18

Lunedì 25 ottobre


Angela aprì gli occhi al suono della sveglia e si accorse che David non era accanto a lei. Lo trovò seduto nel salottino.

«È tanto che sei alzato?» gli domandò, cercando di avere un tono allegro.

«Dalle quattro, ma non allarmarti. Penso di sentirmi un po’ meglio oggi.» David le rivolse un mezzo sorriso.

Per fortuna non c’era da preoccuparsi per Nikki: aveva dormito bene, senza congestione e senza incubi. Angela dovette ammettere con se stessa che lo scherzo delle maschere ideato da David era servito.

Era stata lei, però, ad avere avuto un incubo. Aveva sognato di rientrare in casa con i sacchetti della spesa e di trovare la cucina inondata di sangue. Non era sangue secco, ma fresco e colava giù dalle pareti, formando delle pozze sul pavimento.

Dopo gli esercizi respiratori, Angela auscultò il petto di Nikki. Era tutto a posto, allora le disse che poteva andare a scuola. Anche se il cielo coperto prometteva pioggia, David insistette per recarsi al lavoro in bicicletta e Angela non cercò di dissuaderlo, contenta che lui mostrasse entusiasmo almeno per quell’attività fisica.

Quando arrivò al laboratorio, trovò la solita pila di lavoro che si era accumulato durante il weekend e si tolse rapida il cappotto per iniziare a lavorare, ma vide che Wadley se ne stava immobile sulla soglia della propria stanza, come se la stesse aspettando.

«Buongiorno», lo salutò, facendo di tutto per apparire disinvolta, ma capì subito che si preparava un temporale.

«Mi è stato segnalato che lei ha eseguito un’autopsia qui nel laboratorio», disse infatti il suo capo.

«È vero, ma l’ho fatta nel mio tempo libero.»

«Può anche averla fatta nel suo tempo libero, ma nel mio laboratorio.»

«È vero, ho utilizzato le attrezzature dell’ospedale», puntualizzò Angela, a cui non piaceva che Wadley considerasse il laboratorio come proprio. Era un dipendente dell’ospedale, come lei.

«Le era stato detto esplicitamente di non fare autopsie.»

«Mi era stato detto che non vengono pagate dal CMV.»

I freddi occhi di Wadley fissarono Angela senza battere ciglio. «Allora mi permetta di chiarire un malinteso. In questo reparto non devono essere fatte autopsie, a meno che non le autorizzi io stesso. Sono io a dirigere il reparto, non lei. Inoltre, ho ordinato ai tecnici di non procedere all’esame dei vetrini, delle colture e dei campioni.»

Detto questo, Wadley ritornò nel suo ufficio chiudendo la porta con un colpo secco.

Angela si sentiva a pezzi, come le capitava ogni volta che aveva un confronto con Wadley, ma si sforzò di restare calma e raccolse tutti i campioni che aveva prelevato dal corpo di Mary Ann. Impacchettò con cura le colture e il materiale tossicologico e li spedì a Boston, al reparto dove aveva svolto il tirocinio. Aveva ancora molti amici laggiù a cui chiedere un piacere. I campioni di tessuto, invece, li tenne per esaminarli lei stessa.


David compì il giro dei pazienti lasciando Jonathan per ultimo e, quando entrò in camera sua, trovò il letto vuoto.

Chiese subito il motivo alla caposala e lei gli rispose che quella notte i medici del pronto soccorso avevano trasferito il signor Eakins all’unità di terapia intensiva, perché aveva avuto un’insufficienza respiratoria ed era entrato in coma.

David era sbalordito. «Perché non sono stato avvertito?»

«Avevamo l’ordine specifico di non chiamarla», gli rispose Janet.

«Emesso da chi?»

«Da Michael Caldwell, il direttore medico dell’ospedale.»

«È assurdo…» cominciò a sbraitare David.

«Ci è stato detto di riferirle che, se ha qualche questione da chiarire, si deve rivolgere alla signora Beaton», lo interruppe Janet. «Non se la prenda con noi.»

David era fuori di sé dalla rabbia. Il direttore medico non aveva nessun diritto di emettere un ordine del genere. Era già abbastanza intollerabile che quegli amministratori spiassero il suo comportamento per prevenire le sue mosse, ma interferire direttamente nella cura dei pazienti gli pareva una grave violazione.

Mantenne però abbastanza sangue freddo da capire che non era giusto prendersela con l’infermiera e poi in quel momento, più che discutere, gli interessava controllare le condizioni di Jonathan.

Lo trovò in coma e sotto respiratore, proprio com’era accaduto a Mary Ann. Lo auscultò e scoprì che anche a lui era venuta la polmonite. Leggendo l’etichetta del flacone che gli veniva somministrato per via endovenosa, vide che si trattava di antibiotici.

Come aveva fatto per gli altri pazienti, riesaminò con cura maniacale la cartella clinica di Jonathan e gli balzò subito agli occhi che il decorso era stato identico: problemi gastrointestinali, al sistema nervoso centrale e a quello sanguigno.

Stava per telefonare a Helen Beaton, quando un’infermiera gli porse un altro telefono: era in linea Charles Kelley.

«Avevo dato istruzioni alle infermiere dell’unità di terapia intensiva di avvisarmi appena lei fosse arrivato», gli annunciò senza preamboli. «Volevo avvisarla che il caso Eakins è stato affidato a un altro medico del CMV.»

«Non può farlo», ribatté David, fuori di sé dalla collera.

«Si calmi, dottor Wilson. Il CMV ha tutto il diritto di trasferire un paziente a un altro medico. Lo abbiamo notificato alla famiglia e loro sono d’accordo.»

«Perché lo ha fatto?» Sapere che la famiglia era d’accordo fece perdere a David parte della propria sicurezza.

