Luce. Buio. Luce. Buio. Luce e buio. Affilatura di luce sul buio. Movimento. Rumore. Ancora rumore. Movimento. Freddo, caldo, rovente, luce, buio, ruvido e liscio, freddo, troppo freddo e dolore e caldo e buio e niente dolore. Ancora luce. Movimento. Rumore, rumore più alto e troppo alto, una mucca che muggisce. Movimento, sagome contro la luce, puntura, caldo ritorno al buio.
Luce è giorno. Buio è notte. Giorno è alzati adesso è tempo di alzarsi. Notte è stai giù sta’ calmo dormi. Alzati adesso, siedi, tendi le braccia. Aria fredda. Tocco caldo. Alzati adesso, sta’ ritto. Freddo ai piedi. Vieni su cammina. Cammina a posto lucente freddo odore paura. Posto per bagnare o sporcare, posto per pulirsi. Tendi le braccia, qualcosa scivola sulla pelle. Scivola sulle gambe. Aria fredda dappertutto. Entra in doccia, stringi ringhiera. Ringhiera fredda. Rumore pauroso, rumore pauroso. Non essere sciocco. Sta’ fermo. Cose picchiano, tante cose picchiano, bagnato scivola troppo freddo poi caldo poi troppo caldo. Va bene adesso, va bene. No, non va bene. Sì, sì, sta’ fermo. Cosa che succhia, cosa che scivola dappertutto. Pulito, adesso pulito. Ancora bagnato. Ora di uscire, sta’ ritto. Strofinare dappertutto, adesso pelle calda. Indossa vestiti. Indossa calzoni, indossa camicia, infila pantofole. Ora di camminare. Reggi questo. Cammina.
Posto per mangiare. Ciotola. Cibo in ciotola. Prendi cucchiaio. Cucchiaio in cibo. Cucchiaio in bocca. No, tieni cucchiaio dritto. Cibo tutto andato. Cibo caduto. Fermati. Riprova. Riprova. Riprova. Cucchiaio in bocca, cibo in bocca. Cibo gusto cattivo. Mento bagnato. No, non sputarlo. Riprova. Riprova. Riprova.
Sagome che si muovono gente. Gente viva. Sagome che non si muovono non vive. Camminando sagome cambiano. Sagome non vive cambiano poco. Sagome vive cambiano molto. Sagome di gente hanno in cima un posto bianco. Gente dice indossa vestiti, indossa vestiti, sii buono. Buono è dolce. Buono è caldo. Buono è lucente bello. Buono è sorriso è nome per parti faccia mosse da questa parte. Buono è voce felice è nome per suono come questo. Suono come questo è parlare. Parlare dice cosa fare. Persone ridono è miglior suono. Sei bravo, essere bravo è buono. Buon cibo è buono per te. Vestiti sono buoni per te. Parlare è buono per te.
Gente più di uno. Gente è nomi. Usare nomi è buono per te, voce felice, lucente bello, anche dolce. Uno è Jim, buon giorno ora di alzarsi e vestirsi. Jim è faccia scura, luccica in cima testa, mani calde, parlare forte. Più di uno è due è Sally, adesso ecco la colazione puoi farlo da solo non è buono? Sally è faccia pallida, capelli bianchi in cima testa, parlare non forte. Amber è faccia pallida, capelli neri in cima testa, parlare non forte come Jim, più forte di Sally.
Ciao Jim. Ciao Sally. Ciao Amber.
Jim dice alzati. Ciao Jim. Jim sorride. Jim felice che ho detto Ciao Jim. Alzati, va’ in bagno, usa toletta, togli vestiti, va’ in doccia. Prendi in mano cosa a rotella. Jim dice bravo e chiude porta. Giro cosa a rotella. Acqua. Sapone. Acqua. Buona sensazione. Tutte sensazioni buone. Apri porta. Jim sorride. Jim felice fatto doccia da solo. Jim regge asciugamano. Prendi asciugamano. Strofina dappertutto. Asciutto. Asciutto sa di buono. Mattina sa di buono.
Indossa vestiti, cammina a colazione. Siedi a tavolo con Sally. Ciao Sally. Sally sorride. Sally felice che ho detto Ciao Sally. Guarda intorno dice Sally. Guarda intorno. Più tavoli, altra gente. Conosco Sally. Conosco Jim. Conosco Amber. Non conosco altra gente. Sally chiede Hai fame. Dico sì. Sally sorride. Sally felice che ho detto sì. Ciotola. Cibo in ciotola è cereale. Dolce in cima è frutta. Mangia dolce in cima, mangia cereale, di’ Buono, buono. Sally sorride. Sally felice che ho detto Buono. Felice perché Sally felice. Felice perché dolce è buono.
Amber dice ora di andare. Ciao Amber. Amber sorride. Amber felice che ho detto Ciao Amber. Amber cammina a stanza da lavoro. Io cammino a stanza da lavoro. Amber dice siedi qui. Io siedo qui. Tavolo davanti. Amber siede altro lato. Amber dice ora di fare gioco. Amber mette cosa su tavolo. Amber chiede Cos’è questo. È azzurro. Io dico azzurro. Amber dice Azzurro è colore, cos’è la cosa? Voglio toccare. Amber dice non toccare solo guardare. Cosa ha forma strana, sgualcita. Azzurra. Io triste. Non sapere è non buono, non buono per te, niente dolce, niente lucente bello.
