14

Venerdì la polizia mi ha accompagnato al lavoro. La mia auto era stata rimorchiata alla stazione di polizia per essere esaminata: mi dicono che potrò riprenderla in serata. Il signor Crenshaw non è venuto nella nostra sezione. Io faccio ottimi progressi nel progetto di cui mi occupo.

La polizia manda una macchina per riportarmi a casa, ma prima passiamo a comprare una batteria nuova. Al deposito, firmo diverse carte e un meccanico monta la batteria nuova nella mia auto. Uno dei poliziotti si offre di venire con me a casa, ma io non credo di aver bisogno del suo aiuto. Lui mi dice che il mio appartamento è sotto sorveglianza.

Dentro, la mia macchina è sporca, piena di polvere. Vorrei pulirla, ma prima devo andare a casa. La strada dal deposito è più lunga di quella che percorro tornando dal lavoro, però non mi perdo. Parcheggio vicino all’auto di Danny e salgo al mio appartamento.

Per ragioni di sicurezza non devo lasciare il mio appartamento, ma è venerdì sera e ho bisogno di fare il bucato. La lavanderia è nel mio stesso edificio, quindi penso di essere al sicuro: dopo tutto qui abita anche Danny, e Danny è un poliziotto. Non uscirò dal palazzo, ma farò il bucato.

Metto la biancheria nel cestino della roba bianca e in quello della roba colorata, prendo il detersivo e guardo attraverso lo spioncino prima di aprire la porta. Non c’è nessuno, naturalmente. Esco, richiudo la porta a chiave e scendo.

Carico i panni in due lavatrici diverse e le metto in azione. Ho portato con me Cego e Clinton e siedo su una delle sedie di plastica accanto al tavolino per ripiegare il bucato. Mi piacerebbe portarla nell’atrio, ma sulla parete c’è un cartello che dice: AGLI INQUILINI È STRETTAMENTE PROIBITO PORTARE SEDIE FUORI DELLA LAVANDERIA. Non mi piace questa sedia, ha un orribile colore azzurro verdastro, ma standoci seduto almeno non la vedo.

Ho letto otto pagine quando arriva la vecchia signorina Kimberley col suo bucato. Io non alzo la testa, non desidero parlare. La saluterò se lei mi rivolgerà la parola.

— Salve, Lou — dice. — Leggi?

— Salve. — Non rispondo alla sua domanda, perché lei può ben vedere che sto leggendo.

— Cosa leggi? — chiede avvicinandosi. Chiudo il libro tenendo il dito tra le pagine, così che lei possa vedere la copertina.

— Diamine, che librone! — commenta. — Non sapevo che ti piacesse leggere, Lou.

Io non capisco le regole sull’interrompere. Per me è sempre maleducazione interrompere le altre persone, mentre le altre persone non sembrano credere sia maleducato da parte loro interrompere me.

— Sì, talvolta — dico, senza distogliere gli occhi dal libro perché spero lei capisca che non voglio smettere di leggere.

— Sei in collera con me per qualche cosa? — chiede la signorina.

Adesso sono un poco in collera perché lei non vuole lasciarmi leggere in pace, ma non sarebbe gentile dirglielo.

— Di solito sei tanto amichevole e adesso hai portato quel librone così grosso: non è possibile che tu lo stia leggendo veramente…

— Sì che lo sto leggendo — dico, offeso. — Me lo ha prestato un’amica mercoledì sera.

— Ma è… sembra un libro molto difficile — ribatte lei. — Riesci davvero a capirlo?

La signorina è come la dottoressa Fornum: non crede che io sia capace di far molto.

— Sì, lo capisco — dico. — Sto leggendo in che modo le parti del cervello che elaborano la percezione visiva integrano gli impulsi discontinui per creare un’immagine stabile, come su uno schermo TV.

— Impulsi discontinui? — domanda lei. — Come quando l’immagine balla?

— In un certo senso — dico. — I ricercatori hanno identificato l’area del cervello dove l’immagine ballerina viene stabilizzata.

— Be’, io non vedo l’utilità pratica della faccenda — commenta lei caricando la lavatrice. — Io sono ben contenta di lasciare che il mio organismo lavori senza bisogno che ci guardi dentro. — Misura il detersivo, lo versa, inserisce le monete e si ferma prima di spingere il tasto di avviamento. — Lou, non credo sia sano tutto questo preoccuparti di come lavora il cervello. La gente può impazzirci sopra, sai.

No che non lo sapevo. Non avrei mai pensato che sapere troppo circa il lavoro del mio cervello potesse condurmi alla pazzia. Ma non credo che questo sia vero. Però non penso che lei mi crederebbe se le dicessi che non è vero. Non desidero spiegare nulla, così apro di nuovo il libro. Lei sbuffa e sento i suoi tacchi ticchettare sul pavimento quando se ne va.

