10

Il signor Aldrin mi guarda a occhi spalancati. Infine parla: — Non so che dire, Lou, perché non so esattamente in che cosa consista il trattamento o quali potrebbero esserne gli effetti se venisse applicato a persone che non sono autistiche.

— Non può nemmeno…

— E poi… poi non credo che dovrei parlare di questo argomento. Aiutare voi è un conto… — Finora non ci ha aiutati: mentirci non significa esserci d’aiuto. — Ma fare supposizioni su qualcosa che non esiste, pensare che la compagnia abbia in mente qualche attività a largo raggio che potrebbe… che si potrebbe considerare come… — S’interrompe e scuote la testa senza concludere la frase. Noi lo fissiamo tutti. I suoi occhi luccicano come se lui stesse per piangere.

— Non sarei dovuto venire — dice dopo un poco. — È stato un grave errore. Pagherò la cena, ma adesso devo andarmene.

Spinge indietro la sedia e si alza. Lo vedo passare alla cassa. Nessuno di noi dice parola finché non lo vediamo uscire dalla porta della pizzeria.

— È pazzo — dice Chuy.

— Ha paura — corregge Bailey.

— Ma non ci ha aiutati davvero — dice Linda. — Non so perché si sia disturbato…

— Suo fratello — dice Cameron.

— Qualcosa che noi abbiamo detto lo ha turbato molto più del signor Crenshaw o di suo fratello — deduco io.

— Lui sa qualcosa che non vuole farci sapere. — Linda con un gesto brusco getta all’indietro i capelli.

— Non vuole saperlo neanche lui — dico io. Non so perché penso questo, ma lo credo davvero. Si tratta di qualcosa che noi abbiamo detto. Ho bisogno di capire cos’era.

— C’era qualcosa tempo addietro, all’inizio del secolo — dice Bailey. — In una rivista scientifica, qualcosa su come far diventare le persone quasi autistiche in modo che lavorassero di più.

— Era una rivista scientifica o una rivista di fantascienza? — chiedo.

— Era… ma aspetta, la ritroverò. Conosco qualcuno che sa di cosa si tratta.

— Non impostare la ricerca dall’ufficio — dice Chuy.

— Perché? Oh… sì — annuisce Bailey.

— Domani pizza di nuovo — dice Linda. — Venire qui è normale.

Apro la bocca per dire che il martedì è il mio giorno per fare la spesa, ma la richiudo. Questa faccenda è più importante della spesa; ne posso fare a meno per una settimana o farla un altro giorno.

— Ognuno di noi guardi cosa può trovare sull’argomento — dice Cameron.

A casa, invio un’e-mail a Lars. Dove si trova lui è molto tardi, ma lo trovo ancora sveglio. Vengo a sapere che la ricerca originale è stata fatta in Danimarca, ma che l’intero laboratorio, con l’attrezzatura e tutto, è stato acquistato e la base della ricerca adesso è stata spostata a Cambridge. La relazione che io lessi qualche settimana fa era basata su una ricerca condotta più di un anno prima. Il signor Aldrin aveva ragione. Lars pensa che la maggior parte del lavoro da fare per rendere i trattamenti compatibili con gli esseri umani sia stata già fatta, e insinua qualcosa su esperimenti condotti in segreto dai militari. Questa è una sua mania: Lars vede esperimenti segreti condotti dai militari dappertutto.

Martedì al lavoro non ci parliamo affatto tranne che per augurarci il buongiorno o il buon pomeriggio. Dopo il lavoro ritorniamo alla pizzeria. — Due sere di seguito! — dice Ciao-Sono-Sylvia. Non riesco a capire sé ne è contenta o no. Prendiamo il nostro solito tavolo al quale ne accostiamo un altro in modo che ci sia posto per tutti.

— E allora? — dice Cameron dopo che abbiamo fatto le ordinazioni. — Cos’abbiamo trovato?

Riferisco al gruppo quel che mi ha detto Lars. Bailey ha trovato il testo del vecchio articolo, il quale chiaramente appartiene alla fantascienza e non alla scienza. Non avevo mai saputo che le riviste scientifiche pubblicassero anche fantascienza, ma pare che lo abbiano fatto solo per un anno.

— Si supponeva che questo trattamento facesse sì che le persone si concentrassero totalmente sul loro lavoro e non perdessero tempo in altre cose — dice Bailey.

— Il signor Crenshaw crede che noi perdiamo tempo? — domando.

