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Giovedì 21 ottobre


La mattina dopo il tempo non era migliorato. La pioggia era cessata, ma c’era una nebbia talmente fitta che era come se piovesse e la temperatura sembrava essersi abbassata rispetto al giorno prima.

Mentre Nikki stava eseguendo i suoi soliti esercizi, suonò il telefono e David corse a rispondere, temendo che si trattasse di brutte notizie riguardanti John Tarlow. Invece, era l’ufficio del pubblico ministero che chiedeva l’autorizzazione a eseguire un sopralluogo sulla scena del delitto.

«Quando vorreste venire?» Domandò David.

«Le andrebbe bene ora? C’è già qualcuno dei nostri nella sua zona.»

«Staremo in casa per un’altra ora», disse David.

Un quarto d’ora dopo arrivò un’assistente del pubblico ministero, una donna attraente dai capelli rosso fiamma che indossava un sobrio tailleur blu. Si chiamava Elaine Sullivan e si scusò di arrecare disturbo così presto.

«Non si preoccupi», le rispose David, che l’accompagnò subito in cantina.

Elaine scattò qualche fotografia nel sottoscala, poi si chinò e grattò il suolo con l’unghia. Nel frattempo era scesa anche Angela. «Ho sentito che è stata qui la polizia municipale, ieri sera», disse Elaine.

«Sì, e anche il medico legale», rispose David.

«Consiglierei di chiamare anche la polizia di Stato», disse lei. «Spero che per voi non sia troppo disturbo.»

«No, anzi, l’idea mi sembra buona», fu il parere di Angela. «Non penso che la polizia locale sia abituata a indagini per omicidio.»

Elaine annuì, evitando diplomaticamente qualsiasi altro commento.

«Noi dobbiamo essere presenti quando verranno gli investigatori?» domandò David.

«Dipende da voi. È possibile che qualcuno di loro voglia porvi qualche domanda, ma, per quanto riguarda gli uomini della scientifica, devono solo venire qui e fare il loro lavoro.»

«Verranno oggi?» domandò Angela.

«Saranno qui appena possibile.»

«Farò in modo che ci sia Alice», propose Angela e David annuì.

Poco dopo, Elaine se ne andò e anche i Wilson uscirono di casa. Nikki era eccitatissima, perché quello era il suo primo giorno di scuola dopo la breve degenza in ospedale e si era cambiata due volte prima di essere soddisfatta del suo abbigliamento. Inoltre, c’era la storia del cadavere in cantina e non riusciva a parlare d’altro. Il suggerimento di sua madre di non spiattellare tutto ai compagni si sarebbe certamente rivelato inutile.

Lasciata Nikki a scuola, David si diresse verso l’ospedale.

«Sono preoccupato di quali saranno le condizioni del mio paziente stamattina», mormorò.

«E io per l’incontro con Wadley», disse Angela. «Non so se Cantor gli abbia già parlato, ma in un caso o nell’altro non sarà piacevole.»

David andò direttamente nella stanza di John Tarlow e si accorse subito che il suo paziente respirava a fatica. Dopo un esame minuzioso, scoprì che era affetto da polmonite.

Preso dal panico, corse nella stanza delle infermiere, gridando che bisognava trasferirlo all’unità di terapia intensiva e si sentì rispondere da Janet Colburn: «Non si può aspettare che abbia finito di scrivere i miei rapporti?»

«No, diavolo! Voglio che lo si trasporti immediatamente e vorrei anche sapere perché nessuno mi ha chiamato. Il signor Tarlow ha una polmonite bilaterale.»

«L’ultima volta che gli abbiamo misurato la temperatura dormiva tranquillo», affermò l’infermiera del turno di notte. «Avevamo ordine di chiamarla se gli fosse venuta la febbre o se avesse avuto un peggioramento dei sintomi gastrointestinali. Non è successa nessuna delle due cose.»

David afferrò la cartella clinica e controllò il grafico della temperatura: si era alzata leggermente, ma non quanto lui si sarebbe aspettato, viste le condizioni dei polmoni.

«Portiamolo all’unità di terapia intensiva», ordinò. «In più voglio alcune analisi del sangue e una schermografia.»