Non essere depresso, dice Amber. Sta bene, sta bene. Amber tocca scatola di Amber. Poi dice Puoi toccare. Io tocco. È parte di vestito. È camicia. È troppo piccola per me. Troppo piccola. Amber ride. Bravo, sei bravo, ecco dolce, è una camicia ed è proprio troppo piccola per te. Camicia di bambola. Amber prende camicia di bambola e mette giù altra cosa. Pure forma strana, sgualcita nera. Non toccare, solo guardare. Se cosa sgualcita azzurra è camicia per bambola, cosa sgualcita nera altra cosa per bambola? Amber tocca. Cosa diventa più piatta. Due cose sporgono sotto, una cosa sporge sopra. Calzoni. Dico Calzoni per bambola. Amber fa grande sorriso. Bravo, davvero bravo. Una cosa dolce per te. Tocca la scatola di Amber.
Ora di pranzo. Pranzo è cibo in giornata fra colazione e cena. Ciao Sally. Sembra buono Sally. Sally è felice che dico questo. Cibo è appiccicoso tra fette di pane e frutta e acqua da bere. Cibo sa di buono in bocca. Cibo è buono Sally. Sally è felice che dico questo. Sally sorride. Bravo, sei davvero bravo. Simpatica Sally. Sally gentile.
Dopo pranzo c’è Amber e striscio su pavimento seguo la linea o sto ritto con piede alzato poi altro piede alzato. Amber pure striscia. Amber sta su un piede, cade. Rido. Ridere è buono. Amber ride. Bravo, sei molto bravo. Simpatica Amber.
Dopo strisciare su pavimento c’è altro gioco su tavolo. Amber mette cose su tavolo. Non so nomi. Niente nomi, dice Amber. Guarda questo: Amber tocca cosa nera. Trovane un’altra, dice Amber. Guardo le cose. Un’altra cosa uguale. Tocco. Amber sorride. Bravo, bravo. Amber mette insieme cosa nera e cosa bianca. Fa’ così, dice Amber. Paura. Non so. Sta bene, sta bene, dice Amber. Sta bene non sapere. Amber non sorride. Non bene. Trovo cosa nera. Guardo. Trovo cosa bianca. Metto insieme. Adesso Amber sorride. Bravo.
Amber mette insieme tre cose. Fa’ così, dice Amber. Io guardo. Una cosa è nera, una è bianca con parte nera, una è rossa con parte gialla. Guardo. Metto giù cosa nera. Trovo cosa bianca con parte nera, metto giù. Poi trovo cosa rossa con parte gialla, metto giù. Amber tocca la scatola di Amber. Poi Amber tocca le cose di Amber: rosso in mezzo, dice. Guardo. Ho sbagliato. Rosso in fine. Lo muovo. Bravo, sei bravo, dice Amber. Davvero un buon lavoro. Felice. Godo far felice Amber. Essere felici insieme, buono.
Altre persone arrivano. Una con camice bianco, vista prima, non conosco nome tranne dottore. Una uomo con maglione di molti colori e calzoni avana.
Amber dice Salve dottore a persona in camice bianco. Dottore parla ad Amber, dice Questo è suo amico, sulla lista. Amber mi guarda, poi guarda altro uomo. Uomo guarda me. Non è felice, anche con sorriso.
Uomo dice Ciao Lou sono Tom.
Ciao, Tom, dico. Lui non dice Bravo. Tu sei dottore, dico.
Dottore ma non medico, dice Tom. Non so cosa è dottore ma non medico.
Amber dice Tom è sulla tua lista, per farti visita. Tu lo conoscevi prima.
Prima di che? Tom non sembra felice. Tom sembra molto triste.
Non conosco Tom, dico. Guardo Amber. È sbagliato non conoscere Tom?
Hai dimenticato tutto di prima? chiede Tom.
Prima di che? La domanda mi disturba. Quello che conosco è adesso. Jim, Sally, Amber, il dottore, dov’è la camera da letto, dov’è il bagno, dov’è il posto dove si mangia, dov’è la stanza da lavoro.
Va tutto bene, dice Amber. Ti spiegheremo dopo. Va tutto bene. Stai facendo grandi progressi.
Meglio andare adesso, dice il dottore. Tom e il dottore se ne vanno.
Prima di che?
Amber dispone un’altra fila di cose e dice Fa’ anche tu così.
— Gliel’avevo detto che era troppo presto — disse la dottoressa Hendricks, una volta tornata con Tom in corridoio. — Gliel’avevo detto che non l’avrebbe riconosciuta.
Tom Fennell tornò a guardar dentro dalla finestra che permetteva di vedere senza essere visti. Lou… o la cosa che era stata Lou… sorrideva alla terapista che stava lavorando con lui e prendeva un blocchetto da aggiungere allo schema che andava copiando. Dolore e rabbia invasero Tom nel ricordare lo sguardo vacuo, il sorriso privo di significato che aveva accompagnato il suo "Ciao, Tom".
— Per ora lo confonderemmo se solo cercassimo di spiegargli tutto — disse la Hendricks.
Tom ritrovò la voce, anche se non sembrava la sua. — Voi dottori… ma avete la benché minima idea di quello che avete fatto? — Si teneva immobile con uno sforzo enorme. Avrebbe voluto strangolare la persona che aveva distrutto il suo amico.