Quando ero a scuola, c’insegnavano che il cervello era come un computer, solo non altrettanto efficiente. I computer non fanno errori se sono costruiti e programmati come si deve, il cervello sì. Da ciò io trassi l’idea che tutti i cervelli, anche quelli normali e figuriamoci poi il mio, sono computer di livello inferiore.

Questo libro invece spiega che il cervello è infinitamente più complesso di qualsiasi computer, e che anche il mio cervello è normale sotto molti rispetti. La mia visione dei colorì è normale; la mia acutezza visiva è normale. Cosa non è normale? Solo una piccolezza… credo.

Il libro parla di variazioni nell’abilità a captare brevi stimoli transitori. Io ricordo i giochi al computer che mi aiutavano a udire e poi ripetere consonanti come la p e la t e la d, specialmente quando erano accompagnate da altre consonanti. Mi facevano fare anche esercizi con gli occhi, ma io ero così piccolo che non li ricordo.

Guardo i visi appaiati nell’illustrazione che valuta la discriminazione dei lineamenti sia per posizione che per tipo. A me quei visi paiono tutti uguali: posso solo distinguere (con l’aiuto del testo) che quei due hanno gli stessi occhi, lo stesso naso e la stessa bocca, solo che uno li ha come allargati, più distanti dagli altri lineamenti. Se fossero in movimento, come sul viso di una persona vera, io non distinguerei nemmeno quello. Si suppone che ciò implichi qualche deficienza nella speciale parte del cervello che sovrintende al riconoscimento dei visi.

Le persone normali sono davvero capaci di tante discriminazioni? Se è vero, non c’è da meravigliarsi che siano capaci di riconoscersi reciprocamente con tanta facilità, anche a distanza e con abiti differenti.


Questo sabato non abbiamo una riunione al campus. Vado al Centro, ma il consulente di turno è ammalato. Guardo e memorizzo il numero del Patrocinio gratuito che compare sulla bacheca, ma non desidero chiamarlo. Non so cosa ne pensino gli altri. Dopo qualche minuto torno a casa e mi rimetto a leggere il mio testo, però prima faccio pulizia nel mio appartamento e nella macchina. Decido di gettar via la vecchia pelle di pecora, perché contiene ancora minuscoli frammenti di vetro, e comprarne una nuova. Quella nuova ha un forte odore di pelle ed è più morbida di quella vecchia. Domenica vado in chiesa molto presto, onde avere più tempo per leggere.

Lunedì arriva una nota per ciascuno di noi, comunicandoci le date e le ore degli esami preliminari: ecotomografia, risonanza magnetica, visita generale, colloquio con lo psicologo, esami psicologici. La nota dice che possiamo assentarci dal lavoro per gli esami senza penalità. La cosa mi conforta, non mi piaceva l’idea di rimettere in pari tutte le ore che ci vorranno per tanti test. Il primo, la visita generale, è per lunedì pomeriggio. Andiamo tutti alla clinica. A me non piace farmi toccare dagli estranei, ma so come ci si deve comportare nelle cliniche. L’ago per cavare il sangue non fa male, però non capisco cosa c’entrino il mio sangue e l’orina col modo in cui funziona il mio cervello. Nessuno mi spiega mai niente.

Martedì ho la risonanza magnetica. Il tecnico continua a ripetermi che è indolore e che non devo aver paura quando la macchina mi farà passare nel cassone chiuso. Comunque io non ho paura, non sono claustrofobico.

Dopo il lavoro ho bisogno di fare la spesa, perché martedì scorso m’incontrai con gli altri del nostro gruppo a casa mia. So che devo fare attenzione a Don, ma non credo che lui davvero voglia farmi del male, comunque. A quest’ora probabilmente si sarà pentito di quanto ha fatto… ammesso che sia davvero lui il vandalo. E poi, questo è per me il giorno della spesa. Mi guardo intorno nel parcheggio per vedere se ci sono intrusi. Ma no, le guardie del campus sono molto efficienti.

Al supermercato mi fermo più vicino che posso a un fanale, in caso si sia fatto buio quando uscirò. Ci sono pochi clienti in giro, quindi faccio presto a esaurire la mia lista di cose da acquistare. Ho troppa roba per usare la cassa rapida, così mi accodo alla fila più breve di una cassa normale.

Quando esco è già l’imbrunire, ma non è proprio buio, e l’aria è fresca. Mi spingo davanti il carrello che sobbalza sul selciato. Arrivo alla macchina, apro lo sportello e comincio a caricare i sacchetti delle derrate con cura: cose pesanti come scatole di detersivo e barattoli sul pavimento dove non possono cadere; pane e uova sul sedile posteriore.

Sento spostarsi il carrello alle mie spalle. Mi volto e non riconosco il viso dell’uomo in giacca scura… almeno non subito, ma poi mi accorgo che è Don.