Con lodevole efficienza, il paziente venne trasferito e nel frattempo David telefonò al dottor Clark Mieslich e al dottor Martin Hasselbaum, l’oncologo e lo specialista in malattie infettive, per chiedere loro un consulto immediato.

Non appena arrivarono i risultati delle analisi del sangue, David vide che il livello dei globuli bianchi, già basso, era diminuito ancora di più, indicando che il sistema immunitario di John Tarlow era stato travolto dalla polmonite. Era un calo di difese immunitarie che ci si poteva aspettare da un paziente che stava subendo una lunga terapia chemioterapica, ma erano mesi che John non si sottoponeva a quel genere di trattamento. La schermografia, purtroppo, confermò la diagnosi di polmonite bilaterale.

Quando i due colleghi arrivarono, visitarono subito John e ne lessero la cartella clinica.

«Che cosa ne pensate del numero bassissimo di globuli bianchi?» domandò David.

«Non so», ammise il dottor Mieslich. «Credo che sia collegato alla leucemia. Bisognerebbe esaminare un campione di midollo osseo, ma non adesso, con un’infezione in corso. Inoltre, sarebbe inutile ai fini pratici: temo che stia morendo.»

Quella era l’ultima cosa che David desiderava sentirsi dire, ma se l’aspettava. Non riusciva a credere di essere sul punto di perdere il secondo paziente della sua breve carriera a Bartlet.

Si rivolse quindi al dottor Hasselbaum, che si dimostrò egualmente pessimista. Secondo lui, John era affetto da una polmonite causata da un tipo di batterio particolarmente letale e inoltre era stato colpito da choc. Sottolineò anche che la pressione arteriosa era molto bassa e che i reni non funzionavano più regolarmente. «Le difese fisiologiche del signor Tarlow sono particolarmente basse, probabilmente a causa della leucemia. Se tentiamo una terapia, dev’essere massiccia. Ho la possibilità di utilizzare alcuni farmaci sperimentali creati per aiutare a combattere questo tipo di choc endotossinico. Che cosa ne pensa?»

«Tentiamo», disse David.

«Sono farmaci costosi», lo avvertì il dottor Hasselbaum.

«La vita di un uomo è più importante di qualsiasi altra cosa.»

Un’ora e mezzo più tardi, quando la terapia di John era stata avviata e non restava altro da fare, David si affrettò verso l’ambulatorio. Di nuovo, tutte le sedie della sala d’aspetto erano occupate e c’erano anche pazienti in piedi.

David respirò a fondo e si gettò a capofitto nel lavoro. Fra una visita e l’altra telefonava all’unità di terapia intensiva per controllare le condizioni di John e ogni volta gli ripetevano che non si notavano cambiamenti.

Oltre ai pazienti previsti, ce n’era un certo numero che costituivano dei casi d’emergenza e questo contribuì ad aumentare la confusione. Fra questi c’erano anche due vecchie conoscenze di David: Mary Ann Schiller e Jonathan Eakins.

Anche se lo angustiava il modo in cui si erano evoluti i casi di Marjorie e di John, David li fece ricoverare entrambi, la prima per una forma acuta di sinusite, il secondo per un’aritmia cardiaca preoccupante.

Altre due pazienti che avevano bisogno di cure immediate erano due infermiere del secondo piano, che soffrivano di disturbi simili all’influenza: malessere generale, febbricola, un basso numero di globuli bianchi e problemi gastrointestinali fra cui crampi, vomito, diarrea. Dopo averle visitate, le mandò a casa prescrivendo riposo a letto e una terapia sintomatica.

Quando ebbe un minuto di tempo libero, chiese a Susan se le risultava che nell’ospedale circolasse l’influenza.

«No, che io sappia», gli rispose lei.


La giornata di Angela stava andando meglio del previsto, visto che non aveva avuto occasione di incontrare Wadley.

A metà mattinata telefonò al direttore dell’istituto di medicina legale di Burlington, il dottor Walter Dunsmore, il cui numero aveva trovato il numero sull’elenco telefonico. Gli spiegò di essere una patologa che lavorava all’ospedale di Bartlet e che le interessava molto il caso Hodges. Aggiunse anche di avere preso in considerazione, tempo prima, l’idea di intraprendere la carriera di medico legale.

