Lunedì 18 ottobre
Nikki non passò una buona nottata e nemmeno i suoi genitori. Al mattino, Angela le fece eseguire i suoi soliti esercizi, ma quando finirono e l’auscultò, sentì rantoli e ronchi che non lasciavano presagire nulla di buono.
Prima delle otto, David e Angela telefonarono al lavoro spiegando che sarebbero arrivati in ritardo, poi coprirono bene la figlia e la portarono dal dottor Pilsner. In un primo tempo, l’impiegata alla reception disse loro di ritornare il giorno dopo, perché il dottore aveva già troppi pazienti da visitare, ma Angela non si arrese. Si presentò come il dottor Wilson, del reparto di patologia, e insistette per parlare immediatamente con il dottor Pilsner. Questi arrivò subito e si scusò.
«La ragazza credeva che foste pazienti del CMV», spiegò. «Qual è il problema?»
Angela spiegò che durante la notte un mal di gola aveva provocato una congestione e il medico, dopo aver auscultato Nikki, confermò che le sue vie respiratorie erano ostruite.
«La faremo ritornare a posto in un battibaleno», promise, strofinandosi la barba bianca, «ma penso che sia meglio ricoverarla. Voglio iniziare con gli antibiotici per via endovenosa e con una terapia respiratoria intensiva.»
«Tutto quello che occorre», acconsentì David e accarezzò Nikki sulla testa. Si sentiva colpevole di avere insistito per il weekend nel New Hampshire.
All’accettazione c’era Janice Sperling, che riconobbe immediatamente David e Angela e accolse Nikki amichevolmente, annunciandole: «Vedrai che bella camera ti diamo, ha una vista stupenda sulle montagne», poi si diede da fare per sveltire al massimo le procedure del ricovero.
Nikki annuì e si lasciò infilare al braccio la targhetta plastificata di riconoscimento. Era la numero 204. Salirono al secondo piano e arrivarono davanti alla camera che portava quel numero, ma Janice, dopo avere aperto la porta, si bloccò, confusa, mormorando: «Mi scusi!» La stanza era già occupata.
«Signora Kleber!» esclamò Nikki, sorpresa.
«Marjorie, che cosa ci fa qui?» domandò David.
«La mia solita fortuna. L’unico weekend in cui lei è andato via ho avuto dei problemi. Ma il suo sostituto è stato molto gentile.»
«Mi spiace davvero averla disturbata», si scusò ancora Janice. «Non capisco come mai il computer mi ha dato la camera 204, quando era già occupata.»
«Non c’è problema», la rassicurò Marjorie. «Mi piace la compagnia.»
David le disse che sarebbe tornato da lei poco dopo e poi seguì l’infermiera all’accettazione.
Dopo avere fatto una telefonata, Janice comunicò ai Wilson che la camera per Nikki era la numero 212 e, dopo pochi minuti, la bambina vi era stata sistemata e un’équipe di infermiere e di tecnici cominciò a occuparsi di lei, prima con gli antibiotici, poi iniziando la terapia respiratoria.
Vedendo che tutto era sotto controllo, David si accomiatò dalla figlia, promettendole di tornare spesso a farle visita durante la giornata e raccomandandole di obbedire alle infermiere. Poi andò subito da Marjorie, che le apparì minuscola nel largo letto ortopedico.
«Allora», l’apostrofò, fingendosi in collera, «che storia è questa?»
«È iniziato tutto venerdì pomeriggio. I problemi cominciano sempre il venerdì, quando si è riluttanti a chiamare il medico. Non mi sentivo per niente bene, poi, sabato mattina, ha cominciato a dolermi la gamba destra. Allora ho chiamato il suo ambulatorio dove mi hanno detto di rivolgermi al dottor Markham che mi ha ricevuto subito e ha detto che avevo la flebite e che dovevo essere ricoverata e curata con gli antibiotici.»
David esaminò Marjorie e confermò la diagnosi.
«Pensa che fosse necessario farmi ricoverare?» chiese lei.
«Assolutamente, non bisogna correre rischi con la flebite. L’infiammazione delle vene va di pari passo con l’embolia, ma mi sembra che ci sia già stato un miglioramento.»
«Oh sì, mi sento venti volte meglio di quando sono entrata, sabato.»