— È colpa tua. È tutta colpa tua se Tom mi ha sbattuto fuori — dice. La sua faccia è tutta contratta, con i muscoli che sporgono come nodi. I suoi occhi fanno paura, non voglio vederli e allora guardo altre parti del suo viso. — È colpa tua se Marjory mi ha scaricato. Fa schifo vedere in che modo le donne si fanno incantare da quella faccenda dell’handicap. Tu probabilmente ne hai a dozzine, tutte irretite da quell’aria indifesa che ti dai. — Alza la voce in un falsetto stridente, come se volesse imitare qualcuno. — "Povero Loù, non può farci niente" e "Povero Lou, ha bisogno di me" — dice. — I fenomeni da baraccone dovrebbero accoppiarsi con i fenomeni da baraccone, se proprio è necessario che si accoppino. La sola idea di te che te la fai con una donna normale mi fa vomitare dal disgusto.

Non riesco a dir nulla. Credo che dovrei essere impaurito, e invece quello che provo non è paura ma pena, una pena così grande che ne sento il peso dappertutto. Don è normale, avrebbe potuto diventare tante cose, avrebbe potuto far tanto così facilmente! Perché ci ha rinunciato per ridursi così?

— Non è colpa mia — dico infine.

— Col cavolo non lo è! — ribatte. Si avvicina di più. Il suo sudore ha un odore strano. Non so cosa sia, ma lui deve aver mangiato o bevuto qualcosa che gli ha dato quell’odore. Ha il colletto della camicia slacciato. Guardo in basso: le sue scarpe sono scorticate e una è senza lacci. Essere in ordine è importante, non ci si fa notare e si produce una buona impressione. In questo momento Don si fa notare e non produce una buona impressione, ma nessuno se ne accorge. Vedo la gente che si dirige verso il supermercato o verso le proprie macchine senza far caso a noi. — Tu sei un animale, Lou… capisci quello che dico? Sei un animale e dovresti stare in uno zoo!

So che Don sta dicendo cose prive di senso, ma mi sento ferito dalla forza dell’odio che avventa contro di me. Mi sento anche sciocco per non aver riconosciuto prima questo suo lato. Ma lui era mio amico, mi sorrideva, cercava di aiutarmi. Come avrei potuto accorgermene?

Si toglie di tasca la mano destra e vedo la nera canna di un’arma puntata verso di me. L’esterno della canna brilla un poco alla luce, ma l’interno è buio come lo spazio. Il buio sta per inghiottirmi.

— Tutta quella boiata delle misure di sostegno… diavolo, non fosse per te e per i tuoi pari il resto del mondo non starebbe precipitando in un’altra depressione. Io avrei la carriera che dovrei avere, non questo lavoraccio da quattro soldi che mi è toccato.

Non so che lavoro Don faccia, ma non credo che le sue difficoltà economiche siano colpa mia. Non credo che potrebbe avere la carriera che vuole se io fossi morto. I datori di lavoro vogliono persone pulite ed educate, che lavorino duro e non creino problemi. Don è sudicio e in disordine, dice cose scortesi e non ama lavorare.

Di colpo si fa avanti, mi avvicina la mano con l’arma. — Entra nell’automobile — dice, ma io sono già in movimento. Il suo schema di attacco è semplice, facile da riconoscere, e d’altra parte lui non è rapido e forte come pensa di essere. La mia mano gli afferra il polso mentre lo sporge e lo sbatte da una parte. Il rumore dell’arma che esplode non somiglia al rumore delle armi in TV. È più forte e più minaccioso e desta echi. Io non ho un’arma, ma l’altra mia mano lo colpisce forte all’altezza del diaframma. Don si piega in due e dalla bocca gli esce uno sbuffo di fiato puzzolente.

— Ehi! — urla qualcuno. — Polizia! — urla qualcun altro. Si sentono strilli. Appare di colpo un mucchio di gente che si getta su Don. Io barcollo e sto per cadere quando mi urtano; qualcuno mi afferra per un braccio e mi fa girare, spingendomi contro la fiancata dell’auto.

— Lasciatelo stare, lui è la vittima — dice un’altra voce. È il signor Stacy. Non so cosa stia facendo qui. Mi guarda accigliatissimo. — Signor Arrendale, non le avevamo detto di stare attento? Perché non è andato subito a casa dopo il lavoro? Se Dan non ci avesse avvertiti che dovevamo tenerla d’occhio…

— Pensavo… di essere stato attento. — È difficile parlare in mezzo a tanto fracasso. — Ma avevo bisogno di far la spesa e questo è il mio giorno per farla. — Solo allora ricordo che anche Don lo sapeva, che già un’altra volta l’ho visto qui di martedì.

— Lei ha una fortuna sfacciata — dice Stacy.

Don è a terra bocconi, due uomini sono inginocchiati sopra di lui. Gli hanno tirato le mani dietro la schiena e gli mettono le manette. Don sta emettendo rumori strani, sembra che pianga. Quando lo tirano su vedo che piange davvero. Le lacrime gli scorrono sulla faccia rigando lo sporco. Mi dispiace per lui. Io mi sentirei malissimo a piangere così, davanti a tutti.