«Lei ci sembra troppo coinvolto emotivamente e abbiamo deciso che sarebbe stato meglio per tutti toglierle il caso. Questo le darà la possibilità di calmarsi, sappiamo che è sotto pressione.»

David non sapeva che cosa pensare, tanto meno che cosa dire. Avrebbe potuto far notare a Kelley che il decorso della malattia si era svolto come lui aveva previsto, ma aveva la sensazione che non lo avrebbe nemmeno ascoltato.

«Non dimentichi quello che abbiamo detto ieri», aggiunse Kelley. «So che comprenderà il nostro punto di vista, se solo ci pensa un po’.»

Quando riattaccò, David si sentiva diviso: da un lato era furibondo per essere stato estromesso dal caso, dall’altro capiva che un po’ di ragione Kelley l’aveva. Gli bastò vedere come gli tremavano le mani per riconoscere che era davvero troppo coinvolto emotivamente.

Se ne andò quasi barcollando, senza nemmeno passare a vedere Jonathan. Poiché era troppo presto per iniziare le visite in ambulatorio, passò dallo schedario dei referti. Prese le cartelle cliniche di Marjorie, di John e di Mary Ann, si sedette a un tavolo isolato e le riesaminò da cima a fondo.

Non aveva abbandonato l’idea di un’infezione sconosciuta, qualcosa che i suoi pazienti potevano avere contratto in ospedale. Una cosa simile veniva chiamata infezione nosocomiale e lui ne aveva letto qualcosa, sapeva che in qualche altro ospedale era capitata. Tutti i suoi pazienti avevano avuto la polmonite, ma in ogni caso era stata causata da batteri diversi. Doveva essere stata il risultato di un’altra infezione, che però non era evidente.

L’unico elemento in comune ai tre casi era l’anamnesi. Ogni paziente era stato curato per il cancro con varie terapie di chirurgia, chemioterapia e radioterapia. Fra loro tre, però, l’elemento comune era soltanto la chemioterapia.

David sapeva che la chemioterapia abbassa moltissimo le difese immunitarie dei pazienti e si chiedeva se questo avesse a che fare con il rapido peggioramento che aveva notato in tutti e tre. L’oncologo, però, aveva detto che la chemioterapia stata terminata molto tempo prima e che quindi il loro sistema immunitario doveva ormai essere ritornato normale.

Il cercapersone che aveva alla cintura si irrise a suonare, interrompendo il corso dei suoi pensieri; dal numero sullo schermo, David vide che lo chiamavano dal pronto soccorso; allora mise via i referti e scese al piano di sotto.

Il paziente in attesa era Donald Anderson, uno dei frequentatori più assidui del suo ambulatorio. Era diabetico e spesso non era facile tenere a bada la sua malattia. A David bastò guardarlo, per capire che il glucosio nel sangue era a livelli incontrollabili e che Donald si trovava già in stato semicomatoso.

Ordinò subito un test per la glicemia e gli applicò una flebo, poi andò a parlare con la moglie, Shirley Anderson.

«Era una settimana che non stava bene», gli disse lei, «ma lo sa com’è testardo, non voleva venire a farsi vedere.»

«Credo che dovremo ricoverarlo. Ci vorrà qualche giorno per riportare la situazione sotto controllo.»

Quando esaminò i risultati delle analisi, David si stupì che Donald non stesse ancora peggio. Tornò da lui, che grazie alla flebo si era già ripreso, e vide che nella stanzetta contigua era distesa Caroline, l’amica di Nikki. Accanto a lei c’era il dottor Pilsner e David entrò per salutarla. Lei gli rispose soltanto con lo sguardo, perché la bocca era coperta dalla mascherina dell’ossigeno. Aveva la pelle color cenere, quasi azzurrina, ed era evidente che respirava a fatica.

Il dottor Pilsner prese David in disparte e gli disse che la bambina stava molto male: aveva la febbre alta e una forte congestione.

«Pensa di ricoverarla?»

«Sì, assolutamente. Lei sa meglio di molti altri che non possiamo correre rischi con questo genere di problemi.»

David annuì. Sì, lo sapeva. Si voltò a guardare ancora una volta Caroline, che lottava per riuscire a respirare. Appariva minuscola sul grande lettino del pronto soccorso. David sospirò e pensò a Nikki. Avrebbe potuto esserci lei, adesso, su quel lettino.


Angela fu avvertita da una delle segretarie che c’era una telefonata per lei da parte del medico legale e staccò subito il ricevitore.

«Spero di non disturbarti», disse Walt.

«Per niente.»

«Ho un paio di novità sull’autopsia di Hodges. Ti interessa sempre?»

«Certo.»

«In primo luogo, aveva una significativa quantità di alcol nel secreto oculare.»

«Non sapevo che lo si potesse scoprire, dopo così tanto tempo», si meravigliò Angela.

«Se c’è ancora un po’ di secreto oculare è facile», spiegò Walt. «L’alcol è relativamente stabile. Abbiamo anche avuto la conferma che il DNA della pelle trovata sotto le sue unghie è diverso dal suo, quindi è senza dubbio quello del suo assassino.»

«E quelle particelle di carbone nella pelle? Ti è venuto in mente qualcosa?»

«A essere onesto, non ci ho pensato molto, ma ho cambiato idea sul fatto che dovessero essere contemporanee alla lotta. Mi sono accorto che le particelle sono nel derma, non nell’epidermide, dev’essere una vecchia ferita. Per esempio, potrebbe essersi conficcato la punta di una matita nella mano quando andava a scuola. Io ho una cosa simile nel braccio.»

«E io nel palmo della mano.»

«Il motivo per cui non ho fatto molto su questo caso è che non c’è tanta pressione da parte del pubblico ministero o della polizia di Stato. Purtroppo, sono stato sommerso da altri casi su cui grava una pressione maggiore.»