Bailey annuisce.

— Noi però non perdiamo tanto tempo quanto ne perde lui andando sempre in giro con una faccia rabbiosa — dice Chuy.

Ridiamo tutti, ma sottovoce.

— L’articolo dice in che modo funzionava il trattamento? — chiede Linda.

— All’incirca — dice Bailey. — Ma non sono certo che l’ipotesi si basi su un principio davvero scientifico. E poi l’articolo risale a decine e decine di anni fa. Quel che allora si credeva che funzionasse può essersi rivelato fasullo più tardi.

— Loro non vogliono persone autistiche come noi — dice Eric. — Volevano… o la storia dice che volevano… doti e concentrazione da fenomeno vivente, ma senza effetti secondari. Se ci paragoniamo a fenomeni viventi, noi certo perdiamo parecchio tempo… anche se non quanto crede il signor Crenshaw.

— Anche le persone normali perdono un sacco di tempo in attività non produttive — dice Cameron. — Almeno quanto noi, se non di più.

— E cosa ci vorrebbe per fare un fenomeno vivente di una persona normale senza i problemi accessori? — domanda Linda.

— Non lo so — dice Cameron. — Tanto per cominciare, la persona dovrebbe essere già parecchio intelligente, e brava a fare qualcosa. Poi dovrebbe desiderare di fare quella cosa a esclusione di qualsiasi altra.

— Infatti, non servirebbe a niente se la persona volesse far qualcosa che non è brava a fare — dice Chuy. Io immagino una persona decisa a diventare musicista e che sia stonata e priva di senso del ritmo: ridicolo! Vediamo tutti il lato buffo della cosa e ridiamo.

— Ma alla gente davvero capita di voler fare qualcosa che non sa fare? — chiede Linda. — Alla gente normale, intendo. — Una volta tanto non ha pronunciato il termine normale come se fosse una parolaccia.

Restiamo tutti pensosi per un poco, poi Chuy dice: — Io avevo uno zio che voleva diventare scrittore. Mia sorella, che legge un sacco, diceva che lui proprio non ne era capace. Era pessimo, insomma. Era invece molto dotato per il lavoro manuale, ma voleva scrivere.

— Ecco le pizze — dice Ciao-Sono-Sylvia mettendo giù i piatti fumanti. Sorride, ma ha l’aria stanca e non sono ancora le sette.

— Grazie — dico, e lei fa un cenno di saluto e se ne va.

— Qualcosa che impedisca alla gente di distrarsi — Bailey torna all’argomento principale. — Qualcosa che renda loro gradevoli le cose giuste.

— La distraibilità è determinata dalla sensibilità sensoriale a ogni livello di elaborazione, e dalla forza dell’integrazione sensoriale — recita Eric. — Queste cose le ho lette. In parte è innata. Il circuito del controllo dell’attenzione si sviluppa assai presto nella vita del feto, ma può venir compromesso da danni ricevuti più tardi…

Provo un senso di nausea, come se qualcosa stesse assalendo il mio cervello in quel momento, ma ignoro quella sensazione. Ciò che ha causato il mio autismo risiede nel passato e io non posso cancellarlo. Ora l’importante non è pensare a me, ma riflettere sul problema.

Per tutta la vita mi hanno detto che sono stato fortunato a nascere nel momento adatto per godere dei benefici degli interventi precoci volti a minimizzare il mio handicap. Sono stato fortunato perfino a nascere troppo presto per la cura definitiva, perché… così dicevano i miei genitori… dover faticare mi ha dato l’occasione di dimostrare la mia forza di carattere.

Ma cos’avrebbero detto se quel trattamento fosse stato disponibile quando io ero bambino? Avrebbero preferito che io fossi di carattere forte o che fossi normale? E accettare il trattamento avrebbe potuto per caso significare che non avevo forza di carattere? O avrei trovato altri ostacoli da sormontare?


Sto ancora pensando a queste cose il pomeriggio seguente, mentre mi cambio e mi dirigo a casa di Tom e Lucia per la lezione di scherma. Che qualità abbiamo noi, da cui altri potrebbero trarre profitto, a parte qualche casuale talento da fenomeno vivente? La maggior parte dei comportamenti autistici ci vengono presentati come handicap, non come capacità. Siamo asociali, manchiamo di abilità comunicativa, siamo deficitari nel controllo dell’attenzione… Non faccio che continuare a ritornare incessantemente su questo pensiero. È difficile riflettere dal punto di vista di una persona normale, ma io sento che questo problema del controllo dell’attenzione è il nucleo dello schema, come un buco nero al centro di un vortice spazio-temporale.

