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Stanno accadendo troppe cose, e troppo in fretta. Sembra quasi che la velocità degli eventi superi quella della luce, ma io so che questo non è oggettivamente vero. "Oggettivamente vero" è una definizione che trovai in uno dei testi on-line che cercavo di leggere. Il testo diceva anche che "soggettivamente vera" è l’impressione che una cosa produce su un individuo. Io adesso ho l’impressione che troppe cose stanno avvenendo tanto in fretta che quasi non si riesce a percepirle. Stanno avvenendo prima che se ne possa prendere coscienza, nel buio che è sempre più veloce della luce perché arriva sempre prima.

Siedo davanti al computer tentando di scoprire uno schema in questa situazione. Scoprire schemi, configurazioni, è la mia capacità maggiore. La fede negli schemi, nell’esistenza degli schemi è apparentemente il mio credo, è parte di ciò che sono.

Quando ero bambino trovai in biblioteca un libro che parlava solo di proporzioni, dalle più piccole alle più grandi. Pensai che era il miglior libro che ci fosse in giro. Non capivo come facessero gli altri bambini a preferire libri privi di struttura, che raccontavano storie di complicati sentimenti e desideri umani. Perché doveva essere più importante leggere la vicenda di un ragazzino immaginario che entrava a far parte di una squadra di calcio altrettanto immaginaria anziché imparare come le stelle marine e le stelle del cielo potevano rientrare nelle stesse configurazioni?

Quello che ero allora pensava che astratti schemi numerici fossero più importanti di astratti schemi di relazioni. I grani di sabbia sono reali, le stelle sono reali. Sapere quali legami li univano mi dava un senso di calore, di sicurezza. Le persone che mi circondavano erano abbastanza difficili, a volte perfino impossibili, da interpretare. I personaggi dei libri mi confondevano ancor peggio.

Quello che sono ora continua a pensare che se le persone fossero numeri sarebbero più facili da capire. Però quello che sono ora sa che le persone non hanno la minima somiglianza coi numeri. Le persone sono persone, complesse e mutevoli, e si combinano in modo diverso tra di loro da un giorno all’altro… perfino da un’ora all’altra. Neppure io sono un numero. Io sono il signor Arrendale per il poliziotto venuto a investigare il danno alla mia macchina e Lou per Danny, benché anche Danny sia un poliziotto. Sono Lou lo schermidore per Tom e Lucia, Lou l’impiegato per il signor Aldrin e Lou l’autistico per Emmy al Centro.

Mi fa venire le vertigini pensare a questo, perché dentro io mi sento una persona sola, non tre o quattro o una dozzina. Io sono lo stesso Lou, quando rimbalzo sul trampolino o sono seduto nel mio ufficio o mentre sto ascoltando Emmy o esercitandomi con Tom o guardando Marjory e sentendo in me quel calore e quel senso di leggerezza. Le impressioni si muovono su di me come la luce e l’ombra su un paesaggio in un giorno di vento. Le colline rimangono le stesse, sia che si trovino nell’ombra delle nuvole o al sole.

Nelle immagini delle nuvole che corrono attraverso il cielo io ho visto uno schema… nuvole che si formano da una parte e si dissolvono nel cielo chiaro dall’altra, dove le colline formano una cresta.

Penso agli schemi nel nostro gruppo di schermidori. Secondo me, è chiaro che chiunque mi abbia rotto il parabrezza questa sera sapeva dove trovare il preciso parabrezza che voleva rompere. Sapeva che io ero lì e sapeva qual era la mia macchina.

Quando penso alle persone che conoscono di vista la mia auto e poi alle persone che sanno dove vado tutti i mercoledì pomeriggio le possibilità si restringono. L’evidenza si contrae fino a diventare una punta che indica un nome. È un nome impossibile, è il nome di un amico. Gli amici non rompono i parabrezza dei loro amici. E poi lui non ha motivo di essere in collera con me, anche se lo è con Tom e Lucia.

Deve trattarsi di qualcun altro. Anche se io sono bravo nell’individuare schemi, anche se ho riflettuto a fondo su questo problema, non posso fidarmi del mio ragionamento quando si tratta di come agisce la gente. Io non capisco le persone normali, perché troppo spesso non si adattano a uno schema razionale. Dev’essere per forza qualcun altro, qualcuno che non è un amico, qualcuno che prova antipatia per me ed è arrabbiato con me. Ho bisogno d’individuare quest’altro schema, lasciando da parte lo schema più ovvio che è impossibile.

