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Martedì 26 ottobre


David e Angela dormirono male quella notte, a causa dell’eccitazione, ma ognuno di loro reagì in maniera diversa. Angela fece fatica ad addormentarsi, mentre David, invece, si svegliò alle quattro e capì che non sarebbe più riuscito a riprendere sonno.

Sgusciò fuori dal letto e stava per scendere di sotto, quando sentì un rumore provenire dalla camera di Nikki e vide la bimba comparire sulla soglia.

«Che cosa fai già alzata?» le sussurrò.

«Mi sono svegliata. Pensavo a Caroline.»

David entrò in camera sua e rimase a parlare con lei. Le assicurò che, appena fosse arrivato in ospedale, sarebbe passato dalla sua amica per vedere come stava e le avrebbe telefonato per tenerla informata.

Nikki tossì e David le suggerì di fare subito gli esercizi di drenaggio bronchiale. Quando ebbero finito, la bimba disse di sentirsi molto meglio.

Scesero insieme in cucina, dove David cucinò uova e pancetta e Nikki scaldò i panini nel forno. Con il camino acceso c’era un’aria di festa, che era un ottimo antidoto per esorcizzare i pensieri cupi. Alle sei David era già in ospedale e non volle disturbare i pazienti che ancora dormivano. Sbirciando nella stanza di Donald, vide che era sveglio, così entrò.

«Mi sento davvero male», gli disse. «Non ho chiuso occhio per tutta la notte.»

«Che cosa c’è che non va?» gli chiese David, allarmato, scoprendo i sintomi che gli erano fin troppo familiari: crampi addominali, nausea e diarrea e inoltre, come per Jonathan, un’eccessiva salivazione.

David cercò di rimanere calmo, dicendosi che Donald non era mai stato sottoposto a chemioterapia. Aveva sì subito un difficile intervento chirurgico a causa di un sospetto cancro al pancreas: gli erano stati asportati il pancreas, parte dello stomaco e dell’intestino e buona parte del tessuto linfatico, ma l’esame istologico aveva rivelato successivamente che il tumore era benigno. David sperava che, non essendo stato sottoposto a chemioterapia, Donald avesse abbastanza difese immunitarie per contrastare la misteriosa malattia.

Terminato il giro in corsia, chiese in quale stanza si trovasse Caroline e scoprì che per arrivarci doveva passare dall’unità di terapia intensiva. Ne approfittò così per chiedere notizie di Jonathan e, anche se era preparato al peggio, fu un colpo per lui sapere che era morto alle tre di quella mattina.

«Tutto quello che abbiamo fatto non è servito», gli disse la caposala, «è stato un decorso fulminante. Che peccato: un uomo così giovane! È proprio vero che non si sa mai quando ci tocca andarcene.»

David annuì, sentendosi la bocca arida. Il conto era rapido da fare: in una settimana aveva perduto quattro pazienti.

Si rallegrò nello scoprire che Caroline aveva reagito benissimo agli antibiotici e alla terapia respiratoria: la febbre era sparita, il colorito era roseo e gli occhi azzurri luccicavano vispi. Quando lo vide comparire sulla soglia, gli rivolse uno smagliante sorriso.

«Nikki vuole venirti a trovare», le disse David.

«Bene. Quando?»

«Probabilmente questo pomeriggio.»

«Le dica di portarmi il libro di lettura e anche il sussidiario, per favore.»

David promise che lo avrebbe fatto, poi andò in ambulatorio, dove la prima cosa che fece fu telefonare a casa. Rispose Nikki e lui la rassicurò dicendole che Caroline stava molto meglio e che poteva andare a trovarla. Le riferì della sua richiesta dei libri e poi le domandò di passargli Angela.

«È sotto la doccia. Ti faccio richiamare?»

«No, non occorre, ma voglio che le ricordi una cosa. Ieri ha portato a casa un fucile, che è appoggiato alla ringhiera, in fondo alle scale. Deve fartelo vedere e spiegarti che non lo devi toccare. Puoi ricordarle di farlo?»

«Sì, papà.»

David s’immaginò la figlia che alzava gli occhi al cielo.

«Parlo sul serio, non dimenticartene.»

Riagganciò, pensando al fucile. Non gli piaceva averlo in casa e non gli piaceva quell’ossessione di Angela per il caso Hodges.

Visto che aveva un po’ di tempo a disposizione prima che l’ambulatorio aprisse al pubblico, decise di mettersi a compilare un po’ di scartoffie, ma aveva appena iniziato quando sentì squillare il telefono. Era Sandra Hascher, una sua paziente affetta da melanoma che sì era esteso ai linfonodi.