— Certo. Lui sta facendo davvero dei grandi progressi. — La dottoressa Hendricks pareva indecentemente fiera di se stessa. — La settimana scorsa non era in grado di fare ciò che sta facendo adesso.
Progressi, eh? Star seduto lì a copiare la disposizione di una fila di blocchetti, secondo Tom, non si poteva definire esattamente "fare grandi progressi". Non quando lui ricordava con tanta chiarezza le sbalorditive capacità di Lou. — Ma… ma l’analisi e la creazione di schemi erano un suo dono speciale…
— Ci sono stati cambiamenti profondi nella struttura del suo cervello — disse la dottoressa. — Altri cambiamenti si stanno ancora verificando. È come se il suo cervello fosse tornato indietro in età… in un certo senso come se fosse ridiventato il cervello di un bambino. Grande plasticità, grande capacità di adattamento.
Il tono compiaciuto di lei lo urtava. Era evidente che la donna non aveva dubbi sulla giustezza di ciò che aveva fatto. — Quanto tempo ci vorrà perché maturi? — domandò.
La dottoressa Hendricks non si strinse nelle spalle, ma fu come se lo avesse fatto. — Non lo sappiamo. Pensavamo… dovrei piuttosto dire avevamo la speranza… che con la combinazione di tecnologia genetica e nanotecnologia, più l’accelerazione della crescita neurale, la fase di riabilitazione sarebbe stata più breve, più somigliante a quella constatata nel trattamento somministrato agli animali. D’altra parte il cervello umano è incommensurabilmente più complesso…
— Questo avreste dovuto saperlo fin dal principio! — A Tom non importava che il suo tono fosse di accusa. Si chiese come stessero gli altri, cercò di ricordare quanti ce n’erano stati. Nella stanza aveva visto solo altri due uomini che lavoravano con i loro terapisti. Gli altri stavano bene o no? Non sapeva neanche come si chiamassero.
— È vero. — L’ammissione della dottoressa lo irritò ancor di più.
— Cosa stavate pensando…
— Di aiutare. Stavamo pensando solo di aiutare. Guardi… — Indicò la finestra e Tom guardò.
L’uomo con la faccia di Lou… ma non con la sua espressione… completò il suo schema e alzò gli occhi con un sorriso alla terapista che gli sedeva davanti. Lei parlò… Tom non poté sentire le parole attraverso il vetro, ma poté vedere la reazione di Lou, una risata allegra e uno scuotere la testa appena abbozzato. Un gesto così incongruo da parte di Lou, così stranamente normale che a Tom si mozzò il fiato.
— I suoi rapporti sociali sono già più normali. Il paziente è facilmente motivato da segnali sociali, gli piace stare in compagnia. Sta sviluppando una personalità davvero affascinante, benché a questo punto sia ancora infantile. Si stanno normalizzando anche le sue elaborazioni degli stimoli sensoriali: l’estensione delle sue preferenze quanto a temperature, strutture, sapori eccetera è adesso entro limiti normali. Il suo uso del linguaggio è ogni giorno migliore. Man mano che le sue funzioni si ristabiliscono noi andiamo abbassando le dosi di ansiolitici.
— Ma i suoi ricordi…
— Ancora su questo non si può dir niente. La nostra esperienza nel restituire i ricordi perduti alla popolazione psicotica suggerisce che le due tecniche che usiamo sono efficaci… fino a un certo punto. Abbiamo effettuato registrazioni multisensoriali, capisce, e queste verranno reinserite. Per ora ne abbiamo bloccato l’accesso con un agente biochimico specifico… è brevettato, perciò non mi chieda nemmeno di che si tratta… che filtreremo via nelle prossime settimane. Vogliamo avere la sicurezza di poter contare su un substrato di elaborazione e integrazione sensoriale completamente solido prima di far questo.
— Così lei non sa se sarà in grado di restituirgli la sua vita passata?
— No, ma nutriamo delle speranze. E dopo tutto il paziente non starà peggio di chi perde la memoria a causa di un trauma. — Quello che avevano fatto a Lou si poteva davvero chiamare trauma, pensò Tom. La dottoressa Hendricks continuò: — Dopo tutto una persona può adattarsi e vivere la propria vita anche senza memoria del proprio passato, purché riesca a riacquistare le facoltà che gli permettono di funzionare indipendentemente e di relazionarsi alla società.
— Cosa mi dice delle sue capacità cognitive? — riuscì a dire Tom con voce quasi calma. — Mi sembrano molto compromesse in questo momento, e Lou prima possedeva un’intelligenza quasi geniale.
— Questo proprio non lo credo — disse la dottoressa. — Secondo i nostri test aveva in effetti un’intelligenza al di sopra della media, quindi anche se dovesse perdere dieci o venti punti non vedrebbe messe in pericolo le sue possibilità di condurre una vita indipendente. Però il paziente non era un genio, assolutamente no. — La sicurezza sussiegosa della sua voce, quel gelido deprezzamento del Lou che Tom aveva conosciuto gli sembrarono peggiori di una crudeltà deliberata.
— Lei lo conosceva prima? Conosceva qualcuno di loro? — domandò.
— No, naturalmente no. Li ho incontrati una volta, ma non sarebbe stato opportuno da parte mia conoscerli personalmente. Ho però i risultati dei loro test, e le interviste e le registrazioni dei ricordi sono tuttora in possesso dell’equipe psichiatrica della riabilitazione.