Lui la invitò subito ad andarlo a trovare a Burlington, per visitare i laboratori. «Anzi, perché non assiste all’autopsia di Hodges?» le propose. «Mi piacerebbe che lei fosse presente, ma l’avverto: come molti miei colleghi, sono un insegnante deluso.»

«Quando pensa di eseguirla?» domandò Angela, sperando che, se avessero potuto rimandarla a sabato, le sarebbe stato possibile partecipare.

«È prevista per oggi, in tarda mattinata, ma potrei farla slittare al primo pomeriggio.»

«È molto gentile da parte sua. Purtroppo, non so che cosa direbbe il mio capo, se mi assentassi dal lavoro.»

«Conosco Ben Wadley da anni. Gli farò un colpo di telefono e chiarirò la cosa con lui.»

«Non so se sia una buona idea.»

«Sciocchezze! Lasci fare a me. Non vedo l’ora di conoscerla.»

Angela stava per protestare, quando si accorse che il dottor Dunsmore aveva riattaccato. Si chiese quale sarebbe stata la reazione del dottor Wadley e non dovette attendere molto per saperlo: il suo capo la chiamò quasi immediatamente.

«Sono bloccato in sala operatoria», le disse con un tono molto cortese. «Ho appena ricevuto una telefonata dal medico legale capo. Dice che vorrebbe che lei assistesse a un’autopsia.»

«Sì, ho appena parlato con lui, ma non sapevo che cosa lei ne pensasse.» Dall’allegria del dottor Wadley, era evidente che Cantor non gli aveva ancora parlato.

«Penso che sia una brillante idea», affermò Wadley. «Credo che tutte le volte che il medico legale ci chiede un favore, dovremmo farglielo. Non nuoce tenercelo buono. Potremmo essere noi a dover chiedere un favore a lui. La incoraggio ad andare.»

Angela lo ringraziò, poi chiamò David per fargli sapere i suoi programmi e sentì subito che aveva una voce tesa e stanca.

«Hai una voce tremenda. Che cosa c’è che non va?» gli chiese.

«Te lo dirò dopo, adesso sono indietro con le visite e gli abitanti di Bartlet non hanno pazienza.»

Angela gli riferì rapidamente dell’invito ricevuto e David le augurò buon divertimento e riattaccò.

Angela lasciò immediatamente l’ospedale e prima di andare a Burlington, passò da casa per cambiarsi. Nel percorrere il vialetto d’ingresso, vide un furgone della polizia parcheggiato davanti casa. Era evidente che gli investigatori della scientifica erano ancora lì.

«Sono tutti di sotto», le confermò Alice. «Sono lì da ore.»

Angela scese in cantina per incontrarli. Erano in tre e avevano delimitato tutta la zona intorno alla scala con un nastro plastificato, oltre ad averla illuminata a giorno con i proiettori. Uno di loro cercava impronte digitali sulla pietra, un altro frugava scrupolosamente la terra del pavimento, il terzo usava uno strumento luminoso per individuare eventuale materiale organico e orme non visibili a occhio nudo.

Il primo si presentò come Quillan-Reilly e si scusò per l’invasione.

«Nessun disturbo», lo rassicurò Angela, che rimase qualche minuto a guardarli lavorare. Mentre stava per andarsene, Quillan le chiese se l’interno della casa fosse stata imbiancata negli ultimi otto mesi.

«Non penso», rispose lei. «Noi di sicuro non lo abbiamo fatto.»

«Bene, allora le spiace se torniamo stasera per usare il Luminol sulle pareti del piano di sopra?»

«Che cos’è?»

«Un prodotto chimico utilizzato per individuare le macchie di sangue», spiegò Quillan.

«Ma la casa è stata pulita», obiettò Angela, leggermente offesa.

«Vale sempre la pena provare.»

«Be’, se pensa che sia utile, tornate pure. Noi vogliamo collaborare», acconsentì Angela, domandando poi se le prove raccolte dal medico legale si trovassero ancora presso la polizia locale.

«No, le abbiamo noi», rispose Quillan.

«Bene.»

