Il 17 febbraio fu un giorno fatidico per Sam Flemming.
Sam si considerava una persona estremamente fortunata. Lavorando come broker per una delle ditte più importanti di Wall Street, a quarantasei anni era già straricco. Come un giocatore d’azzardo sa quando è il momento di abbandonare il tavolo da gioco, così lui era fuggito lontano dai canyon di cemento di New York diretto verso nord, nel Vermont, dove si era fermato nell’idillica Bartlet. Lì aveva cominciato a fare ciò che aveva sempre desiderato: dipingere.
Parte della fortuna di Sam era attribuibile alla sua ottima salute, eppure alle tre e quarantacinque di quel 17 febbraio cominciò ad accadergli qualcosa di strano. Numerose molecole d’acqua all’interno di molte delle sue cellule cominciarono a separarsi in due frammenti: un atomo di idrogeno relativamente inoffensivo e un radicale libero ossidrile estremamente reattivo e pericoloso.
Subito si attivarono le difese cellulari, che però si esaurirono ben presto; anche le vitamine antiossidanti E e C e il beta carotene, che Sam assumeva ogni giorno, non riuscirono a contrastare quell’improvvisa ondata travolgente.
I radicali liberi cominciarono a intaccare dall’interno il corpo di Sam Flemming. Ben presto le membrane delle cellule affette lasciarono defluire fluidi ed elettroliti, mentre nel frattempo alcuni degli enzimi proteici delle cellule venivano resi inattivi. Fu anche assalito parte del DNA e alcuni geni rimasero danneggiati.
Nel suo letto al Bartlet Community Hospital, Sam non si rese conto della battaglia campale che si stava combattendo all’interno delle sue cellule. Si accorse solo di alcune delle sue conseguenze: aumento della temperatura, gorgoglii allo stomaco e un inizio di congestione al petto.
Quando quel pomerìggio passò a vederlo il suo chirurgo, il dottor Portland, notò con disappunto e allarme che aveva una febbre altissima. Dopo avergli auscultato il petto, il medico tentò di informarlo che doveva essere insorta una complicazione post-operatoria, probabilmente una polmonite che interferiva con la guarigione dell’anca fratturata. Ma ormai Sam era apatico e confuso e non capì né le spiegazioni del dottor Portland sul suo stato di salute, né le sue assicurazioni di pronta guarigione per mezzo di una terapia antibiotica.
Sam era sopravvissuto a due aggressioni per le strade di New York, a un incidente aereo e a uno spettacolare scontro automobilistico, ma, per ironia della sorte, non si ristabilì sufficientemente da una caduta su una lastra di ghiaccio di fronte alla ferramenta Staley, in Main Street, a Bartlet, nel Vermont, perché in seguito morì per complicazioni.
Martedì, 18 marzo
In piedi, di fronte ai dipendenti più importanti del Bartlet Community Hospital, Harold Traynor aveva appena richiamato all’ordine i capireparto, i quali obbedientemente avevano fatto silenzio. Tutti gli sguardi erano puntati su di lui. La sua dedizione all’incarico di presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale era per lui un punto d’orgoglio. Traynor assaporava momenti come quello, quando era evidente che la sua sola presenza ispirava un timore reverenziale.
«Vi ringrazio per avere affrontato il maltempo e avere partecipato a questa riunione», cominciò. «Vi ho convocati per evidenziare quanto il consiglio di amministrazione dell’ospedale sia seriamente preoccupato per l’aggressione all’infermiera Prudence Huntington, avvenuta la scorsa settimana nel parcheggio inferiore. Il fatto che lo stupro sia stato sventato dal provvidenziale arrivo di un membro del servizio di sicurezza dell’ospedale non diminuisce in alcun modo la gravità del crimine.»
Traynor si fermò e posò lo sguardo in modo significativo su Patrick Swegler, il capo del servizio di sicurezza, il quale lo evitò volgendo la testa. La signorina Huntington era stata la terza infermiera aggredita nell’ultimo armo e Swegler si sentiva comprensibilmente responsabile.
«Queste aggressioni devono assolutamente finire!» Traynor guardò Nancy Widner, la capoinfermiera. «La sicurezza del nostro personale è una questione di primaria importanza», continuò, mentre i suoi occhi si posavano su Geraldine Polcari, capodietista, e poi su Gloria Suarez, responsabile dei servizi ausiliari. «Il consiglio di amministrazione ha perciò proposto la costruzione di un garage a più piani, contiguo all’ala principale dell’ospedale e fornito di adeguata illuminazione e di telecamere a circuito chiuso.»