«Non mi aspettavo che rispondesse direttamente lei», si stupì Sandra.

«In questo momento ci sono soltanto io.»

Sandra spiegò di avere un ascesso a un dente. Dopo l’estrazione, l’infezione si era aggravata. «Mi spiace disturbarla, ma ho quaranta di febbre. Andrei al pronto soccorso, ma l’ultima volta che l’ho fatto mi è toccato pagare, perché il CMV si è rifiutato di riconoscere l’urgenza.»

«Questa storia l’ho già sentita», commentò con amarezza David. «Venga qui subito. La visiterò immediatamente.»

L’ascesso faceva impressione. Tutto un lato del volto di Sandra era deformato dal gonfiore e i linfonodi sotto la mandibola erano grossi quasi quanto una palla da golf.

«Dev’essere ricoverata», le disse David.

«Non posso, ho troppo da fare e il mio bambino di dieci anni è a casa con la varicella.»

«Deve trovare una soluzione. Non posso lasciarla andare in giro con addosso questa bomba a orologeria.»

David le spiegò dettagliatamente l’anatomia di quella parte del corpo, sottolineando come l’ascesso fosse pericolosamente vicino al cervello. «Se l’infezione arriva al sistema nervoso, allora sì che avremo guai seri. Ha bisogno di una somministrazione continua di antibiotici, non è uno scherzo.»

Sandra si convinse. David riempì per lei i documenti necessari e scrisse la terapia a cui doveva essere sottoposta, quindi la mandò all’accettazione, non senza avere avvisato l’impiegata del suo arrivo.


Angela si sentiva a pezzi. Diverse tazze di caffè non erano servite a tirarla su. Si era addormentata non prima delle tre e non aveva dormito bene, a causa di vari incubi in cui comparivano il cadavere di Hodges, lo stupratore con gli occhiali da sci e il mattone che aveva rotto i vetri.

Quando si svegliò, si stupì vedendo che David era già andato al lavoro. Mentre si vestiva, ripensò alla promessa che gli aveva fatto di cercare di dimenticare Hodges, ma le sembrava difficile da mettere in pratica.

Si chiese che fine avesse fatto Phil Calhoun e pensò che, se anche non aveva scoperto nulla, avrebbe dovuto farsi vivo con lei. Provò a telefonargli, ma trovò la segreteria telefonica e decise di non lasciare nessun messaggio.

Quando vide che Nikki era già alzata, la chiamò per gli esercizi respiratori, ma la bimba le disse che li aveva già fatti con il padre.

«Davvero?» si stupì Angela. «E la colazione?»

«Abbiamo fatto anche quella.»

«A che ora vi siete alzati?»

«Verso le quattro.»

Angela non era contenta che David si alzasse così presto. L’insonnia è spesso un sintomo di depressione e non le piaceva nemmeno che Nikki seguisse l’esempio del padre.

«Come ti sembra che stesse papà, stamattina?» le chiese.

«Bene. Ha chiamato mentre facevi la doccia per dire che Caroline sta bene e che questo pomeriggio posso andare a trovarla.»

«Oh, questa sì che è una bella notizia!»

«E poi mi ha anche chiesto di ricordarti di un fucile. Aveva un’aria strana, come se pensasse che io non sappia che cos’è un fucile.»

«È preoccupato», spiegò Angela. «Non è uno scherzo. Le armi, se lasciate in mano ai bambini, sono un pericolo. Molti bambini ogni anno rimangono uccisi a causa delle armi tenute in casa, anche se le statistiche riguardano soprattutto le rivoltelle.»

Angela andò a prendere il fucile e tolse il proiettile, spiegandole come si faceva a capire che in quel modo il fucile era scarico. Poi glielo fece maneggiare, insegnandole a caricarlo, scaricarlo e a premere il grilletto. Dopo di che andarono dietro il fienile e tirarono un colpo a testa. Nikki disse che non le piaceva sparare perché le faceva male alla spalla.

Quando rientrarono, Angela mise via il fucile e disse alla figlia che non doveva toccarlo, ma lei rispose di non preoccuparsi, perché non voleva averci niente a che fare.

Visto che la giornata si preannunciava calda e soleggiata, Nikki andò a scuola in bicicletta e sua madre la guardò allontanarsi, pensando che per lo meno Bartlet giovava alla sua salute.