Dieci minuti dopo, Angela era in auto, diretta a Burlington. Trovò con facilità l’ufficio del medico legale e Walt Dunsmore l’accolse con gentilezza, facendola sentire immediatamente a suo agio. Le propose persino di darsi del tu.

Angela indossò gli indumenti chirurgici e provò un’ondata di eccitazione quando ricevette la mascherina, la cuffia e gli occhiali protettivi. Per lei la stanza dell’autopsia aveva sempre costituito l’arena delle grandi scoperte.

Il cadavere di Dennis Hodges era disteso sul tavolo e gli erano già state fatte le radiografie, che adesso erano allineate su un pannello luminoso. Walt presentò ad Angela il suo assistente Peter e il lavoro ebbe inizio.

Esaminarono dapprima le radiografie che rivelarono una frattura nella parte alta della fronte, chiaramente mortale, e un’altra frattura lineare nella parte inferiore del cranio. Anche la clavicola sinistra, l’ulna sinistra e il radio sinistro erano fratturati.

«Non c’è dubbio, si tratta di un omicidio», affermò Walt. «Guardate come il poveretto ha lottato strenuamente.»

«Il capo della polizia locale ha suggerito il suicidio», gli riferì Angela.

«Stava scherzando, spero.»

«Non lo so. A me e mio marito non è parso un buon detective. Può darsi che non abbia mai avuto fra le mani un caso di omicidio.»

«Può darsi», convenne Walt. «Un altro problema è che il personale della polizia locale non ha ricevuto un grande addestramento teorico in questi ultimi anni.»

Angela descrisse il palanchino che era stato trovato accanto al cadavere. Usando un righello per determinare le dimensioni della frattura mortale e poi esaminando la ferita stessa, arrivarono alla conclusione che poteva essere stata quella l’arma del delitto.

Poi la loro attenzione si rivolse alle mani.

«Sono stato molto contento nel vedere che le hanno chiuse nei sacchetti», disse Walt. «Sono anni che cerco di convincere i miei colleghi a usare i sacchetti, in questo genere di casi.»

Angela fu compiaciuta nel vedere che la sua idea si era rivelata buona.

Walt cominciò un esame accurato della pelle sotto le unghie. «C’è del materiale estraneo», le annunciò e indietreggiò affinché lei potesse vedere.

«Ha idea di che cosa possa essere?» chiese Angela.

«Per saperlo dovremo aspettare gli esiti degli esami al microscopio», rispose Walt, mentre ne prelevava alcuni campioni e li depositava nei recipienti appositi. Su ognuno scrisse da quale dito proveniva.

L’autopsia si svolse rapidamente; era come se Angela e Walt fossero una squadra affiatata da tempo. C’erano molti aspetti che interessavano un patologo come Angela, e Walt godeva del suo ruolo di maestro. Hodges aveva una forte arteriosclerosi, un piccolo cancro a un polmone e un’avanzata cirrosi epatica.

«Penso che gli piacesse il bourbon», commentò Walt.

Finito il lavoro, Angela lo ringraziò per l’ospitalità e gli chiese di tenerla informata sul caso. Lui la incoraggiò a chiamarlo tutte le volte che voleva.

Mentre ritornava verso l’ospedale, Angela si sentì di buon umore, come mai le era successo negli ultimi giorni. L’autopsia si era rivelata molto interessante ed era contenta che Wadley l’avesse lasciata andare.

Nel parcheggio non riuscì a trovare un posto nella zona riservata, vicino all’ingresso posteriore, e fu costretta a lasciare l’auto più lontano, nel parcheggio superiore. Senza ombrello, s’inzuppò per bene prima di arrivare al coperto.

Angela andò direttamente nella sua stanza e non fece in tempo ad appendere il cappotto che la porta comunicante con quella del suo capo si spalanco violentemente, facendola sobbalzare. Sulla soglia apparve Wadley, la mascella serrata, gli occhi come due fessure, i capelli scomposti, sembrava furibondo. Angela fece istintivamente un passo indietro e guardò verso la porta che dava all’esterno, in cerca di una via di fuga.

Wadley le si avvicinò in un lampo e la spinse contro la scrivania.

