Giovedì 28 ottobre
Quando si svegliò, David non capì subito dove si trovava, ma poi si ricordò e gli tornò in mente la sgradevole serata precedente. Prese l’orologio dal comodino e guardò l’ora: le cinque meno un quarto. Si riappoggiò al cuscino e sentì un’ondata di nausea, seguita immediatamente da crampi addominali e da un attacco di diarrea.
Sentendosi molto male, barcollò dal bagno degli ospiti a quello della camera da letto principale, in cerca di un farmaco contro la diarrea, e ne prese una dose massiccia. Poi cercò il termometro e se lo ficcò in bocca.
Mentre aspettava di poter leggere la temperatura, cercò anche l’aspirina e si accorse di avere un’eccessiva salivazione che lo costringeva a deglutire in continuazione, com’era accaduto ad alcuni dei suoi pazienti che erano morti.
«E se mi sono preso la malattia misteriosa che ha ucciso i miei pazienti?» si chiese ad alta voce. Con mani tremanti, tirò fuori il termometro: trentotto gradi. Si esaminò la lingua allo specchio e vide che era bianca, come il suo viso.
«Calmati!» si disse. Prese due aspirine e le buttò giù con un bicchier d’acqua. Quasi immediatamente sentì un altro spasmo fortissimo.
Si costrinse a rimanere calmo ed esaminò i sintomi. Assomigliavano a quelli dell’influenza, come per le cinque infermiere che aveva visitato. Non c’era motivo di saltare a conclusioni drammatiche. Bastava seguire gli stessi consigli che aveva dato a loro e mettersi a letto.
Quando suonò la sveglia, si sentiva già meglio. Lui e Angela si guardarono, dapprima diffidenti, ma poi si gettarono uno nelle braccia dell’altra e si tennero stretti a lungo.
«Tregua?» chiese David.
Angela annuì. «Siamo tutti e due stressati.»
«Per di più, mi sto beccando qualcosa», l’avvisò lui, descrivendole i sintomi che aveva. «L’unica cosa che mi preoccupa è la salivazione eccessiva.»
«Che cosa intendi?»
«Devo deglutire in continuazione, quasi come quando si sta per vomitare. Adesso comunque sto un po’ meglio.»
«Hai visto Nikki?»
«Non ancora.»
Dopo essersi lavati, andarono tutti e due in camera sua. Rusty li salutò con entusiasmo, mentre lei era più mogia. La congestione era peggiorata, allora David chiamò il dottor Pilsner e lo mise al corrente delle sue condizioni.
«Penso che la dovrei visitare», disse lui. «Vediamoci al pronto soccorso fra mezz’ora.»
«Ci saremo, grazie. Apprezzo molto la sua disponibilità.» David stava per riattaccare, quando gli venne in mente di chiedere notizie su Caroline.
«È morta alle tre di stamane. La pressione era troppo bassa per poterla tenere costantemente a un livello normale. Almeno non ha sofferto, anche se non è una grande consolazione.»
Pur aspettandosi la notizia, David ne fu scioccato. Rimase un po’ accanto al telefono, poi andò in cucina e la comunicò ad Angela. Lei sembrò sul punto di scoppiare in lacrime, ma poi sbottò: «Non riesco a credere che tu abbia permesso a Nikki di andarla a trovare».
Sbigottito, David non trovò di meglio che ribattere: «Io, almeno, ieri sono venuto a casa a portarle gli antibiotici». In realtà, si sentiva in colpa per averla lasciata andare da Caroline. Lui e Angela si fissarono irritati, oppressi dai timori per Nikki, ma poi lei mormorò: «Scusa. Ho rotto la nostra tregua, è che sono così preoccupata!»
«Il dottor Pilsner vuole che portiamo subito Nikki al pronto soccorso», le disse David. «Credo che faremmo meglio ad andare.»
Dopo avere visitato la bimba, Pilsner dichiarò di volerla ricoverare immediatamente.
«Pensa che abbia la polmonite?» gli domandò David.
«Non ne sono sicuro, ma è possibile. Non voglio correre rischi, dopo quello che è successo…»
«Rimarrò io con lei», propose Angela al marito. «Tu va’ pure a fare le visite in corsia.»
«Chiamami, per qualsiasi problema», disse lui e si chinò a baciare la figlia, promettendole di tornare spesso a trovarla durante il giorno. Lei annuì, ormai abituata a quella routine.