— Bastardo! — mi dice vedendomi. — Mi hai teso un agguato!

— Non ti ho teso nessun agguato — replico. Vorrei spiegargli che io non sapevo che i poliziotti fossero qui, anzi che loro ce l’hanno con me perché non sono rimasto a casa, ma lo stanno già portando via.

— Quando dico che è gente come lei che ci complica la vita, non mi riferisco agli autistici — dice Stacy — ma alla gente che non vuol prendere le precauzioni più comuni. — Sembra ancora in collera.

— Avevo bisogno di fare la spesa — ripeto.

— Come doveva fare il bucato venerdì scorso?

— Sì — dico — e poi non è ancora buio.

— Poteva chiedere a qualcuno di far la spesa per lei.

— Non saprei a chi chiederlo — dico.

Mi guarda stranamente e scuote il capo.

Non conosco la musica che mi è esplosa nella testa, e non capisco cosa sto provando. Vorrei rimbalzare sul trampolino per calmarmi, ma qui non c’è posto per farlo. Non voglio entrare in macchina e tornare a casa.

Continuano tutti a chiedermi come mi sento. Alcuni hanno lampadine che mi piantano in faccia. Continuano a suggerirmi aggettivi come "sconvolto" o "atterrito". Io non mi sento affatto sconvolto. Mi sentii davvero sconvolto quando morirono i miei genitori, disperato e abbandonato, ma adesso non mi sento così. Mentre Don mi minacciava avevo paura, ma più che altro mi sentivo sciocco, triste e arrabbiato.

Adesso in verità mi sento molto vivo e molto confuso. Nessuno indovina che io possa sentirmi felice ed eccitato. Qualcuno ha cercato di uccidermi e non ci è riuscito. Sono ancora vivo. Vorrei correre e saltare e gridare, ma so che non è appropriato. Vorrei abbracciare Marjory, se fosse qui, e baciarla, ma questo è assolutamente inappropriato.

Mi chiedo se le persone normali reagiscono alla scampata morte sentendosi sconvolte, tristi e depresse. È difficile immaginare che non si sentano invece sollevate e felici, ma non posso esserne sicuro. Forse loro credono che le mie reazioni dovrebbero essere differenti perché sono autistico: non ne sono certo e perciò non desidero dir loro come mi sento in realtà.

— Non credo che lei dovrebbe guidare per andare a casa — dice Stacy. — Lasci che sia uno dei nostri ad accompagnarla, eh?

— Ma io posso guidare — dico. — Non sono affatto disturbato. — Voglio essere solo nella macchina con la mia musica. E poi non c’è più pericolo: Don adesso non può più farmi del male.

— Signor Arrendale — dice il tenente mettendo la testa vicina alla mia — lei può pensare di essere tranquillo, ma chiunque abbia avuto un’esperienza come la sua dev’essere disturbato per forza. Lei non può essere in grado di guidare bene. Dovrebbe lasciare il volante a qualcun altro.

Ma io so che posso guidare normalmente, quindi scuoto la testa. Lui si stringe nelle spalle e dice: — Più tardi qualcuno si farà vivo da lei per raccogliere la sua testimonianza. Forse io, forse un altro agente. — Poi se ne va e pian piano la folla si dilegua.


Quando arrivo a casa non sono ancora le sette. Non so quando verrà un poliziotto. Chiamo Tom per informarlo di quanto è accaduto, perché lui conosce Don e io non conosco nessun’altra persona da chiamare. Lui dice che arriverà subito da me. Io non ho bisogno che lui venga, ma lui vuol venire.

Quando arriva, ha un aspetto molto turbato. Ha le sopracciglia molto ravvicinate e molte rughe sulla fronte. — Lou, stai bene?

— Benissimo — dico.

— Davvero Don ti ha assalito? — Non aspetta che io risponda ma continua a precipizio: — Non riesco a crederci… avevamo parlato di lui alla polizia…

— Tu hai parlato al tenente Stacy di Don?

— Dopo la faccenda della bomba. Lou, era evidente che doveva trattarsi di qualcuno del nostro gruppo. Avevo cercato di dirtelo…

Ricordo quando Lucia ci ha interrotti.

— Noi potevamo vederlo — continua Tom. — Era geloso di te a causa di Marjory.

— Mi biasima anche a causa del suo lavoro — lo informo. — Ha detto che sono un animale, che era colpa mia se lui non poteva avere la carriera che voleva, che gente come me non poteva avere amiche come Marjory.

— La gelosia è un conto, danneggiare macchine e far del male alla gente è un altro — dice Tom. — Mi dispiace che tu abbia dovuto subire tanti fastidi. Pensavo che lui ce l’avesse con me.

— Io sto bene — ripeto. — Lui non mi ha fatto niente. Sapevo che aveva antipatia per me, così la scoperta non è stata tanto dolorosa come poteva essere.

