerebbe alla dottoressa Fornum. Lei avrebbe voluto che Cameron spiegasse il prospetto, benché il suo significato sia chiaro a tutti noi; avrebbe voluto che noi facessimo domande, commentassimo, parlassimo del lavoro. Invece non c’è proprio nulla di cui parlare: tutti noi abbiamo visto perfettamente qual era il problema e sappiamo che la soluzione di Cameron è ottima sotto tutti i punti di vista. Qualunque altra aggiunta sarebbe solo fiato sprecato, e tra noi questo proprio non è necessario.

— Io mi stavo chiedendo quale sia la velocità del buio — dico abbassando gli occhi. Tutti si volgeranno a me, anche se per poco, e non voglio vedermi addosso i loro sguardi.

— Non ha una velocità — risponde Eric. — È solo uno spazio dove non c’è la luce.

— Cosa succederebbe se uno mangiasse una pizza in un mondo con una gravità maggiore di uno?

— Non lo so — dice Dale con aria preoccupata.

— La velocità della non conoscenza — commenta Linda.

Cerco d’interpretare ciò che lei ha voluto dire e ci riesco. — La non conoscenza si espande più velocemente della conoscenza — dico. Linda sorride e fa cenno di sì con la testa. — Quindi la velocità del buio potrebbe essere maggiore di quella della luce. Se davvero deve esserci sempre buio intorno alla luce, il buio deve trovarsi là prima della luce.

— Adesso voglio andare a casa — dice Eric. La dottoressa Fornum probabilmente vorrebbe che io gli domandassi se si è annoiato, ma io so che non lo è: vuole andare a casa perché è l’ora del suo programma favorito in TV. Ci salutiamo e io ritorno al campus. Voglio guardare ancora le mie girandole e le mie spirali occhieggiare per un poco, prima di tornare a casa a dormire.


Io e Cameron siamo in palestra e ci scambiamo qualche parola mentre rimbalziamo sui trampolini. Abbiamo fatto molto buon lavoro negli ultimi giorni e ci stiamo rilassando.

Joe Lee entra e io guardo Cameron. Joe Lee ha solo ventiquattro anni e sarebbe stato uno di noi se non gli fossero stati fatti i trattamenti che sono stati sviluppati troppo tardi per aiutarci. Lui pensa di essere uno di noi perché sa che lo sarebbe stato e possiede alcune delle nostre caratteristiche: infatti, per esempio, è molto bravo nelle astrazioni e nelle incursioni, gli piacciono alcuni dei nostri giochi, gli piace la nostra palestra. Però è assai più bravo nell’abilità d’interpretare i pensieri e le espressioni: i pensieri e le espressioni dei normali, intendo. Non sa farlo bene con noi, che siamo dopo tutto i suoi affini più stretti.

— Ciao, Lou — mi dice. — Ciao, Cam. — Vedo Cameron irrigidirsi. Lui odia sentir accorciare il suo nome e lo ha detto parecchie volte a Lee, che però se ne dimentica perché passa troppo tempo con i normali.

— Avete sentito? — domanda Joe Lee, e continua senza aspettare una risposta. — Qualcuno sta elaborando una procedura per annullare l’autismo. Pare abbia funzionato con i ratti e adesso la stanno provando sui primati. Scommetto che tra non molto voi ragazzi potrete diventare normali come me.

Joe Lee ha sempre detto che lui è uno di noi, ma le sue parole rivelano chiaramente che non lo ha mai creduto davvero. Noi siamo "voi ragazzi" e i normali sono "come me".

Cameron si acciglia e posso quasi sentire il groviglio di parole che gli gonfia la gola e che gli rende impossibile parlare. Parlerò io.

— Quindi tu ammetti di non essere uno di noi — dico, e Joe Lee sobbalza mentre il suo viso assume un’espressione che, mi hanno detto, significa "essere contrariati".

— Come puoi dire una cosa simile, Lou? Sai bene che è solo il trattamento…

— Se tu restituisci l’udito a un bambino sordo, lui non apparterrà più alla categoria dei sordi — dico. — E se fai questo abbastanza presto, lui non sarà stato mai sordo. — La mia voce adesso si è fatta fredda e meccanica. Da come la sento io potrebbe sembrare che sono adirato, invece ho solo paura, paura di non farmi capire. — Tu sei stato curato prima che nascessi, Joe. Non hai vissuto neanche un giorno come uno di noi.

— Ti sbagli — dice lui, interrompendomi. — Dentro sono proprio come voi, tranne che…

— Tranne ciò che ti rende diverso dagli altri, quelli che chiami normali — dico io, interrompendo a mia volta. La signorina Finley, una delle mie terapiste, mi dava schiaffetti sulle mani quando interrompevo. Io però non posso sopportare che Joe continui a dire cose che non sono vere. — Tu potevi sentire e interpretare il linguaggio dei suoni, hai imparato a parlare normalmente. I tuoi occhi vedevano normalmente.