David si fece dare qualche aspirina da un’infermiera del pronto soccorso e salì al secondo piano, dove, come prima cosa, controllò la cartella clinica di Sandra Hascher. Non c’erano state impennate nella temperatura, che si era mantenuta di poco superiore ai trentotto gradi. Gli appunti delle infermiere dicevano che tutte le volte che una di loro era entrata in camera sua l’aveva trovata addormentata. Questo lo rassicurò e gli permise di visitare i pazienti un po’ più disteso. Stavano tutti bene, tranne Sandra.
Quando entrò nella sua camera la trovò addormentata. Le guardò il gonfiore alla guancia, che appariva uguale al giorno prima, poi le toccò la spalla, chiamandola per nome. Visto che non reagiva, la scosse più forte e la chiamò ad alta voce.
Finalmente Sandra si mosse, portando una mano tremante al viso e aprì a malapena gli occhi. David la scosse ancora, allora lei aprì gli occhi un po’ di più e cercò di parlare, ma tutto quello che le uscì fu un borbottio sconnesso. Era chiaramente disorientata.
David cercò di rimanere calmo. Le prelevò del sangue e lo mandò in laboratorio, poi sottopose Sandra a una visita accurata, cercando di controllare in particolar modo le condizioni dei polmoni e del sistema nervoso.
Quando furono pronti i risultati delle analisi del sangue, vide che tutti i valori erano normali. I globuli bianchi, che erano arrivati a livelli molto alti a causa dell’ascesso, erano diminuiti con gli antibiotici ed erano rimasti bassi, facendo escludere che fosse un’infezione la causa dello stato clinico attuale. Il rumore che proveniva dai polmoni, però, suggeriva una polmonite incipiente e David si domandò ancora una volta se non fosse in presenza di un deficit del sistema immunitario.
Era chiaro che era comparso il solito trio di sintomi che riguardavano il sistema nervoso centrale, l’apparato gastrointestinale e il sangue o il sistema immunitario. Il problema era che non riusciva a scorgere il fattore che era alla base di tutto ciò.
David era angosciato: la vita di una donna di trentaquattro anni era nelle sue mani, ma lui non sapeva che cosa fare. Era restio a richiedere un consulto, un po’ per Kelley e un po’ perché i consulti non erano serviti a niente nei casi precedenti. Anche altre analisi di laboratorio gli sembravano inutili.
«Un attacco epilettico alla 216!» gridò una delle infermiere. La 216 era la stanza di Sandra.
David corse dalla sua paziente e la trovò in preda a un attacco fortissimo. Il corpo era arcuato all’indietro e le membra si contraevano ritmicamente con una tale forza che tutto il letto sobbalzava sul pavimento. David si fece portare un tranquillante e lo somministrò immediatamente per via endovenosa. Dopo pochi minuti, la convulsione cessò, lasciando Sandra immobile e comatosa; allora lui sentì che la disperazione cedeva il posto alla rabbia.
Ordinò tutto: consulti, analisi di laboratorio, raggi X, persino una risonanza magnetica nucleare del cranio. Era deciso a scoprire che cosa stava accadendo a Sandra Hascher. La fece anche trasportare all’unità di terapia intensiva perché desiderava tenerla costantemente sotto controllo. Non voleva altre sorprese.
Quando avvenne il trasferimento, aiutò a spingere il lettino lungo il corridoio, poi si diresse alla scrivania per riempire le pratiche, ma si fermò, impietrito. In un letto proprio di fronte c’era Nikki.
Rimase terrorizzato: che cosa significava la sua presenza all’unità di terapia intensiva?
Sentì una mano sulla spalla. Era il dottor Pilsner. «Vedo che è sconvolto nel vedere sua figlia qui», gli disse. «Si calmi. L’ho fatto perché non voglio correre rischi. Qui ci sono delle infermiere molto preparate, abituate a prendersi cura di pazienti con problemi respiratori.»
«È sicuro che sia proprio necessario?» David conosceva gli effetti negativi che poteva avere quel reparto sulla psiche dei pazienti.
«È per il suo bene, soltanto una precauzione. La sposterò di qua appena possibile.»
Prima di scrivere le prescrizioni per Sandra, David passò da Nikki e scoprì che era molto meno preoccupata di lui all’idea di restare in quel reparto. Sollevato nel vedere che sua figlia la stava prendendo bene, si sedette alla scrivania e cominciò a scrivere le prescrizioni per Sandra. Aveva quasi finito, quando un impiegato lo toccò al braccio, comunicandogli: «C’è un certo signor Kelley che la vuole vedere; è nella sala di ritrovo dei pazienti».