Pete Aldrin stava esaminando l’ultimo organigramma della compagnia. Fino a quel momento i licenziamenti erano solo sporadici, non tanto numerosi da attirare l’attenzione dei media, ma almeno metà dei nomi che conosceva non si trovavano più sulla lista. Presto sarebbero cominciate a correre le voci. Betty alle Risorse umane… ha chiesto il pensionamento anticipato. Shirley alla Contabilità…

Il fatto era che lui doveva dare l’idea di essere d’aiuto a Crenshaw, qualunque cosa facesse. Finché pensava di opporglisi, il gelido nodo di paura che gli si formava nello stomaco gli impediva di prendere qualunque iniziativa. Non osava scavalcare Crenshaw. Non sapeva nemmeno se il capo di Crenshaw fosse consapevole dei suoi piani o se questi fossero unicamente farina del sacco di Crenshaw. Non osava confidarsi con nessuno degli autistici: come sapere se capivano l’importanza di mantenere il segreto?

Era sicuro però che Crenshaw non avesse comunicato i suoi progetti ai piani alti. Lui voleva esser considerato un risolutore di problemi, un dirigente lungimirante, uno che governava il suo piccolo impero con efficienza. Non avrebbe fatto domande, non avrebbe chiesto permessi. Il suo piano poteva trasformarsi in un incubo di pubblicità negativa se fosse trapelato; qualcuno dei massimi dirigenti avrebbe potuto accorgersene. Crenshaw però contava sul fatto che non ci fosse alcuna pubblicità, che non ci fossero rivelazioni o pettegolezzi. E ciò non era ragionevole, anche se lui faceva il bello e il brutto tempo nella sua divisione.

E se Crenshaw fosse caduto e Aldrin avesse dato l’impressione di averlo aiutato, allora anche lui avrebbe perso il posto.

Cosa ci sarebbe voluto per trasformare l’intero settore A in un gruppo di soggetti di ricerca? Avrebbero dovuto assentarsi dal lavoro: per quanto tempo? Ci si aspettava che per la loro assenza utilizzassero i periodi di ferie e licenze per malattia, o la compagnia avrebbe concesso una licenza speciale? E se si rendeva necessaria questa licenza, quale influenza avrebbe avuto sui loro stipendi? E sulla loro anzianità di servizio? E come sarebbe stata organizzata la contabilità della sezione… gli autistici sarebbero stati pagati dalla sezione stessa o dall’ufficio Ricerca?

Crenshaw si era forse già messo d’accordo con le Risorse umane, con la Contabilità, con l’ufficio legale, con l’ufficio Ricerca? E che tipo di accordi aveva presi? Non voleva usare il nome di Crenshaw per il momento: voleva vedere che reazione avrebbe suscitato con domande fatte così, in generale.

Shirley era ancora alla Contabilità e Aldrin la chiamò. — Ricordami di quali scartoffie avrò bisogno se qualcuno venisse trasferito a un’altra sezione — esordì. — Lo detraggo dal mio bilancio immediatamente o no?

— I trasferimenti sono stati congelati — annunciò Shirley. — La nuova dirigenza… — Aldrin la sentì trattenere il fiato. — Non hai ricevuto il memorandum?

— Non credo — disse Aldrin. — Dunque… se abbiamo un impiegato che desidera partecipare a un protocollo di ricerca, non possiamo limitarci a trasferire il suo centro di costo alla Ricerca e basta?

— Santo cielo, no! — esclamò Shirley. — Tim McDonough, il capo della Ricerca, ti leverebbe la pelle e l’appenderebbe al muro. — Dopo una pausa chiese: — Quale protocollo di ricerca?

— Qualche nuovo medicinale — rispose lui.

— Ah. Be’, se hai un impiegato che ha di queste fisime, dovrà partecipare come volontario. Il compenso è di cinquanta dollari al giorno per protocolli che richiedono la residenza in clinica e venticinque dollari al giorno per gli altri, con un minimo di duecentocinquanta dollari. Naturalmente coloro che risiedono in clinica ricevono anche vitto, alloggio e medicinali. Io non farei mai la cavia per qualche medicinale a questo prezzo, ma il comitato etico dice che i volontari non devono ricevere incentivi finanziari.

— Be’… però essendo impiegati continuerebbero a ricevere i loro salari?

— Solo se continuassero a lavorare o se dedicassero alla Ricerca il loro periodo di ferie — dichiarò Shirley.

Aldrin si chiese cosa progettasse di fare Crenshaw per gli stipendi e i compensi della Ricerca. Chi finanziava i protocolli? E perché lui non aveva pensato prima a tutto questo? — Grazie, Shirley — si ricordò di dire.