Arrivata all’ospedale, Angela non seppe resistere alla tentazione di fare un sopralluogo sul posto dov’era stata aggredita. Arrivò sul sentiero fra gli alberi e individuò le proprie impronte nel fango, poi scoprì il segno che aveva lasciato il bastone conficcandosi nel terreno.

Era profondo circa dieci centimetri. Ci mise dentro le dita e rabbrividì. Il ricordo del sibilo che il bastone aveva fatto nel passarle accanto all’orecchio era fin troppo vivido. Le parve di ricordare persino un bagliore metallico.

All’improvviso, si rese conto di qualcosa che fino ad allora le era sfuggito: il suo aggressore non aveva esitato. Non aveva avuto intenzione di violentarla, ma di colpirla, magari di ucciderla, e, se lei non fosse rotolata via, il colpo l’avrebbe raggiunta alla testa.

Ripensò alle ferite nel cranio di Hodges, che aveva esaminato durante l’autopsia. Era stato colpito con una sbarra di metallo. Anche lei avrebbe potuto ritrovarsi con la testa ridotta in quel modo!

Nonostante la sua sfiducia in lui, telefonò a Robertson.

«Lo so perché mi chiama», disse subito lui, irritato, «e se lo può scordare. Non ho intenzione di mandare quel mattone alla polizia di Stato per le impronte digitali, mi riderebbero dietro.»

«Non la chiamo per il mattone», ribatté Angela e gli spiegò che, secondo lei, l’aggressione che aveva subito non era stata un tentativo di stupro, ma un tentativo di omicidio.

Robertson rimase talmente in silenzio da farle venire il dubbio che avesse riattaccato. «Pronto?» disse dopo qualche momento.

«Ci sono. Sto pensando.»

Ci fu un’altra pausa.

«No, non ci credo. Quel tipo è uno stupratore, non un assassino. In passato ha avuto la possibilità di uccidere e non l’ha fatto. Diavolo, non ha nemmeno fatto del male a quelle che ha violentato!»

Angela si chiese se le vittime degli stupri sarebbero state d’accordo su quella considerazione, ma non voleva discutere con Robertson dell’argomento. Si limitò a ringraziarlo per il tempo che le aveva dedicato e riattaccò.

«Che bestia!» esclamò a voce alta. Era stata una stupida a credere che Robertson le avrebbe dato retta. Eppure, più ci pensava, più si convinceva che lo scopo di quell’aggressione non era stato lo stupro e, se si trattava di un tentativo di omicidio, allora poteva essere collegato al caso Hodges. Forse l’uomo era l’assassino di Hodges!

Angela rabbrividì. Se aveva ragione, allora qualcuno spiava le sue mosse. L’idea la terrorizzò. Qualunque cosa avesse intenzione di fare, doveva essere sicura di riuscire a far credere che rinunciava a occuparsi della questione.

Si chiese se dovesse condividere con David i suoi sospetti. Da un lato, non voleva che fra loro ci fossero segreti, ma dall’altro sapeva che lui avrebbe insistito ancora di più per farle abbandonare le indagini sul caso Hodges. Per il momento, decise che lo avrebbe detto solo a Phil Calhoun, se e quando lo avesse sentito.


Come facevano ogni mese, Traynor, Sherwood,Helen Beaton e Caldwell si trovarono all’Iron Horse Inn per la prima colazione, per organizzare la riunione del comitato esecutivo che si sarebbe tenuto la sera del lunedì seguente.

«È incoraggiante», annunciò Helen. «Le cifre preliminari della seconda metà di ottobre sono migliori di quelle della prima metà. Non siamo ancora fuori pericolo, ma le cose vanno decisamente meglio che a settembre.»

«Teniamo una questione sotto controllo e dobbiamo affrontarne un’altra», si lamentò Traynor. «Non si finisce mai. Che cos’è questa storia del medico aggredito nel parcheggio la notte scorsa?»

«È successo poco dopo mezzanotte», riferì Caldwell. «È la nuova patologa, la dottoressa Angela Wilson. Ha lavorato fino a tardi.»

«Dove è successo, esattamente?» domandò Traynor, picchiettando nervosamente il martelletto sul palmo della mano.

«Nel sentiero fra i due parcheggi», rispose Caldwell.

«I lampioni sono stati messi?»

Caldwell guardò Helen Beaton, che ammise: «Non lo so, ma controlleremo appena arriviamo in ospedale».

«È meglio che ci siano», aggiunse cupo Traynor, dandosi un colpo di martelletto più forte degli altri. «Non sono riuscito a convincere i consiglieri comunali ad approvare la costruzione del garage. Non c’è modo che lo si possa riproporre prima della prossima primavera.»