David sentì una morsa allo stomaco. Sapeva benissimo perché il responsabile regionale del CMV lo voleva vedere e non ci volle andare subito. Finì di scrivere gli ordini e li diede alla caposala. Soltanto allora andò da Kelley.
«Sono deluso», lo accolse lui. «La coordinatrice della sezione ottimizzazione risorse mi ha chiamato solo pochi minuti fa…»
«Aspetti un momento!» lo interruppe David. «Ho una paziente all’unità di terapia intensiva e non ho tempo da perdere con lei. Quindi si tolga dai piedi, le parlerò più tardi. Capito?»
Per un secondo lo fissò in viso, poi girò sui tacchi e uscì.
«Un minuto solo, dottor Wilson», si sentì chiamare. Allora si girò e tornò indietro come una furia. Senza preavviso afferrò Kelley per la cravatta e lo spinse indietro, facendolo finire su una poltroncina, poi gli agitò un pugno davanti al viso.
«Stia lontano da me! Se non lo fa, non mi assumo responsabilità sulle conseguenze.»
Kelley deglutì, ma non si mosse.
David girò su se stesso e marciò fuori dalla stanza. Quando fu sulla porta, sentì Kelley che gli gridava dietro: «Ne parlerò ai miei superiori!»
Lui si voltò appena il tempo per rispondergli: «Lo faccia!» e proseguì deciso.
Tornò alla scrivania e si fermò, con il cuore che gli martellava in petto. Si chiese che cosa avrebbe fatto, se Kelley gli avesse opposto resistenza.
«Dottor Wilson», lo chiamò l’impiegato. «C’è in linea il dottor Mieslich.»
«Mio marito insegna teatro e letteratura al college», spiegò Madeline Gannon, vedendo che Calhoun guardava con interesse i numerosi scaffali di libri che rivestivano le pareti della biblioteca.
«Mi piacerebbe incontrarlo», disse lui. «Da quando sono in pensione leggo tantissimo, soprattutto Shakespeare.»
«Di che cosa mi voleva parlare?» cambiò discorso la donna; a giudicare dall’aspetto di Calhoun, suo marito Bernard non si sarebbe interessato molto a lui.
«Sto indagando sull’omicidio del dottor Dennis Hodges. Come sa, di recente è stato ritrovato il suo cadavere.»
«È stata una cosa dolorosa.»
«So che ha lavorato a lungo per lui.»
«Più di trent’anni.»
«Un lavoro piacevole?»
«Aveva i suoi alti e bassi», ammise Madeline. «Il dottor Hodges era un uomo dalla forte personalità. Poteva essere testardo e irascibile e un minuto dopo comprensivo e generoso. Io lo ammiravo e lo detestavo allo stesso tempo, ma sono rimasta sconvolta quando ho saputo che hanno ritrovato il cadavere. Speravo che si fosse stufato di tutto e di tutti e se ne fosse andato in Florida. Parlava spesso di andarci, soprattutto negli ultimi tempi.»
«Sa chi lo ha ucciso?» domandò Calhoun, mentre intanto si guardava intorno alla ricerca di un portacenere.
«Non ne ho la minima idea, ma c’erano di sicuro un sacco di candidati.»
«Chi, per esempio?»
«Be’, non è esattamente così. A voler essere davvero onesta, non credo che una sola delle persone che davano regolarmente in escandescenze con lui gli avrebbe fatto davvero del male. Così come il dottor Hodges non avrebbe mai messo in pratica le minacce che proferiva così di frequente.»
«Chi minacciava?»
Madeline rise. «Tutti coloro che avevano qualcosa a che fare con la nuova amministrazione dell’ospedale. Anche il capo della polizia, il capo della banca cittadina, il proprietario della stazione Mobil. L’elenco potrebbe continuare a lungo.»
«Come mai Hodges era così in collera con la nuova amministrazione dell’ospedale?» volle sapere Calhoun.
«Soprattutto a causa dei suoi pazienti, o meglio, dei suoi ex pazienti. Il dottor Hodges aveva diminuito la sua attività di medico, quando aveva assunto la direzione dell’ospedale, e ancora di più quando era apparso sulla scena il CMV. Lui non ne aveva fatto una questione, perché si rendeva conto che l’ospedale aveva bisogno di un grosso ente mutualistico come cliente, ma poi i suoi ex pazienti cominciarono a tornare da lui, lamentandosi dell’assistenza fornita loro dal CMV. Volevano riaverlo come medico curante, ma non era più possibile perché l’assistenza sanitaria ormai era fornita loro dal CMV.»