— Sì, ma il mio cervello lavora come il vostro.

Scuoto la testa. Joe Lee dovrebbe saperlo, glielo abbiamo spiegato tante volte. I problemi che noi abbiamo con la vista, l’udito e gli altri sensi non dipendono dai singoli organi ma dal cervello. Quindi il cervello di chi non ha i nostri problemi non lavora allo stesso modo del nostro.

— Però io faccio lo stesso lavoro…

Neanche questo è vero, anche se lui lo crede. Le soluzioni di Joe sono lineari; talvolta possono essere davvero efficaci, ma talvolta… Vorrei dire questo, ma taccio perché lui sembra così irritato e addolorato.

— Venite, su — dice dopo un poco. — Venite a fare uno spuntino con me, tu e Cam. Offro io.

— Non posso, ho un appuntamento — dice Cameron. Sospetto che abbia appuntamento con un suo amico giapponese col quale gioca a scacchi. Joe Lee si volge a guardarmi.

— Spiacente — mi ricordo di dire. — Io ho una riunione. — Sento il sudore scorrermi sulla schiena e spero che Joe Lee non mi domandi quale riunione. Se dovessi rispondergli con una bugia mi sentirei depresso per giorni e giorni.


Gene Crenshaw sedeva su una vasta poltrona a un capo del tavolo; Pete Aldrin, come gli altri, sedeva su una comune sedia lungo uno dei lati. Era tipico, pensò Aldrin: lui convocava riunioni perché così poteva far vedere quanto era importante nella sua poltrona. Era la terza riunione in quattro giorni, e Aldrin aveva sulla scrivania un sacco di lavoro arretrato che non riusciva a smaltire a causa delle riunioni. Gli altri si trovavano nella stessa situazione.

L’argomento del giorno era la negatività che regnava nell’ambiente di lavoro: per negatività s’intendeva qualunque disaccordo con Crenshaw. Tutti dovevano invece "afferrare la visione" (la visione di Crenshaw) e concentrarsi su di essa tralasciando qualunque altra cosa. Inutile fare appello alla democrazia: loro erano uomini d’affari, non membri di un partito. Crenshaw ripeté questa dichiarazione diverse volte, poi si riferì come esempio al gruppo di Aldrin, noto nell’ambiente come sezione A, come a un modello di scarso funzionamento.

Aldrin si sentì bruciare lo stomaco e salire in bocca un sapore amaro. La sezione A aveva una produttività impeccabile, e nella sua cartella personale c’erano parecchi encomi che lo dimostravano. Come poteva Crenshaw pensare che non funzionasse?

Prima che lui potesse obiettare, Madge Demont parlò. — Vedi, Gene, in questo dipartimento abbiamo sempre fatto un lavoro di gruppo. Adesso arrivi tu e ignori completamente la tecnica di lavoro comunitario che abbiamo adottato e che va bene per noi…

— Io sono un capo nato — dichiarò Crenshaw. — Il mio profilo mostra che sono strutturato per essere un capitano, non un membro dell’equipaggio.

— Il lavoro di gruppo è sempre importante — disse Aldrin. — Anche i capi devono imparare come lavorare con gli altri…

— Non è questa la mia specialità — rispose Crenshaw. — Io sono particolarmente capace d’ispirare gli altri e fornire loro una guida ferma.

La sua capacità, pensò Aldrin, era di fare il tiranno senza averne guadagnato il diritto, ma Crenshaw era fortemente raccomandato dalle alte sfere. Tutti loro sarebbero stati licenziati molto prima di lui.

— I tuoi dipendenti devono rendersi conto che non hanno alcuna particolare importanza per la nostra compagnia — riprese Crenshaw rivolto a lui. — È loro dovere uniformarsi, dedicarsi a eseguire il lavoro che sono pagati per fare…

— Noi abbiamo un obbligo contrattuale — ribatté Aldrin. — Secondo i termini del contratto, dobbiamo fornire loro un ambiente lavorativo favorevole alle loro peculiarità.

— E lo facciamo, no? — sbottò irritato Crenshaw. — E con grande spesa, anche. Palestra privata, sistema sonoro, parcheggio, ogni genere di giocattoli… Io sono certo che anche ad altri bravi lavoratori piacerebbe avere una palestra privata; invece fanno il loro lavoro senza lamentarsi.

— Lo fa anche la sezione A — puntualizzò Aldrin. — Il loro indice di produttività…

— È adeguato, ammettiamolo. Ma se impiegassero il loro tempo a lavorare senza perderlo a baloccarsi, potrebbe migliorare di molto.

