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Venerdì 22 ottobre


I Wilson passarono una nottataccia. Poco dopo le due, Nikki si mise a gridare, in preda a un altro incubo. David e Angela dovettero svegliarla e rimanere con lei a lungo per calmarla, pentendosi di averla lasciata assistere al lavoro degli investigatori. Per lo meno, quando albeggiò, la giornata si annunciò serena. Dopo cinque giorni di pioggia ininterrotta, il cielo era azzurro, senza nemmeno una nube, e la temperatura era scesa notevolmente, con il risultato che i campi erano ammantati di brina.

La colazione fu consumata quasi in silenzio e Angela si rifiutò di sedersi al tavolo di cucina, preferendo mangiare in piedi accanto all’acquaio.

Lei e David si misero d’accordo d’incontrarsi alle dodici e mezzo per mangiare insieme, poi Angela uscì con Nikki. Nel portarla a scuola, cercò di convincerla a dare al signor Hart un’altra possibilità. «È difficile per un insegnante prendere in mano la classe di un altro, specialmente di una persona speciale come Marjorie.»

«Perché papà non è riuscito a salvarla?» domandò Nikki.

«Ha fatto di tutto, ma non è stato possibile. I medici non sono onnipotenti.»

Nel lasciare la figlia a scuola, Angela le affidò una lettera da consegnare al signor Hart, dov’erano spiegati i suoi problemi di salute e le raccomandò: «Ricordagli che, se deve chiedere qualcosa, deve telefonare a me o al dottor Pilsner».

Arrivata al laboratorio, fu sollevata nel vedere che Wadley non c’era e si immerse nel lavoro, ma fu subito interrotta da una telefonata del medico legale.

«Ho novità interessanti», le comunicò Watt. «Il materiale che abbiamo prelevato da sotto le unghie del dottor Hodges era davvero pelle.»

«Complimenti!»

«Ho già eseguito un test del DNA: non è la pelle della vittima e ci scometterei mille dollari che appartiene al suo aggressore. Potrebbe rivelarsi una prova determinante, se si arriva a incriminare qualcuno.»

«Ti è già capitato di trovare prove come questa?»

«Sì, non è raro, quando ci sono lotte mortali, ma in questo caso l’intervallo di tempo è stato lunghissimo.»

Angela ringraziò Walt per averla informata.

«Ah, quasi mi dimenticavo», aggiunse lui. «Ho trovato alcune particelle di carbone mescolate ai rimasugli di pelle. È come se l’assassino avesse strusciato contro un caminetto o una stufa, durante la lotta. Penso che sia un fatto curioso e che potrebbe aiutare gli investigatori della scientifica.»

«Temo, invece, che li confonderà ancora di più», obiettò Angela, spiegandogli che il test al Luminol aveva messo in evidenza macchie di sangue in un luogo dove non c’erano né camino né stufa. «Forse l’assassino si era sporcato prima, da qualche altra parte.»

«Ne dubito, non c’erano segni di bruciature. Il carbone deve essersi attaccato durante la lotta.»

«Forse Hodges lo aveva già sotto le unghie», osservò Angela.

«Questa è una buona idea. L’unico problema è che è distribuito in modo uniforme in tutti i campioni di pelle.»

«È un mistero, soprattutto perché non corrisponde a quello che hanno scoperto quelli della scientifica.»

«Per risolverlo occorre conoscere tutti i fatti. Evidentemente ci manca qualche informazione fondamentale.»


Dopo un’intera settimana trascorsa senza la sua bicicletta, David si godette la pedalata nell’aria frizzante e tersa, sentendosi in gran parte sollevato dalle angosce che lo avevano attanagliato negli ultimi giorni.

Arrivato in ospedale, passò subito da Mary Ann Schiller e purtroppo la trovò in uno stato di torpore preoccupante. La svegliò più volte, ma ripiombava nel sonno e David dovette visitarla addormentata.

Quando esaminò la cartella clinica, vide con sollievo che la febbricola presente il giorno precedente non era aumentata, ma scoprì allarmato che durante la notte aveva sofferto di nausee, vomito e diarrea.

Questi sintomi non riusciva a spiegarseli e non era sicuro su come procedere. Poiché la sinusite era lievemente migliorata, non sospese gli antibiotici, anche se potevano essere la causa dei disturbi gastrointestinali. Ma il torpore che origine poteva avere? Come precauzione, cancellò l’indicazione di somministrare sonniferi in caso di bisogno.

L’umore di David migliorò un poco quando entrò nella stanza di Jonathan Eakins, che stava abbastanza bene e gli riferì tutto allegro che il monitor lanciava i suoi «bip» regolarmente come un metronomo.