«Ma allora avrebbe dovuto prendersela con il CMV, piuttosto che con l’ospedale», osservò Calhoun, che poi chiese se poteva fumare.
Madeline non gli permise di fumare, ma in compenso si offrì di fargli il caffè.
«Che cosa dicevamo?» continuò poi, dopo che si furono spostati in cucina. «Ah, sì. Ce l’aveva con il CMV, ma anche con l’ospedale che acconsentiva a tutte le richieste del CMV. E il dottor Hodges sentiva di contare ancora nell’ospedale.»
«C’era qualcosa di specifico per cui era in collera?»
«Un insieme di cose. Non gli andava la gestione del pronto soccorso, per esempio. La gente non può più andare al pronto soccorso, a meno che non paghi di tasca propria. Anche il ricovero in ospedale non è sempre prescritto a chi invece pensa di averne bisogno. Il giorno in cui scomparve, il dottor Hodges era veramente sconvolto per la morte di uno dei suoi ex pazienti. Ne erano morti un certo numero, ultimamente. Me lo ricordo perché l’ho sentito sbraitare che i medici del CMV non erano capaci di tenere in vita i suoi pazienti. Secondo lui erano incompetenti e l’ospedale era complice della loro incompetenza.»
«Si ricorda il nome del paziente per il quale Hodges era sconvolto quel giorno particolare?» domandò Calhoun.
«Eh, adesso lei si aspetta un miracolo da me!» esclamò Madeline, mentre intanto serviva il caffè. «Ma, aspetti… Sì, era Clark Davenport, non ho dubbi.»
Calhoun trasse di tasca le copie dei fogli di accettazione che lui e Angela si erano procurati a Burlington e le scorse. «Eccolo: Clark Davenport, anca fratturata.»
«Sì, è lui», confermò Madeline. «Il poveretto era caduto da una scala mentre cercava di fare scendere un gattino da un albero.»
«Guardi questi altri nomi», disse Calhoun, porgendole i fogli. «Le dicono niente?»
Lei sfogliò le varie pagine e annuì. «Me li ricordo tutti, uno per uno. Sono proprio i pazienti per cui il dottor Hodges aveva perso le staffe. Sono morti tutti quanti.»
«Uhm, lo sapevo che dovevano essere collegati fra loro in qualche maniera!» borbottò Calhoun, rimettendo i fogli in tasca.
«Un altro motivo per cui ce l’aveva con quelli dell’ospedale erano le aggressioni al parcheggio», aggiunse Madeline.
«Come mai?»
«Secondo lui l’amministrazione dell’ospedale doveva fare molto di più. Si preoccupavano di più di non far trapelare gli incidenti alla stampa che di acciuffare il responsabile. Lui era convinto che lo stupratore fosse qualcuno dell’ospedale.»
«Aveva in mente qualcuno in particolare?»
«Aveva lasciato intendere di sì, ma con me non ha fatto nomi.»
«Potrebbe averne parlato alla moglie?»
«È possibile.»
«Pensa che abbia mai detto niente alla persona che sospettava?»
«Non ne ho la più pallida idea, ma so che aveva intenzione di discutere del problema con Wayne Robertson, anche se lui e Wayne non andavano d’accordo. Proprio il giorno in cui è scomparso doveva passare da lui.»
«E ci è andato?»
«No. Quel giorno aveva saputo che Clark Davenport era morto e, anziché andare da Wayne, mi ha fatto fissare un appuntamento con il dottor Barry Holster, il radioterapista.»
«Come mai lo voleva incontrare?»
«Era il dottor Holster che aveva curato Clark Davenport.»
Calhoun posò la tazza del caffè e si alzò. «È stata oltremodo gentile e disponibile», le disse. «Ho apprezzato sia il caffè sia la sua eccellente memoria.»
Madeline Gannon arrossì.
Angela aveva terminato il lavoro della mattina e stava per uscire per la pausa, quando la chiamò il medico legale, annunciandole che aveva fatto una scoperta straordinaria.
«Tutto merito della tua visita improvvisa di ieri», aggiunse. «Salta in macchina e vieni qua.»
«Quando?»
«Subito.»
Angela moriva dalla curiosità. «Non potresti dirmi di che cosa si tratta?» domandò.
«Preferirei fartelo vedere», rispose Walt. «C’è da scriverci sopra una pubblicazione. Voglio che tu venga subito, consideralo parte del tuo apprendistato.»