«Al Bartlet Sun sono d’accordo di non parlare del tentativo di stupro», comunicò Helen.

«Almeno loro sono dalla nostra parte», disse Traynor.

«Ci sono altre questioni da dibattere alla prossima riunione?» chiese Sherwood.

«Radiologi e neurologi si stanno facendo la guerra», annunciò Helen Beaton, «per decidere chi è ufficialmente incaricato di leggere i risultati della risonanza magnetica nucleare del cranio.»

«Sta scherzando!» esclamò Traynor.

«Dico sul serio. Se gli dessimo le armi, sarebbe una lotta mortale. Ci sono in palio dollari e prestigio, una combinazione micidiale.»

«Maledetti medici! Non sono neppure capaci di lavorare insieme gli uni con gli altri. Sono un branco di vagabondi solitari, se volete sapere la mia opinione.»

«E con questo arriviamo al medico numero 91», continuò Helen. «Sta pensando di fare causa all’ospedale.»

«Si accomodi», commentò Traynor. «Sono stanco anche dell’insistenza con cui il personale medico vuole che chiamiamo questi ‘medici compromessi’ con un numero in codice. E che diavolo! ‘Medici compromessi’ è già un bell’eufemismo!»

«Le novità sono queste», concluse Helen.

«Nient’altro?» domandò Traynor, girando lo sguardo intorno al tavolo.

«Ieri pomeriggio ho ricevuto una strana visita», lo informò Sherwood, «un investigatore privato, Phil Calhoun.»

«È venuto anche da me», disse Traynor.

«Mi ha reso nervoso», ammise Sherwood. «Mi ha fatto un sacco di domande su Hodges.»

«Anche a me.»

«Il problema è che sembrava sapere già un mucchio di cose. Io ero riluttante a parlare, ma non volevo nemmeno sembrare reticente.»

«Anch’io mi sono sentito esattamente allo stesso modo.»

«Da me non è venuto», intervenne Helen Beaton.

«Chi pensa che lo abbia ingaggiato?»

«Gliel’ho chiesto. Mi ha fatto capire che è stata la famiglia Hodges. Allora ho telefonato a Clara, ma lei non ne sapeva niente. Poi ho chiamato anche Wayne Robertson e Calhoun è già stato anche da lui. Wayne pensa che la candidata più probabile sia Angela Wilson, la nostra nuova patologa.»

«Potrebbe essere», osservo Sherwood. «È venuta da me e ha parlato di Hodges. Era sconvolta per il cadavere trovato nella sua cantina.»

«È una comcidenza curiosa», notò Helen Beaton. «Di certo ha i suoi problemi: prima un cadavere in casa e poi un tentativo di stupro!»

«Magari l’aggressione le farà scordare il suo interesse per Hodges», disse Traynor. «Sarebbe paradossale se da una cosa potenzialmente negativa ne sortisse fuori una positiva.»

«E se Phil Calhoun scoprisse chi ha ucciso Hodges?» domandò Caldwell.

«Questo potrebbe essere un problema», ammise Traynor. «Ma sono passati più di otto mesi. Che probabilità ci sono?»

Quando la riunione fu finita, Traynor accompagnò Helen alla macchina e le chiese se avesse cambiato idea riguardo alla loro relazione.

«No», disse lei. «E tu?»

«Non posso divorziare da Jacqueline proprio adesso. Il ragazzo è al college. Quando finirà…»

«Bene. Ne parleremo allora», tagliò corto Helen.

Mentre tornava verso l’ospedale, scosse la testa ed esclamò irritata: «Gli uomini!»


In ambulatorio, David visitò l’ultimo paziente e raggiunse il suo ufficio, dove Nikki era seduta alla scrivania e stava sfogliando una rivista medica. Compiaciuto nel vedere l’interesse che la figlia mostrava per la medicina, la salutò e le chiese se fosse pronta.

«Andiamo!» rispose lei.

Raggiunsero la parte dell’ospedale utilizzata per i ricoveri e trovarono subito la stanza di Caroline, che li accolse con gioia. La bimba era contenta che Nikki si fosse ricordata di portarle i libri di scuola.

«Guardate che cosa so fare», annunciò, poi si attaccò a una sbarra che le correva sopra la testa, sollevandosi completamente dal letto.

David applaudì, stupendosi che una bimba esile e gracilina come lei avesse tutta quella forza. Le avevano assegnato un grande letto ortopedico e lui pensò che lo avessero fatto per permetterle di divertirsi un po’.