«Capisco», commentò Angela. «A me comunque interessa ancora, quindi, se ci sono sviluppi, fammi sapere.»

Dopo avere riattaccato, continuò a pensare al caso Hodges e si domandò che cosa stesse facendo Phil Calhoun. Non l’aveva più sentito dal giorno del loro incontro. Il pensiero di Hodges le fece anche ricordare come si era sentita vulnerabile la notte in cui David era dovuto uscire di casa per andare all’ospedale.

Visto che era arrivata l’ora della pausa, spense il microscopio, si mise il cappotto e uscì. Aveva detto a David che voleva una pistola e diceva sul serio.

A Bartlet non c’erano negozi di articoli sportivi, ma il signor Staley vendeva anche armi da fuoco e, quando lei gli spiegò che ne voleva una per proteggere la propria casa, lui le consigliò un fucile da caccia.

Angela fece la sua scelta: un calibro dodici a pompa. Il signor Staley le spiegò come caricarlo e scaricarlo, insistendo sull’uso della sicura, e le raccomandò di leggere il libretto di istruzioni.

Angela caricò in macchina il fucile e i proiettili, non senza un certo imbarazzo, visto che era la prima volta che teneva in mano un’arma e guardò verso i giardini, dov’era la stazione di polizia. Si vergognava ancora per la scenata del giorno prima e poi pensava che David avesse ragione: era sciocco inimicarsi il capo della polizia.

Si decise così ad attraversare i giardini e a entrare. Dopo dieci minuti venne ricevuta da Robertson.

«Spero di non disturbarla», gli disse.

«Nessun disturbo», rispose lui, nel farla accomodare.

«Non le ruberò molto tempo.»

«Sono un pubblico servitore», declamò lui sfrontatamente.

«Sono venuta a scusarmi per ieri.»

«Eh?» Era evidente che il capo della polizia era decisamente sorpreso.

«Il mio comportamento di ieri è stato disdicevole, mi dispiace. È solo che sono rimasta davvero sconvolta dal ritrovamento del cadavere in casa mia.»

«Be’, è gentile da parte sua essere venuta.» Robertson era sconcertato, non si era aspettato niente di simile. «Mi spiace per Hodges. Terremo il caso aperto e le faremo sapere se salta fuori qualcosa.»

«Qualcosa è già saltato fuori stamattina», lo informò Angela, riferendogli dell’ipotesi del medico legale, secondo cui l’assassino avesse un piccolo deposito di carbone sotto la pelle, derivante probabilmente da una matita.

«Una matita?»

«Sì.» Angela aprì bene la mano, a palmo in su, e mostrò a Robertson una piccola macchia scura sotto la pelle. «Qualcosa del genere, me lo sono fatto alle elementari.»

Robertson annuì, mentre un sorrisetto ironico gli appariva a fior di labbra. «Grazie per l’indizio che mi fornisce.»

«Ho pensato che valesse la pena farglielo sapere. Il medico legale mi ha detto anche che la pelle sotto le unghie di Hodges appartiene decisamente al suo assassino, dato che il DNA è risultato diverso da quello della vittima.»

«Il problema è che queste sofisticate ricerche sul DNA non servono a niente, se non si ha una persona sospetta.»

«In una piccola cittadina inglese hanno risolto un caso di stupro, grazie alla ricerca del DNA», obiettò Angela. «Hanno sottoposto al test tutti gli abitanti.»

«Uau! Mi immagino che cosa direbbe la Lega per i diritti civili, qui in America, se facessimo lo stesso a Bartlet.»

«Non volevo suggerirle di farlo, ma solo informarla della scoperta fatta.»

«Grazie, e grazie anche per essere venuta.» Robertson si alzò per salutare Angela, poi rimase alla finestra a guardarla attraversare i giardini.

Quando la vide salire in macchina e allontanarsi, alzò il ricevitore e premette uno dei tasti per la selezione automatica. «Non ci crederà, ma quella donna non demorde. È come un cane che ha fiutato l’osso.»

Angela si sentiva un po’ meglio per avere cercato di appianare le cose con il capo della polizia, ma non si faceva troppe illusioni: sapeva che non avrebbe sollevato un dito per risolvere il caso Hodges.

Arrivata all’ospedale, non le riuscì di trovare un posto nel parcheggio del personale, vicino all’ingresso posteriore. Dovette compiere vari giri e poi si rassegnò a lasciarla nel parcheggio superiore, nell’angolo più lontano. Le occorsero cinque minuti per arrivare alla porta dell’ospedale.

«Non è la mia giornata», disse ad alta voce, mentre entrava nell’atrio.


«Ma il parcheggio dalla città non si vedrà nemmeno», affermò Traynor, cercando di convincere il suo interlocutore all’altra estremità del filo. Era Ned Banks, che dall’anno precedente faceva parte del consiglio comunale. «No, no, non sembrerà un bunker della seconda guerra mondiale. Se trova il tempo di fare una scappata all’ospedale, le mostrerò il modello.»

Collette, la sua segretaria, gli mise sulla scrivania un biglietto da visita: PHIL CALHOUN, INVESTIGATORE PRIVATO, SODDISFAZIONE GARANTITA.

Traynor coprì il microfono e chiese: «Chi diavolo è?»

Collette alzò le spalle. «Non l’ho mai visto prima, ma lui dice che la conosce. Comunque, sta aspettando qui fuori. Io devo correre all’ufficio postale.»

Traynor prestò di nuovo attenzione a Ned Banks, che si stava lamentando di come Bartlet stesse cambiando, con le nuove costruzioni moderne.

«Senta, ora devo andare», gli disse. «Spero che ci ripenserà, per il garage. L’ospedale ne ha bisogno.»