— Buona fortuna — rispose lei.

Quindi, supponendo che il trattamento funzionasse, Aldrin si rese conto di non avere idea di quanto sarebbe durato. Il dato era forse nelle carte che Crenshaw gli aveva fornito? Le trovò e le rilesse con cura. Se Crenshaw non aveva preso qualche accordo particolare per far finanziare dalla Ricerca i salari del settore A, allora stava cercando di trasformare impiegati tecnici anziani in cavie di laboratorio malpagate. E anche se fossero usciti dalla riabilitazione entro un mese (la stima più ottimistica dello schema) ciò avrebbe fatto risparmiare un sacco di soldi. Controllò le cifre. Sì, sembrava un mucchio di soldi, ma in realtà non lo era in paragone ai rischi legali che la compagnia avrebbe corso.

Lui non conosceva nessun pezzo grosso della Ricerca. Tornò alle Risorse umane… Betty era andata… cercò di ricordare qualche altro nome. Paul. Debra. Paul figurava sull’organigramma, Debra no.

— Cerca di sbrigarti — disse Paul. — Finisco domani.

— Finisci?

— Sì, faccio parte di quel famoso dieci per cento — spiegò Paul, e Aldrin percepì la collera nella sua voce. — No, la compagnia non sta perdendo quattrini; no, la compagnia non sta tagliando il personale; succede solo che non ha più bisogno dei miei servigi.

Dita di ghiaccio corsero lungo la spina dorsale di Aldrin. Lui avrebbe potuto trovarsi al posto di Paul nel giro di un mese… no, quel giorno stesso, se Crenshaw si fosse accorto di quanto stava facendo.

— Ti pago un caffè — disse.

— Già, come se mi servisse qualcosa per tenermi sveglio la notte — commentò Paul.

— Paul, senti. Ho bisogno di parlarti, e non al telefono.

Un lungo silenzio, poi: — Oh. Anche tu?

— Ancora no. Allora, caffè?

— Sicuro. Alle dieci e mezza alla tavola calda?

— No, facciamo un pranzo anticipato… alle undici e mezza — decise Aldrin e riappese. Aveva le mani sudate.


— Dunque qual è il grande segreto? — chiese Paul. La sua faccia era totalmente inespressiva. Sedeva ingobbito a un tavolo nel mezzo della tavola calda.

Aldrin avrebbe scelto piuttosto un tavolo d’angolo, ma poi ricordò un film di spionaggio che aveva visto. I tavoli d’angolo potevano essere monitorati. Anzi, a quel che ne sapeva lui, Paul poteva portare un… un microfono. Provò un urto di nausea.

— Andiamo, non sto registrando niente — disse Paul sorseggiando il caffè. — Ma ci noteranno sicuramente se continui a guardarmi a bocca aperta. Diamine, che razza di segreto devi avere.

Aldrin sedette facendo debordare il caffè dalla tazza. — Sai che il mio nuovo capodivisione fa parte delle scope nuove…

— Roba vecchia — disse Paul con voce annoiata.

— Si chiama Crenshaw.

— Un fortunello. E ha una grossa reputazione.

— Sì, be’… ricordi la sezione A?

— Gli autistici, certo. — Paul si fece più attento. — Ce l’ha con loro?

Aldrin annuì.

— È stupido — dichiarò Paul. — Non che Crenshaw non lo sia, ma… la cosa è stupida sul serio. Le nostre facilitazioni fiscali dipendono da loro. E poi, la pubblicità…

— Lo so — disse Aldrin. — Ma lui non ascolta. Dice che costano troppo.

— Secondo lui tutti, lui escluso, costano troppo. E allora, cosa vuol fare, licenziarli? Abbassargli lo stipendio?

— Vuole costringerli a presentarsi volontari per un protocollo di ricerca che riguarda la sperimentazione sugli esseri umani.

Paul fece tanto d’occhi. — Ma stai scherzando! Non può fare una cosa del genere!

— Può. — Dopo una pausa Aldrin continuò: — Dice che non esiste legge che la compagnia non possa eludere.

— Sarà anche vero, ma… non possiamo fregarcene della legge e basta. Sperimentazione umana, eh? Di che si tratta, di qualche medicinale?

— No, di un trattamento per autistici adulti. Si suppone che li renda normali. Pare che abbia funzionato con le scimmie — spiegò Aldrin.

— Non parli sul serio. — Paul aveva sbarrato gli occhi ancora di più. — Accidenti! Stai parlando sul serio! Crenshaw che cerca di trasformare le nostre galline dalle uova d’oro fiscali in cavie per la sperimentazione umana! Ma ne verrà fuori un incubo pubblicitario… qualcosa che potrebbe costare miliardi alla compagnia!