«Vorrei tanto venire, ma mi preoccupa il dottor Wadley. Non siamo in ottimi rapporti.»
«Oh, dimentica Wadley, gli telefonerò io. È una cosa importante.»
Angela si lasciò convincere e uscì immediatamente, non senza essersi prima informata sulle mosse di Wadley. Le segretarie le dissero che era andato all’Iron Horse Inn e che non sarebbe tornato prima delle due.
Avvisò Paul Darnell che andava dal medico legale dietro sua richiesta specifica, poi passò a fare una visitina a Nikki, che trovò abbastanza bene e su di morale, quindi partì a razzo per Burlington.
«Ehi, che velocità!» l’accolse Walt nel vederla arrivare da lui a tempo di record. «Non sapevo che avessi una macchina sportiva!»
«Sei tu che hai stimolato la mia curiosità», rispose lei. «E poi ho pochissimo tempo a disposizione.»
«Non ci vorrà molto.» Walt la portò davanti a un microscopio, dicendole: «Guarda qui dentro».
Angela osservò un campione di pelle e poi alcune chiazze nere nel derma.
«Sai che cos’è?» le chiese Walt.
«Penso che sia la pelle trovata sotto le unghie di Hodges.»
«Esatto. Lo vedi il carbone?»
«Sì.»
«Bene. Ora da’ un’occhiata qui», la invitò Walt, porgendole una foto. «È una microfotografia che ho ottenuto con un microscopio elettronico a scansione. Come potrai notare, le macchie non appaiono più come carbone».
Angela la osservò bene e vide che Walt aveva ragione.
«Adesso guarda qui», proseguì lui, «questa è l’immagine fornitaci da uno spettrofotometro atomico. Avevo diluito le particelle con un solvente acido e poi le ho analizzate. Non erano carbone.»
«Che cos’erano?»
«Una mistura di cromo, cobalto, cadmio e mercurio», annunciò Walt, trionfante.
«Meraviglioso», mormorò Angela, sconcertata, «ma che cosa significa?»
«Anch’io ero perplesso quanto te», ammise Walt, «e non avevo idea di che cosa significasse. Pensavo persino che lo spettrofotometro fosse guasto. Ma poi ho avuto la rivelazione: fa parte di un tatuaggio!»
«Ne sei sicuro?»
«Assolutamente. Quei pigmenti sono utilizzati per fare tatuaggi.»
Angela condivise immediatamente l’eccitazione di Walt. Con le possibilità offerte dalla medicina legale avevano fatto una scoperta che riguardava l’assassino. Aveva un tatuaggio. Non vedeva l’ora di dirlo a David e a Calhoun.
Tornata in ospedale, Angela s’imbatté in Paul Darnell, che la stava aspettando.
«Ho brutte notizie», le annunciò. «Wadley sa che sei uscita di città e non ne è contento.»
«Come fa a saperlo?» esclamò lei. Lo aveva detto soltanto a Paul.
«Credo che ti spii, è l’unica spiegazione a cui so pensare. È venuto da me un quarto d’ora dopo che eri uscita.»
«Credevo che fosse andato a mangiare.»
«È ciò che ha detto a tutti, ma evidentemente non l’ha fatto. Mi ha chiesto subito se avevi lasciato Bartlet. Non potevo mentirgli, gliel’ho dovuto dire.»
«Gli hai detto che sono andata dal medico legale?»
«Sì.»
«Allora non dovrebbero esserci problemi. Grazie per avermi avvertita.»
Appena Angela mise piede nella sua stanza, una segretaria l’avvisò che il dottor Wadley le voleva parlare. Quella era la prima volta che ricorreva a un’intermediaria per convocarla da lui. Brutto segno, si disse Angela.
Quando si presentò nella stanza di Wadley, lui le rivolse uno sguardo glaciale.
«L’ho chiamata per comunicarle che è licenziata», le annunciò senza perdere tempo in preliminari. «La pregherei di prendere le sue cose e andarsene al più presto. La sua presenza qui non è più gradita.»
«Non riesco a crederci», disse Angela.
«Tuttavia è così.»
«Dovrebbe sapere che ho utilizzato l’ora di pausa per recarmi a Burlington dal medico legale», ribatté lei. «Mi ha telefonato chiedendomi di andare da lui il prima possibile.»
«Non è il dottor Walter Dunsmore il primario di questo reparto. Sono io.»
«Non le ha telefonato?» Angela era disperata. «Mi ha detto che lo avrebbe fatto. Era eccitato per una scoperta fatta a proposito del cadavere trovato nella mia cantina. Sono corsa subito là… Sono stata via poco più di un’ora.»