Aldrin sentì un gran calore salirgli al collo. — La loro produttività non è soltanto adeguata, Gene, è straordinaria. I dipendenti della sezione A, presi uno per uno, sono più produttivi dei membri di qualsiasi altro dipartimento…

— Pete, io so che hai un fratello maggiore affetto da autismo — lo interruppe Crenshaw con voce falsamente gentile. — Comprendo i tuoi sentimenti, ma devi renderti conto che siamo nel mondo reale e non all’asilo. I tuoi problemi familiari non possono influenzare la politica aziendale.

Aldrin avrebbe tanto voluto afferrare la brocca dell’acqua e lanciarla sulla testa di Crenshaw, ma non era il caso. Nulla avrebbe potuto convincerlo che le sue ragioni per ergersi a campione della sezione A non avevano nulla a che vedere col fatto che aveva un fratello autistico. Anzi: al principio aveva quasi rifiutato di lavorare là a causa di Jeremy. Ricordava la sua infanzia contristata dalle collere incoerenti del fratello e dal ridicolo di cui lo coprivano i compagni perché aveva un fratello "pazzo e cretino". Quando aveva lasciato la sua casa, aveva giurato che sarebbe vissuto solo tra persone sane e normali per tutta la vita.

Adesso invece era proprio la differenza tra Jeremy e gli uomini e le donne della sezione A che lo rendevano pronto a difenderli. Talvolta gli era ancora difficile osservare quello che avevano in comune con Jeremy e non rabbrividire; però, lavorando con loro, si sentiva meno colpevole per il fatto che non vedeva Jeremy e i suoi genitori più di una volta l’anno.

— Ti sbagli, Gene — disse a Crenshaw. — Se cercherai di togliere alla sezione A gli elementi di supporto, costerai alla compagnia una perdita di produttività maggiore del guadagno. Noi dipendiamo dalle loro abilità uniche: gli algoritmi di ricerca e l’analisi degli schemi elaborati da loro hanno ridotto i passaggi dalle materie prime al prodotto finito in modo tale da renderci superiori alla competizione…

— Io non lo credo. È tuo dovere mantenere i tuoi dipendenti all’apice della produttività, Aldrin. Vedremo se ne sarai capace. — Seguì una pausa. — Inoltre — riprese Crenshaw — è usato un nuovo studio pubblicato da un laboratorio europeo: ancora sperimentale, ma promettente.

— Un nuovo trattamento?

— Sì. Non ne so molto, tuttavia se si dimostrasse efficace sarebbe interessante. Pare sia capace di rendere normali gli autistici. Se i tuoi dipendenti fossero normali non avrebbero bisogno di tanti lussi.

— Se fossero normali, non potrebbero svolgere il loro lavoro — replicò Aldrin.

— Ma almeno non dovremmo più coccolarli come stiamo facendo.

— In che cosa consiste il trattamento? — chiese Aldrin.

— Oh, credo si tratti di una combinazione tra potenziamenti neurologici e nanotecnologia. — Crenshaw abbozzò un sorrisetto perfido. — Perché non ti documenti, Pete, e me ne fai un rapporto? Se la cosa si dimostrasse valida, potremmo perfino acquistare i diritti al trattamento per il Nordamerica.

Aldrin comprese di essere caduto nella trappola: sarebbe stato lui ad apparire colpevole agli occhi della sezione A se le cose si fossero messe male per loro.

— Sai bene che non puoi costringere nessuno a sottomettersi a una cura — disse, sentendosi scorrere il sudore lungo la schiena. — È contrario ai diritti civili della gente.

— Non posso immaginare che a qualcuno piaccia trovarsi in quelle condizioni — disse Crenshaw. — E se a qualcuno piace, sarebbe giustificabile chiedergli di sottoporsi a visita psichiatrica. Chi preferisce essere malato…

— Loro non sono malati - disse Aldrin.

— Handicappati, allora, che tuttavia preferiscono un trattamento speciale a una cura. Ciò farebbe supporre che soffrano di squilibrio mentale, il che costituisce un valido motivo di licenziamento.

Aldrin lottò di nuovo col desiderio di lanciare contro la testa di Crenshaw qualche oggetto contundente.

— Il trattamento potrebbe anche essere utile a tuo fratello.

Era troppo. — Fammi il favore di lasciare in pace mio fratello — sibilò Aldrin tra i denti.

— Su, su, non volevo affliggerti — lo consolò l’altro continuando a sorridere. — Era solo un’idea… — Gli fece un cenno pacificatore e si volse alla prossima vittima. — Adesso, Jennifer, parliamo di quelle scadenze che il tuo gruppo non sta rispettando…

Cosa poteva fare Aldrin? Niente. Cos’avrebbe potuto fare chiunque? Niente. Uomini come Crenshaw salivano in alto perché erano fatti così… almeno a quanto pareva.

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