Sono arrivato un po’ presto, ancora nessuna macchina è parcheggiata fuori. In casa, Tom e Lucia stanno ridendo di qualcosa. Nel vedermi entrare mi sorridono, contenti e rilassati. Mi chiedo come sarebbe avere sempre qualcuno in casa, qualcuno col quale ridere. Quei due non ridono sempre, ma paiono felici più spesso del contrario.

— Come stai, Lou? — chiede Tom, come al solito.

— Bene — rispondo. Vorrei chiedere a Lucia qualche chiarimento di tipo medico, ma non so se sia educato da parte mia e non so come cominciare. Trovo un altro argomento. — La settimana scorsa mi hanno tagliato le gomme della macchina.

— Oh, no! — dice Lucia. — Che disastro!

— È successo nel parcheggio del mìo palazzo — spiego. — La macchina stava al solito posto e le ruote erano tutt’e quattro a terra.

Tom fischia. — Una bella spesa — commenta. — C’è molto vandalismo nella tua zona? E hai denunciato la cosa alla polizia?

Alla prima di queste domande non so rispondere. — L’ho denunciata — dico. — Nel mio palazzo abita un poliziotto, e lui mi ha spiegato come fare.

— Bene — dice Tom.

— Il signor Crenshaw si è arrabbiato perché sono arrivato tardi al lavoro — continuo.

— Il nuovo dirigente? — chiede Tom.

— Sì. A lui non piace la nostra sezione… non gli piacciono le persone autistiche.

— Ah, probabilmente lui è… — attacca Lucia, ma Tom le lancia un’occhiata e lei non continua.

— Non capisco perché tu creda che a lui non piacciono gli autistici — dice Tom.

Mi rilasso. È tanto più facile parlare con Tom quando lui fa domande in forma indiretta. Non so perché, ma le domande sembrano meno minacciose.

— Lui dice che noi non dovremmo aver bisogno di un ambiente speciale — spiego. — Dice che costa troppo e quindi non dovremmo avere la palestra e… le altre cose. — Mi ricordo di non aver mai descritto a Tom e a Lucia le facilitazioni di cui godiamo sul lavoro.

— Ma questo… — Lucia fa una pausa, guarda Tom e poi riprende: — Questo è ridicolo. Ciò che lui pensa non ha importanza. La legge afferma che i datori di lavoro sono obbligati a fornire ai lavoratori handicappati un ambiente favorevole.

— Finché siamo produttivi come gli altri impiegati — dico. È difficile parlare di questo, mi fa paura. Sento che la gola mi si stringe e che la mia voce ha un suono aspro e meccanico. — E finché le nostre condizioni sono conformi alle categorie diagnostiche contemplate dalla legge…

— L’autismo è una condizione chiaramente più che conforme — dice Lucia. — E sono sicura che siete produttivi, o non vi avrebbero tenuti tanto a lungo.

— Lou, il signor Crenshaw minaccia forse di licenziarvi? — chiede Tom.

— No… non esattamente. Vi ho parlato di quel trattamento sperimentale. Non l’hanno più menzionato per un poco, ma adesso loro… il signor Crenshaw, la compagnia… vogliono che noi ci sottoponiamo a esso. Ci hanno spedito una lettera, in cui si diceva che gli impiegati facenti parte di un protocollo di ricerca erano immuni dai tagli di personale. Il signor Aldrin ha parlato col nostro gruppo. Dovremo tenere una riunione sabato prossimo. Io pensavo che non avrebbero potuto costringerci a sottoporci al trattamento, ma secondo il signor Aldrin il signor Crenshaw può abolire la nostra sezione e rifiutarsi di riassumerci per qualche altro lavoro perché non sappiamo far altro. Secondo lui possono far questo perché non sarebbe un licenziamento ma solo un cambiamento nella configurazione della compagnia.

Tom e Lucia sembrano ambedue molto in collera, hanno i visi contratti e la pelle lucida. Non avrei dovuto parlare di quelle cose, non era il momento adatto.

Bastardi - commenta Lucia. Poi mi guarda e il suo viso cambia, si distende. — Lou… Lou, ascolta. Non sono arrabbiata con te. Sono arrabbiata con la gente che ti fa del male o non ti tratta bene… non con te, mai con te.