«Non m’interessano le sue scuse. Soltanto ieri l’avevo avvertita, ma lei non mi ha dato retta, ha dimostrato di essere inaffidabile, disobbediente e ingrata.»
«Ingrata!» esplose Angela. «Ingrata per che cosa? Per le sue viscide avance? Per non volermi dare alla pazza gioia con lei a Miami? Mi può licenziare, dottor Wadley, ma io le dico che cosa farò: denuncerò lei e l’ospedale per molestie sessuali.»
«Ci provi, signora. La butteranno fuori a risate dal tribunale.»
Angela sfrecciò via, fuori di sé dalla rabbia. Raccolse le sue poche cose e le ficcò in una borsa di tela della spesa, poi uscì senza parlare con nessuno, per paura di perdere il controllo: non voleva dare a Wadley la soddisfazione di vederla piangere.
Voleva andare direttamente da David, in ambulatorio, ma poi cambiò idea. Dopo la discussione avuta con lui, temeva che reagisse male alla notizia del suo licenziamento e non voleva dare spettacolo in ospedale. Così salì in macchina e si diresse verso la città, senza una meta precisa.
Mentre passava davanti alla biblioteca, riconobbe l’inconfondibile furgone di Calhoun fermo lì davanti, allora parcheggiò la macchina ed entrò. Lo trovò che leggeva tranquillo e lo chiamò sottovoce.
«Capita a proposito!» la accolse con un sorriso. «Ho alcune novità.»
«Anch’io, purtroppo. Che cosa ne dice se andiamo a casa mia?»
Giunta a casa, Angela mise subito l’acqua a bollire e, quando Calhoun bussò alla porta, aveva già messo sul tavolo tazze e piattini.
«Tè o caffè?» gli chiese.
«Quello che prende lei», rispose Calhoun, poi aggiunse: «Ha staccato presto, oggi!»
Dopo avere tenuto a freno le sue emozioni dal momento in cui era uscita di corsa dallo studio di Wadley, Angela reagì a quell’innocente commento con un fiume di lacrime.
Il detective rimase a guardarla, perplesso, senza capire che cosa le avesse detto o fatto di male. Aspettò che il pianto dirotto si trasformasse in singhiozzi intermittenti per scusarsi: «Mi spiace, non so che cosa ho fatto, ma mi spiace».
Angela gli si avvicinò, mise le braccia intorno alla sua notevole mole e gli appoggiò la testa sulla spalla. Lui l’abbracciò paternamente e, quando vide che aveva smesso di piangere, le consigliò di raccontargli che cosa le era accaduto.
«Credo che berrò del vino, invece del tè», decise lei.
«E io prenderò una birra.»
Si sedettero in cucina e Angela disse a Calhoun di essere stata licenziata, spiegandogli quali conseguenze catastrofiche ciò avrebbe avuto sulla sua famiglia.
Lui si rivelò un ottimo ascoltatore e seppe parlarle con pacatezza, facendola sentire meglio. Parlarono persino delle preoccupazioni che destava la salute di Nikki.
Poi Calhoun rivelò ad Angela di avere fatto qualche progresso nelle indagini. «Ma forse ora non le interessa più», osservò.
«No, no, m’interessa. Mi dica.»
«Intanto, ho scoperto che gli otto pazienti di cui Hodges portava in giro i fogli di accettazione avevano qualcosa in comune. Erano tutti suoi pazienti, passati in seguito al CMV e morti nei mesi precedenti la sua scomparsa. A quanto pare, Hodges era rimasto stupito della morte di ognuno di loro. Per questo era così furibondo.»
«Dava la colpa all’ospedale o al CMV?»
«Buona domanda. Da quanto ho saputo dalla sua segretaria, a tutti e due, ma ce l’aveva soprattutto con l’ospedale. Questo ha una sua logica, perché continuava a considerarlo come una sua creatura. Quindi rimaneva deluso quando ne scorgeva i difetti.»
«Questo ci aiuta a scoprire chi l’ha ucciso?»
«Probabilmente no, ma è un altro pezzo del mosaico. E ce n’è ancora un altro: Hodges pensava di conoscere l’identità dello stupratore del parcheggio, anzi, lo riteneva collegato all’ospedale.»
«Se lo stupratore sapeva che Hodges lo sospettava, allora potrebbe essere stato lui ad averlo ucciso», concluse Angela. «In altre parole: lo stupratore e l’assassino di Hodges potrebbero essere la stessa persona.»