— Questo lo sai tu e lo so anch’io, però Crenshaw vede le cose a modo suo.

— Chi può aver approvato la cosa ai piani alti?

— Che io sappia, nessuno — disse Aldrin facendo mentalmente gli scongiuri. Era la verità, però, perché lui non si era informato.

Paul aveva perso completamente l’aria imbronciata. — A quell’idiota il potere ha dato alla testa — disse. — Crede di poter combinare una cosa del genere e guadagnare punti su Samuelson.

— Samuelson?

— Anche lui scopa nuova. Ma non ti tieni al corrente di quel che succede?

— No. Non sono bravo in queste cose — disse Aldrin.

Paul annuì. — Io pensavo di esserlo, ma questa lettera di licenziamento prova che non lo ero. Comunque: Samuelson e Crenshaw sono entrati qui come rivali. Samuelson ha tagliato i costi di lavorazione senza suscitare commenti da parte della stampa… benché io pensi che questo stato di cose non durerà. Crenshaw dunque deve credere che gli riuscirà un triplo colpaccio: procurarsi dei volontari che avranno troppa paura del licenziamento per lamentarsi in caso qualcosa andasse storto, portare a termine la manovra per conto proprio senza che nessun altro lo sappia e poi accaparrarsi il merito. E se tu non fai qualcosa, Pete, condividerai la sua fine.

Aldrin aveva altre domande da fare. — Ascolta, io non so come lui renderà conto del loro tempo se gli autistici accettano il trattamento. Speravo di avere notizie più precise sul lato legale… può Crenshaw fare in modo che ci si sottopongano cumulando insieme le ferie e le licenze per malattia? Quali sono le regole per gli impiegati speciali?

— Be’, tanto per cominciare ciò che lui si propone di fare è illegale da cima a fondo. Prima di tutto, se la Ricerca ha il minimo sentore che non avrà a che fare con volontari autentici succederanno guai. Loro devono fare i conti con i federali, e figurati se vorranno affrontare una dozzina d’imputazioni per aver contravvenuto all’etica professionale e alle leggi sul lavoro protetto. Poi, se gli autistici si assenteranno dal loro lavoro per più di trenta giorni… e sarà così, no? — Aldrin annuì e Paul continuò: — Allora non si potrà più parlare di ferie, e ci sono regolamenti appositi per le licenze e gli anni sabbatici, specie se si tratta d’impiegati appartenenti alle categorie speciali. Non si può far perdere loro l’anzianità, né il salario… — Paul picchiettò un dito sulla tazza del caffè. — Oh, il reparto Contabilità darà fuori di matto. Non abbiamo alcuna classificazione di costi che contempli impiegati che non lavorino e ricevano ugualmente stipendio pieno. Senza contare che la produttività del tuo reparto andrà al diavolo.

— Ci avevo pensato — mormorò Aldrin.

Paul fece una smorfia ironica. — Tu puoi davvero inchiodare quel tipo — disse. — Io lo so che non posso riavere il mio lavoro, non stando le cose come stanno, ma… mi piacerebbe sapere cosa succederà.

— Avrei intenzione di agire alla chetichella — disse Aldrin. — Capisci… naturalmente sono preoccupato per il mio lavoro, ma questo non è tutto. Lui pensa che io sia stupido, codardo e pigro, tranne quando gli lecco gli stivali, e allora pensa solo che sono un leccapiedi nato. Ho intenzione di brancolare in giro, fingendo di aiutarlo in modo da far scoprire le sue intenzioni.

Paul si strinse nelle spalle. — Non è il mio stile. Io personalmente mi metterei a gridarlo dai tetti. Ma tu sei tu, e se per te va bene così…

— Allora… con chi potrei parlare alle Risorse umane allo scopo di organizzare le licenze per loro? E cosa mi dici dell’ufficio legale?

— Il tuo è un cammino tortuoso e ti prenderà del tempo. Perché non parlare a qualcuno dei grossi calibri? Portati dietro anche tutti i tuoi deficienti, per rendere più drammatica la scena.

— Non sono deficienti, sono autistici — ribatté Aldrin automaticamente. — E io non so cosa succederebbe se sapessero quanto è illegale la situazione in cui vogliono metterli. Sarebbe giusto farglielo sapere, ma se poi si rivolgessero alla stampa o qualcosa del genere? Allora davvero sarebbero guai seri.