— Non avrei dovuto dirvi questo — mi scuso, ancora incerto.

— Sì che avresti dovuto — ribatte lei. — Noi siamo tuoi amici e dovremmo saperlo se qualcosa non va nella tua vita, in modo da poterti aiutare.

— Lucia ha ragione — dice Tom. — Gli amici devono aiutarsi reciprocamente. Come hai fatto tu quando ci hai aiutati a costruire le rastrelliere.

— Quelle le usiamo tutti — obietto. — Il mio lavoro invece riguarda solo me.

— Sì e no — dice Tom. — Il tuo problema è individuale, ma ha un interesse generale. Potrebbe riguardare ogni handicappato che lavori in qualsiasi altro posto. Cosa succederebbe se una ditta decidesse che una persona su una poltrona a rotelle non ha bisogno di rampe? A voi serve un legale, Lou. Non avevi detto che il Centro poteva trovarvene uno?

— Prima che arrivino gli altri, Lou, perché non ci dici qualcosa di più su questo signor Crenshaw e sui suoi piani? — chiede Lucia.

Mi accomodo sul sofà e cerco di riferire la storia più chiaramente che posso.

— Esiste un trattamento che loro… cioè qualcuno… ha usato su scimmie adulte — comincio. — Io non sapevo che le scimmie potessero essere autistiche, ma il fatto è che queste scimmie autistiche sono diventate più normali dopo aver ricevuto il trattamento. Adesso il signor Crenshaw vuole che lo facciamo anche noi.

— E voi non volete? — domanda Tom.

— Io non capisco come funzioni o in che modo possa migliorare le nostre condizioni — dico.

— Il tuo dubbio è ragionevole — approva Lucia. — Sai chi ha condotto la ricerca, Lou?

— Non ne ricordo il nome — dico. — Un mio amico mi spedì un’e-mail sull’argomento alcune settimane fa. Mi mandò un articolo e io lo lessi, ma non ne capii un gran che. Non ho studiato mai quel genere di argomenti.

— Hai ancora l’articolo? — chiede lei. — Posso domandare informazioni in proposito.

— Davvero?

— Certo. Almeno al dipartimento potranno dirmi se i ricercatori sono considerati persone affidabili o no.

— Noi avevamo avuto un’idea — dico.

— Noi chi? — domanda Tom.

— Io e le persone con le quali lavoro.

— Gli altri autistici?

— Sì. — Chiudo gli occhi un momento per calmarmi. — Il signor Aldrin ci ha invitati a mangiare una pizza. Ha bevuto birra. Ha detto che non credeva ci fosse profitto sufficiente nel curare autistici adulti… siccome oggi si curano feti e neonati, noi siamo gli ultimi in queste condizioni, almeno in questo paese. Così noi ci siamo chiesti perché erano tanto interessati a sviluppare il trattamento e cos’altro esso potesse fare. Vedete, la cosa somiglia a qualche analisi di schema che mi è capitato di fare. C’è uno schema, che però non è l’unico. Oppure si può pensare di star generando uno schema mentre in realtà se ne generano diversi altri e uno di essi può rivelarsi utile o no, a seconda del problema al quale dovrà essere applicato. — Alzo gli occhi e vedo che Tom mi sta guardando con un’espressione strana. Ha la bocca semiaperta.

Scuote la testa come scrollandola. — Quindi… voi pensate che loro abbiano in mente qualche altra applicazione, qualche scopo di cui voi siete solo un aspetto?

— Può darsi — dico cautamente.

Tom lancia un’occhiata a Lucia che annuisce. — Può darsi davvero — dice. — Provare questo trattamento su di voi fornirebbe loro molti altri dati, e allora… Lasciatemi pensare…

— Io credo che la cosa abbia a che fare con il controllo dell’attenzione — continuo. — Tutti abbiamo modi diversi di percepire gli impulsi sensoriali e… e di stabilire le priorità dell’attenzione. — Non sono sicuro di aver usato i termini giusti, ma Lucia annuisce con vigore.

— Il controllo dell’attenzione… naturalmente. Se si potesse manipolarlo nella genesi e non con mezzi chimici, sarebbe tanto più facile sviluppare una forza-lavoro estremamente motivata.

— Nello spazio — dice Tom.

Mi sento confuso, ma Lucia annuisce di nuovo.