«Vado a visitare i miei pazienti», disse a Nikki. «Non starò via molto. Non terrorizzate le infermiere, promesso?»

«Promesso.» Nikki e Caroline ridacchiarono.

Prima di tutto, David passò da Donald Anderson. Non era preoccupato per lui, perché per tutta la giornata si era tenuto informato sulle sue condizioni e sapeva che non erano peggiorate.

«Come sta?» gli chiese avvicinandosi.

Il suo letto era piegato ad angolo retto e Donald vi era seduto immobile. Nel sentire la voce del suo medico, girò lentamente la testa verso di lui, ma non rispose.

«Come sta?» ripeté David, a voce più alta.

Non riuscì ad afferrare il sordo borbottio con cui il suo paziente gli rispose e si rese conto ben presto che era completamente disorientato.

Lo esaminò con attenzione e, quando lo auscultò, non scoprì rumori sospetti al torace.

Per il momento, si limitò a ordinare un esame della glicemia e, mentre aspettava i risultati, visitò gli altri pazienti. Stavano tutti bene, compresa Sandra. Il dolore alla mandibola andava meglio, anche se il gonfiore non era diminuito e David non cambiò la terapia. Ad altri due ricoverati disse addirittura che potevano andare a casa il giorno successivo.

Quando ricevette il risultato delle analisi di Donald, vide che il livello dello zucchero era normale. Ma non poteva essere normale, per spiegare lo stato mentale del suo paziente.

David cercò una spiegazione e l’unica che poteva possibile era che ci fosse stato un forte calo o un aumento della glicemia che poi si era corretta da sola. Ma in quel caso anche le condizioni mentali avrebbero dovuto tornare alla normalità.

Era ancora preso da quei pensieri quando, entrando nella camera di Donald, lo trovò con il viso bluastro e la testa piegata all’indietro, a formare un angolo quasi impossibile, mentre dalla bocca semiaperta usciva un rivolo di sangue scuro. Le coperte erano tutte scompigliate e lo ricoprivano solo parzialmente.

Dopo un primo attimo d’incredulità, David reagì e chiamò le infermiere, che fecero subito accorrere la squadra di rianimazione. Arrivò anche il chirurgo di Donald, il dottor Albert Hillson, che stava effettuando il suo giro in corsia.

Fu subito chiaro a tutti che ogni tentativo di rianimare il paziente sarebbe stato inutile: Donald aveva subito una crisi epilettica con arresto respiratorio almeno venti minuti prima che David ritornasse da lui e in tutto quel tempo passato senza che il cervello fosse raggiunto dall’ossigeno, non c’erano speranze. David lo dichiarò morto.

Il dottor Hillson, anche se rattristato, disse che se Donald era vissuto così a lungo era stato grazie a una buona assistenza medica e anche la moglie, quando arrivò, espresse la stessa opinione. «Grazie per essere stato così gentile con lui», disse a David. «Lei era diventato il suo medico preferito.»

Lui, però, era a pezzi all’idea di aver perduto un altro paziente.


«Almeno sai perché è morto», affermò Angela, dopo che David le ebbe descritto ciò che era accaduto al suo paziente. Avevano finito di cenare e, mentre Nikki era salita in camera sua a fare i compiti, loro si erano seduti nel salottino.

«Ma non è vero», obiettò David. «È accaduto tutto così in fretta.»

«Ascolta, posso capire la tua confusione con gli altri pazienti, ma Donald Anderson non aveva più buona parte dei suoi organi addominali. Faceva avanti e indietro fra l’ambulatorio e l’ospedale. Non si può certo attribuire a te la colpa della sua morte!»

«È vero, era sempre sull’orlo di una crisi o per le frequenti infezioni o per il diabete. Ma perché ha avuto un attacco epilettico?»

«Lo zucchero nel suo sangue non aveva mai un livello costante. E se fosse stato un ictus? Voglio dire, le possibilità sono infinite.»

Lo squillo del telefono spaventò entrambi e David allungò istintivamente la mano per rispondere, temendo che fosse l’ospedale con altre cattive notizie. Quando sentì che volevano sua moglie, si tranquillizzò.

Lei riconobbe immediatamente la voce: Phil Calhoun.

«Scusi se non mi sono fatto vivo prima. Ho avuto molto da fare, ma adesso mi piacerebbe scambiare due parole.»

«Quando?»

«Sono qui all’Iron Horse, a un tiro di schioppo da casa sua. Posso venire?»