David lo auscultò, contento di trovare i polmoni perfettamente puliti. Non fu sorpreso dal rapido miglioramento di Jonathan. Il giorno prima aveva dedicato molte ore allo studio di quel caso e il cardiologo gli aveva assicurato che il cuore non avrebbe dato problemi.

Il resto dei pazienti ricoverati stava bene e David ne dimise qualcuno, poi si recò all’ambulatorio, contento di non essere in ritardo come al solito. Si rendeva conto che ogni visita gli richiedeva molto tempo e, adesso che sapeva di essere controllato anche in questo, cercò di velocizzarsi. Non si sentiva a proprio agio in questo modo, ma non aveva scelta; la minaccia di licenziamento lo aveva scosso: con tutti i debiti che aveva, non poteva permettersi di rimanere disoccupato.

Avendo cominciato presto, rimase in pari con gli appuntamenti e, quando due infermiere del secondo piano si presentarono chiedendo una visita d’urgenza, poté dedicarsi a loro immediatamente. Entrambe avevano sintomi influenzali identici alle due colleghe che David aveva già visitato e anche a loro prescrisse il riposo a letto e una terapia sintomatica per i disturbi gastrointestinali.

Trovò anche un momento per passare dal dottor Pilsner; si informò se aveva già avuto casi d’influenza e se bisognava fare la vaccinazione antinfluenzale a Nikki.

«Gliel’ho già fatta», rispose il dottor Pilsner. «Non ho ancora avuto casi d’influenza, ma di solito non aspetto di vederli per fare le vaccinazioni, specialmente con i pazienti che soffrono di fibrosi cistica.»

David finì di visitare i pazienti entro mezzogiorno ed ebbe ancora il tempo di dettare qualche lettera, prima di incontrarsi con Angela.

«Il tempo è così bello che varrebbe la pena di andare in città e fare colazione al diner», le suggerì.

«È quello che stavo per proporti», disse Angela, «ma prendiamo qualcosa da portar via, vorrei fermarmi alla stazione di polizia e scoprire come pensano di procedere con le indagini su Hodges.»

«Non credo che sia una buona idea.»

«Perché?»

«Non so. Intuito, forse. La polizia locale non mi ha ispirato molta fiducia, a dirti la verità, e non ho avuto l’impressione che dimostrassero poi tanto interesse per quel caso.»

«È per questo che ci vado. Voglio assicurarmi che sappiano che a noi interessa. Su, accontentami.»

«Se insisti», si arrese David con riluttanza.

Presero alcuni panini al tonno e li andarono a mangiare sui gradini del gazebo, godendosi il sole che aveva fatto salire la temperatura, poi si diressero alla stazione di polizia, un edificio ordinario a due piani, in mattoni, che si trovava vicino ai giardini, proprio di fronte alla biblioteca.

Un agente li accompagnò nell’ufficio di Robertson, che liberò per loro due sedie di metallo ingombre di giornali e di scatole di cibo vuote e sorridendo li invitò a sedersi, mentre intanto adagiava il suo poderoso didietro sulla scrivania. Anche se nella stanza non c’era il sole, portava i soliti occhiali a specchio.

«Sono contento che siate passati», affermò con un accento che faceva vagamente pensare alla strascicata del Sud. «Mi dispiace che l’altro giorno abbiamo dovuto invadere la vostra casa. Vi abbiamo rovinato la serata.»

«Ma no, abbiamo molto apprezzato la vostra tempestività», obiettò David.

«Che cosa posso fare per voi?»

«Siamo venuti per offrirle la nostra collaborazione», entrò subito in argomento Angela.

«Oh, lo apprezzo molto.» Robertson sorrise, mettendo in mostra i denti larghi e squadrati. «Dipendiamo dalla comunità. Senza il suo sostegno, non potremmo svolgere il nostro lavoro.»

«Vorremmo vedere risolto il caso Hodges», continuò Angela, «con l’assassino dietro le sbarre.»

«Be’, non siete gli unici. Lo desideriamo anche noi.»

«Vivere in una casa dove è avvenuto un omicidio è molto snervante, soprattutto se l’assassino gira ancora libero. Sono sicuro che lei ci capisce.»

«Assolutamente.»

«Quindi vorremmo sapere che cosa possiamo fare per aiutarvi», concluse Angela.

Il suo interlocutore cominciò a mostrare segni di disagio e il sorriso, che gli era rimasto stampato sul viso fino ad allora, svanì. «Be’… in realtà, non ci sono molte cose che possiate fare.»