— Era un uomo straordinario — disse Tom. Guardò il volto della donna e non ci vide altro che orgoglio di quanto stava facendo e impazienza per essere stata interrotta. — Spero che tornerà a esserlo.
— Per lo meno non sarà autistico — concluse lei, come se questo giustificasse ogni cosa.
Tom stava per dire che l’autismo dopo tutto non era la cosa peggiore del mondo, ma tacque. Era inutile discutere con una persona come la dottoressa, almeno non lì e non in quel momento, e comunque ormai per Lou era troppo tardi. Quella donna rappresentava per Lou la migliore speranza di recupero… il pensiero gli provocò un brivido involontario.
— Lei dovrebbe tornare quando il paziente starà meglio — disse ancora la dottoressa Hendricks. — Allora potrà apprezzare al suo giusto valore il lavoro che abbiamo realizzato. La chiameremo. — Lo stomaco di Tom si sollevò a quell’idea, ma lo doveva a Lou.
Fuori, Tom si chiuse il cappotto e infilò i guanti. Lou sapeva che era inverno? Nell’ala riservata a lui e ai suoi compagni Tom non aveva visto finestre che si affacciassero all’esterno. Quel pomeriggio grigio che si avviava all’imbrunire, con il cielo chiuso e le strade coperte di fanghiglia sudicia, si intonava al suo umore.
Maledisse la ricerca medica per tutta la strada fino a casa.
Sono seduto a un tavolo e davanti a me c’è un’estranea, una donna in camice bianco. Ho l’impressione di essere stato qui molto a lungo, ma non so perché. È come pensare a qualche altra cosa quando guidi e di colpo trovarti a una ventina di chilometri di distanza senza sapere per dove sei passato.
È come riprendersi da uno stordimento. Non so bene dove sono e cosa sto facendo.
— Chiedo scusa — dico — devo aver perso il filo per un momento. Potrebbe ripetere, per favore?
Lei mi guarda stupita, poi i suoi occhi si spalancano.
— Lou, ti senti bene?
— Mi sento benissimo — dico. — Magari sarò un poco confuso.
— Sai chi sei?
— Naturalmente — dico. — Sono Lou Arrendale. — Non so perché la donna pensi che non sappia il mio nome.
— Sai dove ti trovi?
Mi guardo intorno. Lei porta un camice bianco; la stanza ha l’aria di essere un ambiente tipico di una clinica o di una scuola. Non ne sono sicuro.
— Non esattamente — dico. — Qualche genere di clinica?
— Sì — dice lei. — Sai che giorno è oggi?
Di colpo mi rendo conto di non sapere che giorno sia. C’è un calendario sulla parete, e un grande orologio, ma benché il mese indicato sia febbraio, non mi pare giusto. Il mio ultimo ricordo è di una giornata d’autunno.
— No — dico. Sto cominciando a sentirmi impaurito. — Cosa è successo? Mi sono ammalato, ho avuto un incidente o che cosa?
— Hai avuto un’operazione al cranio — spiega lei. — Ricordi qualcosa in proposito?
No. C’è una nebbia densa nella mia testa quando cerco di pensarci, una nebbia scura e pesante. Mi tasto il capo. Non fa male. Non avverto alcuna cicatrice. I miei capelli ci sono tutti.
— Come ti senti? — domanda la donna.
— Terrorizzato — dico. — Voglio sapere cos’è avvenuto.
Sono stato in piedi e ho camminato, mi dicono, per un paio di settimane: andavo dove mi dicevano, sedevo dove mi dicevano. Adesso sono conscio di questo: ricordo la giornata di ieri, benché i giorni precedenti siano nebulosi.
Nel pomeriggio sono sotto trattamento fisioterapico. Sono rimasto a letto per settimane, senza poter camminare, e questo mi ha indebolito. Adesso mi vado rinforzando.
È noioso camminare avanti e indietro nella palestra. C’è anche una serie di gradini con una ringhiera, per esercitarsi a salire e scendere le scale, ma anche questo ben presto diventa noioso. Missy, la mia fisioterapista, suggerisce che giochiamo a palla. Io non ricordo come si fa, ma lei mi dà una palla e mi chiede di lanciargliela. Lei sta seduta a poca distanza. Le lancio la palla e lei me la rilancia. È facile. Mi sposto all’indietro e le lancio di nuovo la palla. Anche questo è facile. Missy mi mostra un bersaglio con un campanello che dovrà squillare se faccio centro. È facile centrarlo da tre metri; da sei metri sbaglio poche volte, poi lo centro sempre.
Anche se non ricordo molto del passato, ho l’impressione che non trascorrevo il tempo lanciando una palla a qualcuno e facendomela rilanciare. Un vero gioco alla palla, se persone vere lo praticano, dovrebbe essere più complicato di così.
Questa mattina mi sono svegliato riposato e più forte. Ho ricordato la giornata di ieri e il giorno prima e qualcosa del giorno ancora prima. Mi sono vestito prima che l’inserviente, Jim, venisse a controllarmi; e sono sceso in sala da pranzo senza bisogno che nessuno m’indicasse dov’era. La colazione è noiosa: ci sono solo cereali caldi o freddi, banane e arance. Quando si sono ordinati cereali caldi con banane o con arance, oppure cereali freddi con banane o con arance la scelta è esaurita. Guardandomi intorno ho riconosciuto diverse persone, benché mi ci sia voluto un minuto per rammentare i loro nomi: Dale, Eric, Cameron. Li conoscevo da prima. Anche loro erano nel gruppo che si sottoponeva al trattamento. Ce n’erano anche altri: mi chiedo dove siano.