— Lou, sei… stupefacente. Io ancora penso che in parte sia colpa mia.

Questo non lo capisco. È stato Don a fare tutto, non è stato Tom a farglielo fare. Come potrebbe essere colpa di Tom, anche in piccolissima parte?

— Se avessi avuto qualche presentimento, se avessi avuto una migliore influenza su Don…

— Don è una persona, non una cosa — dico. — Nessuno può controllare completamente un’altra persona, ed è sbagliato tentare.

Il suo viso si rilassa. — Lou, a volte credo che tu sia il più saggio di noi. Sta bene. Non è stata colpa mia; però mi dispiace ancora che tu abbia dovuto affrontare un’esperienza simile. Anche il processo, poi… non sarà facile per te. Non è mai facile per nessuno che sia coinvolto in un processo.

— Un processo? Perché dovrei subire un processo?

— Non tu: dovrai testimoniare al processo di Don, ne sono certo. Non te lo hanno detto?

— No. — Non so come si deve comportare un testimone in un processo. Non mi è mai piaciuto guardare spettacoli su processi in TV.

— Be’, non succederà tanto presto e avremo tempo di parlarne. Adesso però… c’è qualcosa che io o Lucia possiamo fare per te?

— No, io sto bene. Verrò a esercitarmi domani.

— Ne sono contento. Non avrei voluto che tu ci abbandonassi per paura che qualcun altro nel gruppo cominciasse a comportarsi come Don.

— Non avevo pensato affatto a questo. — Sembra un’idea sciocca, ma poi mi chiedo se il gruppo aveva bisogno di un Don e se qualcuno dovesse calarsi in quel ruolo. Eppure, se una persona normale come Don poteva nascondere quel carico di collera e di violenza, forse tutte le persone normali hanno quella facoltà in potenza. Io non credo di averla.

— Bene. Se però dovessi avere la minima preoccupazione su questo punto, a proposito di chiunque… fammelo sapere subito, per favore. I gruppi sono bizzarri. Io ho fatto parte di gruppi dove, quando qualcuno che era antipatico a tutti se ne andava, immediatamente trovavamo qualcun altro da detestare e si ricominciava daccapo.

— Così ci sono schemi nei gruppi?

— Quello è uno dei tanti. — Sospira. — Spero che non esista nel nostro gruppo, e comunque terrò gli occhi aperti. Chissà come, nel caso di Don non ci siamo accorti di niente.

Suona il campanello. Tom mi guarda con aria interrogativa. — Credo sia un poliziotto — dico. — Il signor Stacy ha detto che avrebbe mandato qualcuno a raccogliere la mia deposizione.

— Allora io posso andare — mi saluta Tom.


Il poliziotto, che è il signor Stacy, siede sul mio divano. Porta calzoni avana e una camicia a quadretti con maniche corte; ha scarpe marroni di pelle ruvida. Appena entrato si è guardato attorno e si capiva che stava notando tutto. Anche Danny guarda nello stesso modo, facendo caso a tutto.

— Ho i rapporti sugli altri episodi di vandalismo, signor Arrendale — dice. — Perciò, se lei mi dirà tutto su quanto è avvenuto questa sera… — Ma è sciocco: lui era lì. Mi ha fatto delle domande e io ho risposto e lui ha scritto sul suo palmare. Non capisco perché sia qui a farmi ripetere tutto daccapo.

— Questo è il mio giorno per andare a fare la spesa — dico. — Io vado a fare la spesa nello stesso supermercato, perché è più facile trovare le cose in un supermercato quando si va lì ogni settimana.

— Ci va alla stessa ora ogni settimana?

— Sì. Vado dopo il lavoro e prima di prepararmi la cena.

— E fa una lista delle cose da acquistare?

— Sì. — È naturale, credo, ma forse Stacy pensa che non tutti facciano una lista. — Però l’ho gettata via quando sono arrivato a casa. — Mi chiedo se lui vorrà che vada a ripescarla dalla spazzatura.

— Oh, non importa. Volevo solo rendermi conto di quanto erano prevedibili i suoi movimenti.

— La prevedibilità è una buona cosa — dico. Sto cominciando a sudare. — È importante avere delle abitudini.

— Certo, naturalmente — annuisce lui. — Ma avere delle abitudini rende più facile localizzarla per qualcuno che voglia farle del male. Ricordi che io l’avevo ammonita in proposito la settimana scorsa.

Io non ci avevo pensato da quel punto di vista.

— Comunque continui, non volevo interromperla. Mi dica tutto.

Mi pare strano avere qualcuno che ascolta con tanta attenzione cose insignificanti come l’ordine secondo il quale faccio le mie spese… ma lui vuole che gli dica tutto. Non so cos’abbia a che fare questo con l’attentato, però io riferisco tutto, come organizzo la mia spesa per evitare di fare giri inutili.