«Che cosa sta facendo esattamente la polizia?»

«Ci stiamo lavorando», rispose Robertson senza sbottonarsi troppo, mentre il sorriso scompariva dal suo volto.

«E cioè?» insistette Angela, mentre David fece per alzarsi, preoccupato per la piega che stava prendendo la conversazione.

«Be’, le solite cose.»

«Che cosa sono le solite cose?»

Robertson era sempre più a disagio. «In realtà, in questo momento non stiamo facendo molto, ma quando Hodges è scomparso abbiamo lavorato giorno e notte.»

«Sono un po’ sorpresa che non si sia ridestato l’interesse sul caso, ora che è stato ritrovato il cadavere», proseguì lei, ostinata, «e il medico legale ha classificato il caso come omicidio. C’è un assassino che gira libero per le strade della città e vogliamo che si faccia qualcosa.»

«Non voglio certo deludervi.» Si poteva cogliere chiaramente il sarcasmo nel tono del capo della polizia. «Che cosa vorrebbe esattamente che facessimo, in modo che sappiamo in anticipo come farvi contenti?»

David fece per dire qualcosa, ma Angela lo zittì. «Desideriamo che facciate ciò che fate di solito con un omicidio. Avete l’arma del delitto: cercate le impronte, scoprite dov’è stata comprata, quel genere di cose. Non dovremmo essere noi a dirvi come svolgere un’indagine.»

«La pista è un po’ vecchia, dopo otto mesi, e francamente non mi piace molto che veniate qua a suggerirmi come fare il mio lavoro, dato che io non vengo in ospedale a dirvi come fare il vostro. Inoltre, Hodges non era la persona più importante della città e dobbiamo porci delle priorità con il personale limitato di cui disponiamo. Tanto per informarla, proprio ora abbiamo qualche problema più urgente, come per esempio una serie di stupri.»

«Secondo me, su questo caso andrebbero svolte ulteriori indagini.»

«Le abbiamo fatte, otto mesi fa.»

«E che cosa avete scoperto?»

«Un sacco di cose», sbottò Robertson. «Che non ci sono stati rapina né scasso, cosa che adesso è stata confermata. Che c’è stata un po’ di lotta…»

«Un po’ di lotta?» gli fece eco Angela. «Ieri notte quelli della scientifica hanno provato che l’assassino ha inseguito la vittima in giro per la casa, colpendola con una spranga di metallo e spargendo sangue sulle pareti. Il dottor Hodges ha fratture multiple del cranio, una clavicola e un braccio fratturati.» Angela si rivolse a David, agitando le mani per aria. «Non ci posso credere!»

«Va bene, va bene», cercò di calmarla lui. Si era verificato proprio ciò che temeva e, d’altronde, sapeva che sua moglie non sopportava l’incompetenza.

«Il caso ha bisogno di essere analizzato con occhi nuovi», continuò lei, ignorandolo. «Stamattina ho ricevuto una telefonata dal medico legale che mi confermava che sotto le unghie della vittima si sono trovati brandelli di pelle del suo assalitore. Ecco il tipo di lotta che c’è stata. Ora tutto quello di cui abbiamo bisogno è una persona sospetta. La medicina legale può fare il resto.»

«Grazie di questo prezioso consiglio», disse Robertson alzandosi e avvicinandosi alla porta. «E grazie anche per la sollecitudine che dimostra come cittadina di Bartlet. Adesso, se mi vuole scusare, ho del lavoro da svolgere.»

Intanto aveva aperto la porta e David dovette praticamente strappare Angela da quell’ufficio.

«Hai sentito qualcosa di quello che abbiamo detto?» chiese Robertson a uno dei suoi assistenti che si trovava nelle vicinanze.

«Qualcosa, sì.»

«Detesto questi pezzi grossi della città. Solo perché sono stati ad Harvard o chissà dove si credono di saper fare tutto.»

Rientrò in ufficio e chiuse la porta. Sollevò il ricevitore e premette uno dei tasti della selezione automatica.

«Mi spiace disturbarla», disse con deferenza, «ma credo che potremmo avere un problema.»


«E non osare dipingermi come una femmina isterica!» si lamentò Angela, mentre saliva in macchina.

«Attaccare in quella maniera il capo della polizia locale non è il massimo della razionalità», controbatté David. «Ricordati, questa è una città piccola, non dovremmo farci dei nemici.»

«Una persona è stata assassinata brutalmente, il suo corpo è stato gettato nella nostra cantina e la polizia sembra non avere interesse a scoprire chi è stato. Vorresti lasciare le cose come stanno?»