Traynor fece un cenno a Helen Beaton, presidente dell’ospedale, la quale sollevò un telo che ricopriva il tavolo delle riunioni, rivelando un plastico assai dettagliato del complesso ospedaliero già esistente, con l’aggiunta della costruzione proposta: un imponente edificio a tre piani che sporgeva dalla parte posteriore dell’ala principale.
Fra esclamazioni di approvazione, Traynor si avvicinò al tavolo e scrutò i presenti. Gli sguardi erano fissi sul plastico e tatti, tranne Werner Van Slyke, si erano alzati in piedi.
Il parcheggio aveva sempre costituito un problema per il Bartlet Community Hospital, specialmente durante l’inverno. Traynor sapeva quindi che la sua proposta avrebbe riscosso successo anche prima di quelle aggressioni ed era molto compiaciuto nel cor statare l’entusiasmo dei presenti. Solo Van Slyke, il capo dell’ufficio tecnico, non abbandonava il suo abituale broncio.
«Che cosa c’è?» chiese Traynor. «Questa proposta non è di tuo gradimento?»
Van Slyke lo guardò senza cambiare espressione.
«Allora?» Traynor era teso. Quell’uomo aveva la capacità di irritarlo. Ciò che di lui non gli piaceva era quella natura laconica, che non esprimeva emozioni.
«Va bene», disse svogliatamente Van Slyke.
Prima che Traynor potesse replicare, la porta della stanza si spalancò sbattendo. Tutti sobbalzarono, Traynor soprattutto.
Sulla soglia c’era Dennis Hodges, un settantenne robusto e vigoroso, dai lineamenti marcati e dalla pelle scura come cuoio. Aveva il naso rosso e tondo e gli occhi lacrimosi. Indossava un cappotto verde scuro, un paio di pantaloni sformati e la testa era riparata da un berretto coperto di neve. Teneva la mano sinistra sollevata, stretta intorno a un fascio di fogli di carta.
Era chiaramente in collera ed emanava anche un forte odore di alcol. I suoi occhi scuri scrutarono tutti i presenti e si fissarono su Traynor.
«Voglio parlare con lei di qualcuno dei miei ex pazienti, Traynor. Anche con lei, Beaton», esordì Hodges, lanciandole uno sguardo rapido e disgustato. «Io non so che genere di ospedale pensate di gestire qua, ma posso dirvi che non mi piace neanche un po’!»
«Oh, no!» borbottò fra sé Traynor non appena si riprese da quell’arrivo inatteso. La sorpresa, però, lasciò rapidamente spazio all’irritazione. Un rapido sguardo agli astanti lo rassicurò: anche gli altri non erano felici di vedere Hodges. «Dottor Hodges», replicò, sforzandosi di comportarsi civilmente, «mi sembra evidente che siamo in riunione, quindi se ci vuole scusare…»
«Non mi importa un cavolo di quello che state facendo», sbottò l’altro. «Qualunque cosa sia, non è niente in confronto a ciò che lei e il consiglio di amministrazione avete fatto con i miei pazienti.» Mosse qualche passo verso Traynor, che istintivamente si ritrasse. La puzza di whisky che emanava era fortissima.
«Dottor Hodges», riprese Traynor, evidentemente in preda alla collera, «questo non è il momento adatto. Sarò felice di incontrarmi con lei domani e di ascoltare le sue lamentele. Adesso, se vuole essere così gentile da andarsene e da lasciarci proseguire con…»
«Voglio parlare adesso!» sbraitò Hodges. «Non mi piace quello che state facendo, lei e il suo consiglio di amministrazione!»
«Ascolti, vecchio scemo!» sbottò Traynor. «Abbassi la voce! Non ho la minima idea di che cosa abbia in mente, ma le dirò che cosa abbiamo fatto finora io e il consiglio di amministrazione: abbiamo fatto i salti mortali per tenere aperto questo ospedale, e non è un compito facile, di questi tempi. Adesso sia ragionevole e ci lasci lavorare.»
«Non ho intenzione di aspettare», incalzò Hodges. «Parlerò a lei e a Beaton adesso. Sono le sciocchezze come le diete, il cambio di biancheria e le stupidaggini delle infermiere che possono aspettare.»