— Già. Per far lavorare la gente nello spazio, il grande problema è fare in modo che si concentri, che non si distragga. Gli impulsi sensoriali lassù non sono quelli ai quali noi siamo abituati, quelli scelti dalla selezione genetica. — Non so come lei faccia a capire cosa sta pensando Tom. Mi piacerebbe tanto leggere nella mente degli altri in questo modo. Lucia mi sorride. — Lou, credo che tu sia inciampato in qualcosa di grosso. Procurami quell’articolo e io mi darò da fare.

Mi sento a disagio. — Io non dovrei parlare del mio lavoro fuori del campus — dico.

— Ma non stai parlando del lavoro — rettifica lei. — Stai parlando del tuo ambiente di lavoro… è diverso.

Mi chiedo se il signor Aldrin sarebbe d’accordo.

Qualcuno bussa alla porta e smettiamo di parlare. Io sono sudato anche senza tirare di scherma. I primi ad arrivare sono Dave e Susan. Raduniamo le nostre cose e usciamo nel cortile posteriore.

Poi arriva Marjory, e mi sorride. Io di nuovo mi sento più leggero dell’aria. Don non è venuto. Suppongo sia ancora in collera con Tom e Lucia perché non si sono comportati da amici con lui.

Sto facendo un combattimento con Dave quando sento un rumore dalla strada e poi un sibilo di gomme che stridono nella corsa. Ignoro il rumore e continuo il mio attacco, ma Dave si ferma e io lo colpisco un po’ duramente al petto.

— Chiedo scusa — dico.

— Non ti preoccupare — dice lui. — Pare sia successo qualcosa: non hai sentito niente?

— Sì — rispondo, e cerco di ripercorrere la sequenza dei rumori. Un tonfo, un tintinnio, uno stridore e un rombo. Cosa può essere stato?

— Meglio andare a controllare — dice Dave.

Anche gli altri sono usciti a vedere; li seguo nel cortile anteriore. Alla luce del fanale nell’angolo posso vedere qualcosa che luccica sul marciapiedi.

— È la tua macchina, Lou — dice Susan. — Il parabrezza.

Mi sento gelare.

— La scorsa settimana sono state le gomme… che giorno era, Lou?

— Giovedì — rispondo. Mi trema la voce.

— Giovedì. E adesso questo… — Tom guarda gli altri e loro lo guardano. Posso capire che tutti stanno pensando alla stessa cosa, ma non so quale sia. Tom scuote la testa. — Credo che dovremo chiamare la polizia. Odio interrompere l’allenamento, ma…

— Ti accompagno io a casa, Lou — propone Marjory. Si è avvicinata, è dietro di me. Sobbalzo nel sentire la sua voce.

Tom chiama la polizia perché, spiega, il fatto è avvenuto davanti a casa sua. Mi passa il telefono dopo un poco e una voce annoiata chiede il mio nome, indirizzo e numero telefonico, e il numero di targa della mia macchina.

Poi la voce chiede un’altra cosa, ma le parole si accavallano e non riesco a distinguerle. — Mi dispiace… — dico.

La voce ripete, più alta, separando meglio le parole. Stavolta capisco.

— Ha qualche idea su chi possa aver fatto questo?

— No — dico. — Però qualcuno mi ha tagliato le gomme la settimana scorsa.

— Oh? — Adesso la voce ha assunto un tono interessato. — Ha denunciato il fatto?

— Sì.

— Ricorda il nome dell’agente venuto a investigare?

— Ho un suo biglietto: un momento solo… — Metto giù il ricevitore e tiro fuori il portafogli. Estraggo il biglietto e leggo il nome dell’agente, Malcolm Stacy, e il numero del rapporto.

— In questo momento lui non è qui, ma metterò questo rapporto sulla sua scrivania. Ora… ci sono testimoni?

— Ho sentito il rumore, ma non ho visto nulla. Eravamo nel cortile sul retro.

— Peccato. Be’, manderemo qualcuno, però ci vorrà un po’ di tempo. Lei rimanga lì.

Quando l’auto di pattuglia finalmente arriva sono quasi le dieci di sera. Siamo tutti seduti in soggiorno, stanchi dell’attesa. Io mi sento in colpa, anche se non c’entro con l’incidente: non sono stato io a rompere il parabrezza e a dire agli altri di rimanere. Il poliziotto è una donna di nome Isaka, piccola, bruna e di modi molto asciutti. Penso creda che il misfatto è troppo poco importante per disturbare la polizia.