— Poi sono uscito — continuo. — Non era completamente buio, ma nel parcheggio le luci erano accese. Io avevo parcheggiato a sinistra, nell’undicesima fila. — A me piace fermarmi in un posto la cui locazione sia un numero primo, ma questo non lo dico. — Avevo in mano le chiavi e ho aperto la macchina. Ho preso i sacchetti della spesa dal carrello e li ho riposti nel retro. Poi ho sentito il carrello muoversi alle mie spalle e mi sono voltato. Allora Don mi ha rivolto la parola.

M’interrompo, cercando di ricordare quali parole esatte ha adoperato e in che ordine. — Sembrava davvero furioso — dico. — Aveva la voce rauca. Ha detto: "È stata tutta colpa tua. È colpa tua se Tom mi ha buttato fuori". — M’interrompo di nuovo. Don ha detto un sacco di cose molto in fretta e io non sono sicuro di ricordarle tutte nel dovuto ordine. Sarebbe sbagliato riferirle in modo inesatto.

Il tenente Stacy aspetta in silenzio.

— Non sono certo di ricordare tutto esattamente — mi giustifico.

— Non importa — dice lui. — Mi racconti tutto ciò che ricorda.

— Lui ha detto: "È colpa tua se Marjory mi ha scaricato". Tom è la persona che ha organizzato il gruppo di schermidori. Marjory è… le ho parlato di lei la settimana scorsa. Non è mai stata la ragazza di Don. — Mi sento imbarazzato a parlare di Marjory: lei dovrebbe parlare per sé. — Marjory ha simpatia per me in un certo senso, ma… — Questo non posso dirlo. Non so in che modo piaccio a Marjory, se come conoscente o come amico o come qualcosa di più. Se dico "non come un amante" non rischio di dire una cosa vera? Io non voglio che sia vera.

— Mi ha detto: "I fenomeni da baraccone dovrebbero accoppiarsi con fenomeni da baraccone, se è proprio necessario che si accoppino". Era molto arrabbiato. Ha detto che era colpa mia se c’era la depressione e lui non riusciva a trovare un buon lavoro.

— Uhm. — Stacy emette solo un piccolo grugnito e non dice nulla.

— Mi ha detto di entrare in macchina. Ha spinto l’arma verso di me. Non è bene entrare in macchina con un assalitore, lo hanno detto in un programma lo scorso anno.

— Lo ripetiamo tutti gli anni — dice Stacy. — Però c’è sempre gente che lo fa. Sono contento che lei non l’abbia fatto.

— Io potevo vedere il suo schema di attacco — spiego. — Così mi sono mosso: ho parato la sua arma e l’ho colpito allo stomaco. So che è sbagliato colpire qualcuno, ma lui voleva farmi del male.

— Lei ha visto il suo schema di attacco? — chiede Stacy. — Di cosa si tratta?

— Abbiamo fatto parte dello stesso gruppo di schermidori per anni — racconto. — Quando Don spinge il braccio destro in avanti per una stoccata, muove sempre insieme il piede destro e poi sposta il sinistro di lato, quindi sporge il gomito in fuori e tira la stoccata in un giro largo verso destra. Ecco perché sapevo che se gliel’avessi mandata a vuoto e poi avessi tirato la mia stoccata al centro avrei avuto la possibilità di colpirlo prima che lui mi toccasse.

— Ma se lui ha tirato di scherma con lei per anni, come mai non s’è accorto della sua contromossa?

— Non lo so — dico. — Comunque io sono bravo a scoprire schemi nel modo di muoversi delle persone. È così che tiro di scherma. Don non è bravo nel fare questo. Io credo che forse, siccome non avevo in mano un fioretto, lui non ha pensato che avrei usato la stessa contromossa che adopero nella scherma.

— Ehm… Vorrei vederla tirare di scherma — dice Stacy. — L’avevo sempre creduta una faccenda piuttosto effeminata, con quelle divise bianche e quei fili che gli schermidori si trascinano dietro, ma da come la mette lei sembra interessante. Dunque: lui l’ha minacciata con l’arma, lei l’ha spostata con un colpo di mano e quindi l’ha centrato allo stomaco, e poi?

— Poi un sacco di gente si è messa a urlare e delle persone sono balzate su Don. Penso che fossero poliziotti, ma prima io non li avevo visti. — Mi fermo. Il resto lui può sentirlo dagli agenti che erano lì.

— Benissimo. Adesso ritorniamo su qualche particolare… — Mi fa ripetere tutto parola per parola più volte, e ogni volta io ricordo qualche nuovo dettaglio. La cosa mi preoccupa… sto davvero ricordando tutte queste cose o aggiungo dei particolari per far contento il tenente? Ho letto queste cose nel libro. A me sembra di dire la verità, ma a volte questo non è vero. Mentire è sbagliato, io non voglio mentire.