— Santo cielo, mi piacerebbe qualche frittella — ha detto Eric quando mi sono seduto al tavolo. — Sono così stanco di mangiare sempre le stesse cose.
— Forse potremmo domandarne altre — ha detto Dale, ma voleva dire "tanto non servirà a niente".
— Probabilmente questa roba è salutare — ha supposto Eric. Faceva dell’ironia e abbiamo riso tutti.
Io non sapevo con precisione cosa volevo, ma certo non volevo i soliti cereali e la solita frutta. Mi passavano per la mente vaghi ricordi di cibi che mi erano piaciuti. Mi chiedevo cosa ricordassero gli altri. Sapevo di conoscerli in qualche modo, ma non in quali circostanze.
Siamo tutti sottoposti a svariate terapie nella mattinata: rieducazione al discorso, rieducazione cognitiva, rieducazione alla vita quotidiana. Ho ricordato, benché con scarsa chiarezza, di aver percorso questa routine per parecchio tempo.
Questa mattina mi è sembrata incredibilmente noiosa. Domande su domande e istruzioni su istruzioni. Lou, cos’è questo? Una ciotola, un bicchiere, un piatto, una brocca, una scatola… Lou, metti il bicchiere giallo nel cestino azzurro… o il fiocco verde sulla scatola rossa, o fa’ una costruzione con i blocchetti o qualche altra cosa ugualmente inutile. La terapista aveva un modulo sul quale faceva delle annotazioni. Ho cercato di leggerne l’intestazione, ma è difficile leggere le lettere capovolte. Credo però che una volta lo facessi senza difficoltà. Ho letto le etichette sulle scatole invece: MANIPOLAZIONI PER LA DIAGNOSTICA: SERIE 1, MANIPOLAZIONI PER LA RIEDUCAZIONE ALLA VITA QUOTIDIANA: SERIE 2.
Ho fatto scorrere lo sguardo per la stanza. Non stavamo facendo tutti le stesse cose, ma stavamo tutti lavorando insieme a un terapista personale. Tutti i terapisti indossavano camici bianchi, ma tutti avevano anche abiti colorati sotto i camici. All’estremità opposta della stanza c’erano dei tavoli sui quali stavano quattro computer. Mi sono chiesto perché non li adoperiamo mai. Adesso ho ricordato, più o meno, cosa sono i computer e cosa potevo fare io con essi. Sono scatole colme di parole, numeri e illustrazioni, ed è possibile fare in modo che rispondano a domande. Preferirei molto che fosse una macchina a rispondere alle domande piuttosto che dover essere io a farlo.
— Potrei adoperare il computer? — chiedo a Janis, la mia terapista del discorso.
Lei è parsa sbigottita. — Usare il computer? Per fare che?
— Quel che stiamo facendo è noioso — spiego. — Tu continui a rivolgermi domande sciocche e a dirmi di fare cose sciocche e troppo facili.
— Lou, ma è per aiutarti. Abbiamo bisogno di controllare il tuo livello di comprensione… — Mi guarda come se fossi un bambino o uno stupido.
— Conosco le parole di tutti i giorni; è questo che vuoi sapere?
— Sì, ma non le conoscevi quando ti sei svegliato — dice lei. — Guarda, se vuoi posso passare a un livello più avanzato… — Tira fuori un altro libretto che contiene dei test. — Vediamo se sei pronto per questo; ma se dovesse essere troppo difficile non te ne preoccupare…
Devo accoppiare delle parole alle illustrazioni corrispondenti. Lei legge le parole e io guardo le illustrazioni. È facilissimo; finisco in un paio di minuti. — Se mi lasciassi leggere le parole farei più presto — dico.
Lei sembra di nuovo molto sorpresa. — Sai leggere le parole?
— Ma certo — rispondo, meravigliato per la sua sorpresa. Sono un adulto, e gli adulti sanno leggere. Provo però una sensazione di disagio dentro di me… un vago ricordo di non essere stato capace di leggere le parole, di lettere che erano segni senza senso, solo sagome come altre sagome… — Non sapevo leggere, prima?
— Sì, ma non hai letto subito, dopo… — dice lei. Mi porge un’altra lista e la pagina d’illustrazioni. Le parole sono brevi e semplici: albero, bambola, casa, automobile, treno. Poi mi porge un’altra lista, questa di animali, poi ancora un’altra di attrezzi. Sono tutte facili.
— Allora mi sta tornando la memoria — dico. — Rammento queste parole e queste cose…
— Pare davvero così — annuisce lei. — Vuoi che facciamo qualche prova di comprensione della lettura?
— Certo — dico.
Mi porge un libriccino smilzo. Il primo paragrafo è una storia di due ragazzini che giocano a baseball. Le parole sono facili; le sto leggendo a voce alta, come lei mi ha chiesto di fare, quando di colpo mi sento come due persone che leggano le stesse parole e ci trovino due diversi significati. Mi interrompo.
— Che c’è? — chiede lei dopo che sono rimasto in silenzio abbastanza a lungo.
— Io… io non so — dico. Mi pare buffo. Non intendo buffo nel senso che faccia ridere, ma nel senso che è strano. Una metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché Bill ha rotto la sua mazza e non vuole ammetterlo; l’altra metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché suo padre gli ha regalato la mazza. La domanda sotto la storia chiede perché Tim è arrabbiato. Io non conosco la risposta… insomma, non ne sono sicuro.