Era disgustato dalla ristrettezza mentale dei consiglieri comunali: non capivano l’importanza economica dell’ospedale e questo rendeva il suo compito ancora più difficile.

Prima di ricevere l’investigatore privato, sbirciò attraverso lo spiraglio della porta per vedere che tipo fosse. Era corpulento e aveva una camicia a quadretti bianca e nera. Gli sembrava vagamente familiare, ma non riuscì a ricordare dove potesse averlo già incontrato.

Fu soltanto dopo che si furono stretti la mano, quando Calhoun disse di essere un ex poliziotto, che Traynor si ricordò ed esclamò: «Lei era un amico del fratello di Harley Strombell!»

Calhoun annuì e si complimentò per la sua memoria.

«Non dimentico mai una faccia», si vantò Traynor.

«Vorrei farle alcune domande sul dottor Hodges», entrò subito in argomento l’investigatore.

Traynor giocherellò nervosamente con il martelletto che usava per le riunioni. Non gli piaceva rispondere alle domande su Hodges, ma temeva che sarebbe stato peggio non farlo.

«Si tratta di un suo interesse personale o professionale?»

«Tutti e due.»

«È stato ingaggiato da qualcuno?»

«Diciamo che è così.»

«Da chi?»

«Questo non posso dirlo. Come avvocato, sono sicuro che capirà.»

«Se si aspetta che io collabori, allora deve sbottonarsi un pochino anche lei.»

Calhoun tirò fuori la sua scatola di sigari e chiese se poteva fumare. Ottenuto il permesso di Traynor, estrasse un sigaro e ne offrì uno anche a lui, che però rifiutò. Accese senza fretta e tirò la prima boccata, facendo poi salire il fumo verso il soffitto, quindi parlò: «La famiglia vorrebbe scoprire chi è il responsabile del brutale omicidio del dottore».

«È comprensibile», commentò Traynor. «Mi dà la sua parola che, qualsiasi cosa dica, posso contare sulla sua discrezione?»

«Sicuramente.»

«Va bene. Che cosa mi vuole chiedere?»

«Sto facendo l’elenco delle persone che detestavano Dennis Hodges. Ce n’è qualcuna che mi consiglia di aggiungere?»

«Mezza città», rispose Traynor, con una risata. «Ma non mi sento a mio agio a fare dei nomi.»

«Ho saputo che lei ha visto Hodges la notte del suo omicidio.»

«Hodges aveva fatto irruzione in una riunione che tenevamo all’ospedale. Era una sgradevole abitudine a cui indulgeva troppo spesso.»

«Sembra che fosse molto in collera.»

«Come l’ha saputo?»

«Ho parlato con parecchie persone in città.»

«Hodges era sempre in collera. Era cronicamente insoddisfatto del modo in cui gestiamo l’ospedale. Aveva un modo di pensare antiquato, che non prendeva in considerazione i nuovi concetti di gestione manageriale dell’assistenza e di competizione controllata. Non capiva.»

«Credo anch’io di non capirne molto, di queste cose», ammise Calhoun.

«Farebbe bene a imparare», lo ammonì Traynor, «perché è la realtà del giorno d’oggi. Da quale ente mutualistico è assistito lei?»

«Dal CMV.»

«Ecco, vede? Gestione manageriale dell’assistenza. Ne fa già parte e non lo sa nemmeno.»

«Ho sentito che quando Hodges ha interrotto la vostra riunione, aveva con sé alcune cartelle cliniche dell’ospedale.»

«Parti di cartelle cliniche», precisò Traynor. «Ma non le ho guardate. Avevamo stabilito di fare colazione insieme il giorno dopo per discutere di qualsiasi cosa avesse in mente. Riguardava qualcuno dei suoi ex pazienti. Si lamentava sempre che non ottenevano il trattamento da vip e, francamente, era un gran rompiscatole.»

«Il dottor Hodges non importunava mai il nuovo amministratore dell’ospedale, Helen Beaton?»

«Oh sì! Non ci pensava due volte a piombarle in ufficio in qualsiasi momento. Anzi, Helen Beaton era probabilmente la persona che soffriva di più delle intemperanze di Hodges. Dopotutto, occupava la posizione che un tempo era del vecchio e chi sapeva fare le cose meglio di lui?»

«Ho saputo anche che si è imbattuto in Hodges una seconda volta, quella sera», continuò Calhoun.

«Purtroppo! All’Iron Horse. Di solito andiamo lì, dopo le nostre riunioni all’ospedale. Quella notte Hodges era lì, beveva come al solito ed era bellicoso come al solito.»

«E ha scambiato parole pesanti con Robertson?»

«Sì.»

«E con Sherwood?»

«Con chi ha parlato, lei?»

«Con un certo numero di persone. Ho saputo che anche il dottor Cantor ha detto cose spiacevoli su di lui.»

«Questo non me lo ricordo, ma erano anni che Cantor non poteva soffrire il vecchio.»

«Come mai?»

«Hodges aveva rilevato i servizi radiologia e patologia in modo che li gestisse direttamente l’ospedale, per accrescere le entrate.»

«E lei? Anche lei non stravedeva per il dottor Hodges.»

«Gliel’ho già detto, era un rompiscatole. Era già difficile gestire l’ospedale senza le sue continue interferenze.»

«Ho sentito che c’era anche qualcosa di personale», insistette Calhoun. «Qualcosa che riguarda sua sorella.»

«Accidenti, le sue fonti sono buone.»

«Solo pettegolezzi cittadini.»

«Ha ragione», ammise Traynor. «Non è un segreto. Mia sorella Sunny si è suicidata dopo che Hodges ritirò a suo marito la convenzione con l’ospedale.»

«E ne dà la colpa a Hodges?»

«Più allora che adesso. Il marito di Sunny era un ubriacone. Hodges avrebbe dovuto mandarlo via prima che avesse la possibilità di fare danni.»