Esamina la mia automobile, le altre automobili e la strada e sospira. — Be’, qualcuno le ha rotto il parabrezza e qualcuno le ha tagliato le gomme la settimana scorsa, perciò concluderei che questo è un problema suo, signor Arrendale. Deve aver fatto arrabbiare sul serio qualcuno, e probabilmente sa chi è, se solo ci pensa un poco. Com’è la sua situazione nell’ambiente di lavoro?

— Ottima — dico senza riflettere. Tom fa un gesto. — Ho un nuovo superiore, ma non credo che il signor Crenshaw vada rompendo parabrezza o tagliando gomme. — Non riesco proprio a crederlo, anche se è in collera con me.

— Oh? — dice lei, prendendo nota.

— Era irritato perché sono arrivato tardi al lavoro dopo il danno alle gomme — spiego. — Ma non credo che lui vorrebbe rompermi il parabrezza. Può sempre licenziarmi.

Lei mi guarda ma non mi chiede altro. Si rivolge invece a Tom. — Avevate un party?

— No, era sera di allenamento per un club di scherma — dice lui.

Vedo il collo della poliziotta tendersi. — Scherma? Con armi?

— È uno sport — spiega Tom, e vi è tensione anche nella sua voce. — Abbiamo avuto un torneo due settimane fa, e tra qualche settimana ce ne sarà un altro.

— Qualcuno si è mai fatto male?

— Qui mai. Abbiamo rigorose misure di sicurezza.

— Vengono le stesse persone tutte le settimane?

— Di solito sì, ma succede che qualcuno salti l’allenamento di tanto in tanto.

— E questa settimana?

— Be’, Larry non è venuto… è a Chicago per affari. E non è venuto neanche Don.

— Ci sono stati problemi con i vicini? Proteste per rumori, roba del genere?

— No. — Tom si passa le mani tra i capelli. — Questo è un quartiere tranquillo e noi abbiamo un buon rapporto con i vicini. Non ci sono stati mai neppure vandalismi.

— Però il signor Arrendale ha subito due episodi di vandalismo in meno di una settimana… Questo è significativo. — La donna aspetta ma nessuno dice nulla. Infine lei si stringe nelle spalle e continua.

— Ragioniamo. Se l’auto del vandalo procedeva nella stessa direzione in cui sono parcheggiate le macchine, il guidatore avrebbe dovuto fermarsi e scendere per rompere il parabrezza. Se invece procedeva nella direzione opposta, il guidatore avrebbe potuto sporgersi e colpire il parabrezza con una mazza, diciamo, o gettarvi contro un sasso. Poi poteva ripartire prima che chiunque di voi si affacciasse sul davanti della casa.

— Capisco — dico io. Adesso che la donna ha descritto l’incidente posso anche visualizzarlo. Ma perché?

— Lei deve avere qualche idea su chi può avercela con lei — insiste la poliziotta, che sembra irritata con me.

— Non importa quanto può essere arrabbiata una persona contro qualcuno — dico — è sempre sbagliato rompere le cose. — Sto riflettendo, ma l’unica persona di mia conoscenza che se la prenda perché pratico la scherma è Emmy. Comunque Emmy non ha un’automobile e non credo sappia dove abitano Tom e Lucia. D’altra parte non credo che Emmy mi romperebbe il parabrezza. Piuttosto verrebbe in casa e parlerebbe a voce troppo alta e direbbe cose scortesi a Marjory.

— Verissimo — dice la poliziotta. — È sbagliato rompere le cose, ma la gente lo fa lo stesso. Chi è arrabbiato con lei?

Se le parlo di Emmy, questa donna combinerà guai a Emmy e lei combinerà guai a me. E poi io sono sicuro che non è stata Emmy. — Non lo so — rispondo. Sento un movimento dietro di me, quasi una pressione. Credo sia Tom, ma non ne sono certo.

— Agente, può permettere agli altri di andare? — domanda Tom.

— Oh, certo. Nessuno ha visto niente, nessuno ha sentito niente… cioè, avete sentito qualcosa, ma non avete veduto nulla… vero?

Tra mormoni di "no", "io no" e "se solo mi fossi mosso più in fretta" gli altri se ne vanno uno dopo l’altro. Rimangono Tom, Lucia e Marjory.