Angela coprì il ricevitore con la mano e disse al marito di chi si trattava. «Vuole venire qua.»

«Io pensavo che avessi lasciato perdere l’affare Hodges», reagì lui.

«Infatti, non ne ho più parlato con nessuno.»

«E allora, come mai si fa vivo questo Phil Calhoun?»

«Non ho parlato nemmeno con lui, dalla prima volta che l’ho visto, ma l’ho già pagato. Penso che dovremmo almeno sapere che cosa ha scoperto.»

David sospirò rassegnato. «E sia!»

Quando, un quarto d’ora dopo, se lo vide comparire sulla porta di casa, si chiese che cosa Angela avesse trovato in lui di professionale: da come era vestito, non dava affatto l’aria della professionalità. Aveva un cappello da baseball rosso, una camicia di flanella e ai piedi aveva un paio di scarpe da basket senza lacci.

Si sedettero nel soggiorno, sul divano consunto che si erano portati da Boston. L’immensa stanza era arredata con un povero e misero mobilio e, come se non bastasse, un telo di plastica copriva la finestra rotta.

«Bella casa», commentò Calhoun.

«Dobbiamo ancora finire di arredarla», disse Angela, che poi gli domandò se volesse bere qualcosa e andò a prendergli una birra, mentre David continuava a osservare l’ospite.

«Dà fastidio se fumo?» domandò Calhoun, tirando fuori di tasca la scatola di sigari.

«Purtroppo sì», gli rispose Angela, tornando con la birra. «Nostra figlia ha problemi respiratori.»

«Oh, allora niente. Volevo aggiornarvi sulle mie indagini. Proseguono bene, anche se richiedono molte energie. Il dottor Dennis Hodges non era l’uomo più popolare della città e, a quanto pare, metà degli abitanti lo detestavano, per un motivo o per l’altro.»

«Sì, di questo ci eravamo già accorti», commentò David. «Spero che abbia dettagli più specifici, che giustifichino la sua paga oraria.»

«David, ti prego!» Angela era stupita dalla rudezza di suo marito.

«Ho stilato un elenco dei potenziali sospetti», proseguì Phil Calhoun senza badare all’interruzione, «ma non ho ancora parlato con tutti. La cosa si sta facendo interessante. In questa città sta succedendo qualcosa di strano, lo sento nelle ossa.»

«Con chi ha parlato?» domandò David. La sua voce aveva ancora una certa rudezza che preoccupava Angela, che però non disse nulla.

«Solo un paio di persone, per ora.» Calhoun ruttò, non si scusò e non si coprì nemmeno la bocca. David lanciò un’occhiata ad Angela che finse di non essersi accorta di nulla.

«Ho parlato con due pezzi grossi dell’ospedale», continuò l’investigatore. «Il presidente del consiglio d’amministrazione, Traynor, e il vicepresidente, Sherwood. Tutti e due avevano dei motivi per detestare Hodges.»

«Spero che parlerà anche con il dottor Cantor», disse Angela. «Ho sentito che ce l’aveva con lui.»

«Cantor è sulla lista, ma volevo cominciare dalla cima e scendere verso il basso. Le lamentele di Sherwood riguardavano un pezzo di terra. Quelle di Traynor, invece, erano molto più personali.»

Calhoun raccontò la vicenda della sorella di Traynor e di come si fosse conclusa.

«Che storia terribile», commentò Angela.

«È come una soap opera televisiva», concordò Calhoun. «Ma se Traynor fosse stato spinto a fare qualcosa contro Hodges, lo avrebbe fatto allora, non adesso. Inoltre, era stato Hodges a scegliere lui come suo successore alla presidenza del consiglio di amministrazione e questo è stato molto tempo dopo il suicidio della sorella. Non l’avrebbe fatto, se fossero stati in rotta, e il figlio di Van Slyke, Werner, adesso lavora per l’ospedale.»

«Werner Van Slyke è parente di Traynor?» David era sorpreso. «Se questo non è nepotismo!»

«Forse, ma Werner Van Slyke junior era in relazioni amichevoli con Hodges. Si è preso cura per anni della sua casa e del giardino. Il suo impiego all’ospedale forse è più opera di Hodges che di Traynor. In ogni caso, non sospetto Traynor di omicidio.»

«Come fa a esserne sicuro?» gli domandò Angela.

«Non si può essere sicuri di niente, dobbiamo affidarci alle probabilità.»