«Un’ultima domanda. Sa chi ha ucciso il dottor Hodges?»

Traynor rise, poi scosse la testa. «Non ne ho la più pallida idea e non me ne importa. L’unica cosa che m’interessa è l’effetto che la sua morte potrebbe avere sull’ospedale.»

Calhoun si alzò e spense il sigaro nel portacenere che si trovava sulla scrivania.

«Mi faccia un favore», gli disse Traynor. «Io le ho reso le cose facili. Tutto ciò che le chiedo è di non creare un pandemonio intorno al caso Hodges. Se scopre chi è stato e decide di rivelarlo, me lo faccia sapere, in maniera che l’ospedale possa prendere qualche precauzione per quel che riguarda la pubblicità che ne può derivare, soprattutto se l’assassino ha qualcosa a che fare con l’ospedale. Dobbiamo già risolvere un altro problema che potrebbe danneggiarci e non abbiamo bisogno di essere presi alla sprovvista da qualche altra cosa.»

«Mi sembra ragionevole», concordò Calhoun.

Traynor lo accompagnò alla porta, poi tornò alla scrivania e telefonò a Clara Hodges. Dopo i convenevoli di rito arrivò alla questione che lo interessava.

«Volevo chiederti se conosci un certo Phil Calhoun.»

«No, direi di no. Perché me lo domandi?»

«È un investigatore privato che è venuto a farmi qualche domanda su Dennis. Mi ha fatto capire che è stato ingaggiato dalla famiglia.»

«Io di certo non ho assunto nessun investigatore privato e non credo neppure che lo abbia fatto qualcun altro della famiglia, senza che io lo venissi a sapere.»

«Ciò che temevo. Se vieni a sapere qualcosa su di lui, fammelo sapere, per favore.»

«Ci puoi contare.»

Traynor riattaccò e sospirò. Aveva la sgradevole sensazione che i suoi guai non fossero finiti. Persino dalla tomba, Hodges era una maledizione.


«Ha un’altra paziente», annunciò Susan, mentre porgeva la cartella clinica a David. «Le ho detto che poteva passare. È un’infermiera del secondo piano.»

David prese la cartella ed entrò nella saletta delle visite. L’infermiera era Beverly Hopkins e la conosceva solo di vista, essendo del turno di notte.

«Qual è il problema?» le domandò.

Beverly era una donna alta e snella con i capelli castano chiari. Era seduta sul lettino e reggeva una vaschetta di acciaio che Susan le aveva dato nel caso le venisse da vomitare. Era molto pallida.

«Mi spiace disturbarla, dottor Wilson, penso sia influenza. Me ne sarei rimasta semplicemente a letto, ma sa che dobbiamo venire a farci visitare, se rimaniamo a casa per malattia.»

«Ma si figuri, nessun disturbo, sono qui per questo. Quali sono i suoi sintomi?»

I sintomi erano simili a quelli delle altre quattro infermiere: malessere generale, lievi disturbi gastrointestinali, febbricola. David concordò sul fatto che probabilmente si trattava di influenza e la mandò a casa perché si mettesse a letto, raccomandandole di bere molto e di prendere l’aspirina, se era necessario.

Finito il lavoro in ambulatorio, salì al secondo piano per vedere i suoi pazienti e rimuginò sul fatto che le uniche persone con l’influenza che aveva visto finora erano delle infermiere e che tutte provenivano da quel piano.

Si fermò di botto, domandandosi se fosse solo una coincidenza il fatto che le infermiere ammalate provenissero tutte dallo stesso piano, quello dove si erano concentrati i pazienti la cui malattia aveva avuto esito mortale. Certo, il novanta per cento dei pazienti veniva ricoverato al secondo piano, ma gli sembrò strano che nessuna infermiera delle sale operatorie o del pronto soccorso avesse contratto l’influenza.

Riprese a camminare, ma non riusciva a scacciare di mente l’idea che i suoi pazienti fossero morti di una malattia infettiva contratta proprio in ospedale. I sintomi influenzali che avevano le infermiere potevano avere una relazione con quelle morti. Provò a collegare le due cose: le infermiere, sane e robuste, se venivano in contatto con l’agente patogeno misterioso reagivano con sintomi lievi, mentre pazienti che erano stati sottoposti alla chemioterapia, e quindi con un sistema immunitario leggermente compromesso, si ammalavano in modo fatale. Poteva reggere quell’ipotesi?

David concluse che il suo ragionamento era valido, ma non gli veniva in mente nessuna malattia che rispondesse ai requisiti. Avrebbe dovuto colpire l’apparato gastrointestinale, il sistema nervoso centrale e il sangue ed essere molto difficile da diagnosticare, anche per un medico esperto come il dottor Hasselbaum.

Pensò anche a un’intossicazione ambientale. L’eccessiva salivazione di Jonathan gli aveva fatto venire in mente il mercurio. Ma come poteva essersi diffuso? Se fosse stato presente nell’aria, allora sarebbero state moltissime le persone con quei sintomi. Comunque, non scartò la possibilità di un veleno e decise di aspettare fino ai risultati dei test tossicologici su Mary Ann.

Arrivato al secondo piano, visitò tutti i pazienti e li trovò piuttosto bene. Persino Donald non aveva bisogno di attenzioni particolari, ma David gli variò ancora il dosaggio dell’insulina.

Finito il giro in corsia, scese al laboratorio, da Angela.

«Come sta Eakins?» gli domandò lei appena lo vide.

«Te lo dirò più tardi.»

Angela lo scrutò da vicino. «Va tutto bene?»

«No, ma non ho voglia di parlarne adesso.»

Lei si scusò con il tecnico con cui stava lavorando e prese il marito in disparte per raccontargli della scenata di Wadley a causa dell’autopsia.