«Per quanto la morte di Hodges sia un fatto deplorevole, non ci riguarda. È un problema che dev’essere lasciato alle autorità.»

«Che cosa?» gridò Angela. «Quell’uomo è stato picchiato a morte in casa nostra, nella nostra cucina. Ci riguarda eccome, che tu lo ammetta o no, e io voglio scoprire chi è stato. Non mi piace l’idea di un assassino che se ne va in giro per la città. La prima cosa da fare è saperne di più su Dennis Hodges.»

«Io credo che tu drammatizzi eccessivamente le cose; sei irragionevole.»

«Questo me lo hai già fatto capire chiaramente, solo che io non sono d’accordo con te»

La rabbia di Angela non era diretta solo contro Robertson, ma anche un po’ contro il marito. Avrebbe voluto dirgli che anche lui non era poi così razionale come pensava di essere, ma si trattenne.

Ritornati all’ospedale, dovettero parcheggiare lontano dall’ingresso e farsi una camminata.

«Abbiamo già abbastanza guai a cui pensare», le fece osservare David.

«Allora forse dovremmo assumere qualcuno che svolga le indagini per noi», propose lei.

«Non puoi parlare sul serio. Non abbiamo soldi da buttare via per queste sciocchezze.»

«Nel caso tu non mi abbia capito bene, io non penso che siano sciocchezze. Ripeto: c’è un assassino che gira libero per la città, qualcuno che è stato in casa nostra. Magari lo abbiamo già incontrato. Mi viene la pelle d’oca solo a pensarci.»

«Ti prego, Angela, non abbiamo a che fare con un serial killer. Non mi stupisco affatto che non abbiano ancora trovato l’assassino. Non hai mai letto di storie di omicidi in città piccole come questa, dove non si fa avanti nessuno, anche se tutti sanno chi è stato? È una specie di giustizia fatta in casa, dove la gente pensa che la vittima abbia ricevuto quello che si meritava. A quanto pare, Hodges non era ammirato da tutti.»

Nell’atrio dell’ospedale si fermarono.

«Non mi va di abbandonare la faccenda alla giustizia fatta in casa», insistette Angela. «Siamo in una società avanzata, la legge ha la sua importanza e noi ci dobbiamo sentire responsabili.»

«Sei davvero formidabile», le disse David sorridendo, intenerito. «Eccoti pronta a tenermi una lezione sulla responsabilità sociale. Sei una vera idealista, a volte! Ma ti amo!» Si chinò a darle un bacetto sulla guancia. «Ne parleremo ancora, ma adesso calmati: hai già abbastanza problemi con Wadley!»

Angela lo guardò allontanarsi lungo il corridoio. La sua dimostrazione di affetto l’aveva momentaneamente calmata, ma le bastò entrare nella sua stanza e ripensare alla conversazione avuta con Robertson per sentirsi infiammare di nuovo. Allora andò a cercare Paul Darnell.

«Hai sempre vissuto a Bartlet?» gli domandò.

«Sì, tranne due anni di college, quattro di università, quattro di specializzazione e due in marina.»

«Insomma, sei del posto. Immagino che avrai sentito un po’ di pettegolezzi sul cadavere trovato nella mia cantina.»

Paul annuì e si dichiarò disposto a rispondere a un po’ di domande, la prima delle quali riguardava Hodges.

«Che tipo era?»

«Un originale, un vecchio stizzoso che sembrava essere specializzato nel crearsi dei nemici.»

«Come era diventato amministratore dell’ospedale?»

«Per mancanza di concorrenti. Aveva accettato l’incarico in un momento in cui nessun altro medico voleva assumersi quella responsabilità, ritenendola al disotto dello status di un medico. Così lui ha avuto mano libera e lo ha fatto diventare una specie di feudo personale, associandolo a una facoltà di Medicina per dargli prestigio e facendolo diventare un centro medico regionale. In un momento di crisi, ci ha persino messo dei soldi propri. Ma era il peggior diplomatico del mondo e non gli importava nulla degli interessi degli altri, quando si scontravano con quelli dell’ospedale.»

«Come quando l’ospedale ha aperto i centri di patologia e radiologia?»

«Esatto. È stata una buona mossa per la crescita dell’ospedale, ma ha creato un sacco di tensioni. Io, per esempio, mi sono visto decurtare tantissimo le entrate, ma la mia famiglia voleva rimanere a Bartlet e così mi sono adeguato. Altri hanno osteggiato la cosa come hanno potuto e alla fine se ne sono dovuti andare. È evidente che Hodges si è creato un sacco di nemici.»