«Esatto, la stessa persona che ha cercato di uccidere lei l’altra notte.»
Angela rabbrividì. «Non me lo faccia ricordare!» Poi aggiunse: «Ma adesso tocca a me rivelarle una novità: l’assassino ha un tatuaggio»
«Come fa a saperlo?».
Angela spiegò ciò che aveva appreso da Walt Dunsmore e Calhoun commentò: «Perdinci, questo sì che mi piace!»
Quando un’altra infermiera del secondo piano telefonò in ambulatorio da David chiedendo di essere visitata, lui la fece scendere subito, curioso di verificarne i sintomi. Erano gli stessi che aveva avuto lui, un po’ più pronunciati per quanto riguardava i disturbi gastrointestinali. La temperatura era a trentotto gradi e mezzo ed era presente la salivazione eccessiva. David consigliò il riposo a letto, l’assunzione di liquidi in abbondanza e di antipiretici.
Quando ebbe terminato le sue visite in ambulatorio, passò da Nikki, che stava molto meglio e non era per nulla infastidita di tutto il via vai che c’era all’unità di terapia intensiva. David, comunque, fu contento di sapere che la mattina dopo l’avrebbero trasferita in una stanza normale.
Poi si recò da Sandra, che purtroppo non era uscita dal coma. Gli specialisti che l’avevano visitata non erano stati di grande aiuto. Hasselbaum aveva assicurato che non erano in corso malattie infettive e l’oncologo aveva insistito che il risultato del trattamento per il melanoma era stato buono. La lesione primaria era stata scoperta sei anni prima alla coscia e asportata insieme a qualche linfonodo interessato.
David si sedette alla scrivania, davanti alla cartella clinica di Sandra. La risonanza magnetica nucleare della testa era normale: nessun tumore e di certo nessuna infezione cerebrale. Alcune delle analisi di laboratorio non erano ancora pronte e sarebbero passati altri giorni prima di averle: si trattava di colture dei fluidi, utili per cercare eventuali agenti che potessero causare infezioni, e di alcune ricerche biotecnologiche sofisticatissime sugli stessi fluidi, per scoprire tracce di virus.
David non sapeva che cosa fare. L’unica idea che gli venne in mente fu di far trasferire Sandra in uno dei grandi ospedali universitari di Boston, ma sapeva che il CMV sarebbe stato contrario, a causa della spesa.
Stava ancora impazzendo sulla cartella clinica di Sandra, quando vide arrivare Kelley.
«Spero di non disturbarla», gli si rivolse il funzionario, sulle cui labbra era ritornato il solito sorrisetto.
«Ultimamente, mi ha disturbato tutte le volte che l’ho vista», rispose David.
«Mi dispiace», disse Kelley con tono condiscendente. «Ma ho da darle una notizia: da questo momento i suoi servigi non sono più richiesti.»
«Così, pensa di togliermi Sandra Hascher?»
«Sì.» Il sorriso di Kelley si allargò. «E tutti gli altri pazienti. È licenziato. Non è più un dipendente del CMV.»
David rimase a bocca aperta. Guardò Kelley rivolgergli un gesto di saluto con la mano, come si farebbe con un bambino, e dirigersi verso l’uscita dell’unità di terapia intensiva. Si alzò di scatto e gli corse dietro.
«E tutti i pazienti con cui ho appuntamento?» gli chiese.
«È una preoccupazione del CMV, non sua», gli rispose Kelley senza nemmeno voltarsi.
«La decisione è definitiva?» chiese ancora David. «Oppure è temporanea, in attesa di un colloquio?»
«È definitiva, amico mio.» E Kelley scomparve in fondo al corridoio.
David si sentiva stordito. Non riusciva a credere di essere stato licenziato. Arrivò quasi barcollando fino alla sala di ritrovo dei pazienti e si lasciò cadere nella stessa poltroncina sulla quale aveva spinto Kelley quella stessa mattina.
Scosse la testa, incredulo: il suo primo vero lavoro era durato soltanto quattro mesi. Al pensiero di che cosa ciò avrebbe significato per la sua famiglia, cominciò a tremare. Si domandò come lo avrebbe detto ad Angela. E pensare che soltanto la sera prima l’aveva accusata di mettere a repentaglio il proprio lavoro.
Proprio in quel momento, la vide entrare nell’unità di terapia intensiva. Per un attimo rimase immobile, come per non farsi scoprire, ma poi si alzò e la seguì fino da Nikki. Si ritrovarono così uno di fronte all’altra, ai due lati del letto, ma ognuno dei due evitava di guardare l’altro negli occhi.