«Molto interessante», commentò David, «ma è arrivato a individuare un sospetto o almeno a restringere l’elenco?»

«Non ancora.»

«E quanto abbiamo speso per arrivare a questo risultato?»

«David!» sbottò Angela. «Sei ingiusto. Il signor Calhoun ha scoperto un sacco di cose in un breve periodo di tempo. Penso che adesso la questione importante è sapere se crede che il caso sia risolvibile.»

«Su questo sono d’accordo», concordò David. «Qual è il suo parere professionale, signor Calhoun?»

«Ho bisogno di un sigaro. Vi spiace se ci sediamo fuori?»

Qualche minuto dopo erano tutti e tre seduti sulla terrazza e Calhoun si godeva il suo sigaro, oltre a un’altra birra.

«Penso che il caso sia sicuramente risolvibile», dichiarò. Il viso gli s’illuminava a ogni tirata che dava al sigaro. «Dovete sapere qualcosa su queste cittadine del New England: si assomigliano più di quanto crediate, nonostante la loro diversità. Conosco questa gente e capisco le dinamiche che la muovono. I personaggi sono generalmente gli stessi di città in città, soltanto i nomi cambiano. Gli affari di uno sono gli affari di tutti gli altri. In altre parole, sono sicuro che qualcuno sa chi è l’assassino. Il problema è spingerlo a parlare. Io credo che l’ospedale in qualche maniera sia coinvolto e nessuno desidera che ci rimetta. E c’è la probabilità che ci rimetta, perché Hodges ha fatto dell’ospedale l’opera della sua vita.»

«Come ha fatto a ottenere così tante informazioni?» gli domandò Angela. «Io pensavo che nel New England la gente fosse riluttante a parlare.»

«È vero, ma si dà il caso che alcune fra le persone più inclini al pettegolezzo siano amici miei: la proprietaria della libreria, il farmacista, il barista e la bibliotecaria. Fino a questo punto sono state loro le mie fonti. Adesso devo cominciare a restringere il cerchio dei sospetti, ma prima di cominciare, devo farvi una domanda: volete che continui?»

«No», rispose pronto David.

«Aspetta un minuto», lo bloccò Angela, che poi si rivolse a Calhoun. «Ci ha detto che il caso è decisamente risolvibile. Quanto pensa che ci vorrà?»

«Non molto.»

«Troppo vago», obiettò David.

Calhoun sollevò il berretto e si grattò la testa. «Direi una settimana al massimo.»

«Vuol dire un sacco di soldi», reagì David.

«Io penso che ne valga la pena», lo contraddisse sua moglie.

«Angela! Mi avevi promesso che avresti lasciato perdere questa faccenda.»

«Infatti. Lascerò che sia il signor Calhoun a fare tutto. Io non ne parlerò ad anima viva.»

«Oh, Signore!» David alzò gli occhi al cielo, esasperato.

«Su, David. Se ti aspetti che continui a vivere in questa casa, mi devi appoggiare.»

David esitò, poi pensò a un compromesso. «Va bene, ma facciamo un patto: una settimana, poi è finita, non importa quello che succede.»

«D’accordo», acconsentì Angela, poi si voltò verso Phil Calhoun. «Adesso che abbiamo un limite di tempo, quale sarà la prossima mossa?»

«Continuerò a intervistare la mia lista di sospetti», rispose lui. «Contemporaneamente ci sono altri due obiettivi fondamentali: primo, ricostruire l’ultimo giorno di vita del dottor Hodges, presupponendo che sia morto il giorno in cui è scomparso; per fare questo sentirò la segretaria-infermiera che ha lavorato con lui per trentacinque anni. Secondo, procurarsi le copie dei referti medici che sono stati ritrovati insieme al suo cadavere.»

«Li ha in custodia la polizia di Stato», lo informò Angela. «Come ex poliziotto, non li può ottenere facilmente?»

«Purtroppo no. La polizia di Stato è molto rigida, quando ha in custodia delle prove. Lo so perché ho lavorato per un certo periodo nella scientìfica, a Burlington. Siamo in un vicolo cieco: la polizia di Stato, che detiene le prove e i risultati delle perizie, non è motivata a dedicare molto tempo a questo caso, perché riceve gli spunti dalla polizia locale. Se alla polizia locale non importa niente, loro lasciano perdere e uno dei motivi per cui la polizia locale non si dà da fare è perché non ha le prove.»

«Un altro motivo è che potrebbero essere coinvolti», disse Angela e raccontò a Calhoun del mattone, dei biglietti anonimi e di come aveva reagito la polizia.