«Anche il dottor Cantor è rimasto.»

«Sì, ma lui ha convinto Hodges a dare vita a una società mista fra se stesso e l’ospedale per creare un reparto radiologico di prima qualità, l’Imaging Center. Cantor se l’è cavata bene finanziariamente, ma lui è un’eccezione.»

«Ho appena parlato con Wayne Robertson», aggiunse Angela, «e ho avuto la netta sensazione che se la stia prendendo comoda con le indagini sull’omicidio Hodges.»

«Non mi meraviglia», ammise Paul. «Non c’è molta pressione perché il caso venga risolto. La moglie di Hodges abita a Boston e già al tempo della sua morte non stava più con lui da diversi anni. Per di più, potrebbe essere stato proprio Robertson, ce l’aveva con Hodges e proprio la sera della scomparsa aveva avuto una lite con lui.»

«Come mai non erano in buoni rapporti?»

«Robertson lo riteneva responsabile della morte di sua moglie.»

«Era il medico di sua moglie?»

«No, già a quei tempi non esercitava quasi più, si dedicava a tempo pieno all’ospedale. Ma, in quanto direttore, aveva permesso al dottor Werner Van Slyke di esercitare, anche se tutti sapevano che beveva. In realtà, Hodges aveva demandato la questione allo staff medico. Sotto l’effetto dell’alcol, Van Slyke fece un macello con l’appendicite della moglie di Robertson e da allora lui ne attribuisce la colpa a Hodges. Non è razionale, ma l’odio di solito non lo è.»

«Ho l’impressione che scoprire chi l’ha ucciso non sarà facile», commentò Angela.

«Non sai quanto hai ragione, ma c’è un secondo capitolo della faccenda Hodges-Van Slyke. Hodges era in rapporti di amicizia con Traynor, che è l’attuale presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale. La sorella di Traynor era la moglie di Van Slyke e, quando alla fine Hodges lo buttò fuori…»

«Bene, bene, ho afferrato il concetto, ma mi stai sommergendo di informazioni. Non credevo che questa città fosse così complicata.»

«È una città piccola, praticamente incestuosa. Molte famiglie vivono qui da tantissimo tempo. Ma il punto è che c’era un sacco di gente a cui Hodges non piaceva e così, quando è scomparso, non sono stati in troppi a dolersene.»

«Ma questo vuol dire che il suo assassino se ne va in giro tranquillo e presumibilmente è un uomo capace di estrema violenza.»

«Probabilmente hai ragione.»

Angela rabbrividì. «Non mi piace questo, neanche un po’. Quell’uomo è stato in casa mia, magari tante volte, forse la conosce bene.»

Paul alzò le spalle. «Capisco come puoi sentirti, ma non so proprio che cosa tu possa fare. Se vuoi saperne di più, va’ a parlare con Barton Sherwood. Come presidente della banca, conosce tutti e Hodges in modo particolare, dal momento che ha sempre fatto parte del consiglio di amministrazione dell’ospedale, come suo padre prima di lui.»

Angela tornò nella propria stanza e cercò di mettersi al lavoro, ma non riusciva a concentrarsi, così decise di telefonare a Sherwood, ricordandosi quanto era stato gentile con lei quando le aveva procurato il mutuo per la casa.

«Dottoressa Wilson, che piacere sentirla!» la salutò lui non appena fu in linea. «Come vi trovate in quella bella casa?»

«In generale bene, ma è proprio di questo che vorrei parlarle. Se facessi una scappata in banca, avrebbe qualche momento da dedicarmi?»

«Certo, quando vuole.»

«Arrivo subito.»

Dieci minuti dopo, Angela era nell’ufficio di Sherwood e andò subito al dunque, spiegandogli come si sentiva a disagio per il fatto che Hodges era stato ucciso proprio nella sua casa e che l’assassino era ancora in giro. Disse che sperava che lui la potesse aiutare.

«Che genere di aiuto?» chiese lui.

«La polizia locale non sembra molto preoccupata di risolvere il caso, ma, data la posizione che lei occupa in città, una sua parola li spingerebbe a muoversi.»

Sherwood appariva chiaramente lusingato. «La ringrazio per la sua fiducia, ma non credo che abbia di che preoccuparsi. Hodges non è stato vittima di una violenza casuale o di un serial killer.»

«Come fa a saperlo? Sa chi lo ha ucciso?»

«Cielo, no», rispose lui, nervosamente. «Non volevo dire questo. Volevo dire… be’, pensavo che non c’è motivo per cui lei e la sua famiglia vi sentiate in pericolo.»