Cerco di spiegarlo alla terapista. — Tim non voleva una mazza per il suo compleanno, voleva una bicicletta. Quindi poteva essere arrabbiato per questa ragione, o poteva essere arrabbiato perché Bill aveva rotto la mazza che suo padre gli aveva regalata. Non so quale delle due ragioni sia la vera: la storia non fornisce informazioni sufficienti.
Lei guarda il libriccino. — Uhm. La pagina dei punteggi dice che la risposta giusta è la C, ma io capisco il tuo dubbio. Sei stato bravo, Lou. Hai identificato due sfumature di significato diverse. Passa a un’altra prova.
Scuoto la testa. — Voglio riflettere su questa faccenda — dico. — Non capisco quale delle due metà del mio io sia il mio nuovo io.
— Ma Lou… — dice lei.
— Chiedo scusa. — Mi alzo in piedi. So che non è educato far questo, ma so anche che è necessario. Per un istante la stanza sembra più luminosa, con i contorni profilati nettamente da linee brillanti. È difficile valutare le profondità; urto contro un angolo del tavolo. La luce si affievolisce, i contorni diventano indistinti. Io mi sento malfermo, sbilanciato… ed ecco che mi trovo raggomitolato al suolo, sostenendomi al tavolo.
Il bordo del tavolo è solido sotto la mia mano; è fatto di un materiale che non è legno, ma ne riproduce le nervature. I miei occhi possono vedere le nervature, ma la mia mano può sentire la struttura che non è quella del legno. Percepisco l’aria che passa attraverso il sistema di ventilazione della stanza e l’aria che entra nel mio sistema respiratorio e ne esce, il mio cuore che batte e le membrane dei miei timpani… come faccio a sapere che sono membrane?… che vibrano nella corrente dei suoni. Odori mi assalgono: il mio sudore acre, il detersivo usato per pulire il pavimento, il dolciastro dei cosmetici usati da Janis.
Era stato così quando mi ero svegliato per la prima volta. Adesso lo ricordo: avevo ripreso coscienza assalito da ogni parte da un bombardamento d’impressioni sensoriali, annegandovi, impotente a trovare qualcosa di stabile, qualcosa che mi liberasse da quel sovraccarico. Ricordo di aver lottato per ore e ore per ricavare un senso dalle configurazioni di luce e ombra, di colore e timbro e risonanza e odori e sapori e consistenze…
È un pavimento di mattonelle di vinile grigio pallido con screziature di un grigio più scuro; è un tavolo di materiale sintetico con nervature che imitano il legno; è la mia scarpa che sto fissando, cercando di eliminare dalla mia coscienza l’attraente struttura del tessuto di canapa e vedendola come una scarpa con sotto il pavimento. Mi trovo nella stanza delle terapie. Sono Lou Arrendale che una volta era Lou Arrendale l’autistico e adesso è Lou Arrendale lo sconosciuto. Il mio piede nella mia scarpa è sul pavimento è sulle fondamenta è sul terreno è sulla superficie di un pianeta è nel sistema solare è nella galassia è nell’universo è nella mente di Dio.
Alzo gli occhi e vedo il pavimento allungarsi fino alla parete; ondeggia e si stabilizza, si estende piatto come i muratori lo hanno costruito, ma non perfettamente piatto; eppure ciò non importa, perché viene chiamato piatto per convenzione. Io faccio in modo che sembri piatto. Questo significa piatto. Non è un concetto assoluto, un piano: una cosa piatta è solo abbastanza piatta.
— Stai bene? Lou… per favore, rispondimi!
Io sto bene abbastanza. - Sto benissimo — dico a Janis. Bene significa "abbastanza bene" non "perfettamente bene". Lei sembra sbigottita. Le ho fatto paura. Non volevo farle paura. Quando s’incute spavento a qualcuno, bisognerebbe rassicurarlo. — Chiedo scusa — dico. — È stato solo uno di quei momenti.
Janis si rilassa un po’. Io mi siedo, poi mi alzo. Le pareti non sono proprio diritte, ma sono abbastanza diritte.
Io sono abbastanza Lou. Il Lou di prima e il Lou di adesso. Il Lou di prima che mi regala tutti i suoi anni di esperienza, esperienza che non sempre riusciva a capire, e il Lou di adesso che valuta, interpreta, comprende. Io possiedo tutti e due… sono tutti e due.
— Devo star solo per un poco — dico a Janis. Lei sembra di nuovo preoccupata. So che si preoccupa per me; so che non approva per qualche ragione.
— Tu hai bisogno dell’interazione umana — mi spiega.
— Lo so — dico. — Ma ce l’ho per ore e ore al giorno. In questo momento ho bisogno di esser solo per comprendere a fondo ciò che è accaduto.
— Parlamene, Lou — mi esorta lei. — Dimmi cos’è accaduto.
— Non posso — dico. — Mi è necessario un po’ di tempo… — Faccio un passo verso la porta. Il tavolo cambia forma mentre lo costeggio; cambia forma il corpo di Janis; le pareti e la porta ondeggiano verso di me come ubriachi in una commedia… dove l’ho vista? Come faccio a saperlo? Come posso ricordare questo e venire a patti anche con questo pavimento che è solo abbastanza piatto, ma non veramente piatto? Con uno sforzo rendo di nuovo piatte pareti e porta; la tavola elastica torna a riassumere la forma rettangolare che io dovrei vedere.