— E allora vacci da solo. Potrebbero perfino piacerti le altezze rarefatte della piramide manageriale. — Paul rise un po’ troppo forte, e Aldrin si chiese se non avesse aggiunto qualcosa al caffè.

— Non saprei — disse. — Non credo che mi lascerebbero andare tanto in alto. E Crenshaw verrebbe a saperlo se chiedessi un appuntamento, e poi ricordi quel memorandum sulla catena di comando?

— Ecco quello che ci meritiamo per aver assunto un generale in pensione come dirigente — mormorò Paul.

Ma ormai il locale si stava vuotando, e Aldrin pensò che doveva andare.


Non aveva idee molto chiare sul da farsi. Sperava ancora che forse la Ricerca troncasse il nodo, così lui non avrebbe più dovuto far niente.

Crenshaw gli fece abbandonare l’idea nel tardo pomeriggio. — Bene, ecco il protocollo di ricerca — disse, sbattendo un cubo dati e un fascio di stampati sulla scrivania di Aldrin. — Non capisco perché gli servano tutti questi esami preliminari: ecotomografia, santo cielo, risonanza magnetica eccetera eccetera… Ma loro dicono che ne hanno bisogno e non sono io a dirigere la Ricerca. — Si capiva chiaramente che sottintendeva non ancora.

— Prenota i tuoi ragazzi per le visite e mettiti d’accordo con Barr alla Ricerca per organizzare gli appuntamenti per gli esami.

— Appuntamenti? — chiese Aldrin. — E se s’incrociano con il normale orario di lavoro?

Crenshaw si accigliò, poi fece spallucce. — Diavolo, saremo generosi: non gli faremo rimettere in pari il tempo.

— E per quanto riguarda la Contabilità? Quale centro di costo…

— Per amor del cielo, Pete, limitati a occuparti della faccenda! — Crenshaw era diventato rosso scarlatto. — Cerca di cominciare a risolvere problemi, non a farli spuntar fuori!

— Sta bene — disse Aldrin. Non poteva indietreggiare, stava dietro la sua scrivania; ma dopo un istante Crenshaw fece dietro-front e se ne andò. Risolvere problemi! Li avrebbe risolti, ma non sarebbero stati quelli di Crenshaw.


Non so cosa sono in grado di capire e cosa non capisco nell’illusione di capirlo. Consulto il più elementare testo di neurobiologia che riesco a trovare sulla rete, esaminando prima il glossario. Non mi piace sprecare tempo a trovare definizioni se posso impararle prima. Il glossario è pieno di termini mai visti prima… ce ne sono centinaia. E non capisco neppure le definizioni.

Devo cominciare da un livello ancora più basso.

Un testo di biologia per studenti di liceo: questo dovrebbe essere al mio livello. Esamino il glossario: i termini li conosco, benché molti non li abbia più incontrati da anni. Solo un decimo circa sono nuovi per me.

Comincio il primo capitolo e non incontro difficoltà, anche se molte cose sono diverse da come le ricordavo. Me lo aspettavo, del resto, e la cosa non mi disturba. Finisco il testo prima di mezzanotte.

La sera dopo non guardo il mio spettacolo abituale ma cerco un testo universitario. È troppo semplice, dev’essere stato scritto per studenti che non hanno studiato biologia al liceo. Cerco qualcosa di livello più alto, buttandomi a indovinare. I testi di biochimica mi confondono: devo imparare la chimica organica. Ne cerco un testo su Internet e ne scarico i primi capitoli. Leggo di nuovo fino a tardi, e leggo venerdì dopo il lavoro e mentre faccio il bucato.

Sabato abbiamo la riunione al campus. Non mi aspettavo di trovarlo affollato nel fine settimana quasi come in una giornata lavorativa normale.

Trovo le macchine di Cameron e di Bailey già lì quando arrivo; gli altri non ci sono ancora. Trovo la sala della riunione. Ha pareti tappezzate in finto legno e moquette verde. Contiene due file di sedie con sedili e schienali imbottiti di stoffa rosa fronteggianti una parete della sala. Sulla porta c’è una persona che non conosco, una donna giovane: porta in mano una scatola di cartone contenente targhette con nomi. Ha una lista con piccole fotografie. Mi guarda e dice il mio nome. — Ecco, questa è la sua — dice tendendomi una targhetta fornita di clip. La tengo in mano. — La metta — mi invita lei. Non mi piacciono queste clip, mi tirano la camicia; comunque metto la targhetta ed entro.