«Sono molti a sapere chi è stato a uccidere Hodges?» domandò ancora Angela, ricordandosi la teoria di David.

«Oh no. Almeno, non credo. Solo che il dottor Hodges non era un uomo molto popolare e si era fatto molti nemici. Anch’io ho avuto un po’ di problemi con lui.» Sherwood rise nervosamente e raccontò ad Angela della disputa a proposito della striscia di terra che Hodges possedeva e che aveva recintato e rifiutato di vendergli per puro dispetto, impedendogli così di utilizzare o suoi terreni contigui.

«Quello che sta cercando di dirmi è che il motivo per cui a nessuno importa chi ha ucciso Hodges è che non era una persona amata dagli altri», cercò di riassumere lei.

«Sostanzialmente sì», ammise Sherwood.

«In altre parole, c’è una congiura del silenzio.»

«Non la metterei in questo modo. È una situazione in cui la gente sente che giustizia è stata fatta, quindi nessuno si preoccupa molto se viene arrestato qualcuno oppure no.»

«A me importa. L’omicidio ha avuto luogo in casa mia e inoltre, al giorno d’oggi, non c’è più spazio per una giustizia sommaria.»

«Normalmente sarei il primo a essere d’accordo con lei. Badi, non sto cercando di giustificare questa faccenda su basi morali o legali, ma Hodges era diverso. Ciò che penso che lei debba fare è andare a parlare con il dottor Cantor, lui sarà in grado di darle un’idea del genere di animosità che Hodges era capace di suscitare. Forse allora lei capirà e sarà meno propensa a giudicare.»

Nel ritornare verso l’ospedale, Angela si sentiva confusa. Non era assolutamente d’accordo con Sherwood e più cose veniva a sapere sull’affare Hodges, più ne voleva scoprire. Però non voleva parlare con Cantor, non dopo la conversazione avuta con lui il giorno prima.

Appena mise piede nella sua stanza, Wadley apparve sulla porta. Come il giorno precedente, era visibilmente agitato. «L’ho appena fatta chiamare», le disse con irritazione. «Dove diavolo era?»

«Ho dovuto fare una scappata in banca», rispose lei, sentendosi all’improvviso venire meno le gambe. Temeva che Wadley fosse sul punto di perdere il controllo, come il giorno prima.

«Le visite in banca le faccia nelle ore di pausa», la rimproverò lui, poi esitò un momento, quindi rientrò nel proprio studio e sbatté la porta.

Angela tirò un sospiro di sollievo.


Sherwood non si era mosso dalla sua scrivania, dopo che Angela se n’era andata. Cercava di decidere il da farsi. Non riusciva a credere che quella donna la stesse facendo tanto lunga a proposito di Dennis Hodges e sperava di non avere detto qualcosa di cui avrebbe potuto pentirsi.

Dopo averci pensato un po’, prese il telefono. Era arrivato alla conclusione che era meglio non fare niente e limitarsi a riferire l’informazione.

«È accaduto qualcosa che penso lei debba sapere», disse nel ricevitore. «Ho appena ricevuto una vista di qualcuno che si preoccupa un po’ troppo per il caso Hodges…»


Terminato il suo turno di lavoro in ambulatorio, David si affrettò verso l’ospedale dove, temendo il peggio, lasciò per ultima la visita a Mary Ann Schiller.

Nel pomeriggio la febbre era aumentata gradatamente e adesso si era stabilizzata sui trentanove gradi, cosa preoccupante, dato che la paziente era sotto trattamento antibiotico. Ma ancora più preoccupante era il suo stato mentale: era assonnata e apatica e, anche quando David riusciva a svegliarla, non mostrava interesse alle sue domande; inoltre aveva perso la nozione del tempo e di dove si trovava, anche se ricordava il proprio nome.

David la auscultò e fu preso dal panico, sentendo un autentico coro di rantoli e ronchi. Si stava ripetendo la storia di John Tarlow.

Come nel caso di John e di Marjorie, le analisi del sangue che ordinò immediatamente rivelarono una reazione cellulare minima alla polmonite bilaterale in corso, confermata da una schermografia.

Dati i problemi avuti con Kelley, questa volta David non richiese un consulto ufficiale, ma telefonò al dottor Mieslich che non fu di grande aiuto, non potendo vedere la paziente. Gli disse soltanto che l’ultima volta che aveva visitato Mary Ann non aveva trovato tracce evidenti di cancro alle ovaie, ma che si aspettava una recidiva poiché prima del trattamento chemioterapico la malattia si era già estesa.