Stacy mi chiede di nuovo del gruppo di scherma: chi aveva simpatia per me e chi non l’aveva; per chi io avevo simpatia e per chi non l’avevo. Io pensavo di avere simpatia per tutti; e pensavo che tutti avessero simpatia per me, fino alla faccenda di Don. Sembra che Stacy desideri che Marjory sia la mia ragazza o la mia amante: continua a chiedermi se ci vediamo. Io sudo più che mai parlando di lei. Ma continuo a dire la verità, che lei a me piace tanto e non faccio che pensare a lei, però noi due non ci vediamo.

Finalmente il tenente si alza. — Grazie, signor Arrendale, per ora basta. Farò trascrivere la sua deposizione e poi lei dovrà venire alla stazione di polizia e firmarla. Poi ci terremo in contatto quando ci sarà il processo.

— Il processo? — chiedo.

— Certo. Come vittima dell’attentato lei sarà un testimone per l’accusa. Ciò le crea dei problemi?

— Il signor Crenshaw si arrabbierà se perdo troppo tempo e trascuro il lavoro — dico. Questo sarà vero se per allora avrò ancora un lavoro. E se non l’avessi più?

— Sono certo che capirà — dice il tenente.

Io sono certo che non capirà, perché non vuol capire.

— C’è una possibilità che l’avvocato di Poiteau venga a patti con il procuratore distrettuale — dice Stacy. — Potrebbe patteggiare una sentenza ridotta contro il rischio di esser trattato peggio in tribunale. Comunque, le faremo sapere. — Si avvia alla porta. — Abbia cura di lei, signor Arrendale. Sono contento che abbiamo preso quel tizio e che lei non abbia subito danni.

— Grazie a lei per l’aiuto — dico.

Dopo che se n’è andato, liscio le grinze dal posto dove si è seduto sul divano e rimetto a posto i cuscini. Mi sento nervoso. Non voglio più pensare a Don e al suo attentato, voglio dimenticarlo. Vorrei che non fosse mai avvenuto.

Mi preparo una cena semplice, un brodo con pasta e verdura, lo mangio e poi lavo la pentola e il piatto. Sono già le otto. Riprendo il libro e comincio il capitolo 17: Integrazioni della Memoria e Controllo dell’Attenzione: Le lezioni del DSPT.

A questo punto trovo i lunghi periodi e la sintassi complicata molto più agevoli da capire. Non costituiscono uno stile lineare ma piuttosto agglomerato o radiale. Vorrei tanto che qualcuno mi avesse insegnato queste cose prima.

Le informazioni che gli autori cercano di fornire sono organizzate secondo un ordine logico. Potrei averlo scritto io, un libro come questo. È bizzarro pensare che una persona come me potrebbe aver scritto un capitolo di un testo sulle funzioni del cervello. Io do l’impressione di esprimermi come un libro quando parlo? È per questo che la dottoressa Fornum parla di "linguaggio affettato"? Ma se lei pensava che io parlassi come un libro, perché non l’ha detto chiaro e tondo?

A questo punto so che DSPT significa "Disturbo da Stress Post-Traumatico" e che produce strane alterazioni nella funzione della memoria.

Mi fa venire l’idea che in questo momento anch’io mi trovo in una condizione post-traumatica, e che venire assalito da qualcuno che voleva uccidermi provoca ciò che gli autori del libro chiamano "trauma", benché io non mi senta molto teso o turbato. Forse la gente normale non si siede a leggere un testo di medicina poche ore dopo aver rischiato di venire uccisa, io invece lo trovo confortante. I fatti sono sempre lì, sempre disposti secondo un ordine logico, descritti da qualcuno che si è dato pena per renderli chiari. Così i miei genitori mi dicevano che le stelle continuavano a risplendere, non offuscate né danneggiate da qualunque cosa avvenisse sul nostro pianeta. A me piace che l’ordine esista da qualche parte, anche se non nelle mie vicinanze.

Come si sentirebbe una persona normale? Ricordo un esperimento che facemmo durante la lezione di scienze nella scuola media. Piantammo semi in vasi tenuti inclinati. Le piante crescevano rivolte alla luce, e non importava quale angolazione dovevano assumere i loro steli. Ricordo che io mi chiesi se qualcuno avesse piantato me in un vaso messo di sghembo, ma la mia insegnante mi disse che non era la stessa cosa.

Io però mi sento proprio così. Mi trovo di sghembo rispetto al mondo, mi sento felice quando gli altri pensano che dovrei sentirmi sconvolto. Il mio cervello ha cercato di crescere verso la luce, ma non ha potuto raddrizzarsi quando è stato raddrizzato il suo vaso.

Se ho ben capito il testo, io ricordo cose come quale percentuale di automobili in un parcheggio sono blu perché presto attenzione ai colori e ai numeri più delle persone normali, le quali non se ne accorgono perché non gliene importa. Mi chiedo a cosa fanno caso quando guardano un parcheggio. Cos’altro c’è da vedere tranne le file delle macchine, tante blu, tante marrone, tante rosse? Cos’è che a me sfugge, come alle persone normali sfugge la bella relazione numerica?