— Ma Lou, se hai problemi con la percezione sensoriale, i dottori potrebbero dover regolare di nuovo le dosi di…
— Starò benone — la rassicuro senza guardarmi indietro. — Ho solo bisogno di una pausa. — Argomento finale: — Ho bisogno di andare al bagno.
So… ricordo da chissà dove… che quanto è avvenuto implica l’integrazione sensoriale e l’elaborazione degli stimoli visivi. Camminare è strano. So che sto camminando, sento le mie gambe muoversi senza difficoltà. Ma ciò che vedo è una successione di movimenti bruschi, una serie di passaggi da una posizione a un’altra. Ciò che sento è un rumore di passi e un’eco di passi che rimbalzano da una parete all’altra.
Il Lou di prima mi dice che non era così, non lo era più da quando era molto piccolo. Il Lou di prima mi aiuta a focalizzarmi sulla porta del bagno degli uomini e a passarci attraverso, mentre il Lou di adesso fruga ansiosamente tra ricordi di conversazioni udite e libri letti nel tentativo di trovare qualcosa che lo aiuti.
Il bagno degli uomini è tranquillo, non c’è nessuno. Bagliori di luce ammiccano ai miei occhi dalle sagome lisce e curvilinee degli impianti sanitari di ceramica bianca, dalla rubinetteria e dai tubi di metallo lucido. In fondo ci sono due cubicoli; entro in uno di essi e chiudo la porta.
Il Lou di prima osserva le mattonelle del pavimento e delle pareti e vorrebbe calcolare il volume dell’ambiente. Il Lou di adesso vuole sprofondare in un nido buio e caldo e non emergerne fino al mattino.
Ma è mattina. È ancora mattina e noi… io… non abbiamo ancora pranzato. La persistenza degli oggetti. Ciò di cui ho bisogno è la persistenza degli oggetti. Il Lou di prima lesse qualcosa su questo argomento in un libro… un libro che ha letto, un libro che io non ricordo bene, però lo ricordo… e adesso mi torna in mente. I neonati non l’hanno, ma l’acquistano col tempo. Le persone cieche dalla nascita, se viene loro ridonata la vista, non riescono ad acquistarla: vedono i tavoli passare da una sagoma all’altra a seconda del punto di vista da cui li guardano.
Io non sono cieco dalla nascita. Il Lou di prima aveva acquisito la persistenza degli oggetti nella sua elaborazione degli stimoli visivi. Posso averla anch’io. L’avevo anzi, finché non ho cercato di leggere quella storia…
Posso sentire il battito del mio cuore rallentare e ridiventare regolare. Mi chino in avanti e guardo le mattonelle del pavimento. In realtà non m’importa di quale formato siano e del calcolo dell’area del pavimento o del volume dell’ambiente. Potrei calcolarli se fossi intrappolato qui e mi annoiassi, ma in questo momento non mi sto annoiando. Sono confuso e preoccupato.
Non so cosa sia successo. Ho avuto un’operazione al cervello? Ma non ho cicatrici, non mi hanno rasato alcuna parte dello scalpo. È stato un caso di emergenza?
L’emozione mi pervade: paura e poi collera, e con essa la bizzarra sensazione che mi sto gonfiando e poi sgonfiando. Quando sono arrabbiato, mi sento più alto e le altre cose paiono più piccole; quando sono impaurito mi sento più piccolo e le altre cose paiono più grandi. Mi balocco con queste emozioni ed è davvero strano percepire il minuscolo cubicolo cambiare dimensioni intorno a me. Non è possibile che le cambi davvero. Ma se fosse così, come farei a saperlo?
Una musica m’inonda la mente all’improvviso, una musica di pianoforte. Dolce, scorrevole, costruita in frasi ordinate… Chiudo gli occhi e di nuovo mi rilasso. Mi sovviene un nome: Chopin. Uno studio… no, lascia fluire la musica, non pensare.
Faccio scorrere le mani su e giù per le braccia, per sentire la struttura della pelle, l’elasticità della peluria. È un gesto calmante, ma non c’è bisogno che continui a farlo.
— Lou! Sei qui? Stai bene? — È Jim, l’inserviente che per tanti giorni si è preso cura di me. La musica si dilegua ma posso sentirla fluire ancora sotto la mia pelle. Mi distende.
— Sto bene — rispondo. Sento che la mia voce è calma. — Avevo solo bisogno di una pausa, tutto qui.
— Meglio che tu venga fuori, amico — dice lui. — Di là stanno cominciando a dare i numeri.
Sospiro, mi alzo e apro la porta. La persistenza degli oggetti le fa conservare la sua forma mentre esco; le pareti e il pavimento rimangono piatti com’è loro dovere, e l’ammiccare della luce sulle superfici che la riflettono non mi disturba. Jim mi sorride. — Allora tutto bene, amico?
— Benone — dico. Il Lou di prima amava la musica. Adoperava la musica per conservare il proprio equilibrio… Mi domando quanta della musica amata dal Lou di prima potrò ancora ricordare.
Janis e la dottoressa Hendricks stanno aspettando nel corridoio. Sorrido a tutt’e due. — Sto benissimo — ripeto. — Davvero avevo solo bisogno di andare al bagno.