Anche se era già tardi e doveva andare in ambulatorio, David rimase a parlare con lei qualche altro minuto, poi passò dalle infermiere per leggere la sua cartella clinica, che trovò in ordine, quindi telefonò a Dudley Markham, ringraziandolo per ciò che aveva fatto per Marjorie.
«Figurati! È stato un piacere», si schermì Dudley. «Pensa che era la maestra del mio figlio maggiore.»
Prima di andarsene, David domandò alla caposala, Janet Colburn, come mai Marjorie fosse stata messa in un letto ortopedico.
«Non c’è un motivo, era lì e non serviva da altre parti… Comunque starà meglio che in un letto normale: ci sono i comandi elettronici per alzarlo e abbassarlo.»
David scrisse qualche annotazione sulla cartella clinica, poi fece una scappata da Nikki, che stava già molto meglio e si recò all’ambulatorio.
Susan era molto agitata, aveva provato a cancellare o a spostare un certo numero di appuntamenti, ma la sala d’aspetto era ugualmente strapiena. David la calmò ed entrò nella propria stanza per infilarsi il camice, mentre lei lo seguiva come un segugio, mettendolo al corrente dei messaggi telefonici.
Con il camice mezzo infilato, David si fermò all’improvviso e Susan lo vide impallidire.
«Che cosa c’è?» domandò allarmata.
Lui restò immobile, senza parlare, fissando la parete dietro la scrivania. Davanti ai suoi occhi stanchi, la parete era coperta di sangue.
«Dottor Wilson!» gridò Susan. «Che cos’ha?»
David sbatté le palpebre e quell’immagine raccapricciante svanì. Si avvicinò alla parete e vi passò sopra la mano per assicurarsi che si fosse trattato solo di un’allucinazione.
Sospirò, meravigliandosi di quanto fosse divenuto suggestionabile, e si scusò con Susan. «Forse ho guardato troppi film dell’orrore, quand’ero bambino. La mia immaginazione lavora troppo.»
«Credo sia meglio che cominci a ricevere i pazienti», disse Susan.
«Certo.»
David si immerse nel lavoro e a metà mattinata aveva già recuperato il ritardo iniziale. Si concesse allora un intervallo fra una visita e l’altra per rispondere alle telefonate ricevute. Cercò per primo Charles Kelley.
«Mi chiedevo quando mi avrebbe chiamato», disse Kelley con una voce insolitamente seria. «Ho qui da me Neal Harper. È dell’ufficio ottimizzazione risorse della sede di Burlington. Temo che ci sia qualcosa da discutere con lei.»
«Durante il mio orario di ambulatorio?»
«Non ci vorrà molto, purtroppo devo insistere. Può venire subito?»
David riabbassò lentamente il ricevitore. Anche se non sapeva perché, si sentì immediatamente in ansia, come un adolescente chiamato nell’ufficio del preside.
Kelley lo accolse nel suo ufficio alzandosi e andandogli incontro, ma i suoi modi erano diversi da come David li conosceva: era serio, quasi arcigno. Gli presentò Neal Harper, un uomo magro dal colorito pallido, con un accenno di acne, il prototipo del burocrate che sta sempre rinchiuso nel suo ufficio a riempire moduli.
Si sedettero tutti e tre e Kelley cominciò a giocherellare con una matita, poi annunciò: «Ho visto le statistiche del suo primo quadrimestre. Non sono buone».
David spostò lo sguardo da uno all’altro dei due uomini, sentendosi sempre più ansioso.
«La sua produttività non è per nulla soddisfacente», continuò Kelley. «È fra i medici che visitano meno pazienti all’ora. Evidentemente, dedica troppo tempo a ogni paziente. Per renderete cose peggiori, le sue richieste di analisi ai laboratori del CMV superano di gran lunga la percentuale media. Quanto poi alle richieste a laboratori esterni, sono completamente al di fuori di ogni grafico.»
«Non sapevo faceste simili statìstiche», mormorò David.
«E non è tutto. Troppi suoi pazienti si sono presentati al pronto soccorso, anziché all’ambulatorio.»
«Questo è comprensibile, visto che ho appuntamenti in arretrato da più di due settimane. Se chiama qualcuno con problemi acuti che richiedono una visita immediata, li mando al pronto soccorso.»