Gli altri stanno seduti sulle sedie. Su ognuna di quelle vuote c’è una cartella con un nome sopra. Trovo la mia. Non ne sono contento: mi hanno piazzato in prima fila a destra. Potrebbe essere maleducato da parte mia cambiare posto. Do un’occhiata alla fila e vedo che ci hanno disposti in ordine alfabetico dal punto di vista di chi ci parlerà stando di fronte a noi.

Quando siamo arrivati tutti sediamo in silenzio per due minuti e quaranta secondi. Poi sento la voce del signor Aldrin. — Sono tutti qui? — chiede alla donna sulla porta. Lei risponde di sì.

Lui entra. Ha l’aria stanca ma sembra normale. Porta una camicia di maglia e calzoni e scarpe avana. Ci sorride, ma il suo è solo un mezzo sorriso.

— Sono contento di vedervi tutti qui — dice. — Tra pochi minuti il dottor Ransome vi spiegherà su cosa si basa questa ricerca. Nelle vostre cartelle ci sono questionari sulla vostra storia sanitaria: per favore, riempiteli mentre aspettate. E firmate anche la clausola di riservatezza.

I questionali sono semplici, a multipla scelta piuttosto che con spazi vuoti da riempire. Ho quasi finito il mio quando la porta si apre ed entra un uomo in camice bianco, col nome DR RANSOME ricamato in rosso sul taschino. Ha capelli grigi ricciuti e occhi azzurri luccicanti. Il suo viso sembra troppo giovane per quei capelli grigi. Anche lui ci sorride.

— Benvenuti — dice. — Sono contento di conoscervi. Ho saputo che siete tutti interessati a questo test clinico, eh? — Non aspetta una nostra risposta. — Sarò breve — continua. — Oggi del resto parleremo solo di quanto riguarda il protocollo, degli appuntamenti per gli esami e così via. Prima di tutto lasciate che vi esponga in breve la storia di questa ricerca.

Parla molto in fretta, consultando un taccuino. Ci spiega delle ricerche sull’autismo, a cominciare dall’inizio del secolo, con la scoperta di due geni associati con disturbi di tipo autistico. Poi passa alla ricerca odierna, sempre cominciando dall’inizio, col lavoro del primo ricercatore sull’organizzazione sociale e la comunicazione tra primati che ha portato alla fine a questo possibile trattamento.

— Questo non è che un breve inquadramento della materia — dice. — Probabilmente è anche troppo per voi, ma dovete scusare il mio entusiasmo. Ne troverete una versione semplificata nelle vostre cartelle, diagrammi inclusi. Essenzialmente ciò che ci proponiamo di fare è normalizzare il cervello autistico e poi rieducarlo in una versione potenziata e più rapida dell’integrazione sensoriale infantile, in modo che la nuova architettura funzioni come si deve. — Fa una pausa, beve qualche sorso d’acqua e continua. — Tanto basta per questa prima riunione. Riceverete gli appuntamenti per gli esami… anche questi dati li troverete nelle cartelle… In seguito ci saranno altri incontri con il personale medico. Consegnate i questionali e gli altri documenti alla signorina alla porta. Se verrete accettati nel protocollo ne sarete informati. — Si volta e se ne va prima che io o qualunque altro possiamo pensare a qualcosa da dire.

Il signor Aldrin si alza e si rivolge a noi. — Consegnate a me i questionari riempiti e firmate la clausola di riservatezza… e non vi preoccupate: nel protocollo sarete accettati tutti.

Non è questo che mi preoccupa. Finisco il questionario, firmo la clausola, consegno tutto al signor Aldrin e me ne vado senza parlare con gli altri. Ho sprecato quasi tutta la mattinata di sabato e voglio tornare alle mie letture.

Ritorno a casa con tutta la rapidità permessa dai limiti di velocità e ricomincio a leggere appena rientrato nell’appartamento. Non mi fermo per fare le pulizie generali in casa e alla macchina, la domenica non vado in chiesa. Faccio stampate di due capitoli da portare con me al lavoro lunedì e martedì, in modo da poterli leggere durante la pausa pranzo. Assimilo le informazioni in forma chiara e organica, i vari schemi disposti ordinatamente in paragrafi, capitoli e sezioni. Nella mia mente c’è posto per tutto.

Per il mercoledì seguente mi sento pronto per chiedere a Lucia cosa dovrei leggere allo scopo di capire come lavora il cervello. Ho fatto i test on-line in biologia prima e seconda, biochimica prima e seconda e chimica organica teorica prima. Ho dato di nuovo un’occhiata al testo di neurologia, del quale adesso capisco molto di più, ma non sono sicuro che sia quello più adatto a me. Non so quanto tempo mi rimanga e non voglio sprecarlo con il testo sbagliato.