«Ah!» esclamò Nancy Widner. «È proprio da lei, dottor Hodges, irrompere qua e insinuare che ciò che riguarda le infermiere non è importante. Vorrei che sapesse…»
«Basta!» intervenne Traynor, allargando le braccia con un gesto conciliatorio. «Non degeneriamo. La questione è, dottor Hodges, che siamo qui riuniti per parlare del tentativo di violenza carnale che c’è stato la settimana scorsa. Sono sicuro che non sosterrà che uno stupro e due tentativi di stupro da parte di un uomo con il viso coperto da grossi occhiali da sci non sono importanti.»
«È una cosa importante, ma non quanto quella che ho in mente io. Inoltre, è chiaramente un problema interno.»
«Un momento! Vorrebbe dire che lei conosce l’identità dello stupratore?»
«Mettiamola così, ho i miei sospetti. Comunque, ora non m’interessa parlare di questo, ma bensì di questi pazienti.» Hodges sbatté con forza sul tavolo i fogli che stringeva in mano.
Helen Beaton sobbalzò e disse: «Come osa irrompere qui dentro come se fosse a casa propria e dire a noi quello che è importante e quello che non lo è?»
«Va bene, va bene», intervenne Traynor, frustrato. La sua riunione, ormai, era andata a farsi benedire. Raccolse le carte di Hodges, gliele ficcò in mano e lo accompagnò alla porta. Dopo una leggera resistenza iniziale, Hodges si lasciò condurre fuori.
«Dobbiamo parlare, Harold», disse lui quando furono nel corridoio. «È una questione seria.»
«Ne sono sicuro», rispose Traynor, cercando di avere un tono sincero. Sapeva che avrebbe dovuto ascoltare le lamentele di Hodges: quell’uomo aveva assunto l’incarico di amministratore dell’ospedale quando lui faceva ancora le elementari, quando cioè la maggior parte dei medici rifuggiva da quella responsabilità. In quei trent’anni d’incarico, aveva trasformato un piccolo ospedale di campagna in un policlinico attrezzatissimo. Era questo che aveva passato a Traynor quando, tre anni prima, si era dimesso.
«Senti», continuò Traynor, «qualunque cosa tu abbia in mente, può di sicuro aspettare fino a domani, ne parleremo a colazione. Farò in modo che si uniscano a noi anche Barton Sherwood e il dottor Delbert Cantor. Se ciò di cui vuoi parlare riguarda le scelte amministrative, è meglio avere con noi il vicepresidente e il capo del personale medico. Sei d’accordo?»
«Penso di sì», ammise Hodges, riluttante.
«Allora è deciso», disse Traynor con tono suadente, desideroso di ritornare dentro a salvare il salvabile della sua riunione. «Li contatterò stasera stessa.»
«Anche se non sono più amministratore», aggiunse ancora Hodges, «mi ritengo ancora responsabile di quello che succede qua. Dopotutto, se non fosse stato per me, tu non saresti entrato nel consiglio di amministrazione, né tantomeno eletto presidente.»
«Certo», concordò Traynor, che tentò una battuta. «Non so se ringraziarti o maledirti per questo dubbio onore.»
«Mi preoccupa vedere che il potere ti ha dato alla testa», ribatté Hodges.
«Oh, via! Che cosa intendi per ‘potere’? Questo incarico non è che un grattacapo dopo l’altro.»
«Stai gestendo qualcosa che vale cento milioni di dollari, si tratta dell’incarico più prestigioso di questa parte dello Stato. Questo è potere.»
Traynor rise nervosamente. «Già, ed è una spina nel fianco. Siamo fortunati a essere ancora in ballo. Non c’è bisogno di ricordarti che i nostri due concorrenti non esistono più: il Valley Hospital ha chiuso e il Mary Sackler è stato trasformato in casa di riposo.»
«Possiamo anche essere rimasti aperti, ma temo che i tuoi uomini d’affari stiano dimenticando la missione che ha l’ospedale.»
«Merda!» sbottò Traynor. «I vecchi medici devono adeguarsi alla nuova realtà. Non è facile gestire un ospedale, nella situazione attuale di tagli ai costi, di gestione manageriale dell’assistenza e di interventi governativi. I tempi sono cambiati e richiedono nuove strategie di adattamento per sopravvivere. È Washington a pretenderlo.»
Hodges rise in modo canzonatorio. «Washington non pretende certamente quello che in questo momento state facendo tu e i tuoi seguaci.»