In quel momento un’infermiera gli gridò che Mary Ann aveva le convulsioni e David corse subito da lei. La trovò in preda a un attacco epilettico, che riuscì a controllare somministrandole immediatamente dei farmaci per via endovenosa, utilizzando l’ago che per fortuna era rimasto in sede. Finito l’attacco, però, Mary Ann rimase in coma.

David chiamò al telefono il neurologo del CMV, il dottor Alan Prichard, il quale gli consigliò di ordinare una TAC o una risonanza magnetica nucleare, a seconda di quale macchina fosse subito disponibile, e promise di passare a vedere la paziente appena possibile.

Mandata Mary Ann in radiologia, David telefonò nuovamente all’oncologo, spiegandogli che cosa era accaduto e richiese un consulto formale, poi chiamò anche lo specialista delle malattie infettive, il dottor Hasselbaum, come aveva fatto per Marjorie e John. Era preoccupato per la reazione che avrebbe avuto Kelley, ma sentiva di non avere scelta.

Non appena dall’Imaging Center lo avvisarono che erano pronti i risultati della risonanza magnetica nucleare, corse a prenderne visione e per strada incontrò il neurologo che si unì a lui. Insieme al dottor Cantor osservarono in silenzio le immagini che venivano loro fornite a mano a mano che erano pronte. Tutti si stupirono di non trovare segni di metastasi.

«A questo punto, non saprei come mai abbia avuto un attacco epilettico», ammise il dottor Prichard. «Potrebbe esserci stato un piccolissimo embolo, ma è solo una supposizione.»

Anche l’oncologo rimase sorpreso del risultato della risonanza magnetica e suggerì l’ipotesi che la lesione fosse troppo piccola per essere rilevata.

«Questa macchina ha una risoluzione eccezionale», osservò il dottor Cantor. «Se il tumore è troppo piccolo per essere rilevato, allora le probabilità che abbia causato un attacco epilettico sono ancora meno.»

Lo specialista in malattie infettive confermò la diagnosi di polmonite e dimostrò che il batterio responsabile era di tipo gram-negativo, simile ma non identico a quello che aveva causato la polmonite di Marjorie e di John Tarlow. Secondo lui, Mary Ann era già sotto choc settico.

David spedì la sua paziente all’unità di terapia intensiva, dove continuò la somministrazione di antibiotici, su consiglio dello specialista in malattie infettive, e dove un anestesista le applicò il respiratore.

Assicuratosi che per Mary Ann si stava facendo tutto il possibile, David ritornò in corsia per controllare le condizioni di Jonathan. Lo trovò benissimo.

«C’è solo una cosa che non va», gli disse il suo paziente. «Questo letto fa come gli pare. Certe volte quando pigio il tasto non succede niente, non si alzano né testa i piedi.»

«Ci penso io», lo rassicurò David, lieto di dover preoccuparsi per un problema di quel tipo, e riferì subito la lamentela alla capo infermiera del turno di notte, Dora Maxfield.

«Questi letti sono vecchi e si rompono un po’ troppo spesso», gli disse lei. «Grazie per avermelo detto. Avverto subito l’ufficio tecnico.»

La pedalata fino a casa immerse David nel freddo che era calato poco dopo il tramonto, ma lo sopportò bene, trovandolo persino terapeutico.

A casa trovò una gran baraonda. Nikki, Caroline e Arni s’inseguivano a vicenda per le stanze del pianterreno, mentre Rusty inseguiva equamente tutti quanti. Nell’udire le risate cristalline dei bambini, David dimenticò per qualche minuto l’ospedale.

Quando venne il momento di riaccompagnare a casa i due compagni della figlia, portò con sé anche lei, per avere l’opportunità di chiacchierare un po’ insieme durante il viaggio di ritorno.

Parlarono della scuola e del nuovo maestro, poi David le domandò se pensava molto al cadavere trovato in cantina.

«Un po’», rispose Nikki.

«Che effetto ti fa?»

«Che non ho più voglia di scendere là sotto.»

«Ci credo bene. Anch’io, sai, quando ieri sera sono sceso a prendere la legna, avevo paura.»

«Davvero?»

«Già. Però ho escogitato un piano che potrebbe essere divertente e ci sarebbe d’aiuto. T’interessa?»

«Sì!» esclamò Nikki, entusiasta. «Quale?»

«Non lo devi dire a nessuno.»

«Va bene!»

David spiegò il piano alla figlia, chiedendole che cosa ne pensasse.

«Direi che è buono.»

«Ricordati che è un segreto.»