«Vorrei una spiegazione», ringhiò. «Perché è andata da Cantor a raccontare quella storia insensata, quelle accuse ridicole, infondate? Molestie sessuali! Mio Dio, è assurdo!»

Wadley smise di parlare e la fissò, furioso. Lei si tirò più indietro che poté, non sapendo come rispondere. Non voleva provocarlo, temeva che potesse colpirla.

«Perché non mi ha detto niente?» urlò Wadley, poi si accorse che la porta che dava sulla stanza delle segretarie era socchiusa e che dalle loro scrivanie non giungeva alcun rumore. La raggiunse con pochi passi e la chiuse con forza.

«Dopo tutto il tempo e le energie che ho dedicato a lei, questa è la ricompensa che ottengo», urlò. «Non penso occorra ricordarle che è ancora in prova. Farà meglio a rigare dritto, o si ritroverà a cercare lavoro senza le mie referenze.»

Angela annuì, non sapendo che cos’altro fare.

«Be’, non ha niente da dire?» Il viso di Wadley era a pochi centimetri dal suo. «Ha intenzione di starsene lì a muovere la testa?»

«Mi spiace che siamo arrivati a questo punto», mormorò lei.

«Ah, è così? Ha offuscato la mia reputazione con accuse infondate e questo è tutto ciò che sa dire? Questa è calunnia e le dirò una cosa: potrei trascinarla in tribunale.»

Con questo, Wadley girò sui tacchi, ritornò a grandi falcate nel proprio ufficio e sbatté la porta.

Lottando contro le lacrime, Angela si lasciò cadere sulla sedia e scosse la testa. Era tutto così ingiusto!


Mentre visitava un paziente, David fu avvertito da Susan che lo stava chiamando al telefono dall’unità di terapia intensiva. Temendo il peggio, corse a rispondere e venne informato dell’arresto cardiaco di John Tarlow e del fatto che su di lui stava già operando una squadra di rianimazione.

Riattaccò. Il cuore gli batteva all’impazzata e un sudore freddo gli imperlava la fronte. Corse immediatamente al capezzale di John, ma era troppo tardi: il medico responsabile della squadra di rianimazione lo aveva già dichiarato morto.

«Eh, non c’era molto da fare», gli disse. «I polmoni erano pieni, i reni scoppiati e non aveva pressione sanguigna.»

David annuì, mentre fissava il suo paziente, al quale venivano staccati i tubi. Rifugiatosi nella stanza delle infermiere, si sedette alla scrivania e cominciò a chiedersi se era veramente adatto a fare quel lavoro.

Arrivarono i parenti di Tarlow e, come la famiglia Kleber, dimostrarono comprensione e riconoscenza. Lui accettò le loro parole sentendosi un impostore. Non aveva potuto fare niente per John. Non sapeva nemmeno perché era morto. La leucemia non era una vera spiegazione.

Anche se ormai era a conoscenza di quali erano le regole per l’autopsia, domandò alla famiglia se fosse disposta ad autorizzarla e gli risposero che ci avrebbero pensato.

Prima di tornare in ambulatorio, passò a controllare come stavano Mary Ann Schiller e Jonathan Eakins e si assicurò che i trattamenti prescritti avessero avuto inizio e in particolare che il cardiologo del CMV avesse visitato Eakins.

Purtroppo, scoprì una cosa che lo lasciò interdetto: a Mary Ann era stata assegnata la stanza 206, la stessa che era stata da poco lasciata libera da John Tarlow e gli venne l’impulso di chiedere che venisse spostata in un’altra, ma poi si disse che quella era superstizione. Che cosa avrebbe detto all’accettazione? Che non voleva più che i suoi pazienti fossero sistemati nella stanza 206? Era ridicolo.

Dopo avere verificato che la terapia a base di antibiotici era già iniziata, David promise a Mary Ann di ritornare più tardi, poi passò da Jonathan. Lo trovò rilassato e a proprio agio, con il monitor già sistemato. Il suo paziente gli disse che il cardiologo sarebbe arrivato subito.

Quando ritornò in ambulatorio, Susan lo avvisò che gli aveva telefonato Charles Kelley. «Vuole vederla immediatamente e ha sottolineato ‘immediatamente’.»