«Potrò vedere Caroline, quando uscirò dall’unità di terapia intensiva?» chiese Nikki.
I suoi genitori incrociarono rapidamente lo sguardo. Nessuno dei due sapeva che cosa dire.
«È andata via?» insistette la bimba.
«Sì, è andata via», rispose Angela.
«L’hanno dimessa!» gridò Nikki e gli occhi le si riempirono di lacrime. Ci teneva troppo a rivedere la sua amica.
«Forse ti verrà a trovare Arni», provò a consolarla David.
La delusione rese la bambina sgarbata e di malumore e ci volle un po’ di tempo prima di riuscire a rasserenarla un po’. Quando uscirono dall’ospedale, Angela e David continuarono a parlare di lei, augurandosi che il trasferimento a un reparto normale avrebbe migliorato il suo umore.
Angela guidò piano, per non allontanarsi troppo da David, che la seguiva con la bicicletta, e arrivarono a casa insieme. Si misero tutti e due davanti al televisore, come se volessero guardare il telegiornale, e David si schiarì la gola.
«Purtroppo ho una brutta notizia da darti», cominciò. «Mi sento molto in imbarazzo, ma ti devo dire che oggi pomeriggio sono stato licenziato.» Notando come Angela fosse rimasta scioccata, distolse lo sguardo da lei. «Mi spiace, so che ora sarà dura per noi, non so che cosa dire. Forse non sono tagliato per fare il medico.»
«David», mormorò lei, prendendogli una mano, «anch’io sono stata licenziata.»
Lui la guardò. «Anche tu?»
Angela annuì.
David tese le braccia verso di lei e si abbracciarono stretti, poi si staccarono per guardarsi di nuovo, senza sapere se ridere o piangere.
«Che casino», borbottò David.
«Che coincidenza», aggiunse Angela.
Si raccontarono i dettagli delle loro disavventure lavorative, poi Angela mise al corrente David della recente scoperta del medico legale.
«Il tatuaggio aiuterà a scoprire l’assassino», gli disse.
«Bene.» David continuava a non condividere l’entusiasmo della moglie per il caso Hodges, soprattutto adesso che aveva ben altri problemi a cui pensare.
«Anche Calhoun ha delle novità», aggiunse lei, spiegando la teoria che assassino e stupratore fossero la stessa persona.
«Interessante.» Ma i pensieri di David erano altrove, preso com’era dalla preoccupazione di come avrebbero fatto a mantenersi lui e Angela nell’immediato futuro.
«E ti ricordi quei fogli di accettazione che sono stati ritrovati insieme al cadavere?» continuò Angela. «Phil Calhoun ha scoperto che cosa avevano in comune. I pazienti sono tutti morti e sembra che Hodges sia rimasto sorpreso della loro morte.»
«Che cosa significa sorpreso?» domandò David, mostrando un improvviso interesse.
«Non si aspettava che morissero. Li aveva curati prima che fossero seguiti dal CMV e lui riteneva quest’ultimo e l’ospedale responsabili della loro morte.»
«Hai qualche altro documento, su questi pazienti?»
«Solo le diagnosi di accettazione.»
«Avere pazienti che muoiono inaspettatamente è qualcosa che conosco bene», mormorò David con amarezza.
Ci fu qualche momento di silenzio e i pensieri di tutti e due ritornarono ai loro problemi più immediati.
«Che cosa faremo?» domandò Angela.
«Non lo so. Dovremo andarcene, ma che cosa succederà con i mutui? Mi domando se dovremo dichiarare bancarotta. Dovremo parlare con un avvocato e poi c’è da decidere se denunciare o no i nostri datori di lavoro.»
«Io ho già deciso. Sporgerò denuncia per molestie sessuali e magari anche per licenziamento senza giusta causa. Non gliela farò passare liscia a quel viscido di un Wadley.»
«Non lo so se imbarcarci in una denuncia sia nel nostro stile. Forse dovremmo solo continuare la nostra vita e lasciare perdere. Non mi va di ritrovarmi invischiato negli intrighi legali.»
«Non decidiamo adesso», consigliò Angela.
Quando telefonarono all’unità di terapia intensiva, ricevettero notizie rassicuranti: Nikki continuava a stare bene e non aveva febbre.
«Possiamo anche aver perso il nostro lavoro», affermò David, «ma finché Nikki sta bene ce la faremo.»