«Al diavolo, se non lo fanno», reagì Traynor. «Si chiama competizione, Dennis. Sopravvivenza del più forte. Niente più giochi di prestigio per gonfiare i costi, come eravate abituati a fare voi.»
Traynor si fermò, rendendosi conto che stava perdendo il controllo. Si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte e respirò a fondo. «Ascolta, Dennis, ora devo ritornare in sala riunioni. Tu va’ a casa, calmati, rilassati e cerca di dormire. Ci rivediamo domani e, qualsiasi cosa tu abbia in mente, la prenderemo in considerazione, va bene?»
«Sono un po’ stanco», ammise Hodges.
«Certo che lo sei.»
«Domani a colazione? Promesso? Niente scuse?»
«Assolutamente», lo rassicurò Traynor, dandogli una pacca sulla spalla. «In trattoria a mezzogiorno in punto.»
Traynor guardò sollevato il proprio vecchio maestro trascinarsi verso l’atrio con la sua caratteristica andatura sgraziata, poi tornò nella sala riunioni.
«Scusate l’interruzione», disse. «Purtroppo, il vecchio dottor Hodges ha la capacità di comparire nei momenti meno opportuni.»
«Ha l’abitudine d’irrompere nel mio ufficio per lamentarsi che qualcuno dei suoi ex pazienti non riceve un trattamento da vip», intervenne Helen Beaton. «Si comporta come se fosse lui a gestire questo posto.»
«Il cibo non è mai di suo gradimento», si sfogò Geraldine Polcari.
«E neppure la pulizia delle stanze», aggiunse Gloria Suarez.
«Viene nel mio ufficio almeno una volta alla settimana», disse Nancy Widner. «Sempre la stessa lamentela: le infermiere non rispondono abbastanza in fretta alle richieste dei suoi ex pazienti.»
«Si è autoproclamato loro difensore ufficiale», fu il parere di Helen Beaton.
«Sono le uniche persone che lo sopportano», disse Nancy. «Tutti gli altri lo ritengono un vecchio babbeo irascibile.»
«Pensate che conosca davvero l’identità dello stupratore?» chiese Patrick Swegler.
«Ma no, figurarsi!» fu il parere di Nancy. «È soltanto uno sbruffone.»
«Lei che cosa ne pensa, signor Traynor?» insistette Patrick Swegler.
Traynor alzò le spalle. «Dubito che sappia qualcosa, ma domani glielo chiederò di certo, ci vediamo a colazione.»
«Non la invidio», commentò Helen Beaton.
«Non ci vado volentieri, infatti», ammise Traynor. «Sono sempre stato convinto che meriti un po’ di rispetto ma, per essere sincero, la mia scorta si sta esaurendo. Ma adesso ritorniamo alla questione di cui stavamo discutendo.» Traynor riprese subito le redini della riunione, ma ormai la serata era rovinata.
Hodges arrancò lungo Main Street, camminando in mezzo alla strada. Per il momento non circolavano veicoli: lo spartineve non era ancora passato e uno strato di neve spesso circa cinque centimetri ricopriva la città; intanto, continuavano a cadere altri fiocchi di neve.
Mentre si dirigeva a casa, Hodges sentì rimontare dentro di sé la collera. Si fermò un attimo per scrutare in lontananza la sagoma dell’ospedale che si stagliava oltre il parco coperto di neve. Fu percorso da un brivido e colto da una specie di presentimento. Aveva dedicato la sua vita all’ospedale perché servisse la gente di quella città, ma ora temeva che venisse meno alla sua missione.
Riprese a camminare, stringendo le fotocopie nella tasca del cappotto. Le dita erano quasi insensibili. Si fermò ancora e questa volta guardò le vetrate dell’Iron Horse Inn, dalle quali si espandeva sulla neve una luminescenza che pareva un invito.
Gli bastò un attimo per decidere che poteva anche farsi un altro goccetto. Dopotutto, adesso che sua moglie Clara passava più tempo a Boston con la sua famiglia piuttosto che a Bartlet insieme a lui, non c’era nessuno ad aspettarlo. Una bevutina lo avrebbe aiutato ad affrontare i venti minuti di camminata che ancora gli occorrevano per arrivare a casa.
Dopo avere appeso cappotto e berretto a un attaccapanni nell’ingresso, Hodges scese una breve rampa di scale, fino a una stanza rivestita di legno scurito dagli anni e riscaldata da un camino. Con uno sguardo abbracciò tutto il locale e le persone che vi erano riunite.