«Male!» sbottò Kelley. «Non deve mandarli al pronto soccorso, deve visitarli nel suo studio, a meno che non stiano per tirare le cuoia.»
«Ma questo manderebbe all’aria la programmazione del mio lavoro», obiettò David. «Se mi dedico alle emergenze, non posso ricevere i pazienti che hanno preso appuntamento in anticipo.»
«Allora rimandi le loro visite, oppure faccia aspettare le cosiddette emergenze finché non avrà visitato i pazienti regolari. Come vuole, ma qualsiasi cosa decida, non usi il pronto soccorso.»
«Ma allora che cosa ci sta a fare, il pronto soccorso?»
«Non cerchi di fare lo spiritoso con me, dottor Wilson, lo sa benissimo a che cosa serve. Serve per i casi di vita o di morte e non consigli ai suoi pazienti di chiamare l’ambulanza, il CMV non la pagherà, a meno che l’intervento non sia stato approvata in precedenza, e questo succede solo nei casi in cui c’è un vero pericolo di vita.»
«Ma alcuni dei miei pazienti vivono soli», obiettò David. «Se si ammalano…»
«Non la faccia troppo lunga, dottor Wilson», lo interruppe Kelley. «Il CMV non è un servizio di autobus. Allora, riassumendo: deve aumentare considerevolmente la sua produttività, abbassare le richieste di analisi ai nostri laboratori e ridurre, o ancora meglio, far cessare le visite al di fuori del CMV e deve tener lontani i suoi pazienti dal pronto soccorso. Tutto qua. Capito?»
David uscì barcollando dall’ufficio, sbalordito. Non aveva mai pensato di esagerare nell’uso delle risorse mediche. Ciò che metteva al primo posto erano le esigenze dei pazienti e la ramanzina ricevuta lo aveva a dir poco irritato.
Rientrando in ambulatorio, intravide Kevin che spariva dietro una porta con un paziente e si ricordò della sua profezia sugli indici di valutazione. Aveva avuto ragione. Era stata una cosa devastante e lui era seccato ancora di più perché Kelley non aveva fatto il minimo riferimento alla qualità del servizio o al gradimento da parte dei pazienti.
«Farà meglio a mettersi sotto o rimarrà di nuovo indietro», gli consigliò Susan appena lo vide.
A metà mattinata, Angela passò da Nikki e fu contenta di vedere che stava decisamente meglio: la febbre era sparita e la congestione polmonare si era notevolmente ridotta.
«Quando posso tornare a casa?» chiese la bimba.
«Per ora devi restare qui, ma, se continui a migliorare così, sono sicura che il dottor Pilsner non ti terrà qui a lungo», le rispose Angela, giocherellando con i suoi capelli, poi la lasciò per tornare al lavoro.
Stava per sedersi alla scrivania, quando notò che la porta di comunicazione con la stanza del dottor Wadley era socchiusa. Si avvicinò e sbirciò dentro: il suo capo era chinato su un microscopio didattico con due oculari. Scorgendola, le fece cenno di entrare.
«Voglio farle vedere qualcosa», le disse.
Lei si sedette di fronte al suo maestro e le loro ginocchia quasi si toccarono. Appoggiò gli occhi al microscopio e riconobbe immediatamente un campione del tessuto di un seno.
«È un caso delicato», le spiegò Wadley. «La paziente ha solo ventidue anni. Dobbiamo fare la diagnosi e dobbiamo farla esatta. Prenda tutto il tempo che occorre.» Nel dire così, allungò una mano sotto il tavolo e le strinse la gamba, appena sopra il ginocchio. «Non sia impulsiva, non si lasci guidare dalle prime impressioni, osservi attentamente tutti i canali.»
Angela cercò di concentrarsi sul vetrino, ma faceva fatica. Wadley non aveva spostato la mano e intanto continuava a parlare, spiegandole quali erano i punti chiave per fare la diagnosi. Lei quasi non riusciva a seguire le sue spiegazioni, sentendosi a disagio per quella mano sulla sua coscia.
In precedenza era capitito diverse volte che Wadley l’avesse toccata, ma si era trattato di una stretta a un braccio, di una pacca sulla schiena, magari di un abbraccio un po’ esuberante; durante la partita di softball, al picnic, avevano più volte espresso la soddisfazione per un punto messo a segno con il tipico saluto palmo contro palmo, ma fino a quel momento non c’erano mai stati gesti così intimi.