«Quanti pazienti ci restano?»

«Tantissimi, quindi cerchi di non starci troppo.»

Sentendosi come se portasse tutto il peso del mondo sulle spalle, David si trascinò fino agli uffici del CMV. Poteva immaginare il motivo per cui era stato chiamato a rapporto.

«Non so proprio che cosa fare, David», esordì l’uomo, scuotendo la testa. Questa volta aveva deciso d’interpretare il ruolo dell’amico ferito.

«Ho cercato di ragionare con lei, ma o è testardo o non le importa niente del CMV. Proprio il giorno dopo che le ho raccomandato di evitare consulti esterni superflui, lei lo ha fatto di nuovo e con un altro paziente terminale. Che cosa devo fare con lei? Lo capisce che bisogna prendere in considerazione il costo delle cure mediche? Lo sa che nel Paese è in corso una crisi?»

David Annuì. Quello era vero.

«Allora perché le è così difficile agire di conseguenza?»

Il tono di voce tendeva ora alla collera. «E questa volta non si tratta solo del CMV, ma anche dell’ospedale. Mi ha appena chiamato Helen Beaton, lamentandosi per i farmaci immensamente costosi che lei ha ordinato per un paziente già moribondo. Lo hanno confermato anche i suoi colleghi che ha chiamato in consulto. Erano anni che soffriva di leucemia, non capisce? Questo vuol dire sciupare denaro e risorse.»

Kelley pareva arrivato al massimo della tensione. La voce era acuta, il viso arrossato, ma poi si fermò e sospirò, scuotendo di nuovo la testa. «Helen Beaton si è anche lamentata perché lei ha richiesto un’autopsia», continuò con voce stanca. «Le autopsie non fanno parte del contratto fra noi e l’ospedale e lei ne era stato informato di recente. David, dev’essere ragionevole, mi deve aiutare, oppure…» Kelley non finì la frase, lasciandola sospesa nell’aria.

«Oppure che cosa?» chiese David. Sapeva che cosa l’altro intendeva, ma voleva che fosse lui a dirlo.

«Lei mi piace, David», affermò Kelley, «ma ho bisogno del suo aiuto. Sopra di me ho altre persone a cui devo rispondere, spero che se ne renda conto.»

Nel tornarsene verso l’ambulatorio, David si sentiva più depresso che mai. Kelley lo irritava con le sue intromissioni, ma per certi aspetti aveva ragione. Denaro e risorse non dovevano essere buttati via con i pazienti terminali, quando potevano essere meglio utilizzati altrove. Ma era davvero quella la questione in ballo?

Più confuso e mortificato che mai, David aprì la porta del suo ambulatorio e vide una sala d’aspetto strapiena di pazienti scontenti che guardavano furiosi gli orologi e sfogliavano rumorosamente le riviste.


A casa Wilson, la cena si svolse in silenzio e in un’atmosfera tesa. Persino Nikki aveva passato una brutta giornata a causa del nuovo maestro, il signor Hart, che era già odiato da tutta la classe. Il problema maggiore per lei era stato che non le aveva permesso di svolgere i suoi esercizi per i polmoni.

Dopo cena, David tentò di rallegrare la serata proponendo un bel fuoco, ma quando scese in cantina e vide i nastri gialli messi dalla scientifica per delimitare il luogo del delitto, gli ritornò alla mente la macabra immagine del cadavere del signor Hodges.

Raccolse in fretta un po’ di legna e tornò rapidamente di sopra. In genere non era un tipo superstizioso o fifone, ma in seguito ai recenti eventi lo stava diventando.

Dopo avere acceso il fuoco nel salottino, si mise a parlare con entusiasmo dell’inverno che stava arrivando e di tutti gli sport che avrebbero potuto praticare: lo sci, la slitta e il pattinaggio. Era quasi riuscito a coinvolgere moglie e figlia, rimettendole di buon umore, quando i fari di un’auto illuminarono la parete della stanza.

«È una macchina della polizia di Stato», annunciò David, che era andato alla finestra. «Che cosa diavolo vorranno a quest’ora?»