«Ciò non mi stupisce», commentò lui. «Robertson è sulla mia lista. Non poteva sopportare Hodges.»

«Lo sapevo», disse Angela. «Mi hanno detto che attribuisce a Hodges la colpa della morte di sua moglie.»

«Io non darei tanta importanza a questa storia», obiettò Phil Calhoun. «Quell’uomo non è uno stupido. Penso che il disgraziato episodio di sua moglie sia soltanto una scusa. Probabilmente la sua collera nei confronti di Hodges derivava più dal comportamento di quest’ultimo, che come sappiamo era tutt’altro che diplomatico. Scommetterei il mio ultimo dollaro che Hodges sapeva che Robertson era uno sbruffone e che non l’ha mai rispettato. Dubito sinceramente che Robertson abbia ucciso Hodges, ma mentre parlavo con lui ho avuto la sensazione che sapesse qualcosa e non volesse dirmela.»

«Dal modo in cui la polizia se la sta prendendo comoda, direi che sono coinvolti», fu il parere di Angela.

«Mi ricorda un caso di quando ero ancora in servizio», si mise a raccontare Calhoun, dopo una lunga tirata al sigaro. «C’era stato un omicidio in una piccola città. Eravamo sicuri che tutti, polizia compresa, sapessero chi era stato, ma nessuno si faceva avanti. Abbiamo lasciato cadere il caso ed è ancora irrisolto.»

«Che cosa le fa pensare che il caso Hodges sia diverso?» gli domandò David. «Non potrebbe accadere la stessa cosa, a Bartlet?»

«No. Allora l’uomo assassinato era un ladro e un assassino. Con Hodges è diverso. C’erano sì tantissime persone che lo odiavano, ma ce ne sono anche molte che lo ritengono un eroe cittadino. Diavolo, questo è l’unico policlinico in tutto il New England, se si escludono quelli delle grandi città, e Hodges ha avuto il merito personale di averlo fatto costruire e prosperare. Molte persone si guadagnano da vivere grazie a ciò che Hodges ha creato. Non preoccupatevi, questo caso verrà risolto. Non ne dubito.»

«Come farà a procurarsi le copie di quei documenti?» gli chiese Angela.

«Dovrà farlo lei.»

«Io?»

David già scalpitava. «Non fa parte dell’accordo», obiettò. «Lei deve starsene fuori da questa indagine. Non voglio che parli con nessuno, non dopo quel mattone che è entrato dalla nostra finestra!»

«Non ci sarà alcun pericolo», lo rassicurò Calhoun.

«Perché io?» volle sapere la diretta interessata.

«Perché lei è medico e dipendente dell’ospedale. Se fa la sua apparizione a Burlington, alla sezione della polizia scientifica, con l’appropriato documento d’identificazione e dice che le copie di quei referti le sono necessarie per la cura dei pazienti, gliele faranno in un battibaleno. Le richieste dei giudici e dei medici vengono sempre accontentate. Come le ho detto, ho lavorato lì per un periodo.»

«Penso che fare una visita al quartier generale della polizia non sia pericoloso», osservò Angela. «Non è come andare in giro a fare indagini.»

«D’accordo», acconsentì David. «Purché non ci siano possibilità di avere grane con la polizia.»

«Nessuna possibilità», lo rassicurò Calhoun. «La cosa peggiore che può accadere è che non le diano le copie.»

«Quando ci devo andare?» chiese Angela.

«Che ne dice di domani?»

«Ci dovrò andare durante la pausa del pranzo.»

«Verrò a prenderla io a mezzogiorno in punto, al parcheggio dell’ospedale.»

Angela accompagnò Calhoun al camioncino, mentre David rientrava in casa.

«Spero di non creare problemi fra lei e suo marito», le disse l’investigatore. «Non mi è sembrato per niente contento delle mie indagini.»

«Non c’è problema, se staremo ai patti», lo rassicurò lei.

«Una settimana dovrebbe essere più che sufficiente.»

Angela riferì a Calhoun la propria teoria sull’aggressione subita e lui ne fu colpito. «Uhm! La faccenda si sta facendo più interessante del previsto», commentò. «Farà meglio a stare davvero attenta e a lasciar fare a me.»

«Certo.»

«Io mi sono ben guardato dal fare sapere chi mi ha ingaggiato.»

«La ringrazio della discrezione.»

«Magari domani troviamoci al parcheggio della biblioteca, anziché a quello dell’ospedale», propose Calhoun. «Non ha senso correre rischi.»

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