Vide Barton Sherwood, presidente della Green Mountain National Bank e adesso, grazie a Traynor, vicepresidente del consiglio d’amministrazione dell’ospedale. Sherwood sedeva dietro a un séparé insieme a Ned Banks, l’odioso proprietario della New England Coat Hanger Company, la fabbrica di stampelle.
A un altro tavolo erano seduti il dottor Delbert Cantor e il dottor Paul Darnell. Il loro tavolo era ingombro di bottiglie di birra, cestini di patatine fritte e vassoi di formaggio. A Hodges parvero un paio di maiali al trogolo.
Per una frazione di secondo, Hodges pensò di tirar fuori di tasca le sue carte e di parlare con Sherwood e Cantor, ma abbandonò subito l’idea. Non ne aveva l’energia, e poi quei due lo odiavano a morte. Cantor, radiologo, e Darnell, patologo, avevano entrambi subito un danno quando lui aveva fatto in modo che l’ospedale offrisse anche quei servizi, cinque anni prima. Non erano certo il pubblico più ricettivo per le sue lamentele.
Al banco era appoggiato John MacKenzie, un altro che Hodges avrebbe volentieri evitato, avendo avuto una lunga disputa con lui. John era il proprietario della stazione della Mobil vicino all’interstatale e per parecchi anni gli aveva aggiustato l’auto, ma l’ultima volta il problema non era stato risolto e Hodges aveva dovuto farsi parecchi chilometri per portarla dal concessionario, e di conseguenza non aveva pagato John.
Un paio di sgabelli più in là, Hodges vide Pete Bergan. A diciotto anni aveva abbandonato la scuola, mettendosi a fare i lavori più strani. Hodges era riuscito a farlo entrare nella squadra di giardinieri dell’ospedale, ma aveva dovuto acconsentire al suo licenziamento quando si era dimostrato inaffidabile. Da allora Pete gli serbava rancore.
Dal juke-box in pieno stile anni Cinquanta si diffondeva una musica martellante e intorno ai due tavoli da biliardo si accalcava un gruppetto di studenti del Bartlet College.
Hodges esitò un momento sulla soglia, pensando se per un bicchierino valeva la pena di mescolarsi a quella gente, ma poi attraversò la stanza ignorando tutti i presenti e andò ad appollaiarsi su uno sgabello libero, all’estremità del bancone. Il calore proveniente dal camino gli scaldava la schiena e davanti a lui comparve subito un bicchierino che Carleton Harris, il pingue barista, si affrettò a riempire. I due si conoscevano da lungo tempo.
«Non vuole cercarsi un posto migliore?» chiese Carleton.
«No, perché?» Hodges era contento che nessuno avesse notato il suo arrivo.
Carleton fece cenno a un bicchiere mezzo vuoto appoggiato sul banco, due sgabelli più in là. «Il nostro intrepido capo della polizia, il signor Wayne Robertson, è passato a farsi un bicchierino. Adesso è al gabinetto.»
«Oh, accidenti!» esclamò Hodges.
«Non dica poi che non l’ho avvisata», aggiunse Carleton.
«Dalla padella nella brace», borbottò Hodges. All’altra estremità del bancone si sarebbe trovato a faccia a faccia con John MacKenzie e, quindi, decise di rimanere dov’era e portò il bicchiere alle labbra.
Prima di poter bere un sorso, però, si sentì dare una pacca sulla schiena.
«Ma guarda un po’ se non è il ciarlatano!»
Hodges si voltò e si ritrovò davanti Wayne Robertson, più ubriaco che mai. Robertson aveva quarantadue anni ed era un tipo ben piazzato. Un tempo era stato tutto muscoli, adesso era metà muscoli e metà grasso e la pancia era talmente prominente che gli scendeva a coprire la cintura. Indossava ancora l’uniforme, con la pistola e tutto il resto.
«Wayne, sei ubriaco», gli disse Hodges. «Perché non te ne vai a casa e ci dormi sopra?» Poi si voltò.
«Non c’è nessuno da cui tornare, grazie a te.»
Hodges si voltò di nuovo e guardò i suoi occhi iniettati di sangue, rossi quasi quanto le guance paffute.
«Wayne, non ritorniamoci sopra. Tua moglie, che riposi in pace, non era una mia paziente. Sei ubriaco. Vai a casa.»
«Eri tu che gestivi quel cavolo di ospedale.»
«Questo non significa che ero responsabile di ogni singolo caso, zuccone. E poi è stato dieci anni fa.» Hodges cercò di nuovo di rigirarsi verso il suo bicchierino.