«Oh, me n’ero completamente dimenticata!» esclamò Angela. «Stamattina mi hanno chiesto se potevano ritornare con il buio per cercare le macchie di sangue.»

«Macchie di sangue? Ma Hodges è stato ucciso mesi fa!»

«Dicono che vale la pena provare.»

Erano gli stessi investigatori della mattina. Quillan sembrava il responsabile delle indagini e Angela lo presentò a David, che gli chiese subito come funzionava il test che dovevano fare.

«A contatto con il ferro residuo del sangue, il Luminol diventa fluorescente», spiegò Quillan.

«Interessante», mormorò David, rimanendo però scettico.

I tre tecnici non vedevano l’ora di finire quella lunga giornata di lavoro, così David e Angela si misero in disparte e li lasciarono lavorare.

Cominciarono dallo stanzino dietro la cucina, quello dove si lasciavano gli stivali e i cappotti e che fungeva da ingresso posteriore. Piazzarono un treppiedi, su cui sistemarono una macchina fotografica e spensero la luce, poi spruzzarono il Luminol con un flacone simile a quelli che si usano per pulire i vetri.

«Qui ce n’è un po’», si udì la voce di Quillan nell’oscurità. David e Angela si affacciarono nello stanzino e scorsero una debole chiazza fluorescente.

«Non è abbastanza per scattare una foto», disse uno degli altri due tecnici.

Passarono al vaglio tutta la stanza, ma non trovarono altre tracce e allora spostarono la macchina fotografica in cucina. Quillan fece spegnere anche le luci della sala da pranzo e del corridoio.

I Wilson rimasero sulla soglia e all’improvviso videro che alcune zone della parete vicino allo stanzino posteriore cominciavano a divenire fluorescenti.

«È debole, ma ce n’è parecchio», osservò Quillan. «Io continuo a spruzzare, voi aprite l’otturatore della macchina fotografica.»

«Mio Dio, stanno trovando macchie di sangue per tutta la mia cucina!» sussurrò Angela.

Degli uomini al lavoro si potevano distinguere soltanto le sagome e udire i loro movimenti nell’oscurità. Quando si avvicinarono al tavolo che i Wilson avevano comprato da Clara Hodges e che usavano per mangiare in cucina, le sue gambe cominciarono a emanare una luminescenza spettrale.

«Suppongo sia questo il luogo del delitto», disse uno dei tecnici. «Proprio qui, vicino al tavolo.»

Dopo che la polizia se ne fu andata, i Wilson ritornarono davanti al camino, ma erano ancora più depressi di prima e nessuno tentò di rendere l’atmosfera meno pesante.

Angela si sedette sulle pietre del camino, dando le spalle al fuoco, e fissò David e Nikki che si erano accasciati sul divano. Non le piaceva ciò che aveva appena scoperto: la sua cucina conservava le tracce di un orrendo delitto. Quella era la stanza che considerava come il cuore della casa e adesso veniva a sapere che era stata profanata dalla violenza. Era come se sulla sua famiglia gravasse una minaccia diretta.

Condensò il succo dei suoi pensieri in una frase con la quale ruppe improvvisamente il silenzio: «Forse dovremmo traslocare».

«Aspetta un momento», reagì David. «Lo so che sei sconvolta, lo siamo tutti, ma non dobbiamo lasciarci andare all’isterismo.»

«Non sono affatto isterica!»

«Suggerire che dovremmo andarcene a causa di un evento disgraziato che non ci riguarda e che è accaduto quasi un anno fa non è certo una cosa razionale», precisò David.

«È successo nella nostra casa», insistette lei.

«Che è ipotecata dal tetto alle fondamenta. Non possiamo andarcene solo perché ora siamo sconvolti emotivamente.»

«Allora voglio che siano cambiate le serrature, c’è stato un assassino qua dentro.»

«Non abbiamo mai nemmeno chiuso a chiave la porta.»

«D’ora in avanti la chiuderemo e voglio che le serrature siano cambiate.»

«Va bene», acconsentì David. «Cambieremo le serrature.»


Quando Traynor fermò la macchina davanti all’Iron Horse Inn, il suo umor nero era in perfetta sintonia con il tempo: la pioggia aveva riacquistato un’intensità tropicale. Vedendo che l’ombrello non serviva a niente, lo gettò sul sedile posteriore e fece una corsa fino all’ingresso.