— Se lei è il bersaglio, e sembra proprio che lo sia, allora il vandalo sapeva che lei sarebbe stato qui stasera. Quanta gente sa che lei viene qui il mercoledì?

Emmy non sa quale giorno io dedichi alla scherma. Il signor Crenshaw non sa nemmeno che io la pratico.

— Tutti quelli che vengono ad allenarsi qui — risponde Tom per me. — Forse qualcuno che era al torneo… per Lou è stato il primo. Al tuo posto di lavoro lo sanno, Lou?

— Io non ne parlo molto — dico, ma non spiego perché. — Però non ricordo di aver detto a nessuno dove vado ad allenarmi. Ma forse ne ho parlato…

— Bene, è chiaro che dovremo appurarlo, signor Arrendale — dice l’agente. — Queste faccende possono approdare a misfatti peggiori. Lei dovrebbe stare attento. — Mi porge un foglio di carta con il suo nome e numero. — Chiami me o Stacy se le viene in mente qualcosa.

Quando l’auto della polizia se ne va, Marjory ripete: — Sarò felice di accompagnarti a casa, Lou, se vuoi.

— No, voglio andare con la mia auto — dico. — Dovrò farla riparare, e dovrò anche rimettermi in contatto con l’assicurazione. Non saranno contenti.

— Vediamo se ci sono vetri sul sedile — dice Tom, e apre lo sportello della macchina. La luce scintilla sui frammenti di vetro sparsi sul cruscotto, sul pavimento e sul coprisedile di pelle di pecora. Mi si solleva lo stomaco. La pelle doveva essere calda e soffice, e adesso avrà dentro schegge taglienti. La tolgo e la scuoto nella strada. I frammenti di vetro producono piccoli tintinnii cadendo sull’asfalto. Ma non sono sicuro che la pelle sia del tutto libera dal vetro: tra il pelo possono esserne rimasti altri frammenti come minuscoli coltelli nascosti.

— Non puoi guidare l’auto in queste condizioni, Lou — dice Marjory.

— Dovrà comunque andare a farsi mettere un parabrezza nuovo — obietta Tom. — I fari sono a posto; Lou può guidare se va piano.

— Posso almeno arrivare a casa — dico. — Guiderò con cautela. — Metto la pelle di pecora sul sedile posteriore e mi siedo al posto di guida.

A casa, più tardi, ripenso alle cose che Tom e Lucia hanno detto, facendole scorrere come un’audio nella mia mente.

— Secondo me — ha detto Tom — il tuo signor Crenshaw preferisce guardare alle tue limitazioni piuttosto che alle tue possibilità. Dovrebbe invece considerare te e la tua sezione come risorse da incrementare.

— Io non sono una risorsa, sono una persona — dico io.

— Certo, Lou, ma una grande azienda considera i suoi lavoratori come risorse o inconvenienti. Un impiegato che ha bisogno di qualcosa di diverso dagli altri può essere visto come un inconveniente… perché esige più risorse per produrre la stessa quantità di lavoro. È un modo superficiale di considerare le cose, ma è il punto di vista di molti manager.

— Vedono solo quello che non va — dico.

— Sì. Possono anche vedere quanto vali come risorsa, però quello che vogliono è solo la risorsa, senza gli inconvenienti.

— I manager veramente buoni — ha detto Lucia — sono quelli che aiutano le persone a migliorare. Se un lavoratore fa bene una parte del suo lavoro e non tanto bene un’altra parte, il manager in gamba lo aiuta a migliorare nelle aree deficitarie… ma solo fino al punto in cui ciò non danneggi le sue capacità, a causa delle quali il lavoratore è stato assunto.

— Però se un nuovo sistema di computer può far di meglio…

— Questo non importa. Vedi, Lou, una macchina o un’altra persona potrebbe magari fare quello che fai tu e forse farlo più in fretta e meglio… e allora? Tuttavia c’è una cosa che nessuno può fare meglio di te, ed è essere te.

— Ma a me cosa serve se non ho un lavoro?

— Lou, tu sei una persona… un individuo che non somiglia a nessun altro. È questo l’importante, non che tu abbia un lavoro o no.

— Io sono un autistico — dico. — Questo sono. Devo avere qualcosa… Se mi licenziano, cos’altro posso fare?

— Tanta gente perde il lavoro e poi ne trova un altro. Puoi farlo anche tu, se necessario. E se lo vorrai. Puoi scegliere il cambiamento, se vuoi, non è indispensabile che tu lo subisca. È come nella scherma: puoi essere quello che stabilisce lo schema o quello che lo segue.