«Bastardo!» ringhiò Robertson e afferrò Hodges per il collo della camicia cercando di sollevarlo dallo sgabello.
Carleton Harris arrivò con una rapidità incredibile, considerando la sua mole, e si mise fra i due, riuscendo poi a far allentare la presa a Robertson, un dito dopo l’altro. «Buoni!» esclamò. «Qui all’Iron Horse non permettiamo risse.»
Hodges si sistemò la camicia con aria indignata, afferrò il suo bicchierino e si diresse all’altra estremità del bancone. Nel passare accanto a John MacKenzie, lo sentì borbottare: «Scroccone», ma non raccolse la provocazione.
«Carleton, non avresti dovuto impicciarti», fu il parere del dottor Cantor. «Se Robertson le avesse suonate al vecchio Hodges, mezza città avrebbe applaudito.»
Cantor e Darnell scoppiarono in una fragorosa risata, dandosi pacche sulle ginocchia e soffocandosi quasi con la birra. Carleton li ignorò e servì Barton Sherwood, che si era avvicinato al banco per farsi riempire il bicchiere.
«Il dottor Cantor ha ragione», disse Sherwood a voce abbastanza alta perché tutti potessero udire. «La prossima volta che Hodges e Robertson si affrontano, lasciali fare. Non è certo un buon vicino, quello là. Ha una strisciolina di terra che separa i miei due appezzamenti e sai che cosa ci fa? Ci costruisce una staccionata gigantesca!»
«Certo», reagì Hodges, incapace di tenere a freno la lingua. «Era l’unico modo per impedire ai suoi maledetti cavalli di spargere la loro merda sulla mia proprietà.»
«Allora perché non me l’ha venduta? A lei non serve.»
«Non posso venderla perché è intestata a mia moglie.»
«Sciocchezze. Ha intestato la casa e la terra a sua moglie solo per proteggere le sue proprietà da eventuali condanne per negligenza. Me lo ha detto lei stesso.»
«Allora è meglio che lei sappia la verità», ribatté Hodges. «Io cercavo di essere diplomatico. Non le venderò la terra perché la disprezzo. È abbastanza facile da capire per quel suo cervellino grande come un pisello?»
Sherwood si rivolse ai presenti. «Siete rutti testimoni. Il dottor Hodges ammette di agire per ripicca. Non c’è da sorprendersi, naturalmente, non è certo un comportamento cristiano.»
«Oh, stia zitto», replicò Hodges. «È un po’ ipocrita per un presidente di banca fare questioni sull’etica cristiana degli altri, con tutte le ipoteche che ha sulla coscienza. Ha buttato fuori di casa un sacco di famiglie.»
«Questo è diverso», rispose Sherwood. «Si tratta di affari. Devo tenere conto dei miei azionisti.»
«Balle!» esclamò Hodges, facendo un gesto che indicava chiuso l’argomento.
Un improvviso tramestio alla porta attrasse la sua attenzione. Si voltò e vide entrare Traynor e tutti coloro che avevano partecipato alla riunione dell’ospedale. Era chiaro che Traynor non era per niente contento di vederlo. Hodges alzò le spalle e ritornò al suo bicchiere, ma non riuscì a togliersi di mente il fatto che erano lì tutti e tre: Traynor, Sherwood e Cantor. Prese il proprio whisky, scese dallo sgabello e seguì Traynor al tavolo di Sherwood e di Banks, quindi gli diede un colpetto sulla spalla.
«Che cosa ne direbbe di parlare adesso?» propose. «Siamo tutti qua.»
«Accidenti, Hodges!» sbottò Traynor. «Quante volte glielo devo dire? Non ho voglia di parlarne stasera. Ne parleremo domani!»
«Di che cosa vuole parlare?» chiese Sherwood.
«Qualche cosa che ha a che fare con i suoi vecchi pazienti. Gli ho detto che ci incontreremo domani a colazione.»
«Che cosa succede?» domandò Cantor, unendosi alla mischia, come un pescecane che sente odore di sangue.
«Il dottor Hodges non è contento di come gestiamo l’ospedale», spiegò Traynor. «Lo ascolteremo domani.»
«Sarà senza dubbio la solita vecchia lamentela», intervenne Sherwood. «I suoi ex pazienti non ricevono un trattamento da vip.»