Angela avrebbe voluto spostarsi o fargli togliere la mano, ma non si decideva. Sperava che Wadley si rendesse conto di quanto lei fosse a disagio e la togliesse di sua spontanea volontà, invece lui la tenne lì ferma per tutto il tempo della loro conversazione sulla paziente.
Alla fine Angela si alzò. Si rese conto di tremare e, mordendosi la lingua, rientrò nel suo ufficio.
«Quando sarà pronta con quei vetrini per l’esame ematologico, li esamineremo insieme», le disse Wadley.
Angela chiuse la porta del suo ufficio e si lasciò cadere sulla sedia. Prossima alle lacrime, affondò la testa fra le mani e si lasciò sommergere da un’ondata di pensieri. Alla luce di ciò che era appena accaduto, alcuni episodi dei mesi precedenti assunsero ai suoi occhi un nuovo significato: Wadley si era offerto spesso di rimanere oltre l’orario di lavoro per esaminare i vetrini insieme a lei; tutte le volte che lei andava al bar, se lo ritrovava seduto al suo stesso tavolo; per quanto riguardava il contatto fisico, poi, adesso che ci pensava, non si era mai lasciato scappare un’occasione. A questo punto, la proposta di recarsi insieme a lui a un convegno di patologia a Miami assumeva un significato imbarazzante.
Provò a ricomporsi e a chiedersi se non stesse reagendo in modo sproporzionato, come David l’accusava spesso di fare. Forse stava gonfiando troppo quello che era accaduto, forse Wadley non si era reso conto di ciò che faceva, impegnato com’era nel suo ruolo di maestro.
Eppure, dentro di sé, Angela era sicura di non avere frainteso. Pur essendo grata a Wadley per i suoi insegnamenti, sapeva che il suo gesto era stato fatto deliberatamente. Che cosa poteva fare lei per mettere fine a quella familiarità indesiderata? Dopotutto, lui era il suo capo.
Alla fine del suo orario di lavoro, David passò a trovare Marjorie Kleber e qualche altro paziente che aveva fatto ricoverare, poi si fermò da Nikki, sedendosi sul suo letto.
«Vedo che ti stai dando alla pazza gioia», scherzò, alludendo al televisore acceso.
«Su, papà, non ne ho guardata tanta. Prima è venuta a trovanni la signora Kleber e mi ha persino fatto fare un po’ di compiti.»
«Terribile! E come va la respirazione?»
Ormai Nikki era un’esperta nel valutare le proprie condizioni fisiche. «Bene», rispose. «Ancora un po’ chiusa, ma va molto meglio.»
Arrivò anche Angela, che si sedette dall’altra parte del letto e Nikki chiacchierò con loro per una mezz’oretta.
«Voglio andare a casa», si lamentò, quando li vide alzarsi.
«Lo credo bene e anche noi ti vorremmo a casa», replicò Angela, «ma dobbiamo seguire gli ordini del dottor Pilsner. Parleremo con lui domattina.»
Nikki salutò i genitori asciugando una lacrima e afferrando il telecomando con l’altra mano. Pur essendo abituata ai ricoveri in ospedale, soffriva restare lontana da casa. L’unica nota positiva era che poteva guardare la televisione quanto voleva e scegliere i programmi desiderati, cosa che normalmente non le era permesso.
Per tutta la strada fino a casa, David e Angela non parlarono. L’unico rumore fu quello del tergicristallo. Ognuno dei due pensava che l’altro fosse giù di corda per Nikki, per il weekend deludente e per la pioggia.
Quando imboccarono il vialetto di casa, Angela informò David che un esame preliminare alla coltura dello sputo di Nikki faceva pensare allo pseudomonas aeruginosa. «Non è un buon segno», aggiunse. «Quando quel tipo di batterio colpisce chi è affetto da fibrosi cistica, può provocare anche la morte.»
«Non c’è bisogno che me lo dici», replicò David.
Senza Nikki, la cena fu malinconica. Mangiarono in cucina, ascoltando la pioggia che batteva insistente contro le finestre. Quando ebbero finito, Angela trovò le parole per raccontare al marito ciò che era accaduto fra lei e il suo capo.