Mi sorprende il fatto che io non mi sia dedicato prima a questo lavoro. Quando ho cominciato a tirare di scherma, ho letto tutti i libri sulla scherma che Tom mi aveva raccomandato e ho guardato tutti i video che potevano essermi d’aiuto. Quando faccio qualche gioco al computer, leggo tutto quel che posso sull’argomento.

Eppure prima di adesso non mi ero mai proposto d’imparare quanto potevo circa il modo di lavorare del mio cervello: non so perché. So che all’inizio tutto mi sembrava molto strano, ed ero quasi sicuro che non sarei stato in grado di assimilare quello che dicevano i testi. Invece mi è stato facile. Credo che avrei potuto prendere una laurea in questo argomento se ci avessi provato; ma i miei consiglieri mi dissero tutti di scegliere matematica applicata e io seguii il loro consiglio. Loro mi dicevano di cosa ero capace e io gli credevo. Non pensavano che io avessi il tipo d’intelligenza necessaria per dedicarmi a un lavoro scientifico. Forse si sbagliavano.

Mostro a Lucia la lista che ho stampato di tutti i testi che ho letto e i risultati conseguiti nei test di valutazione. — Adesso ho bisogno di sapere quale altro testo leggere — dico.

— Lou… mi vergogno di dire che sono sbalordita. — Lucia scuote la testa. — Tom, viene a vedere! In una settimana Lou ha fatto tutto il lavoro necessario per prendere un diploma in biologia.

— Non proprio — lo correggo io. — Io ho studiato una cosa sola, mentre per il diploma in biologia bisogna studiare botanica e altre cose…

— Io veramente stavo pensando alla profondità dei tuoi studi e non alla loro ampiezza — dice lei. — Lou, hai capito davvero la sintesi organica?

— Non so — rispondo. — Non ho fatto nessuna prova in laboratorio. Ma lo schema della sintesi è chiarissimo, il modo in cui gli elementi si uniscono tra loro…

— Lou, mi sai dire perché alcuni gruppi si attaccano a un anello di carbonio adiacente a essi e altri invece devono saltare un carbonio o due?

È una domanda sciocca, penso. È ovvio che il posto al quale i gruppi si attaccano dipende dalla loro configurazione e dalla carica che portano. Le vedo chiarissime nella mia mente, le configurazioni informi con intorno la nuvola della carica positiva o negativa. Ma non dirò a Tom che la domanda è sciocca. Ricordo i paragrafi del testo che spiegavano il fenomeno, ma credo lui voglia sentirmi esprimere con parole mie. Così mi spiego il più chiaramente possibile, senza ricorrere nemmeno a una frase del testo.

— E hai imparato tutto questo dopo aver letto il testo… quante volte?

— Una — dico. — Ma alcuni paragrafi due volte.

— Diavolo — esclama Tom. — Lucia… hai idea di come lavorino duramente tanti studenti per imparare questa roba?

Ma imparare non è duro; è il non imparare che è duro. — È facile vedere queste cose nella propria mente — dico. — E i testi avevano illustrazioni.

— Straordinaria memoria visiva — mormora Lucia.

— Anche con le illustrazioni e con le animazioni in video, la maggior parte degli studenti passa i suoi guai con la chimica organica — mi spiega Tom. — E tu ne hai imparata tanta leggendo testi una volta sola… Lou, tu ci hai imbrogliati. Sei un genio.

— Può trattarsi di un’abilità parziale — dico. Il termine che Tom ha applicato a me mi fa paura. Se lui pensa che io sia un genio, forse non vorrà più farmi esercitare con il gruppo.

— Abilità parziale un corno — insiste Lucia. Pare irritata, e io mi sento piccolo piccolo. — Oh, Lou, non ce l’ho con te… Ma il concetto di abilità parziale è così… antiquato. Ognuno di noi ha punti di forza e debolezze; ognuno di noi ha capacità che si estendono in un campo e non in un altro. Studenti di fisica che prendono voti altissimi in meccanica guidano un’automobile come cani, e così via.

— Comunque io credo che dipenda tutto dalla memoria — dico, ancora inquieto. — Io posso imparare a memoria con grande facilità.

— Spiegare le cose con parole tue non significa imparare a memoria — mi corregge Tom. — Conosco il testo che hai trovato on-line… Sai, Lou, non mi hai mai chiesto cosa faccio per vivere.

Sobbalzo: è vero. Non gli ho mai chiesto che lavoro faccia, non mi viene mai in mente di chiedere alla gente che lavoro fa. Ho conosciuto Lucia alla clinica, perciò so che è medico; ma Tom?