Helen, Caldwell e Sherwood erano già seduti in un séparé e Cantor arrivò un attimo dopo di lui. Il barista, Carleton Harris, venne subito a prendere le ordinazioni.

«Grazie per essere venuti tutti, nonostante il tempo inclemente», esordì Traynor. «Purtroppo i recenti eventi richiedono una riunione d’emergenza.»

«Questa non è una riunione formale del comitato esecutivo», sbuffò Cantor. «Non sia così formale.»

Traynor aggrottò la fronte, irritato, e lo fissò sibilando: «Posso continuare?»

«E su, Harold, per la miseria!»

«Come tutti sapete, il cadavere di Hodges è stato ritrovato in circostanze poco piacevoli.»

«Questa storia ha attratto l’attenzione dei media», aggiunse Helen. «È finito in prima pagina sul Boston Globe.»

«Non vorrei che tutta questa pubblicità negativa nuocesse all’ospedale», disse Traynor. «Gli aspetti macabri della morte di Hodges potrebbero attirare ancora di più giornali e reti televisive e l’ultima cosa al mondo che desidero è avere un branco di reporter venuti da fuori a ficcare il naso dappertutto. Grazie soprattutto a Helen Beaton, siamo riusciti a non far trapelare la storia dello stupratore, ma giornalisti di grosse testate potrebbero fiutare lo scandalo, se si fermassero in città. Per noi, sarebbe solo un danno.»

«Ho sentito che la morte di Hodges è stata definitivamente considerata un omicidio», osservò Cantor.

«Certo», sbottò Traynor, «come poteva essere considerata? Il cadavere era murato dietro una parete di cemento. Ma per noi il problema non è se sia stato o non un omicidio, ma se riusciremo a diminuire l’impatto negativo che può avere sulla reputazione dell’ospedale, in particolare per quanto riguarda i rapporti con il CMV.»

«Non vedo come la morte di Hodges possa costituire un problema per l’ospedale», obiettò Sherwood. «Mica lo abbiamo ammazzato noi.»

«Hodges ha gestito l’ospedale per più di vent’anni», gli spiegò Traynor. «Il suo nome è intimamente legato a Bartlet e per di più molte persone sanno che non era contento di come noi stavamo gestendo le cose.»

«Credo che meno l’ospedale si fa sentire su questa storia e meglio è», fu l’opinione di Sherwood.

«Io non sono d’accordo», intervenne Helen. «Secondo me l’ospedale dovrebbe rilasciare una dichiarazione di cordoglio per la sua morte, sottolineando il rilevante debito che ha verso di lui, senza dimenticare le condoglianze per la famiglia.»

«È vero», affermò Cantor. «Ignorare la sua morte sembrerebbe strano.»

«Sono d’accordo anch’io», si unì Caldwell.

Sherwood capitolò. «Se tutti la pensano così, mi associo.»

«Nessuno ha parlato con Robertson?» chiese Traynor.

«Io», rispose Helen. «Non ha individuato nessun sospetto. Spaccone com’è, lo farebbe sapere.»

«Per come ce l’aveva con Hodges, anche lui potrebbe essere un sospetto», affermò Sherwood ridendo.

«Anche lei», gli disse Cantor.

«E anche lei, Cantor», replicò Sherwood.

«Non è una gara, questa», cercò di placarli Traynor.

«Se fosse una gara, lei sarebbe il favorito», gli fece notare Cantor. «Lo sanno tutti che cosa provava nei confronti di Hodges dopo che sua sorella si è suicidata.»

«Smettetela», intervenne Caldwell. «Tanto non importa a nessuno sapere chi è stato.»

«Questo potrebbe non essere del tutto vero», obiettò Traynor. «Al CMV potrebbe importare. Dopotutto, questo sordido affare ha ancora qualche riflesso sull’ospedale e sulla città. Allora, siamo tutti d’accordo per la dichiarazione?»

Gli altri annuirono e Traynor domandò a Helen se poteva pensarci lei.

«Sarò felice di farlo», rispose il direttore generale.

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