«Un po’ di gratitudine!» esclamò Cantor, interrompendo Hodges che cercava di controbattere. «Noi dedichiamo disinteressatamente il nostro tempo a tenere a galla l’ospedale e che cosa riceviamo in cambio? Nient’altro che critiche.»
«Disinteressatamente un cazzo», sbottò Hodges. «Nessuno di voi può prendersi gioco di me. Non vi impegnate certo per pura carità. Traynor, lei si dà da fare a sostenere l’ospedale per mantenere il lusso che ha recentemente acquisito. Sherwood, i suoi interessi sono ancor meno sofisticati perché puramente finanziari, dato che l’ospedale è il cliente più importante della sua banca. Cantor, i suoi sono facili da indovinare. Tutti voi avete interessi nell’Imaging Center, quella joint venture che ho permesso in un momento di follia. Di tutte le decisioni che ho preso come amministratore dell’ospedale, è quella che rimpiango maggiormente.»
«Pensava che fosse un buon accordo, quando lo ha stipulato», osservò il dottor Cantor.
«Solo perché pensavo che fosse l’unico modo per aggiornare lo scanner della TAC in dotazione all’ospedale», spiegò Hodges. «Ma questo è stato prima di rendermi conto che la macchina sarebbe stata ammortizzata in meno di un anno, e così mi sono accorto che lei e gli altri radiologi privati stavate rapinando l’ospedale del denaro che avrebbe dovuto guadagnare.»
«Non m’interessa riaprire questa vecchia questione», disse il dottor Cantor.
«Nemmeno a me, ma il punto è che c’è ben poca carità in quello che fate. La vostra preoccupazione è il guadagno, non il bene dei vostri pazienti o della comunità.»
«Non è certo lei quello che può farci la predica», sbottò Traynor. «Lei ha gestito l’ospedale come un feudo personale. Ci dica un po’: chi si è preso cura della sua casa in tutti questi anni?»
«Che cosa intende dire?» balbettò Hodges, mentre i suoi occhi saettavano avanti e indietro fra gli uomini che gli stavano davanti.
«Non è una domanda complicata», rispose Traynor, mentre la collera lo sommergeva. Aveva conficcato un coltello nel petto di Hodges e ora voleva affondarlo fino al manico.
«Non so proprio che cosa abbia a che fare la mia casa con tutto questo», riuscì a mormorare Hodges.
Traynor si sollevò sulla punta dei piedi per poter scrutare tutto il locale. «Dov’è Van Slyke?» chiese. «È qui, da qualche parte.»
«Vicino al camino», rispose Sherwood, indicandolo e trattenendo a stento il sorriso. Quella faccenda della casa lo aveva irritato a lungo. L’unico motivo per cui non l’aveva tirata in ballo era perché Traynor lo aveva proibito.
Traynor chiamò Van Slyke, ma quello sembrò non sentire. Allora lo chiamò di nuovo, talmente forte da far voltare tutti i presenti. Le conversazioni cessarono. A parte la musica proveniente dal juke-box, la stanza rimase in silenzio.
Van Slyke avanzò lentamente, a disagio per la luce dei faretti e per il fatto che tutti lo stavano guardando, ma poi le conversazioni ripresero da dove erano state interrotte e gli altri avventori non gli badarono più.
«Buon Dio», gli disse Traynor. «Sembra che tu stia camminando sulla marmellata. Certe volte ti comporti come se avessi ottant’anni, anziché trenta.»
«Mi spiace», mormorò Van Slyke, il cui viso era, come al solito, privo di espressione.
«Ti voglio chiedere una cosa», continuò Traynor. «Chi si è preso cura della casa e della proprietà del dottor Hodges?»
Van Slyke spostò lo sguardo da Traynor a Hodges, mentre un sorriso beffardo gli piegava le labbra in una smorfia. Hodges guardò da un’altra parte.
«Allora?» insistette Traynor.
«Noi», rispose Van Slyke.
«Sii un po’ più preciso. Noi chi?»
«La squadra della manutenzione.» Van Slyke non distolse lo sguardo da Hodges né il suo sorrisetto cambiò.
«Da quanto va avanti?»
«Da prima che arrivassi io.»
«Deve finire, da oggi. Capito?»
«Certo.»
«Grazie, Werner. Perché non vai al banco e non ti prendi una birra, mentre noi finiamo di chiacchierare con il dottor Hodges?» Van Slyke ritornò al suo posto accanto al camino e Traynor si rivolse a Hodges.