David l’ascoltò a bocca aperta e, quando lei ebbe finito, esclamò sbalordito: «Che bastardo!» Batté la mano a palmo aperto contro la tavola e scosse la testa. «Un paio di volte mi è passato per la testa che forse si comportava in modo un po’ troppo sdolcinato, come quel giorno al picnic, ma poi mi convincevo che si trattava di ridicola gelosia da parte mia e invece le mie intuizioni erano giuste.»
«Non lo so, non ne sono sicura. È per questo che esitavo a parlartene, non voglio che saltiamo subito alle conclusioni. Ma è una cosa che mi mette estremamente a disagio. Non è giusto che noi donne dobbiamo affrontare questo genere di situazioni.»
«Sì, è un vecchio problema. Le molestie sessuali ci sono sempre state, soprattutto da quando voi donne siete entrate nel campo del lavoro. Anche nel settore della medicina: ai vecchi tempi tutti i medici erano maschi e tutte le infermiere femmine.»
«E anche adesso che il numero di medici donna è aumentato, non è cambiato molto», aggiunse Angela. «Ti ricorderai qualcuna delle situazioni che ho dovuto sopportare alla facoltà di medicina.»
David annuì. «Mi spiace per quello che è accaduto», disse. «So quanto ti trovavi bene con il dottor Wadley. Se vuoi, salto immediatamente in macchina, vado a casa sua e gli do un pugno sul naso.»
Angela sorrise. «Grazie per il sostegno.»
«Pensavo che stasera tu fossi silenziosa perché eri preoccupata per Nikki o arrabbiata per il weekend.»
«Il weekend è acqua passata e Nikki sta migliorando.»
«Anch’io ho avuto una brutta giornata», si decise a rivelare David. Prese una birra dal frigo, ne bevve una lunga sorsata, poi raccontò alla moglie dell’incontro con Kelley e con il burocrate di Burlington.
«Ma è scandaloso!» esclamò lei. «Che coraggio, parlarti in quel modo! Specialmente con la valutazione positiva che hai avuto da parte dei tuoi pazienti.»
«Pare che questo non conti poi molto.»
«Ma stai scherzando? Lo sanno tutti che il rapporto medico-paziente è il pilastro per una buona assistenza sanitaria.»
«Già, ma forse non è più di moda», commentò amaramente David. «La realtà attuale è governata da persone come Charles Kelley. Fa parte del nuovo esercito di burocrati creati dall’intervento del governo. All’improvviso, l’economia e la politica hanno invaso il campo della medicina. Temo che la preoccupazione maggiore sia il bilancio, non l’assistenza ai pazienti.»
Angela scosse la testa.
«Il problema è Washington», continuò David. «Ogni volta che il governo cerca di fare seriamente qualcosa per l’assistenza sanitaria, sembra che faccia solo confusione. Prendi per esempio l’assistenza sanitaria statale per gli anziani e quella per gli indigenti: sono tutte e due un gran casino e hanno effetti disastrosi sulla medicina in generale.»
«Che cosa hai intenzione di fare?» domandò Angela.
«Non lo so. Cercherò di arrivare a qualche compromesso, andrò avanti di giorno in giorno e starò a vedere che cosa succede. E tu?»
«Anch’io non lo so. Spero di essermi sbagliata.»
«Forse è così. Dopotutto, è la prima volta che ti sei sentita infastidita e lui è sempre stato un tipo espansivo. Dato che tu non hai mai detto niente fino a questo momento, forse lui pensa che non ti dia fastidio essere toccata.»
«Che cosa vorresti insinuare?» sbottò Angela, inviperita.
«Niente, davvero», si affrettò a calmarla David, «stavo solo rispondendo a quello che tu hai detto.»
«Vorresti dire che sono stata io a cercarmela?»
David allungò la mano sulla tavola e le strinse il braccio. «Ehi, calma! Io sono dalla tua parte. Non pensare nemmeno per un secondo che sto dando la colpa a te.»
La collera di Angela svanì all’improvviso. Si accorse di avere reagito in modo sproporzionato, evidenziando tutte le sue incertezze. Forse, inconsapevolmente, aveva davvero incoraggiato Wadley. Dopotutto, era stata desiderosa di piacergli, come ogni studente che si sente in debito verso chi dedica tempo ed energie a insegnare.
«Scusa», mormorò. «Sono solo stressata.»
«Anch’io», ammise David. «Andiamocene a letto.»