«Mi spiace», mormorò lui.

«Non è colpa tua, Wadley è un somaro. Il suo ego è stato bistrattato. Ma il problema è che ha impedito che i campioni fossero analizzati.»

«Accidenti. Ci tenevo davvero all’esame tossicologico.»

«Non preoccuparti. Ho mandato tutto a Boston, anche le colture. I vetrini, invece, li farò io. Mi fermerò stasera, se ci pensi tu a preparare la cena per te e per Nikki.»

David le assicurò che lo avrebbe fatto volentieri e uscì dall’ospedale, contento di affrontare la solita pedalata ristoratrice.

Arrivato a casa, rimase a fare dei lavoretti in cortile insieme a Nikki finché ci fu abbastanza luce, poi preparò la cena, mentre lei faceva i compiti. Dopo mangiato, le comunicò la notizia del ricovero di Caroline.

«Sta proprio male?» chiese Nikki, preoccupata.

«Quando l’ho vista soffriva parecchio.»

«Domani voglio andare a farle visita.»

«Immagino che tu abbia voglia di vederla, però ricordati che anche tu eri un po’ congestionata ieri sera. Credo che sia meglio se aspetti fino a quando sappiamo con sicurezza che cos’ha. Va bene?»

Nikki annuì, ma non era contenta. David la convinse, tanto per essere ancora più sicuri della sua salute, a ripetere gli esercizi di drenaggio che abitualmente faceva solo al mattino. Poi la mise a letto e, tornato al pianterreno, si ritrovò ben presto a sfogliare un testo sulle malattie infettive. Non cercava niente di particolare, sperava soltanto che gli balzasse agli occhi qualcosa che potesse ricollegare alla morte dei suoi pazienti e al malessere delle infermiere. A un certo punto si accorse di essersi addormentato sul libro aperto. Si riscosse e guardò l’orologio: le undici e Angela non era ancora tornata.

Preoccupato, le telefonò al laboratorio.

«Ci sto mettendo più del previsto», gli rispose. «Lo so, avrei dovuto telefonarti, ma ormai ho quasi finito. Entro un’ora sarò a casa.»

«Ti aspetto.»


Passò più di un’ora, prima che Angela avesse finito del tutto. Chiuse alcuni vetrini in una valigetta di metallo, pensando che a David avrebbe fatto piacere dar loro un’occhiata con il microscopio che avevano a casa e si diresse verso l’uscita.

Non vedendo la Volvo, si ricordò che aveva dovuto lasciarla nel parcheggio superiore e s’incamminò brontolando dentro di sé: non solo era esausta, ma aveva anche il peso della valigetta.

Attraversò tutto il parcheggio inferiore, dove ormai c’erano pochissime auto, e si avvicinò al sentiero che conduceva a quello superiore. Si accorse di essere completamente sola e cominciò a sentirsi a disagio, tanto più che le parve di udire dei passi dietro di lei. Si voltò, ma non vide nulla.

Proseguì, pensando che fossero animali selvatici. Aveva sentito dire che, di tanto in tanto, venivano segnalati orsi bruni in quella zona. Si chiese che cosa avrebbe fatto, se gliene fosse capitato uno davanti all’improvviso.

«Non fare la stupida», si disse e proseguì, non vedendo l’ora di arrivare a casa. Era mezzanotte passata.

Il parcheggio inferiore era molto ben illuminato, ma imboccando il sentiero che conduceva a quello superiore, Angela si fermò un attimo per dare tempo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. Lungo il sentiero non c’erano lampioni e la folta vegetazione di sempreverdi formava una specie di galleria.

L’abbaiare di un cane in lontananza la fece sobbalzare. Si addentrò ancora di più lungo il sentiero e arrivò alla scaletta che portava alla terrazza superiore. Udì gli scricchiolii del bosco e il frusciare del vento e si sentì ancora più nervosa. Le venne in mente l’episodio della cantina, quando David e Nikki l’avevano spaventata, e quel ricordo non servì certo a rassicurarla.

In cima alle scale, il sentiero ritornava pianeggiante e svoltava a sinistra. A una cinquantina di metri, Angela poteva vedere il parcheggio superiore, anch’esso bene illuminato.

Si era appena tranquillizzata, quando dall’ombra balzò fuori un uomo, in modo così fulmineo che lei non ebbe modo di tentare la fuga. Brandiva un bastone, che teneva alto sopra la testa, e aveva il viso coperto da occhiali da sci a maschera.

Arretrando istintivamente, Angela inciampò in una radice e cadde a terra. L’uomo le si gettò addosso e lei gridò, rotolando da una parte. Poté udire il colpo del bastone che affondava nell’erba soffice, dove un istante prima era la sua testa.

Appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia, si rimise in piedi, ma l’uomo l’afferrò con una mano guantata e sollevò nuovamente il bastone. Allora lei lo colpì all’inguine con la valigetta di metallo, con tutta la forza di cui era capace. Lui gridò dal dolore e allentò la presa sul suo braccio.

Non potendo tornare indietro, verso l’ospedale, perché la strada era bloccata dal suo assalitore, corse verso il parcheggio superiore e il terrore le mise le ali ai piedi. Sentiva l’uomo dietro di lei, ma non osava voltarsi. Arrivò alla Volvo con un solo pensiero in mente: il fucile.

Lasciò cadere a terra la valigetta e armeggiò con le chiavi, fino ad aprire il bagagliaio. Afferrò il fucile, strappò via la carta in cui era avvolto e pescò un proiettile dalla scatola che le era stata fornita.

Caricò il fucile e si voltò di scatto, tenendolo all’altezza della vita, ma non vide nessuno. Il parcheggio era completamente deserto. L’uomo non l’aveva inseguita e ciò che aveva udito era stato soltanto l’eco dei propri passi.