Io ricordo colori, numeri e configurazioni e serie ascendenti e discendenti: tali sono gli elementi che passano più agevolmente attraverso il filtro che la mia elaborazione sensoriale ha messo tra me e il mondo. Essi dunque sono diventati i parametri della crescita del mio cervello, ed è per questo che io vedo tutto… dal processo di fabbricazione dei farmaci alle mosse di un avversario nella scherma… allo stesso modo, come espressioni di uno stesso tipo di realtà.

Mi guardo intorno nell’appartamento e penso alle mie reazioni, al mio bisogno di regolarità, a quanto sono affascinato dai fenomeni che si ripetono in serie e secondo schemi. Ognuno ha bisogno di una certa regolarità; ognuno ama serie e schemi, almeno fino a un certo punto. Io ho saputo questo per anni, ma adesso lo comprendo meglio. Noi autistici ci troviamo a un’estremità della parabola dei comportamenti e delle preferenze umani, e tuttavia non ne siamo separati. Il mio sentimento per Marjory è normale, non autistico. Forse io sono più conscio dei diversi colori dei suoi occhi e dei suoi capelli di quanto lo sarebbe un’altra persona, ma il desiderio di starle vicino è un desiderio da persona normale.

È quasi ora di andare a letto. Quando mi metto sotto la doccia, guardo il mio corpo perfettamente normale: pelle normale, capelli normali, normali unghie delle mani e dei piedi, apparato genitale normale. Certo ci saranno persone normali che preferiscono come me sapone senza profumo, la stessa temperatura dell’acqua, la stessa consistenza nella stoffa degli asciugamani.

Fatta la doccia mi lavo i denti e sciacquo il lavandino. Il mio viso nello specchio è il mio solito viso: è il viso che conosco meglio. La luce irrompe nelle pupille dei miei occhi e porta con sé le informazioni che sono alla portata del mio periplo visivo, porta con sé il mondo; ma quando io guardo il punto dove la luce penetra vedo solo un nero profondo e vellutato. La luce vi penetra e il buio mi scruta di rimando. L’immagine è nel mio occhio e nel mio cervello oltre che nello specchio.

Spengo la luce nel bagno. Vado a letto, e spengo la luce dopo essermi seduto sulla coperta. L’immagine residua della luce arde nel buio. Chiudo gli occhi e vedo la coincidenza degli opposti nello spazio. Prima le parole, e poi le immagini che sostituiscono le parole.

La luce è l’opposto del buio. La pesantezza è l’opposto della leggerezza. La memoria è l’opposto della dimenticanza. Una volta io domandai a mia madre come poteva accadere che io vedessi luce nei miei sogni mentre i miei occhi erano chiusi nel sonno. Perché i sogni non si svolgevano tutti al buio?, chiesi. Lei non lo sapeva. Il libro mi ha informato dell’elaborazione degli stimoli visivi nel cervello, ma a questa domanda non ha risposto.

Mi chiedo perché. Certo qualcuno si sarà chiesto perché i sogni sono pieni di luce anche se noi ci troviamo al buio. Il cervello genera immagini, sì, ma da dove viene la luce che le illumina? Quando sono cieche, le persone non vedono più la luce. Allora la luce nel sogno è una memoria della luce o qualche altra cosa?

Ricordo che una volta qualcuno disse di un altro bambino: "Adora il calcio a tal punto che se gli si aprisse la testa ci si troverebbe uno stadio". Questo successe prima che imparassi che molto di quanto la gente diceva non aveva un significato "letterale". Mi chiesi cosa si sarebbe trovato nella mia testa se qualcuno l’avesse aperta. Lo chiesi a mia madre e lei mi rispose: "Il tuo cervello, caro" e mi mostrò l’immagine di una cosa grigia e grinzosa. Io piansi perché la trovai tanto brutta e non volevo che se ne stesse nella mia testa. Mi sentivo sicuro che nessun altro avesse nella testa una cosa così orribile. Loro avevano stadii o gelati o picnic.

Adesso so che ognuno di noi ha una cosa grigia e grinzosa nella testa, non stadii per il calcio o piscine o la persona amata. Ciò che risiede nella mente non appare nel cervello. In quel momento però quella fu per me l’ennesima prova che io ero fatto in modo sbagliato.

Ciò che ho nella testa ora sono luce e buio e gravità e spazio e spade e supermercati e numeri e persone e schemi tanto belli da farmi venire i brividi in tutto il corpo. Ma ancora non so perché in me ci sono queste configurazioni e non altre.

Il libro risponde a domande concepite da altre persone. Io ho concepito domande alle quali nessuno ha risposto. Avevo sempre pensato che le mie domande fossero sbagliate perché nessun altro le faceva. Forse perché nessuno ci aveva pensato. Forse il buio era arrivato prima. Forse sono io la prima luce a toccare un golfo d’ignoranza.

Forse le mie domande sono importanti.

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