— Che lavoro fai?

— Insegno all’università — dice. — Ingegneria chimica.

— Sei un insegnante? — chiedo.

— Già. Ho due corsi per laureandi e un corso per quelli che aspirano al dottorato. Perciò so cosa pensano gli alunni della chimica organica. E so come ne parlano gli alunni che la capiscono rispetto a quelli che non la capiscono.

— Così tu credi che io la capisca davvero?

— Lou, si tratta della tua mente. Pensi di capirla?

— Credo di sì, ma non sono sicuro di aver ragione.

— Anch’io credo di sì. E non ho mai conosciuto nessuno che l’abbia imparata tanto a fondo in meno di una settimana. Ti hanno mai sottoposto a un test d’intelligenza, Lou?

— Sì. — Non desidero parlarne. Mi hanno sottoposto a test di tutti i tipi, dove si trattava per lo più d’indovinare cosa volesse chi aveva inventato il test medesimo.

— E ti hanno comunicato i risultati, o li hanno comunicati solo ai tuoi genitori?

— Non li hanno comunicati nemmeno ai miei genitori — dico. — Mia madre ne fu irritata. Le dissero che non volevano deludere le sue aspettative sul mio conto. Però ci assicurarono che sarei stato in grado di prendere un diploma.

— Lou, chi ha i tuoi risultati scolastici e quelli dei tuoi test clinici? — domanda Lucia.

— Non lo so — rispondo. — Forse… le scuole della mia città? I dottori? Io non ci sono più ritornato da quando i miei genitori sono morti.

— Chiunque li abbia, tu adesso dovresti essere in grado di farteli dare. Se vuoi, naturalmente.

Altra cosa alla quale non avevo mai pensato. Le persone hanno l’abitudine di richiedere i propri attestati scolastici e le cartelle cliniche dopo che sono cresciute e se ne sono andate? Io però non so se desidero sapere esattamente cosa c’è scritto in quegli attestati. E se dicessero di me più male di quanto ricordo?

— Comunque — continua Lucia — credo di sapere qual è il testo che ti conviene leggere ora. È un po’ vecchiotto, ma non contiene nessun errore, anche se le nostre conoscenze si sono ampliate molto da allora. Si intitola Funzioni del cervello, di Cego e Clinton. Io ne ho una copia, credo. — Esce dalla stanza e io cerco di pensare a tutto ciò che hanno detto lei e Tom. È troppo: la mia testa ronza di pensieri come fotoni rapidissimi che mi rimbalzano contro le pareti del cranio.

— Ecco, Lou — dice Lucia porgendomi un libro. È pesante, un grosso volume di carta con una copertina di tela. Il titolo e i nomi degli autori sono stampati in oro su un rettangolo nero sul dorso. È passato davvero molto tempo dall’ultima volta che ho visto un libro di carta. — A quest’ora probabilmente si troverà anche on-line, ma non so dove. Io lo comprai quando cominciai a studiare medicina. Dagli un’occhiata.

Apro il libro. La prima pagina è bianca. La seconda reca il titolo, gli autori: Betsy R. Cego e Malcolm R. Clinton, poi uno spazio vuoto e in fondo il nome dell’editore e una data. Ancora un’altra pagina col titolo e i nomi degli autori. Poi una pagina col titolo Prefazione. Comincio a leggere.

— Quella puoi saltarla, e anche l’introduzione — dice Lucia. — Voglio vedere se il testo vero e proprio ti è comprensibile.

Perché gli autori avrebbero dovuto mettere nel libro qualcosa che la gente può non leggere? A cosa servono la prefazione e l’introduzione? Non voglio discutere con Lucia, ma a me sembra che dovrei leggere per prime quelle parti proprio perché vengono prima. Per ora comunque sfoglio le pagine finché trovo il capitolo 1.

Non è di difficile lettura, e lo capisco bene. Quando alzo gli occhi, dopo una decina di pagine, Tom e Lucia mi stanno guardando. Mi sento arrossire. Li avevo completamente dimenticati nel leggere. Non è educato dimenticarsi della gente.

— Tutto bene, Lou? — chiede Lucia.

— Mi piace — dico.

— Splendido. Portatelo a casa e tienilo per tutto il tempo che vuoi. Per e-mail ti trasmetterò qualche altro riferimento che so che si trova on-line. Ti va?

— Grazie — dico. Vorrei continuare a leggere, ma sento da fuori uno sportello d’auto che sbatte e so che è venuto il momento di dedicarmi alla scherma.

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