— Ma Janis dice che sei caduto — dice la dottoressa.
— Oh, è stato solo un problema di poca importanza — spiego. — Stavo leggendo una storia piuttosto confusa, e riflettere su quella confusione… mi ha confuso le sensazioni, comunque adesso è tutto passato. — Guardo su e giù per il corridoio per assicurarmene. Tutto a posto. — Vorrei parlarle di quanto è accaduto in realtà — dico alla dottoressa. — Mi hanno parlato di operazioni al cranio, ma non ho alcuna cicatrice visibile. E ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel mio cervello.
Lei sporge le labbra e poi annuisce. — Sta bene. Uno dei consulenti ti spiegherà tutto. Intanto posso dirti che il tipo di chirurgia praticato in questo momento non implica lo scavare grossi buchi nel cranio della gente. Janis, fissa un appuntamento per Lou. — Poi la dottoressa se ne va.
Non credo che mi sia molto simpatica. Sento che è una persona che ama tenersi i suoi segreti.
Quando il mio consulente, un allegro giovanotto con una vistosa barba rossa, mi spiega cosa mi hanno fatto, per poco non mi viene un colpo. Come ha potuto il Lou di prima accettare una cosa simile? Vorrei acciuffarlo e scuoterlo, ma adesso lui è me. Io sono il suo futuro come lui è il mio passato. Io sono la luce scagliata nell’universo e lui è l’esplosione da cui sono stato generato. Non dico nulla di questo al consulente, che è un tipo pratico e probabilmente penserebbe che sono pazzo. Continua ad assicurarmi che sono in buone mani e che si prenderanno cura di me; vuole che stia calmo e tranquillo. All’esterno io sono calmissimo e tranquillissimo. All’interno sono diviso tra il Lou di prima, che sta cercando di capire come è stato tessuto il motivo della sua cravatta, e il mio io odierno, che vorrebbe tanto scuotere il Lou di prima e ridere in faccia al consulente e dirgli che non intendo assolutamente trovarmi nelle mani di nessuno e avere chi si prenda cura di me. Queste cose sono ormai alle mie spalle. È troppo tardi per essere al sicuro nel modo in cui lui intende la sicurezza, e mi prenderò cura di me da solo.
Sono disteso a letto con gli occhi chiusi e penso a questa giornata. Di colpo mi trovo sospeso nello spazio, nel buio. Molto lontano occhieggiano minuscole schegge di luce multicolore. So che sono stelle, e quella nebbia luminosa è probabilmente una galassia. Comincia una musica… è ancora Chopin. Una musica lenta, pensosa, malinconica. Qualcosa in mi minore. Poi fa irruzione un’altra musica, che mi dà altre sensazioni: possiede più struttura e più forza, e si alza sotto di me come un’ondata oceanica, solo che questa ondata è fatta di luce.
I colori cambiano. So, senza analizzare la mia certezza, che sto correndo verso quelle stelle lontane, velocemente, sempre più velocemente, finché l’onda di luce mi proietta fuori e io volo a velocità ancora più vertiginosa, come una percezione oscura, verso il centro dello spazio e del tempo.
Quando mi sveglio sono più felice di quanto sia mai stato e non so perché.
La prossima visita che Tom mi fa, lo riconosco e ricordo che è stato già qui. Ho tante cose da dirgli, tante cose da chiedergli. Il Lou di prima pensa che Tom lo abbia conosciuto meglio di qualunque altra persona al mondo. Se potessi vorrei lasciare che il Lou di prima salutasse Tom, ma ormai questo non si può più fare.
— Usciremo di qui tra pochi giorni — dico. — Ho già parlato alla gerente del mio appartamento. Farà riattaccare la corrente e il resto e rimetterà tutto in ordine.
— Stai proprio bene? — chiede lui.
— Benissimo — lo rassicuro. — Grazie per essere venuto a farmi visita tante volte; mi dispiace di non averti riconosciuto da principio.
Tom sembra depresso, posso vedere che ha gli occhi pieni di lacrime e ne è imbarazzato. — Non era colpa tua, Lou.
— No, ma so che tu eri preoccupato per me — dico. Il Lou di prima poteva non averlo saputo, ma io lo so. Posso vedere che Tom è un uomo che ama profondamente i suoi amici e immagino come si è sentito quando non sono riuscito a riconoscerlo.
— Hai già deciso cosa farai? — domanda.
— Volevo chiederti cosa si deve fare per iscriversi a una scuola serale — dico. — Vorrei tornare all’università.
— Buona idea — approva lui. — Io posso certo aiutarti per l’iscrizione. Cos’hai intenzione di studiare?
— Astronomia — dico. — Oppure astrofisica. Non so quale delle due, ma certo qualcosa di simile. Mi piacerebbe andare nello spazio.
Adesso Tom sembra un po’ triste, e mi accorgo che il sorriso che mi rivolge è forzato. — Spero che tu ottenga tutto quello che vuoi — dice. Poi, come se non volesse essere invadente, aggiunge: — La scuola serale non ti lascerà molto tempo per la scherma.
— Non credo — dico. — Dovrò vedere come si metteranno le cose. Ma verrò a farti visita, se per te va bene.
Pare sollevato. — Ma certo, Lou. Non voglio perderti di vista.
— Andrà tutto bene — dico.
Lui mi guarda un po’ in tralice e poi scuote la testa. — Sai, penso proprio che ce la farai. Davvero lo penso.