«Lo conosce il vecchio adagio: ‘Non criticare, se non sei sicuro di essere al riparo dalle critiche’?»
«Stia zitto!» sbottò Hodges. Fece per aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò, uscì furibondo dalla stanza, afferrò cappotto e berretto e uscì a precipizio nella notte nevosa.
«Vecchio stupido», mormorò fra sé mentre si dirigeva a sud, fuori dalla città. Ce l’aveva con se stesso per non avere saputo impedire a Traynor di distogliere l’attenzione dalla questione che gli stava a cuore. Era vero che la squadra della manutenzione si occupava del suo parco da molti anni. Un giorno erano arrivati spontaneamente; lui non aveva domandato nulla, ma non aveva nemmeno fatto qualcosa per farli smettere.
La lunga camminata nella notte gelida stemperò i suoi sensi di colpa per la faccenda del parco. Dopotutto, non aveva nulla a che fare con i suoi pazienti. Quando arrivò al vialetto di casa, decise di offrire una somma di denaro per i servizi ricevuti. Non voleva che quella faccenda fosse usata per attenuare la sua protesta riguardo a questioni ben più serie.
Girò intorno alla casa e si avvicinò alla porta laterale della costruzione in legno che collegava l’edificio alla rimessa. Scosse la neve dagli scarponi ed entrò. Si tolse cappotto e berretto, li appese nello stanzino che fungeva da ingresso posteriore ed entrò in cucina con in mano il fascio di fotocopie, che poi appoggiò sul tavolo.
Si diresse quindi verso la biblioteca dove si versò da bere, visto che il suo bicchiere di whisky lo aveva abbandonato al bar, poi udì un bussare insistente alla porta.
Chiedendosi chi potesse essere a quell’ora, tornò indietro e strofinò con la manica il vetro della porta, offuscato dal vapore. Riuscì a malapena a scorgere chi c’era dall’altra parte.
«Be’?» borbottò, mentre faceva scattare la serratura e apriva la porta. «Tutto considerato, è un po’ strano che tu venga a farmi visita, soprattutto a quest’ora.»
Il visitatore lo fissò senza dire nulla, mentre la neve entrava a raffiche.
«Oh, al diavolo. Qualsiasi cosa tu voglia, entra», gli disse Hodges con un’alzata di spalle, e si diresse verso la cucina. «Però non aspettarti che reciti la parte dell’ospite beneducato. E chiudi la porta!»
Quando arrivò al gradino che portava in cucina, Hodges fece per voltarsi per controllare che la porta fosse stata chiusa e con la coda dell’occhio vide qualcosa dirigersi contro la sua testa a grande velocità. Si chinò istintivamente e questo gli salvò la vita. Una sbarra di metallo gli sfiorò la testa, producendogli però un profondo taglio nel cuoio capelluto. La forza del colpo fece calare l’arma fino alla spalla, dove fratturò la clavicola e mandò il povero Hodges, frastornato, a sbattere contro il tavolo di cucina.
Si afferrò al bordo, riuscendo a rimanere in piedi. Il sangue usciva dalla ferita alla testa in piccoli zampilli, andando a imbrattare i fogli appoggiati sul tavolo. Hodges si voltò in tempo per scorgere la mano guantata che stringeva una sbarra simile a un piede di porco corto e piatto.
Mentre l’arma si abbassava per vibrare un secondo colpo, Hodges riuscì ad afferrare il braccio dell’assalitore. Il metallo lo colpì ancora soltanto di striscio, facendo sgorgare altro sangue dalla testa, proprio all’attaccatura dei capelli.
Hodges affondò disperatamente le unghie nel braccio. Sapeva per istinto che non poteva lasciarlo: doveva impedirgli di colpirlo ancora.
Per qualche momento i due lottarono avvinghiati, piroettando per la cucina, sbattendo contro le pareti, rovesciando sedie e rompendo piatti e il sangue continuava a sgorgare.
L’assalitore urlò di dolore e riuscì a liberarsi; ancora una volta la sbarra d’acciaio si sollevò, prima di calare sul braccio sollevato di Hodges. All’impatto le ossa si spezzarono come rametti.
Di nuovo la sbarra di metallo venne sollevata sullo sventurato Hodges e calata con forza. Questa volta disegnò nell’aria un arco completo e andò a finire in pieno sulla sua testa, facendo sì che un frammento appuntito del cranio si staccasse e affondasse fino al cervello.
Hodges cadde a terra, privo di conoscenza.