Faccio scorrere quest’audio diverse volte, cercando di accordare i toni di voce alle espressioni così come le ricordo. Loro mi hanno ripetuto di trovarmi un avvocato, ma io non sono pronto a parlare con una persona che non conosco. È difficile spiegare ciò che sto pensando e ciò che è accaduto. Voglio risolvere questo problema per conto mio.

Se non fossi stato quel che sono, cosa sarei stato? Qualche volta ci ho pensato. Se avessi trovato facile capire ciò che la gente dice, avrei desiderato ascoltare di più? Avrei imparato a parlare con maggiore scioltezza? E a causa di ciò avrei potuto avere più amici, forse diventare popolare? Cerco d’immaginarmi da bambino, come un bambino normale che chiacchiera allegramente con la famiglia, gli insegnanti e i compagni. Se fossi stato quel bambino, invece di me, avrei imparato la matematica altrettanto facilmente? E le immense e complicate strutture della musica classica mi sarebbero apparse così chiare fin dalla prima audizione? Ricordo la prima volta che sentii la Toccata e Fuga in Re Minore di Bach… la gioia intensa che provai. Sarei stato in grado di fare il lavoro che faccio? E se no, quale altro lavoro sarei stato in grado di fare?

Tutti i testi che ho letto sulla mia condizione sono d’accordo su un punto, e cioè sulla permanenza dei miei handicap, come li chiamano. Gli interventi precoci possono migliorare i sintomi, ma il problema centrale rimane. Io sentivo quel problema centrale giorno dopo giorno, come se avessi nel mezzo del mio essere un grosso masso rotondo, una presenza pesante e imbarazzante che influenzava qualunque cosa facessi o cercassi di fare.

Ma se non ci fosse stata?

Non avevo letto più nulla sul mio autismo dopo essere uscito da scuola. Non ho studiato chimica, biochimica o genetica… Lavoro per un’azienda farmaceutica ma di farmaci so pochissimo. Conosco solo gli schemi, le configurazioni che scorrono attraverso il mio computer, quelle che identifico e analizzo e quelle che mi chiedono di creare.

Non so come le altre persone imparano cose nuove, ma il mio modo d’imparare funziona bene per me. Quando avevo sette anni i miei genitori mi comprarono una bicicletta e cercarono d’insegnarmi ad andarci. Volevano che prima di tutto ci sedessi sopra e pedalassi mentre loro la guidavano; solo in seguito avrei dovuto guidarla io. Io ignorai i loro consigli. Era chiaro che la guida era la cosa più importante, e la più difficile, perciò avrei dovuto imparare quella come prima cosa.

Così guidai la bicicletta intorno al cortile, imparando come il manubrio sussultava, si contorceva e sobbalzava mentre la ruota anteriore passava sull’erba e sulle pietre. Poi vi salii a cavalcioni mantenendo i piedi a terra e guidai la bicicletta intorno in quel modo, manovrando il manubrio, facendola cadere e rialzandola. Infine provai la bicicletta lungo la discesa del nostro vialetto d’ingresso, guidandola a zigzag con i piedi in aria ma pronto a fermarmi. Solo dopo di ciò provai a pedalare, e non caddi mai.

Tutto sta nel sapere da dove cominciare. Se si comincia dal punto giusto e si segue la strada giusta, si arriva al risultato voluto.

Se voglio capire quali effetti può avere questo trattamento che renderà ricco il signor Crenshaw, allora devo sapere come lavora il cervello… come lavora veramente. È come il manubrio della bicicletta, è lui che guida tutta la persona. E devo imparare anche cosa sono i farmaci e come funzionano.

Tutto ciò che ricordo del cervello dai giorni di scuola è che è fatto di materia grigia e adopera un sacco di glucosio e di ossigeno. Io volevo che il mio cervello fosse come un computer, qualcosa che lavorasse bene da solo e non facesse errori.

I testi dicevano che il problema dell’autismo era centrato nel cervello, e ciò mi faceva sentire come un computer guasto, qualcosa che bisognava distruggere o rimandare in fabbrica. Tutti gli interventi, tutti gli anni di formazione e di apprendistato erano come software programmati apposta perché un computer malfunzionante lavorasse bene. Ma ciò non è possibile, e non lo è stato nemmeno nel caso mio.

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