«Non può essere un po’ più precisa?» chiese Robertson. «’Un tipo alto’. Che razza di descrizione è? Come facciamo a trovare quel tizio, se voi donne non lo sapete descrivere meglio?»

«Era buio.» Angela faceva fatica a tenere a bada le sue emozioni. «Ed è successo molto in fretta. Aveva gli occhiali da sci.»

«Che cosa diavolo faceva lì in mezzo agli alberi a mezzanotte passata, comunque? Diavolo, tutte voi infermiere siete state avvertite!»

«Io non sono un’infermiera, sono un medico.»

«Oh, ragazzi!» Rise Robertson. «Crede che allo stupratore importi se lei è un’infermiera o una dottoressa?»

«Volevo dire che non sono stata avvertita. Le infermiere probabilmente lo sono state, ma a noi medici nessuno ha detto niente.»

«Be’ avrebbe dovuto starci attenta lo stesso.»

«Sta cercando di dirmi che questa aggressione è stata colpa mia?»

Robertson ignorò la sua domanda. «Che genere di bastone aveva?»

«Non ne ho idea. Le ho detto che era buio.»

Robertson scosse la testa e guardò il suo assistente. «Hai detto che Bill è appena stato là?»

«Sì», gli rispose lui. «Non più di dieci minuti prima che avvenisse l’aggressione aveva fatto un giro con la macchina in tutti e due i parcheggi.»

«Cristo, non so che cosa fare», disse Robertson. Guardò Angela e alzò le spalle. «Se almeno voi donne collaboraste un po’ di più, non avremmo questi problemi.»

«Posso usare il telefono?»

Angela chiamò David e dalla voce che aveva capì che si era addormentato. Gli disse che sarebbe stata a casa entro una decina di minuti.

«Ehi, ma è l’una! Che cosa stai facendo?»

«Te lo dirò quando arrivo a casa.»

Dopo avere riattaccato, Angela si rivolse a Robertson e gli chiese in tono stizzoso: «Me ne posso andare, adesso?»

«Naturalmente», le rispose lui. «Ma se le viene in mente qualche altra cosa, ce lo faccia sapere. Vuole che il mio assistente l’accompagni a casa?»

«Credo di potermela cavare da sola», rispose lei.

Dieci minuti dopo, si stringeva convulsamente al marito sulla porta di casa. Lui, già allarmato per l’ora tarda, era rimasto scioccato nel vederla scendere dalla macchina stringendo una valigetta in una mano e un fucile nell’altra, ma non le aveva detto niente, per il momento, l’aveva abbracciata e basta.

Quando finalmente Angela riuscì a staccarsi dal marito, si tolse il cappotto imbrattato di fango e portò valigetta e fucile nel salottino. David la seguì e gettò un’occhiata all’arma, ma ancora non disse nulla al riguardo. Angela si sedette sul divano, si strinse le ginocchia fra le braccia e sollevò lo sguardo su di lui.

«Vorrei riuscire a mantenermi calma», gli disse con voce smorta. «Mi porteresti un bicchiere di vino?»

Lui l’accontentò immediatamente e le domandò se voleva anche mangiare qualcosa, ma lei scosse la testa. Sorseggiò il vino tenendo il bicchiere con tutte e due le mani, come se temesse di lasciarlo cadere, poi cominciò a raccontare dell’aggressione. Ben presto, però, si lasciò sopraffare dall’emozione e scoppiò in lacrime. Per almeno cinque minuti non riuscì a parlare e David l’abbracciò, cercando di calmarla. Era affranto e dava a se stesso la colpa dell’accaduto: non avrebbe dovuto lasciarla lavorare fino a un’ora così tarda.

Alla fine, Angela riuscì a dominarsi e finì il suo racconto. Quando arrivò alla parte che riguardava Robertson, si sentì invadere dalla collera.

«Quell’uomo è incredibile!» esclamò. «Mi rende furibonda. Si è comportato come se la colpa fosse mia.»

«È un idiota», commentò David.

Angela prese la valigetta e gliela porse, mentre si asciugava le lacrime. «Tutta questa fatica e i vetrini non hanno grandi cose da mostrare. Non c’era tumore al cervello, soltanto un po’ d’infiammazione dei tessuti perivascolari, ma non era specifica. Qualche neurone appariva danneggiato, ma potrebbe trattarsi di un mutamento post-mortem.»

«Nessun indizio di una malattia infettiva sistemica?»

Angela scosse la testa. «Ho portato a casa i vetrini, così puoi guardare tu stesso, se vuoi.»

«Vedo che hai un fucile», disse finalmente David.

«Ed è anche carico», lo avvertì Angela, «quindi stai attento e non preoccuparti. Domani ne parlerò con Nikki.»

Un botto e un fragore di vetri rotti li fecero sobbalzare tutti e due. Rusty si mise ad abbaiare dalla camera di Nikki, poi scese di corsa le scale. David prese il fucile.

«La sicura è proprio sopra il grilletto», gli disse Angela e lo seguì nel soggiorno, dove lui accese subito la luce.

Era stata sfondata una finestra e si erano rotti quattro vetri e i listelli che li reggevano. A terra c’era un mattone a cui era attaccato un biglietto identico a quello ricevuto la notte precedente.

«Chiamo la polizia», decise Angela. «Questo è troppo.»

Mentre aspettavano che arrivasse, David fece sedere la moglie e le chiese se quel giorno avesse fatto qualcosa che potesse collegarsi con il caso Hodges.

«No», disse Angela, sulla difensiva. «Be’, ho ricevuto una telefonata dal medico legale.»

«Hai parlato di Hodges con qualcuno?» insistette lui.

«Mentre parlavo con Robertson ho fatto il suo nome.»

«Stanotte?» chiese David, sorpreso.