Nikki poggiò una mano sul cuore in segno di giuramento.

Appena arrivato a casa, David telefonò all’unità di terapia intensiva per aggiornarsi sulle condizioni di Mary Ann, e l’infermiera che rispose lo informò che non erano cambiate, descrivendogli le sue condizioni generali, oltre a riferirgli i risultati di nuove analisi e il tracciato del respiratore. Colpito dalla professionalità dell’infermiera, David si tranquillizzò, dicendosi che Mary Ann era curata al meglio.

Angela servì la cena in sala da pranzo, evitando intenzionalmente di usare il tavolo della cucina, e rallegrò l’ambiente con un bel fuoco e delle candele. Finito di mangiare, mentre Nikki guardava la televisione per la mezz’ora che le era consentita, i suoi genitori rimasero seduti pigramente a tavola.

«Non ti interessa sapere come ho passato il pomeriggio?» domandò Angela a David.

«Certo. Com’è andata?»

«È stato interessante.» Angela riferì le sue conversazioni con Sherwood e Darnell e ammise che David poteva avere ragione, nell’affermare che forse qualcuno in città sapeva chi aveva ucciso Hodges.

«Grazie per avere riconosciuto i miei meriti», le disse lui, «ma non mi piace che tu te ne vada in giro a fare domande su Hodges.»

«Perché?»

«Per una serie di motivi. Intanto, tutti e due abbiamo ben altro di cui preoccuparci e poi hai mai pensato che potresti metterti a fare domande all’assassino in persona?»

Angela ammise che a questo non aveva pensato. Vedendo che il marito teneva lo sguardo fisso sul fuoco, gli chiese se ci fosse qualcosa che non andava.

«Un’altra mia paziente è fra la vita e la morte.»

«Mi spiace.»

«Un altro disastro.» David aveva la voce incrinata. «Temo che muoia, proprio come Marjorie e John Tarlow. Non so che cosa fare, forse non avrei dovuto fare il medico.»

Angela girò intorno al tavolo e lo abbracciò, sussurrandogli: «Sei un medico meraviglioso. Ci sai fare e i pazienti ti adorano».

«Non mi adorano, quando muoiono. Quando me ne sto lì seduto nell’ambulatorio, nello stesso posto dove si è ucciso Portland, comincio a pensare che adesso capisco perché lo ha fatto.»

Angela lo scosse per le spalle. «Non voglio sentirti parlare così. Hai parlato di nuovo con Kevin Yansen?»

«Non di Portland. Sembra che quest’argomento non gli interessi più.»

«Sei depresso?»

«Un po’, ma tengo la cosa sotto controllo.»

«Promettimi che me lo dirai, se non ci riuscirai più.»

«Promesso.»

«Qual è il problema, con questa paziente?» domandò Angela, risedendosi al suo posto.

«È questo che mi sconvolge», le rispose David. «In realtà non lo so. Aveva una sinusite, che stava guarendo con gli antibiotici, poi, per qualche motivo sconosciuto, le è venuta la polmonite. Anzi, no, prima ancora è caduta in uno stato di sonnolenza, poi è diventata apatica, infine le è venuto un attacco di epilessia. L’ho fatta visitare da un oncologo, da un neurologo, da uno specialista in malattie infettive e nessuno di loro ci ha capito niente.»

«Allora non dovresti essere così severo con te stesso.»

«Ma io ne sono responsabile, sono il suo medico.»

«Vorrei poterti aiutare.»

«Grazie.» David allungò una mano attraverso la tavola e strinse quella di Angela. «So che mi sei davvero vicina, ma purtroppo non c’è niente che tu possa fare direttamente, tranne capire perché non mi sento particolarmente coinvolto nel caso Hodges.»

«Ma io non posso lasciarlo perdere.»

«Potrebbe anche essere pericoloso, non sai contro chi ti stai mettendo. Chiunque ha ucciso Hodges non sarà certo entusiasta nel vedere che tu ficchi il naso nella faccenda. Chi lo sa come potrebbe reagire una persona simile? Guarda che cosa ha fatto a Hodges.»

Angela fissò lo sguardo sulle braci incandescenti del caminetto, come ipnotizzata. Era stato il pericolo potenziale che correva la sua famiglia a spingerla ad agire e non aveva pensato che le sue indagini avrebbero potuto aumentare quel pericolo. Eppure, le bastava ripensare alla luminescenza delle tracce di sangue nella sua cucina o alla frattura del cranio di Hodges per sapere che David aveva ragione: era meglio non provocare una persona capace di quel tipo di violenza.

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