«Oggi pomeriggio. Sono passata dalla stazione di polizia per parlare con lui, dopo aver comperato il fucile.»

«Ma perché? Dopo quello che è successo ieri davanti alla chiesa, mi sorprende che tu abbia ancora il coraggio di andarlo a trovare.»

«Mi volevo scusare, ma è stato un errore. Robertson non ha intenzione di fare niente per l’omicidio di Hodges.»

«Angela», implorò David, «dobbiamo smetterla di impicciarci di questa faccenda, non ne vale la pena. Un biglietto sulla porta è una cosa, un mattone tirato attraverso la finestra comincia a essere già un’altra cosa.»

Videro avvicinarsi i fari di un’automobile. «Per fortuna non è Robertson», commentò Angela quando ne vide scendere un agente.

Il poliziotto si chiamava Bill Morrison e fu subito evidente che non provava un grande interesse per l’incidente avvenuto a casa Wilson, infatti faceva soltanto le domande necessarie a riempire il verbale. Quando fu sul punto di andarsene, Angela gli chiese se pensava di prendere con sé il mattone.

«Non pensavo di prenderlo», rispose lui.

«Non provate a rilevare le impronte digitali?»

Lo sguardo del poliziotto si spostò da Angela a David, per poi tornare su Angela. La sua espressione denotava sorpresa e confusione. «Impronte?» chiese.

«Che cosa c’è di così sorprendente?» osservò Angela. «A volte è possibile rilevare le impronte anche da oggetti come mattoni e pietre.»

«Be’, non so se sia il caso di mandare una cosa come questa alla polizia di Stato.»

«Nel caso lo facciate, lasci che le dia un sacchetto», disse Angela e andò in cucina. Ritornò con un sacchetto di plastica rovesciato sulla mano raccolse il mattone, poi lo avvolse intorno e porse il tutto a Bill.

«Ecco qua», gli disse. «Adesso siete pronti, nel caso decidiate di provare a risolvere un delitto.»

Bill annuì e si avviò verso la macchina.

«Sto perdendo fiducia nella polizia locale», affermò David.

«Io non ne ho mai avuta», disse Angela.

«Se Robertson è l’unica persona alla quale oggi hai parlato di Hodges, mi domando chi ha tirato quel mattone.»

«Pensi che possa essere stata la polizia?»

«Non lo so. Non posso credere che si spingano così lontano, ma penso che sappiano più di quanto non vogliano dire. L’agente Bill non era certo eccitato per l’incidente.»

«Comincio a pensare che questa città non sia il posto idilliaco che credevamo.»

David andò nella rimessa e tornò con un pezzo di compensato per coprire il buco nella finestra. Angela lo guardò mentre cercava di aprire la scaletta a libro e gli chiese com’era andata la sua giornata e in particolare come stava Jonathan Eakins.

«Non lo so, non sono più il suo medico», rispose David.

«Come mai?»

«Kelley gliene ha assegnato un altro.»

«Può farlo?»

«Lo ha fatto.» In cima alla scaletta, David appoggiò il compensato al telaio della finestra e cercò di tirare fuori un chiodo dalla tasca. «All’inizio ero furibondo, ma adesso mi sono rassegnato. Il lato positivo è che non mi devo più sentire responsabile per lui.»

«Ma ti sentirai ancora responsabile, ti conosco.»

David si fece passare il martello, ma al primo colpo che diede andò in frantumi un altro vetro. Rusty uscì dalla camera di Nikki e si mise ad abbaiare in cima alle scale.

David imprecò.

«Forse dovremmo pensare ad andarcene da Bartlet», suggerì Angela.

«Non possiamo fare fagotto e andarcene. Abbiamo il mutuo e i contratti da rispettare. Non siamo più liberi come prima, a Boston.»

«Ma niente si è svolto come ci aspettavamo. Tutti e due abbiamo problemi sul lavoro. Io sono stata aggredita e questa faccenda di Hodges mi fa diventare pazza.»

«Devi lasciar perdere Hodges. Ti prego.»

«Non posso!» Angela era prossima alle lacrime. «Ho persino cominciato ad avere incubi in cui vedo la cucina piena di sangue. Tutte le volte che ci entro, ci ripenso e non riesco a scacciarmi di mente che l’assassino se ne va in giro libero e potrebbe ritornare qui quando gli pare. Che vita è, doversi tenere un fucile in casa?»

«Non dovremmo avere un fucile.»

«Io non ci sto qui in casa di notte, quando tu vai in ospedale. Non senza un fucile!»

«Farai meglio a spiegare a Nikki che non lo deve nemmeno sfiorare!»

«Gliene parlerò domani.»

«A proposito», disse David, cambiando tono. «Ho visto per caso Caroline al pronto soccorso, è ricoverata con la febbre alta e problemi respiratori.»

«Oh, no! Nikki lo sa?»

«Gliel’ho detto stasera.»

«Ha qualcosa di contagioso? Erano insieme, ieri.»

«Ancora non lo so, ho detto a Nikki che non può andare a trovarla fino a che non sappiamo di sicuro che cos’ha.»

«Povera Caroline, ieri sembrava stare bene. Spero che a Nikki non venga la stessa cosa.»

«Anch’io», disse David, poi aggiunse: «Angela, abbiamo cose ben più importanti a cui pensare che a queste sciocchezze sul cadavere di Hodges. Ti prego, lascia perdere, fallo per Nikki, se non per te stessa o per me».

«Va bene», disse lei riluttante. «Ci proverò.»

«Grazie a Dio!» esclamò David, poi osservò la finestra rotta. «E adesso che cosa faccio con questo casino?»

«Che ne diresti di un po’ di nastro adesivo e di un sacchetto di plastica?» propose sua moglie.

Lui la fissò. «Come mai non ci avevo pensato?»

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